giovedì 18 marzo 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) IL PAPA METTE A CONFRONTO SAN BONAVENTURA E SAN TOMMASO D'AQUINO - Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì
2) PAKISTAN: RAGAZZA CRISTIANA BRUCIATA VIVA PERCHÉ NON DENUNCIASSE UNO STUPRO - ROMA, mercoledì, 17 marzo 2010 (ZENIT.org).- Una ragazza cristiana pakistana è stata bruciata viva per impedirle di denunciare uno stupro subito dal figlio dell'uomo musulmano presso il quale lavorava come domestica.
3) Come pilotare la Chiesa nella tempesta. Una lezione L'ha impartita Benedetto XVI in un'udienza generale ai fedeli, contro chi invoca un nuovo inizio del cristianesimo, senza gerarchia né dogmi. Il segreto del buon governo, ha detto, "è soprattutto pensare e pregare" - di Sandro Magister
4) Aborto prima causa di morte in Europa - Autore: Tanduo, Luca e Paolo Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 17 marzo 2010
5) Ma in che mondo viviamo? - Autore: Salina, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 18 marzo 2010
6) PERSECUZIONI/ Non è solo la religione a uccidere i cristiani in Nigeria - Rodolfo Casadei - giovedì 18 marzo 2010 - L'articolo è tratto dal numero di Tempi oggi in edicola – ilsussidiario.net
7) PERSECUZIONI/ Non è solo la religione a uccidere i cristiani in Nigeria - Rodolfo Casadei - giovedì 18 marzo 2010 – ilsussidiario.net
8) Avvenire.it, 18 Marzo 2010 - IL CASO - Cosa c'è dietro gli scandali? Di Massimo Introvigne
9) Avvenire.it, 18 Marzo 2010 - L'ARTE E LA SUA REALTA' - Tra disprezzo e contumelia esiste bellezza, e resiste – di Davide Rondoni
10) Avvenire.it, 18 Marzo 2010 - DEVOZIONE A MARIA - Medjugorie, istituita commissione d'inchiesta - Gianni Cardinale
11) Avvenire.it, 18 Marzo 2010 – ANALISI - Maritain, il filosofo del «mare nostrum» - di Roberto Papini
12) Assalto continuo, ma la legge 40 rimane salda - di Ilaria Nava – Fernando Santosuosso, vice presidente emerito della Corte Costituzionale, chiarisce gli effetti di quanto deciso venerdì scorso dalla Consulta che ha respinto due ricorsi Avvenire, 18 marzo 2010
13) Spagna - «Morte degna», il varco - di Michela Coricelli – Avvenire, 18 marzo 2010


IL PAPA METTE A CONFRONTO SAN BONAVENTURA E SAN TOMMASO D'AQUINO - Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 17 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale in piazza San Pietro, dove ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando il ciclo di catechesi sulla cultura cristiana nel Medioevo, ha parlato dei diversi approcci alla ricerca filosofica e teologica di San Bonaventura da Bagnoregio e San Tommaso d’Aquino.





* * *
Cari fratelli e sorelle,
questa mattina, continuando la riflessione di mercoledì scorso, vorrei approfondire con voi altri aspetti della dottrina di san Bonaventura da Bagnoregio. Egli è un eminente teologo, che merita di essere messo accanto ad un altro grandissimo pensatore, suo contemporaneo, san Tommaso d’Aquino. Entrambi hanno scrutato i misteri della Rivelazione, valorizzando le risorse della ragione umana, in quel fecondo dialogo tra fede e ragione che caratterizza il Medioevo cristiano, facendone un’epoca di grande vivacità intellettuale, oltre che di fede e di rinnovamento ecclesiale, spesso non sufficientemente evidenziata. Altre analogie li accomunano: sia Bonaventura, francescano, sia Tommaso, domenicano, appartenevano agli Ordini Mendicanti che, con la loro freschezza spirituale, come ho ricordato in precedenti catechesi, rinnovarono, nel secolo XIII, la Chiesa intera e attirarono tanti seguaci. Tutti e due servirono la Chiesa con diligenza, con passione e con amore, al punto che furono invitati a partecipare al Concilio Ecumenico di Lione nel 1274, lo stesso anno in cui morirono: Tommaso mentre si recava a Lione, Bonaventura durante lo svolgimento del medesimo Concilio. Anche in Piazza San Pietro le statue dei due Santi sono parallele, collocate proprio all’inizio del Colonnato partendo dalla facciata della Basilica Vaticana: una nel Braccio di sinistra e l’altra nel Braccio di destra. Nonostante tutti questi aspetti, possiamo cogliere nei due grandi Santi due diversi approcci alla ricerca filosofica e teologica, che mostrano l’originalità e la profondità di pensiero dell’uno e dell’altro. Vorrei accennare ad alcune di queste differenze.
Una prima differenza concerne il concetto di teologia. Ambedue i dottori si chiedono se la teologia sia una scienza pratica o una scienza teorica, speculativa. San Tommaso riflette su due possibili risposte contrastanti. La prima dice: la teologia è riflessione sulla fede e scopo della fede è che l’uomo diventi buono, viva secondo la volontà di Dio. Quindi, lo scopo della teologia dovrebbe essere quello di guidare sulla via giusta, buona; di conseguenza essa, in fondo, è una scienza pratica. L’altra posizione dice: la teologia cerca di conoscere Dio. Noi siamo opera di Dio; Dio sta al di sopra del nostro fare. Dio opera in noi l’agire giusto. Quindi si tratta sostanzialmente non del nostro fare, ma del conoscere Dio, non del nostro operare. La conclusione di san Tommaso è: la teologia implica ambedue gli aspetti: è teorica, cerca di conoscere Dio sempre di più, ed è pratica: cerca di orientare la nostra vita al bene. Ma c’è un primato della conoscenza: dobbiamo soprattutto conoscere Dio, poi segue l’agire secondo Dio (Summa Theologiae Ia, q. 1, art. 4). Questo primato della conoscenza in confronto con la prassi è significativo per l’orientamento fondamentale di san Tommaso.
La risposta di san Bonaventura è molto simile, ma gli accenti sono diversi. San Bonaventura conosce gli stessi argomenti nell’una e nell’altra direzione, come san Tommaso, ma per rispondere alla domanda se la teologia sia una scienza pratica o teorica, san Bonaventura fa una triplice distinzione – allarga, quindi, l’alternativa tra teorico (primato della conoscenza) e pratico (primato della prassi), aggiungendo un terzo atteggiamento, che chiama "sapienziale" e affermando che la sapienza abbraccia ambedue gli aspetti. E poi continua: la sapienza cerca la contemplazione (come la più alta forma della conoscenza) e ha come intenzione "ut boni fiamus" - che diventiamo buoni, soprattutto questo: divenire buoni (cfr Breviloquium, Prologus, 5). Poi aggiunge: "La fede è nell’intelletto, in modo tale che provoca l’affetto. Ad esempio: conoscere che Cristo è morto "per noi" non rimane conoscenza, ma diventa necessariamente affetto, amore" (Proemium in I Sent., q. 3).
Nella stessa linea si muove la sua difesa della teologia, cioè della riflessione razionale e metodica della fede. San Bonaventura elenca alcuni argomenti contro il fare teologia, forse diffusi anche in una parte dei frati francescani e presenti anche nel nostro tempo: la ragione svuoterebbe la fede, sarebbe un atteggiamento violento nei confronti della parola di Dio, dobbiamo ascoltare e non analizzare la parola di Dio (cfr Lettera di san Francesco d’Assisi a sant’Antonio di Padova). A questi argomenti contro la teologia, che dimostrano i pericoli esistenti nella teologia stessa, il Santo risponde: è vero che c’è un modo arrogante di fare teologia, una superbia della ragione, che si pone al di sopra della parola di Dio. Ma la vera teologia, il lavoro razionale della vera e della buona teologia ha un’altra origine, non la superbia della ragione. Chi ama vuol conoscere sempre meglio e sempre più l’amato; la vera teologia non impegna la ragione e la sua ricerca motivata dalla superbia, "sed propter amorem eius cui assentit" – "motivata dall’amore di Colui, al quale ha dato il suo consenso" (Proemium in I Sent., q. 2), e vuol meglio conoscere l’amato: questa è l’intenzione fondamentale della teologia. Per san Bonaventura è quindi determinante alla fine il primato dell’amore.
Di conseguenza, san Tommaso e san Bonaventura definiscono in modo diverso la destinazione ultima dell’uomo, la sua piena felicità: per san Tommaso il fine supremo, al quale si dirige il nostro desiderio è: vedere Dio. In questo semplice atto del vedere Dio trovano soluzione tutti i problemi: siamo felici, nient’altro è necessario.
Per san Bonaventura il destino ultimo dell’uomo è invece: amare Dio, l’incontrarsi ed unirsi del suo e del nostro amore. Questa è per lui la definizione più adeguata della nostra felicità.
In tale linea, potremmo anche dire che la categoria più alta per san Tommaso è il vero, mentre per san Bonaventura è il bene. Sarebbe sbagliato vedere in queste due risposte una contraddizione. Per ambedue il vero è anche il bene, ed il bene è anche il vero; vedere Dio è amare ed amare è vedere. Si tratta quindi di accenti diversi di una visione fondamentalmente comune. Ambedue gli accenti hanno formato tradizioni diverse e spiritualità diverse e così hanno mostrato la fecondità della fede, una nella diversità delle sue espressioni.
Ritorniamo a san Bonaventura. E’ evidente che l’accento specifico della sua teologia, del quale ho dato solo un esempio, si spiega a partire dal carisma francescano: il Poverello di Assisi, al di là dei dibattiti intellettuali del suo tempo, aveva mostrato con tutta la sua vita il primato dell’amore; era un’icona vivente e innamorata di Cristo e così ha reso presente, nel suo tempo, la figura del Signore – ha convinto i suoi contemporanei non con le parole, ma con la sua vita. In tutte le opere di san Bonaventura, proprio anche le opere scientifiche, di scuola, si vede e si trova questa ispirazione francescana; si nota, cioè, che egli pensa partendo dall’incontro col Poverello d’Assisi. Ma per capire l’elaborazione concreta del tema "primato dell’amore", dobbiamo tenere presente ancora un’altra fonte: gli scritti del cosiddetto Pseudo-Dionigi, un teologo siriaco del VI secolo, che si è nascosto sotto lo pseudonimo di Dionigi l’Areopagita, accennando, con questo nome, ad una figura degli Atti degli Apostoli (cfr 17,34). Questo teologo aveva creato una teologia liturgica e una teologia mistica, ed aveva ampiamente parlato dei diversi ordini degli angeli. I suoi scritti furono tradotti in latino nel IX secolo; al tempo di san Bonaventura – siamo nel XIII secolo – appariva una nuova tradizione, che provocò l’interesse del Santo e degli altri teologi del suo secolo. Due cose attiravano in modo particolare l’attenzione di san Bonaventura:
1. Lo Pseudo-Dionigi parla di nove ordini degli angeli, i cui nomi aveva trovato nella Scrittura e poi aveva sistemato a suo modo, dagli angeli semplici fino ai serafini. San Bonaventura interpreta questi ordini degli angeli come gradini nell’avvicinamento della creatura a Dio. Così essi possono rappresentare il cammino umano, la salita verso la comunione con Dio. Per san Bonaventura non c’è alcun dubbio: san Francesco d’Assisi apparteneva all’ordine serafico, al supremo ordine, al coro dei serafini, cioè: era puro fuoco di amore. E così avrebbero dovuto essere i francescani. Ma san Bonaventura sapeva bene che questo ultimo grado di avvicinamento a Dio non può essere inserito in un ordinamento giuridico, ma è sempre un dono particolare di Dio. Per questo la struttura dell’Ordine francescano è più modesta, più realista, ma deve, però, aiutare i membri ad avvicinarsi sempre più ad un’esistenza serafica di puro amore. Mercoledì scorso ho parlato su questa sintesi tra realismo sobrio e radicalità evangelica nel pensiero e nell’agire di san Bonaventura.
2. San Bonaventura, però, ha trovato negli scritti dello Pseudo-Dionigi un altro elemento, per lui ancora più importante. Mentre per sant’Agostino l’intellectus, il vedere con la ragione ed il cuore, è l’ultima categoria della conoscenza, lo Pseudo-Dionigi fa ancora un altro passo: nella salita verso Dio si può arrivare ad un punto in cui la ragione non vede più. Ma nella notte dell’intelletto l’amore vede ancora – vede quanto rimane inaccessibile per la ragione. L’amore si estende oltre la ragione, vede di più, entra più profondamente nel mistero di Dio. San Bonaventura fu affascinato da questa visione, che s’incontrava con la sua spiritualità francescana. Proprio nella notte oscura della Croce appare tutta la grandezza dell’amore divino; dove la ragione non vede più, vede l’amore. Le parole conclusive del suo "Itinerario della mente in Dio", ad una lettura superficiale, possono apparire come espressione esagerata di una devozione senza contenuto; lette, invece, alla luce della teologia della Croce di san Bonaventura, esse sono un’espressione limpida e realistica della spiritualità francescana: "Se ora brami sapere come ciò avvenga (cioè la salita verso Dio), interroga la grazia, non la dottrina; il desiderio, non l’intelletto; il gemito della preghiera, non lo studio della lettera; … non la luce, ma il fuoco che tutto infiamma e trasporta in Dio" (VII, 6). Tutto questo non è anti-intellettuale e non è anti-razionale: suppone il cammino della ragione, ma lo trascende nell’amore del Cristo crocifisso. Con questa trasformazione della mistica dello Pseudo-Dionigi, san Bonaventura si pone agli inizi di una grande corrente mistica, che ha molto elevato e purificato la mente umana: è un vertice nella storia dello spirito umano.
Questa teologia della Croce, nata dall’incontro tra la teologia dello Pseudo-Dionigi e la spiritualità francescana, non ci deve far dimenticare che san Bonaventura condivide con san Francesco d’Assisi anche l’amore per il creato, la gioia per la bellezza della creazione di Dio. Cito su questo punto una frase del primo capitolo dell’"Itinerario": "Colui… che non vede gli splendori innumerevoli delle creature, è cieco; colui che non si sveglia per le tante voci, è sordo; colui che per tutte queste meraviglie non loda Dio, è muto; colui che da tanti segni non si innalza al primo principio, è stolto" (I, 15). Tutta la creazione parla ad alta voce di Dio, del Dio buono e bello; del suo amore.
Tutta la nostra vita è quindi per san Bonaventura un "itinerario", un pellegrinaggio – una salita verso Dio. Ma con le nostre sole forze non possiamo salire verso l’altezza di Dio. Dio stesso deve aiutarci, deve "tirarci" in alto. Perciò è necessaria la preghiera. La preghiera - così dice il Santo - è la madre e l’origine della elevazione - "sursum actio", azione che ci porta in alto - dice Bonaventura. Concludo perciò con la preghiera, con la quale comincia il suo "Itinerario": "Preghiamo dunque e diciamo al Signore Dio nostro: ‘Conducimi, Signore, nella tua via e io camminerò nella tua verità. Si rallegri il mio cuore nel temere il tuo nome’ " (I, 1).

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i fedeli della Diocesi di Ivrea con il loro Pastore Mons. Arrigo Miglio, qui convenuti per ricambiare la visita, che ho avuto la gioia di compiere nella loro terra nello scorso mese di luglio. Cari amici, ancora una volta vi ringrazio per l’affetto con cui mi avete accolto, ed auspico che da quel nostro incontro scaturisca per la vostra Comunità diocesana una rinnovata, fedele e generosa adesione a Cristo e alla sua Chiesa. Saluto Mons. Renato Boccardo, Arcivescovo di Norcia-Spoleto, con la delegazione reduce dalla diocesi americana di Trenton ove è stata accesa la "Fiaccola Benedettina per la pace". Possa tale impresa contribuire alla formazione di una coscienza attenta alla solidarietà ed alla cultura della pace, seguendo l'esempio di San Benedetto, apostolo infaticabile tra i popoli dell'Europa. Saluto le rappresentati dell’Associazione Donneuropee-Federcasalinghe e quelle della Fondazione Hruby, nel ringraziarvi per la vostra presenza, auspico che il tempo quaresimale, che stiamo vivendo, confermi la vostra fede e il vostro impegno di testimonianza evangelica.
Ed ora il mio saluto va ai giovani. Cari giovani, incontrarvi è sempre per me motivo di consolazione e di speranza, perché la vostra età è la primavera della vita. Siate sempre fedeli all'amore che Dio ha per voi. Rivolgo ora un pensiero affettuoso a voi, cari ammalati. Quando si soffre, tutta la realtà in noi e attorno a noi sembra rabbuiarsi, ma, nell'intimo del nostro cuore, questo non deve spegnere la luce consolante della fede. Cristo con la sua croce ci sostiene nella prova. E voi, cari sposi novelli, che saluto cordialmente, siate grati a Dio per il dono della famiglia. Contando sempre sul suo aiuto, fate della vostra esistenza una missione di amore fedele e generoso.

[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]


PAKISTAN: RAGAZZA CRISTIANA BRUCIATA VIVA PERCHÉ NON DENUNCIASSE UNO STUPRO - ROMA, mercoledì, 17 marzo 2010 (ZENIT.org).- Una ragazza cristiana pakistana è stata bruciata viva per impedirle di denunciare uno stupro subito dal figlio dell'uomo musulmano presso il quale lavorava come domestica.
La giovane, Kiran George, ha riportato ustioni sull'80% del corpo ed è morta giovedì scorso dopo due giorni di atroce agonia, ricorda l'agenzia AsiaNews. Dopo aver subito la violenza, aveva minacciato di querelare il suo aggressore, che l'ha uccisa.
Il fatto è avvenuto a Sheikhupura, una cittadina del Punjab, e ricorda la tragica vicenda di Shazia Bashir, la ragazzina cristiana di 12 anni violentata e uccisa da un potente avvocato di Lahore, che a tutt'oggi non è stato condannato (cfr. ZENIT, 25 gennaio 2010).
In un primo momento, Kiran si era confidata solo con le amiche temendo di perdere l'impiego di domestica presso la famiglia del suo assalitore, Mohammad Ahmda Raza. Quando poi ha minacciato il giovane di riferire l'accaduto alla polizia, Raza l'ha cosparsa di benzina con l'aiuto della sorella e le ha dato fuoco.
Il padre del ragazzo, anziché portare Kiran in ospedale, ha chiamato i suoi genitori dicendo loro che i vestiti si erano incendiati mentre puliva la cucina. Prima di morire, la giovane ha tuttavia raccontato la vicenda alla polizia, che ha aperto un'indagine.
La folla contro i cristiani
Sempre nel Punjab, il 10 marzo scorso una folla di musulmani ha svaligiato e dato alle fiamme la casa di una famiglia cristiana.
Sembra che la scintilla che ha scatenato la rabbia degli estremisti sia stato il presunto coinvolgimento di un cristiano nell'assassinio del figlio di un latifondista della zona.
L'indagato, Yasir Abid, è "sottoposto al regime di custodia cautelare", ha dichiarato ad AsiaNews Peter Jacob, segretario esecutivo di Giustizia e Pace della Chiesa cattolica pakistana (Ncjp).
Le famiglie cristiane hanno denunciato anche "l'incendio deliberato" di alcune copie della Bibbia custodite all'interno della casa.
La polizia ha avviato le indagini e valuterà se aprire un'inchiesta anche per il reato di blasfemia. In questo caso, ha spiegato Jacob, la magistratura "non agirà in base alla sezione 295-B del Codice Penale pakistano", che prevede pene fino all'ergastolo per chi dissacra il Corano ma non contempla i libri sacri di altre confessioni religiose.
"Siamo contro le leggi sulla blasfemia - ha dichiarato Peter Jacob -, e questo vale a prescindere dal testo sacro o da chi si è reso colpevole del crimine". Ad ogni modo, auspica "indagini approfondite" e la punizione di chi "ha incendiato la casa della famiglia cristiana".


Come pilotare la Chiesa nella tempesta. Una lezione L'ha impartita Benedetto XVI in un'udienza generale ai fedeli, contro chi invoca un nuovo inizio del cristianesimo, senza gerarchia né dogmi. Il segreto del buon governo, ha detto, "è soprattutto pensare e pregare" - di Sandro Magister
ROMA, 18 marzo – Pochi l'hanno notato, ma in un momento della bufera che ha investito la Chiesa cattolica sull'onda dello scandalo dato ai "piccoli" da alcuni suoi sacerdoti, Joseph Ratzinger ha fronteggiato la sfida in un modo tutto suo. Con una audace lezione di teologia della storia, non priva di rimandi alla propria biografia di teologo e di papa.

La lezione l'ha rivolta ai pellegrini che gremivano l'aula delle udienze generali, la mattina di mercoledì 10 marzo.

Più volte il papa ha alzato gli occhi dal testo scritto e ha improvvisato. La trascrizione integrale è riprodotta più sotto e va riletta da cima a fondo. Ma alcuni suoi tratti vanno rimarcati da subito.

Al centro della lezione si staglia san Bonaventura da Bagnoregio, dottore della Chiesa, uno dei primi successori di san Francesco alla testa dell'ordine da lui fondato.

E questo è il primo dei tratti autobiografici. Perché è proprio sulla teologia della storia di san Bonaventura che il giovane Joseph Ratzinger pubblicò nel 1959 la sua tesi per la libera docenza in teologia, di recente ristampata.

La novità di quella sua tesi giovanile fu d'aver messo a confronto per la prima volta la teologia della storia di san Bonaventura con quella influentissima di Gioacchino da Fiore.

L'influsso di Gioacchino da Fiore sul pensiero di quel secolo e dei secoli seguenti, sia cristiano che ateo, è stato grandioso, fino ai giorni nostri. Ad esso il teologo Henri De Lubac ha dedicato trent'anni fa un memorabile saggio in due tomi dal titolo: "La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore".

Quando oggi, come reazione allo scandalo di taluni preti, ancora una volta si invoca una purificazione epocale e radicale della Chiesa, un nuovo Concilio che sia "nuovo inizio e rottura", un cristianesimo spirituale fatto di nudo Vangelo senza più gerarchie né precetti né dogmi, che cos'altro si invoca se non l'età dello Spirito annunciata da Gioacchino da Fiore?

Nella sua lezione del 10 marzo scorso, Benedetto XVI ha descritto e attualizzato con rara chiarezza la contrapposizione tra Gioacchino e Bonaventura. Ha mostrato come l'utopia di Gioacchino ha trovato nel Concilio Vaticano II un terreno fertile per riprodursi di nuovo, vittoriosamente contrastata, però, dai "timonieri saggi della barca di Pietro", dai papi che seppero difendere la novità del Concilio e nello stesso tempo la continuità della Chiesa.

Dallo spiritualismo all'anarchia il passo è breve, ha ammonito Benedetto XVI. Era così nel secolo di san Bonaventura ed è così oggi. Per essere governata la Chiesa necessita di strutture gerarchiche, ma a queste deve essere dato un fondamento teologico evidente. È ciò che fece san Bonaventura nel governare l'ordine francescano. Per lui "governare non era semplicemente un fare, ma era soprattutto pensare e pregare. Alla base del suo governo troviamo sempre la preghiera e il pensiero; tutte le sue decisioni risultano dalla riflessione, dal pensiero illuminato dalla preghiera".

Lo stesso – ha detto il papa – deve avvenire oggi nel governo della Chiesa universale: "governare, cioè, non solo mediante comandi e strutture, ma guidando e illuminando le anime, orientando a Cristo".

È questo il secondo, decisivo, tratto autobiografico della lezione del 10 marzo. In essa Benedetto XVI ha detto come lui intende governare la Chiesa. L'ha detto con la mite umiltà che gli è propria, ponendosi all'ombra di un santo.

Come per san Bonaventura gli scritti teologici e mistici erano "l'anima del governo", così è per l'attuale papa. L'anima del suo governare sono le omelie liturgiche, l'insegnamento ai fedeli e al mondo, il libro su Gesù, insomma, il "pensiero illuminato dalla preghiera". È lì che la struttura gerarchica della Chiesa romana e i suoi atti di governo trovano fondamento e nutrimento. È lì che la Chiesa di papa Benedetto attinge la guarigione dei peccati dei suoi figli e la risposta agli attacchi – non innocenti – che le arrivano da fuori e da dentro.


Aborto prima causa di morte in Europa - Autore: Tanduo, Luca e Paolo Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 17 marzo 2010
Nei giorni scorsi è stato presentato a Bruxelles il “Rapporto sull’aborto in Europa”, elaborato dall’Istituto per le politiche familiari: in Europa nel 2008 si è consumata la morte di 2,9 milioni di bambini non nati, uno ogni 11 secondi, 327 ogni ora, 7.468 al giorno.
Negli ultimi 15 anni solo nell’Europa comunitaria la cifra dei bambini che non hanno visto la luce è di 20 milioni, e l’Italia, insieme alla Gran Bretagna, alla Francia e alla Romania fa parte del gruppo di testa.
Nell’Unione Europea ogni anno si praticano oltre 1 milione e 200mila aborti, un numero equivalente al saldo negativo tra nascite e morti, con un impatto notevole quindi sul calo demografico in atto. Certo rimuovere gli aborti non sarebbe sufficiente a ristabilire un equilibrio demografico e da soli essi non posso spiegare il crollo demografico europeo, ma il loro impatto è notevole. Il tasso di fertilità totale – cioè il numero di bambini per donna – in Europa è tra i più bassi del mondo (1,49 nel 2004). Solo il Giappone (1,38) e la Russia (1,26) fanno registrare tassi inferiori.
I dati dicono che i tassi di natività anche se in ripresa negli ultimi anni sono molto bassi .
Secondo le stime più recenti sul tasso di fecondità totale riferite all’anno 2005, nel nostro Paese nascono in media 1,32 figli per ogni donna in età feconda (il minimo storico fu di 1,19 figli per donna nel 1995). Ma la cosiddetta “soglia di ricambio generazionale” (mediamente due figli per donna) è ancora lontana. Nemmeno il contributo all’incremento del tasso di fecondità riconducibile alla presenza di immigrati è sufficiente.
I figli sono sempre stati una ricchezza, oggi invece si fa fatica a vederli così. Perché?
Nella storia quando si aveva un aumento demografico si è avuto uno sviluppo; si può dire questo anche oggi? I bassi dati di crescita demografica hanno riflessi sugli aspetti economici, sociali, culturali nella nostra società. Nell’enciclica “Caritas in Veritate” Papa Benedetto XVI ricorda come l'apertura alla vita sia al centro del vero sviluppo.
Ma torniamo ai dati, mentre nei 12 Paesi dell’allargamento il decennio tra il 1998 e il 2008 ha visto un calo drastico nel numero degli aborti (-49%, da 550.587 a 281.060), nella Ue-15 si è registrato il fenomeno contrario: un aumento di circa 70mila aborti l’anno, da 855.645 a 926.586 (+8,3%).
Tra i 15, la Spagna da sola rappresenta l’87% dell’aumento registrato negli ultimi dieci anni e certamente la recente nuova legge sull’aborto non potrà che peggiorare la situazione, mentre nei 12 paesi di recente adesione il caso limite è quello della Romania, dove nel 1994 si praticavano 530.191 aborti, scesi nel 2008 a 127.907. Malgrado il nettissimo calo degli ultimi anni, essa rimane il terzo Paese europeo per numero di aborti, preceduta da Regno Unito (215.975) e Francia (209.913); l’Italia è invece quarta con 121.406.
Un aborto su 7 (il 14.2%) nella Ue-27 è stato praticato su ragazze minori di 20 anni, per un totale di 170.932. Numero che sale a 338.217 se si considerano anche i Paesi europei extra-comunitari. Rimanendo nell’ambito dei 27 è chiaro che il problema è più grave per il Regno Unito.
Con 2.863.649 aborti praticati e censiti ogni anno in Europa, di cui 1.207.646 nella sola Ue, nel Vecchio Continente l’aborto sta diventando la principale causa di morte. Più del cancro, più dell’infarto, e in 12 giorni viene soppresso un numero di embrioni pari a quello dei morti in incidenti stradali lungo l’intero anno. A sottolineare il peso che il fenomeno ha sulle società europee potrebbero bastare le nude cifre. Soltanto in due Paesi dell’Unione (Irlanda e Malta) l’aborto è illegale, mentre in 14 è ammesso in certe circostanze e in 11 è invece libero.

L’aborto ormai è purtroppo entrato nel costume sociale e nel sentire comune come una pratica "normale" che ha progressivamente condotto la coscienza collettiva a non considerarlo un atto contro la vita, quanto piuttosto come un "diritto" da parte della donna. La Conferenza del Cairo su Popolazione e sviluppo, nel settembre 1994, ha declinato l’aborto con il concetto di "diritto alla salute riproduttiva”.
L’aborto purtroppo è diventato lo strumento per controllare le nascite indesiderate perché impreviste, perché il bambino è malato o presunto tale, per superare paure dovute a ragioni sociali o familiari o economiche, e questo soprattutto, come si vede dai dati, nei paesi più aperti a campagne massicce di educazione alla sessualità basata sulla prevenzione contraccettiva, e dove più si è deresponsabilizzato l’atto sessuale separandolo culturalmente dall’atto procreativo. La soluzione della diffusione dei contraccettivi non rappresenta un fattore deterrente, ma anzi determina una cultura di rifiuto della vita e una sessualità non responsabile, che alla fine portano ad un incremento del numero degli aborti.
Inoltre il concetto di “diritto” non è mai applicato alla vita nascente che oggi scientificamente non ha quasi più misteri fin dai primi istanti dopo il concepimento grazie alle moderne tecnologie. Ma si fa sempre più fatica ad esplicitare il diritto di esistere di altre persone.
Certo è un problema anzitutto culturale quello dell’accoglienza della vita, e va avviata una rivoluzione culturale che trovi un necessario supporto con decise politiche di garanzia e di sostegno per il figlio e la madre. Lo ha capito bene l’Istituto estensore del Rapporto che alla fine della sua analisi sul desolante sviluppo zero della demografia europea indica alcune interessanti proposte, come quella di promuovere il diritto alla vita tramite la richiesta alla politica di condizioni sociali favorevoli, volte a supportare gli aiuti alla gravidanza intesa come bene sociale, come in Italia ha ampiamente dimostrato l’opera dei CAV e del progetto Gemma. O quella di aiutare finanziariamente le famiglie e le mamme detassando i prodotti dell’infanzia o sostenendo economicamente le mamme. Interessante anche l’idea di monitorare la curva demografica all’interno dei singoli Paesi della Ue, al fine di sostenere politiche comunitarie che risveglino la cultura dell’accoglienza e favoriscano la percezione sociale che la vita, prima ancora della libertà, è un diritto inalienabile che non può essere soffocato.
E come è stato ribadito da Benedetto XVI la questione sociale e quella antropologica non possono più essere separate: “Quando una società s'avvia verso la negazione e la soppressione della vita, finisce per non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi a servizio del vero bene dell'uomo. Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l'accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono” (CV n. 44).


Ma in che mondo viviamo? - Autore: Salina, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 18 marzo 2010
Pigi Colognesi ha scritto su il Sussidiario.net: «La scena di oggi è quella di una disaffezione generalizzata verso l’impegno politico; si respira l’aria grama e pesante di una scontentezza che non riesce ad esprimersi, ma solo sbottare nell’urlo sguaiato o nell’insulto. I mezzi di comunicazione soffiano sul fuoco, non mettendoci in condizione di capire cosa veramente stia succedendo, e fanno a gara nello scoraggiare ogni possibile discussione serena». Come è vero, purtroppo!
Certo in questo bailamme di iniziative giudiziarie spregiudicate, di ispezioni, di fascicoli aperti sulle ispezioni, di ricorsi e contro ricorsi, si fa veramente fatica a comprendere ciò che accade e quale sia veramente la posta in gioco. Certo i dubbi per una battaglia politica condotta con metodi almeno impropri, sono più che legittimi, e sconcertano; e così sconcertano gli insulti e le accuse infamanti lanciate come ordinaria dialettica politica (vedi tutti i discorsi e le interviste Di Pietro, ma non solo) ottenendo il risultato di tramutare il necessario confronto sul “bene comune”, in una gazzarra indegna e volgare. Tutto questo una società lo paga comunque!
In questa tristissima situazione qualche ricordo ed alcune considerazioni mi sono venute spontanee. La prima riguarda l’audizione di Michele Santoro presso la Procura di Trani, avvenuta martedì 16 marzo. L’avviso di garanzia inviato al Presidente del Consiglio precisa che è indagato per i reati di concussione, violenza e minaccia – sic! – ad un corpo politico, amministrativo (cioè ad Agcom: Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni).
A parte l’enormità delle accuse (violenza?), a me semplice cittadino, anzi sempliciotto, non avvezzo alle sottigliezze giurisprudenziali è venuto un dubbio: ma cosa centra Michele Santoro? Non appartiene ad Agcom, e spero (spero!) non abbia ascoltato le registrazioni, lecite o illecite che fossero, ma allora perché lo hanno chiamato? Cosa poteva dire nel merito delle accuse? Gli hanno chiesto che cosa Berlusconi pensa del suo giornalismo? Semplice lo sappiamo tutti: come milioni di italiani pensa che è fazioso all’estremo e non può pretendere di disporre di un talk-show sulla TV pubblica per fare solo propaganda politica per l’estrema sinistra. Ma allora perché lo hanno convocato? Ecco che affiora un altro dubbio: per enfatizzare l'affaire, aumentare la confusione e fargli immeritata pubblicità?

Come tutti i vecchi, anch’io cedo spesso alla tentazione del “mi ricordo”, consentitemelo anche questa volta, anche perché i ricordi coincidono con alcuni sassolini nella scarpa.

Mi ricordo Santoro, Eurodeputato, tra i più attivi nel tendere l’imboscata a Buttiglione in quanto cattolico (unico vero motivo), perché fosse “bocciato” come candidato Commissario europeo, collaborando fattivamente, tra gli altri, con Catholics for free choice, giudicando un uomo per le sue idee invece che per i suoi programmi, contrariamente alla Carta dei diritti fondamentali. Come affermarono gli eurodeputati Duff, liberale e Corbet laburista, entrambi inglesi. Anche questo episodio dimostra il suo rispetto per la pluralità delle opinioni e la sua tolleranza, tanto sbandierata.

Pannella in TV ha spiegato come e perché hanno voluto far scoppiare il caso liste, assumendo poi il ruolo del saggio che vuole superare la cosa. A parte il fatto che «irregolarità presenti tra le firme delle liste “Per la Lombardia” e “Penati presidente”» hanno portato solo alla bocciatura della lista di Formigoni (altro legittimo dubbio: come mai?), poi annullata perché errata e infondata, a parte questo, non so perché mi sono tornati alla mente alcuni Compagni di scuola un po’ carognini – pochi – che facevano la spia, ma ai quali Maestri e Professori non davano peso, … invece adesso!

Pannella, giustamente dal suo punto di vista, ha definito Emma Bonino il miglior Governatore possibile per il Lazio. Ed allora a me è venuto in mente uno dei suoi ultimi discorsi come Deputata al Parlamento europeo. L’argomento riguardava l’adesione della Turchia all’UE, e la Bonino disse quasi testualmente che era ovvio che i cattolici fossero contrari a questa adesione, infatti sanno che con la Turchia in Europa il confronto con l’Islam porterà inevitabilmente alla scomparsa del cristianesimo! Forte di questi exploit profetici, era sempre all’unisono con chi, trattando di omofobia, affermava che Benedetto XVI fornisce il supporto culturale ai discriminatori degli omosessuali. Sempre a proposito di retta interpretazione del parere altrui, e quindi del rispetto, ancora un legittimo dubbio: ma davvero sarebbe il miglior Governatore possibile per il Lazio. Mah!

Con buona pace di tutti il vero profeta era padre Dante:
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!
Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace, e tu con senno!
S'io dico 'l ver, l'effetto nol nasconde.


Non resta che sperare nell’augurio con cui Bolognesi chiude il suo articolo: «Uno «scampolo d’anima» che non si fa calpestare può fiorire anche adesso, in queste elezioni.»


PERSECUZIONI/ Non è solo la religione a uccidere i cristiani in Nigeria - Rodolfo Casadei - giovedì 18 marzo 2010 - L'articolo è tratto dal numero di Tempi oggi in edicola – ilsussidiario.net
Adesso che vescovi e missionari, inviati italiani e politici nigeriani hanno spiegato che quello di 500 cristiani in un villaggio poco distante dalla città di Jos non è stato un eccidio a sfondo religioso, ma un massacro tribale innescato dalla povertà e dall’ingiustizia sociale, tutti sembrano sentirsi più tranquilli.

Basterà - dicono i saggi - cominciare a trattare tutti i nigeriani, indipendentemente dalla fede religiosa e dall’appartenenza etnica, come cittadini uguali davanti alla legge e il problema degli scontri fra comunità finalmente sarà risolto. Un problema che negli ultimi dieci anni ha causato la morte di 13mila persone e la fuga verso altri lidi di tre milioni.

Facile a dirsi. Se le 250 etnie della Nigeria dedicano una parte del loro tempo a scannarsi fra loro una ragione che non sia la semplice diversità delle origini o le condizioni di povertà deve esserci: l’Africa è piena di etnie e tribù diverse e di comunità povere, ma non tutte si massacrano con la puntualità ciclica dei nigeriani.

Forse non tutti sanno che in Nigeria la più importante distinzione collettiva avente riflessi socio-politici non è quella religiosa (cristiani, musulmani, seguaci delle religioni tradizionali) o quella genericamente tribale, bensì quella fra “indigeni” e “non indigeni” di un territorio amministrativamente definito. Sono indigeni tutti coloro che possono vantare legami di sangue con le etnie o tribù che la tradizione considera come i primi abitatori di un determinato territorio, sono non indigeni coloro che non possono vantare tali legami, anche se la loro famiglia vive sul posto da cento o da duecento anni.

La Costituzione della Nigeria riconosce i diritti universali di ogni cittadino, ma senza pregiudizio per il “carattere federale” (art. 14) della repubblica. Che significa che negli organi di governo federali e nella Pubblica amministrazione tutte le etnie debbono essere proporzionalmente rappresentate. Sull’applicazione di questo principio veglia la Commissione per il carattere federale. I certificati di indigenità che rendono possibile l’applicazione del principio sono rilasciati dalle autorità locali.

Fin qui sembra di trovarsi davanti all’equivalente del sistema delle quote etniche che vige in Alto Adige. Il problema sta al livello dei 36 stati di cui è composta la federazione nigeriana. In ciascuno di essi la popolazione è divisa, in maniera informale eppure molto rigida, fra indigeni e non indigeni.


PERSECUZIONI/ Non è solo la religione a uccidere i cristiani in Nigeria - Rodolfo Casadei - giovedì 18 marzo 2010 – ilsussidiario.net
Raramente le discriminazioni sono formalizzate per iscritto (ci provò qualche anno fa lo stato a maggioranza musulmana di Zamfara, e le reazioni furono rabbiose), ma sta di fatto che praticamente in tutti gli stati i non indigeni sono esclusi dai posti di lavoro della funzione pubblica locale, non possono acquistare proprietà fondiarie fuori dai villaggi o dai quartieri in cui sono insediati, pagano tasse scolastiche che gli indigeni non sono tenuti a pagare, non sono ammessi nelle università non federali (in quelle federali vigono le quote etniche) e di fatto non possono concorrere ad alcuna carica elettiva pubblica locale.

Quando la Nigeria è diventata indipendente nel 1960 il problema dei non indigeni non era importante, perché a quel tempo esistevano solo tre grandi stati: il nord, il sud-est e il sud-ovest. Quando però il numero ha cominciato a lievitare, fino ad arrivare agli attuali 36 stati (a loro volta suddivisi in aree di governo locale, ben 774 a tutt’oggi), con lo sminuzzamento del territorio di riferimento anche il numero dei non indigeni è inevitabilmente esploso. In un paese dove nemmeno il numero totale degli abitanti è certo (potrebbero essere 150 milioni) quanti siano i non indigeni non si può dire con sicurezza, ma certamente l’ordine di grandezza è quello delle decine di milioni.

I massacri di Jos e dintorni, nel Plateau State, si inquadrano nel paradigma degli scontri fra non indigeni fulani-haussa (musulmani), che rivendicano maggiori diritti per il proprio gruppo, e indigeni berom (cristiani di varie denominazioni) decisi a respingere quello che considerano un tentativo di conquista territoriale da parte di gente venuta da fuori.

Per onestà occorre dire che nel Middle Belt, la fascia degli stati centrali della Nigeria che comprende anche il Plateau State, la componente religiosa delle violenze ha radici storiche: le comunità haussa-fulani sparse nel territorio sono il residuo di tentativi di espansione verso sud teorizzati come jihad da chi li guidava. L’ultimo ebbe luogo fra il 1804 e il 1817, quando il condottiero Usman Dan Fodio guidò l’ultimo jihad dei fulani-haussa col messianico obiettivo di immergere una copia del Corano nelle acque del Golfo di Guinea. Solo la colonizzazione britannica bloccò l’espansione verso sud delle etnie nordiste sotto forma di jihad. La reazione occidentale tipica di fronte alle violenze e alle ingiustizie connesse all’“indigenità” è quella contenuta nel rapporto che nel 2006 Human Rights Watch dedicò alla questione.
Stando a quel documento, il governo federale nigeriano dovrebbe abolire quasi completamente la teoria e la pratica della distinzione fra indigeni e non indigeni e sostituirla con l’applicazione di diritti di cittadinanza uguali per tutti. Ad Abuja avranno riso, qualcuno si sarà arrabbiato, certamente nessuno avrà preso sul serio l’esortazione. Il fatto è che la schiacciante maggioranza dei nigeriani approva le politiche dell’indigenità, che hanno caratterizzato tutta la storia post-coloniale della Nigeria.


Il motivo è facilmente comprensibile per chi non sia affetto da idealismo buonista: in assenza di categorie socio-economiche moderne attorno a cui organizzare la dialettica politica (leggi: classi sociali frutto della specializzazione capitalista del lavoro), la politicizzazione del fattore etnico diventa la categoria intorno alla quale si organizzano la lotta per la ripartizione delle scarse risorse pubbliche e gli accordi che la mitigano.

È astratto e moralistico appellarsi al dialogo interreligioso, all’anelito per la giustizia sociale, all’indignazione per la povertà delle masse pensando che la forza degli ideali possa cambiare i dati della realtà. Fintanto che agli africani non sarà concesso di imboccare la strada della libertà economica, cioè della libertà d’impresa che costruisce un benessere (personale e comunitario) che permette di non rivolgersi più in un’ottica assistenzialistica al potere politico col cappello in mano, al centro della politica resterà sempre il fattore etnico. E il sangue continuerà a scorrere.


Avvenire.it, 18 Marzo 2010 - IL CASO - Cosa c'è dietro gli scandali? Di Massimo Introvigne
Si ritorna a parlare di preti pedofili, con voci e accuse che si riferiscono insistentemente alla Germania e tentativi di coinvolgimento di persone vicine al Papa, e credo che anche la sociologia abbia molto da dire e che non debba tacere per il timore di scontentare qualcuno. La discussione attuale sui preti pedofili – considerata dal punto di vista del sociologo – rappresenta un esempio tipico di «panico morale». Il concetto è nato negli anni 1970 per spiegare come alcuni problemi siano oggetto di una «ipercostruzione sociale».

Più precisamente, i «panici morali» sono stati definiti come problemi socialmente costruiti, e caratterizzati da una amplificazione sistematica dei dati reali, sia nella rappresentazione mediatica sia nella discussione politica. Altre due caratteristiche sono state citate come tipiche dei «panici morali». In primo luogo, problemi sociali che esistono da decenni sono ricostruiti nelle narrative mediatiche e politiche come «nuovi», o come oggetto di una presunta e drammatica crescita recente. In secondo luogo, la loro incidenza è esagerata da statistiche folkloriche che, benché non confermate da studi accademici, sono ripetute da un mezzo di comunicazione all’altro e possono ispirare campagne mediatiche persistenti.

Philip Jenkins ha sottolineato il ruolo nella creazione e gestione dei panici di «imprenditori morali» le cui agende non sono sempre dichiarate. I «panici morali» non fanno bene a nessuno. Distorcono la percezione dei problemi e compromettono l’efficacia delle misure che dovrebbero risolverli. A una cattiva analisi non può che seguire un cattivo intervento. Intendiamoci: i «panici morali» hanno ai loro inizi condizioni obiettive e pericoli reali. Non inventano l’esistenza di un problema, ma ne esagerano le dimensioni statistiche. In una serie di pregevoli studi lo stesso Jenkins ha mostrato come la questione dei preti pedofili sia forse l’esempio più tipico di un «panico morale». Sono presenti infatti i due elementi caratteristici: un dato reale di partenza, e un’esagerazione di questo dato ad opera di ambigui «imprenditori morali».

Anzitutto, il dato reale di partenza. Esistono preti pedofili. Alcuni casi sono insieme sconvolgenti e disgustosi, hanno portato a condanne definitive e gli stessi accusati non si sono mai proclamati innocenti. Questi casi – negli Stati Uniti, in Irlanda, in Australia – spiegano le severe parole del Papa e la sua richiesta di perdono alle vittime. Anche se i casi fossero solo due – e purtroppo sono di più – sarebbero sempre due casi di troppo. Dal momento però che chiedere perdono – per quanto sia nobile e opportuno – non basta, ma occorre evitare che i casi si ripetano, non è indifferente sapere se i casi sono due, duecento o ventimila. E non è neppure irrilevante sapere se il numero di casi è più o meno numeroso tra i sacerdoti e i religiosi cattolici di quanto sia in altre categorie di persone. I sociologi sono spesso accusati di lavorare sui freddi numeri dimenticando che dietro ogni numero c’è un caso umano.

Ma i numeri, per quanto non siano sufficienti, sono necessari. Sono il presupposto di ogni analisi adeguata. Per capire come da un dato tragicamente reale si sia passati a un «panico morale» è allora necessario chiedersi quanti siano i preti pedofili. I dati più completi sono stati raccolti negli Stati Uniti, dove nel 2004 la Conferenza episcopale ha commissionato uno studio indipendente al John Jay College of Criminal Justice della City University of New York, che non è un’università cattolica ed è unanimemente riconosciuta come la più autorevole istituzione accademica degli Stati Uniti in materia di criminologia.

Questo studio ci dice che, dal 1950 al 2002, 4392 sacerdoti americani (su oltre 109.000) sono stati accusati di relazioni sessuali con minorenni. Di questi poco più di un centinaio sono stati condannati da tribunali civili. Il basso numero di condanne da parte dello Stato deriva da diversi fattori. In alcuni casi le vere o presunte vittime hanno denunciato sacerdoti già defunti, o erano scattati i termini della prescrizione. In altri, all’accusa e anche alla condanna canonica non corrisponde la violazione di alcuna legge civile: è il caso, per esempio, in diversi Stati americani del sacerdote che abbia una relazione con una – o anche un – minorenne oltre i 16 anni e consenziente.

Ma ci sono anche stati molti casi clamorosi di sacerdoti innocenti accusati. Questi casi si sono anzi moltiplicati negli anni 1990, quando alcuni studi legali hanno capito di poter strappare transazioni milionarie anche sulla base di semplici sospetti. Gli appelli alla «tolleranza zero» sono giustificati, ma non ci dovrebbe essere nessuna tolleranza neanche per chi calunnia sacerdoti innocenti. Aggiungo che per gli Stati Uniti le cifre non cambierebbero in modo significativo se si aggiungesse il periodo 2002-2010, perché già lo studio del John Jay College notava il «declino notevolissimo» dei casi negli anni 2000.

Le nuove inchieste sono state poche, e le condanne pochissime, a causa di misure rigorose introdotte sia dai vescovi statunitensi sia dalla Santa Sede. Lo studio del John Jay College dice forse, come si legge spesso, che il 4% dei sacerdoti americani sono «pedofili»? Niente affatto. Secondo quella ricerca il 78,2% delle accuse si riferisce a minorenni che hanno superato la pubertà. Avere rapporti sessuali con una diciassettenne non è certamente una bella cosa, tanto meno per un prete: ma non si tratta di pedofilia. Dunque i sacerdoti accusati di effettiva pedofilia negli Stati Uniti sono 958 in 42 anni, 18 all’anno.

Le condanne sono state 54, poco più di una all’anno. Il numero di condanne penali di sacerdoti e religiosi in altri Paesi è simile a quello degli Stati Uniti, anche se per nessun Paese si dispone di uno studio completo come quello del John Jay College. Si citano spesso una serie di rapporti governativi in Irlanda che definiscono «endemica» la presenza di abusi nei collegi e negli orfanotrofi (maschili) gestiti da alcune diocesi e ordini religiosi, e non vi è dubbio che casi di abusi sessuali su minori anche molto gravi in questo Paese vi siano stati. Lo spoglio sistematico di questi rapporti mostra peraltro come molte accuse riguardino l’uso di mezzi di correzione eccessivi o violenti. Il cosiddetto Rapporto Ryan del 2009 – che usa un linguaggio molto duro nei confronti della Chiesa cattolica – su 25.000 allievi di collegi, riformatori e orfanotrofi nel periodo che esamina riporta 253 accuse di abusi sessuali da parte di ragazzi e 128 da parte di ragazze, non tutte attribuite a sacerdoti, religiosi o religiose, di diversa natura e gravità, raramente riferite a bambini prepuberi e che ancor più raramente hanno condotto a condanne.

Le polemiche di queste ultime settimane riguardanti situazioni sorte in Germania e Austria mostrano una caratteristica tipica dei «panici morali»: si presentano come «nuovi» fatti risalenti a molti anni or sono, in alcuni casi addirittura a oltre trent’anni fa, e in parte già noti. Il fatto che – con una particolare insistenza su quanto tocca l’area geografica bavarese, da cui proviene il Papa – siano presentati sulle prime pagine dei giornali avvenimenti degli anni 1980 come se fossero avvenuti ieri, e ne nascano capziose polemiche, nella forma di un attacco concentrico che ogni giorno annuncia in stile urlato nuove «scoperte», mostra bene come il «panico morale» sia promosso da «imprenditori morali» in modo organizzato e sistematico.

Il caso che – come alcuni giornali hanno titolato – «coinvolge il Papa» è a suo modo da manuale. Si riferisce a un episodio in cui un sacerdote di Essen, già colpevole di abusi, fu accolto nell’arcidiocesi di Monaco e Frisinga, di cui era arcivescovo l’attuale Pontefice, risale infatti al 1980. Il caso è emerso nel 1985 ed è stato giudicato da un tribunale tedesco nel 1986, accertando tra l’altro che la decisione di accogliere nell’arcidiocesi il sacerdote in questione non era stata presa dal cardinale Ratzinger e non gli era neppure nota, il che non è strano in una grande diocesi con una complessa burocrazia.

Perché oggi un quotidiano tedesco decida di riesumare il caso, e sbatterlo in prima pagina 24 anni dopo la sentenza, dovrebbe essere messo in questione. Una domanda sgradevole – perché il semplice porla sembra difensivo, e non consola le vittime – ma importante è se essere un prete cattolico sia una condizione che comporta un rischio di diventare pedofilo o di abusare sessualmente di minori – le due cose, come si è visto, non coincidono perché chi abusa di una sedicenne non è un pedofilo – più elevato rispetto al resto della popolazione.

Rispondere a questa domanda è fondamentale per scoprire le cause del fenomeno e quindi per prevenirlo. Secondo gli studi di Jenkins, se si paragona la Chiesa cattolica degli Stati Uniti alle principali denominazioni protestanti si scopre che la presenza di pedofili è – a seconda delle denominazioni – da due a 10 volte più alta tra i pastori protestanti rispetto ai preti cattolici. La questione è rilevante perché mostra che il problema non è il celibato: la maggior parte dei pastori protestanti è sposata. Nello stesso periodo in cui un centinaio di sacerdoti americani era condannato per abusi sessuali su minori, il numero di professori di ginnastica e allenatori di squadre sportive giovanili – anche questi in grande maggioranza sposati – giudicato colpevole dello stesso reato dai tribunali statunitensi sfiorava i seimila.

Gli esempi potrebbero continuare, e non solo negli Stati Uniti. Soprattutto, stando ai periodici rapporti del governo americano, due terzi circa delle molestie sessuali su minori non vengono da estranei o da educatori – preti e pastori protestanti compresi – ma da familiari: patrigni, zii, cugini, fratelli e purtroppo anche genitori. Dati simili esistono per numerosi altri Paesi. Per quanto sia poco politicamente corretto dirlo, c’è un dato che è assai più significativo: per oltre l’80% i pedofili sono omosessuali, maschi che abusano di altri maschi. E – per citare ancora una volta Jenkins – oltre il 90% dei sacerdoti cattolici condannati per abusi sessuali su minori e pedofilia è omosessuale. Se nella Chiesa cattolica può esserci stato effettivamente un problema, questo non riguarda il celibato ma una certa tolleranza dell’omosessualità, in particolare nei seminari negli anni Settanta, quando veniva ordinata la grande maggioranza di sacerdoti poi condannati per gli abusi. È un problema che Benedetto XVI sta vigorosamente correggendo.

Più in generale il ritorno alla morale, alla disciplina ascetica, alla meditazione sulla vera, grande natura del sacerdozio sono l’antidoto ultimo alle tragedie vere della pedofilia. Anche a questo deve servire l’Anno sacerdotale. Rispetto al 2006 – quando la Bbc mandò in onda il documentario-spazzatura del parlamentare irlandese e attivista omosessuale Colm O’Gorman – e al 2007 – quando Santoro ne propose la versione italiana su Annozero – non c’è, in realtà, molto di nuovo, fatta salva l’accresciuta severità e vigilanza della Chiesa.

I casi dolorosi di cui più si parla in queste settimane non sono sempre inventati, ma risalgono appunto a venti o anche a trent’anni fa. O, forse, qualche cosa di nuovo c’è. Perché riesumare nel 2010 casi vecchi o molto spesso già noti, al ritmo di uno al giorno, attaccando sempre più direttamente il Papa – un attacco, per di più, paradossale se si considera la grandissima severità del cardinale Ratzinger prima e di Benedetto XVI poi su questo tema? Gli «imprenditori morali» che organizzano il panico hanno un’agenda che emerge sempre più chiaramente, e che non ha veramente al suo centro la protezione dei bambini. La lettura di certi articoli ci mostra come lobby molto potenti cercano di squalificare preventivamente la voce della Chiesa con l’accusa più infamante e oggi purtroppo anche più facile, quella di favorire o tollerare la pedofilia.
Massimo Introvigne


Avvenire.it, 18 Marzo 2010 - L'ARTE E LA SUA REALTA' - Tra disprezzo e contumelia esiste bellezza, e resiste – di Davide Rondoni
Questo articolo parla di bellezza. E di politica. Strano, sembra che le due cose siano irrimediabilmente separate. Eppure. Voglio dire che mentre c’è un lavoro politico che sembra negare ogni bellezza, c’è d’altra parte un meno visibile ma forse non meno efficace lavoro politico da parte della bellezza. Hanno esposto dei quadri di un pittore contemporaneo, l’ottimo Giovanni Manfredini, in Santa Maria del Popolo. Lo fecero con quelli di Luca Pignatelli, tempo fa, in santa Maria delle Grazie a Milano. Gli uni accanto a Caravaggio, gli altri vicino al capolavoro del Cenacolo di Leonardo. Bellezza contemporanea, artisti viventi, vicino a grandi capolavori del passato.

Questo è un segno per tutti. Un segno politico, oltre che di forte impatto estetico. L’altro giorno l’esposizione in santa Maria del Popolo, voluta da Arnoldo Mosca Mondadori, dei quadri di Manfredini avviene, se così si può dire, in mezzo al bailamme delle manifestazioni e contromanifestazioni che segnano l’attuale contrasto politico. Ma quel gesto artistico è segno di una Italia della bellezza che procede, che avanza da secoli, che non si ferma, non si attarda sui contrasti di potere. Visita piuttosto i grandi contrasti dell’esistenza, quelli in cui davvero si testimonia la nostra fragile e meravigliosa natura umana. Il mistero eterno dell’esser nostro, come diceva Leopardi. Se uno guarda solo la superficie della cronaca sembra che nel nostro Paese siano al lavoro soltanto forze macilente, antichissime e sempre rinnovate di disgregazione e di conflitto. Sembra che l’Italia avanzi o forse retroceda tra gente che si accapiglia, si offende, si guarda in cagnesco.

Tra disprezzo e contumelia. Un canaio, una continua rotolante massa di accuse e un invischiarsi al peggio. Non c’è nemmeno più quella considerazione della grandezza dell’avversario che è segno di una qualche grandezza anche nelle lotte e nel conflitto. Qualche giorno fa quando il calciatore Beckam entrò in campo con il Milan contro il Manchester, il pubblico inglese che lui aveva lasciato e di fronte a cui tornava come avversario gli tributò un grande applauso. Da noi sembra che nemmeno questo senso della grandezza sopravviva. Ma sospetto che se un contendente non riconosce mai grandezza nel suo avversario, significa che pure in lui essa non esiste. L’Italia dell’arte, il paese della bellezza continua a lavorare, non per caso trovando riparo e per così dire mandorla di custodia nelle chiese. In quel luogo, come ha ricordato papa Benedetto agli artisti pochi mesi fa, che ha grande stima della ricerca della bellezza.

L’azzardo di santa Maria del Popolo è segno di una vitalità profonda. L’opera di Manfredini, inquieta e di violenta, alta fascinazione, fatta di chiodi, di bianchi accesi, di calchi del corpo e di fuoco, è ospitata accanto ai capolavori che quasi annichiliscono di Caravaggio. Non si tratta di banale, furbesco accostamento. Ma quasi di una supplica, di una mendicanza di bellezza. Come se i quadri del pittore di oggi pregassero accanto a quelli di Caravaggio, testimoniando la bellezza che cerca la propria fonte, la propria incarnata luce. Un gesto politico in un certo senso, di quelli che Vaclav Havel chiamava del "potere dei senza potere". Offrendosi così, in modo quasi senza pudore e senza protezione, allo sguardo dei tanti che in questo paese cercano qualcosa oltre il dissidio. Qualcosa di più reale e avvincente di ogni lotta di potere politico.
DAVIDE RONDONI


Avvenire.it, 18 Marzo 2010 - DEVOZIONE A MARIA - Medjugorie, istituita commissione d'inchiesta - Gianni Cardinale
«È stata costituita presso la Congregazione per la dottrina della fede, sotto la presidenza del cardinale Camillo Ruini, una commissione internazionale di inchiesta su Medjugorje». La notizia, che era trapelata come indiscrezione a fine dicembre, è stata data ieri ufficialmente con un comunicato della Sala stampa vaticana. Dove si specifica che «detta Commissione, composta da cardinali, vescovi, periti ed esperti, lavorerà in maniera riservata, sottoponendo l’esito del proprio studio alle istanze del dicastero» presieduto dal cardinale William Joseph Levada.

La commissione d’inchiesta, guidata dal cardinale vicario emerito ed ex presidente della Conferenza episcopale italiana Camillo Ruini, sarà composta «indicativamente da una ventina di membri», ha spiegato alle agenzie padre Federico Lombardi, direttore della Sala stampa vaticana, e al termine riferirà i risultati del proprio studio all’ex Sant’Uffizio. In altre parole, ha sottolineato il portavoce vaticano, «non è la commissione stessa che prende delle decisioni, delle pronunce definitive, ma essa offre il risultato del suo studio, un suo voto come si dice in termine tecnico, alla Congregazione che poi adotterà le decisioni del caso». Si tratta insomma di una commissione d’inchiesta e di studio che «svolge un compito su mandato della Congregazione e riferisce poi ad essa».

La località di Medjugorie, in Bosnia Erzegovina, nel territorio della diocesi di Mostar, è diventata celebre nel mondo e meta di un gran numero di pellegrinaggi perché dal 24 giugno 1981 alcuni presunti veggenti affermano di ricevere apparizioni della Vergine Maria, che si presenterebbe con il titolo di «Regina della Pace». Sulla veridicità delle apparizioni mariane la Chiesa cattolica non ha ancora assunto una posizione definitiva.

«C’era stata all’inizio una commissione diocesana – ha ricordato padre Lombardi –, poi la commissione diocesana aveva detto che l’evento era più ampio della competenza della diocesi e aveva passato la mano alla Conferenza episcopale, che però allora era quella della Jugoslavia e che adesso non esiste più». «Quindi la questione – ha aggiunto – non è arrivata ad una conclusione, per quanto riguarda il tema della soprannaturalità o meno dei fenomeni. I vescovi della Bosnia ed Erzegovina hanno pertanto chiesto alla Congregazione per la dottrina della fede, a Roma, di prendere in mano la situazione».

È noto che il vescovo di Mostar, Ratko Peric, come il suo predecessore, mantiene un giudizio negativo sui cosiddetti «fenomeni» di Medjugorje. Dove quindi non sono permessi pellegrinaggi ufficiali diocesani. Anche se non mancano quelli, privati, anche di autorevoli personalità ecclesiastiche, come quello effettuato lo scorso dicembre dal cardinale arcivescovo di Vienna, Christoph Schönborn.

La commissione, composta da esperti in varie discipline - teologia, diritto canonico, psicologia... - e provenienti da diversi Paesi, quando finirà il suo studio quindi presenterà il frutto dei propri lavori alle varie «istanze» della Congregazione. E cioè la riunione dei consultori e quella dei cardinali e vescovi membri, la cosiddetta Feria quarta, così chiamata perché si riunisce di solito il mercoledì. La quale sottoporrà le proprie conclusioni al Papa.
Gianni Cardinale


Avvenire.it, 18 Marzo 2010 – ANALISI - Maritain, il filosofo del «mare nostrum» - di Roberto Papini
Jacques Maritain (1882-1973) è generalmente riconosciuto come uno dei maggiori pensatori del XX secolo, anche se l’articolazione scolastica della sua opera ha allontanato molti tra i suoi potenziali estimatori. Ricorrendo ad un tomismo duttile ed aperto ha affrontato i maggiori problemi teorici del suo tempo nei campi più diversi: nella metafisica, nell’epistemologia, nella filosofia della natura e in quella della cultura, dell’estetica e dell’educazione ed anche nella politica, conducendo una battaglia per la liberazione dell’intelligenza e un ritorno al realismo, nella prospettiva di dare un fondamento alla nozione di persona.

Specialmente in Umanesimo integrale, Maritain analizza i rapporti tra persona e società e afferma che l’uomo non si esaurisce nel sociale, anche se è portato ad una «comunione sociale»: la società è per le persone e non le persone per la società. Il bene comune non consiste allora solo in una redistribuzione del benessere materiale, ma soprattutto nell’edificazione di una società che favorisca la promozione di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. Per dirla sinteticamente, la filosofia di Maritain è un umanesimo personalista.

La sua filosofia politica si sviluppa già nelle sue opere degli anni Venti, partendo dall’idea di persona presente in San Tommaso, ma da lui approfondita nella sua dimensione storica e relazionale. Maritain, in particolare, teorizzerà quella corrente filosofica, il personalismo, cui appartengono, per molti versi, autori come Mounier, Lévinas, Ricoeur, Buber, Scheler, Guardini, il giovane Bobbio, Olivetti, Pareyson … e tanti altri che, da un lato, rifiutano l’atomizzazione della società liberale e, dall’altro, il collettivismo delle società comuniste (oltre ai fascismi emergenti).

Da qui il disegno di una società pluralista, personalista e comunitaria il cui fondamento non è né l’individuo né lo Stato, ma la persona. Con questa prospettiva si può dire che Maritain ha veramente attraversato i grandi problemi del Novecento e non in modo disincantato (basti ricordare le sue numerose battaglie per la fondazione dei diritti umani, il suo impegno per la fine della guerra civile in Spagna, i Manifesti firmati con altri intellettuali francesi ed europei…), ma come pensatore di movimento, «filosofo nella città», intellettuale impegnato a servizio della verità e della giustizia.

Durante la guerra Maritain, rifugiatosi negli Stati Uniti a causa del suo antinazismo, approfondirà il suo pensiero politico nel contesto americano. Nel 1949 Maritain, allora filosofo cattolico molto conosciuto, veniva invitato all’Università di Chicago con Leo Strauss, Eric Voegelin e Yves Simon ad offrire un contributo per una nuova filosofia della democrazia e dei diritti umani ritenuta necessaria per una ricostruzione solida dello spirito e delle istituzioni democratiche, a livello nazionale e internazionale, dopo la catastrofe delle due guerre mondiali.

Erano gli anni movimentati del dopoguerra e da molti era avvertita la necessità di approfondire la ragioni del «vivere assieme», anche se la guerra fredda e la minaccia nucleare aveva spento molte speranze di trovare un camino pacifico per i paesi del pianeta dopo la firma della carta dell’Onu a San Francisco nel 1945 e la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo nel 1948. L’idea era quella di un ordine (nazionale ed internazionale) fondato sulla persona umana ed i suoi diritti e doveri, un’idea cui Maritain aveva già dato un contributo importante alla cultura del tempo e, in particolare, durante la stesura della Dichiarazione Universale del 1948. Uomo e lo Stato, che raccoglie le conferenze di Chicago, si rivelò non solo il capolavoro della sua filosofia politica, ma fu considerato uno dei libri che coglievano con più profondità lo spirito dei tempi e disegnavano prospettive concrete, anche se difficili, per l’edificazione di un mondo pacifico.

La triade persona umana e suoi diritti – società civile (Maritain usava il termine «corpo politico» ancor più carico di significato in quanto assorbiva l’idea di Stato) – democrazia, costituisce per il pensatore tomista la base su cui costruire un mondo nuovo che avrebbe dovuto sostituire il "désordre radical" che aveva dilaniato il Novecento, con la triade individuo (individualismo) – nazione – Stato. La centralità della democrazia è, insomma, il tema dominante di L’uomo e lo Stato.

Una vera democrazia – politica, economica, sociale e culturale – espressione reale di un «corpo politico» maturo, è il sistema migliore con cui gli uomini possono autoregolarsi e limitare l’idea che sia lo Stato a permettere i diritti umani, mentre a lui non spetta che riconoscerli come inerenti alla natura umana; e solo un mondo formato da democrazie sul piano nazionale può dar vita ad un’autentica democrazia internazionale e ad una globalizzazione guidata non solo da imprese transnazionali, ma da un’«autorità politica mondiale» espressione autentica di un «corpo politico» mondiale (oggi diremmo «società transnazionale»). L’idea di persona e di democrazia si sono sviluppate nell’ambito del Mediterraneo in un intreccio tra religioni (là Dio è entrato in contatto con l’umanità), culture (è sempre stato un crocevia tra Oriente e Occidente) e politica in situazioni di conflitto, ma anche di reciproca collaborazione.

In un momento difficile come quello attuale, le analisi sottili di Maritain (già presenti in Religione e cultura) su ebraismo, cristianesimo e islam, ci aiutano a comprendere tutte le valenze del «mare nostrum» che ha offerto al mondo il pensiero per autocomprendersi attraverso l’incontro con l’altro e tessere trame di collaborazione messe spesso alla prova, ma che hanno resistito e si sono rinnovate nei secoli. Anche se accade che la violenza reciproca ci faccia velo, non possiamo dimenticare che esiste un umanesimo mediterraneo (personalista). Maritain, filosofo della persona, come molti autori ebrei, cristiani e musulmani, ne era cosciente.
Roberto Papini


Assalto continuo, ma la legge 40 rimane salda - di Ilaria Nava – Fernando Santosuosso, vice presidente emerito della Corte Costituzionale, chiarisce gli effetti di quanto deciso venerdì scorso dalla Consulta che ha respinto due ricorsi Avvenire, 18 marzo 2010
E’ una «deroga al principio generale di divieto di crioconservazione degli embrioni» quella che la Corte Costituzionale aveva affermato con la sentenza 151 del 2009 e che ha ora richiamato con la recente ordinanza 97 del 2010. Con quest’ultima pronuncia sulla procreazione assistita la Consulta ha ritenuto manifestamente inammissibili le questioni sollevate da due giudici di Milano, lasciando così inalterata la disciplina. E lo ha fatto richiamando la sua precedente sentenza sul tema, quella che aveva modificato la legge 40 eliminando il numero massimo di tre embrioni generabili per ciclo, da impiantare contemporaneamente. Per Fernando Santosuosso, vice presidente emerito della Corte Costituzionale, si tratta di «una breccia aperta» nella normativa, sebbene molte delle prescrizioni poste a garanzia di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito, come recita l’articolo 1 della legge 40, anche dopo questa seconda pronuncia siano tuttora in vigore.
Come giudica la recente ordinanza della Corte?
«Con l’ultima ordinanza sul tema della procreazione medicalmente assistita, la 97/10, non mi pare si siano introdotte novità, perché la Corte si è limitata a riprendere quanto già affermato nella precedente sentenza 151/09, che aveva dichiarato illegittima la seconda parte del comma 2 dell’articolo 14 della legge».
Qual è il quadro generale delle garanzie a tutela dell’embrione che emerge dopo queste due pronunce della Corte costituzionale?
«Innanzitutto occorre ricordare il contenuto del comma giudicato incostituzionale con la sentenza della Corte dell’anno scorso. Esso prevedeva la creazione di massimo tre embrioni per ciclo e un unico e contemporaneo impianto degli stessi. La Corte ha eliminato questo limite, affermando che in via eccezionale è possibile creare anche più di tre embrioni alla volta e non è più necessario impiantarli tutti insieme. Sebbene si tratti di una modifica rilevante, dobbiamo ricordarci che la Consulta ha giudicato incostituzionale solo ed esclusivamente questo punto, il resto della disciplina resta invariata».
A cosa si riferisce?
«Innanzitutto penso all’articolo 13, che vieta la selezione eugenetica, la sperimentazione sull’embrione e afferma chiaramente che la ricerca su di esso è consentita solo qualora si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche volte alla tutela della sua salute e al suo sviluppo. Il divieto di diagnosi preimpianto persiste, anche se la sentenza della Corte Costituzionale ha scalfito il rigore della legge 40».
In che senso?
«Mi riferisco al rischio di pratiche eugenetiche. Questa pratica, come ho detto, è contraria alla legge 40 anche dopo le pronunce della Corte. Infatti, in nessuna delle due pronunce si parla in modo esplicito della pratica della selezione, né si afferma un diritto in tal senso. Inoltre l’articolo 13, che la vieta, come abbiamo detto resta invariato.
Tuttavia l’abbattimento del limite dei tre embrioni e dell’impianto unico rende la deriva eugenetica più vicina».
Quali rischi vede con la disciplina attuale?
«La possibilità di creare più di tre embrioni nella prassi potrebbe indurre i medici a operare dei criteri di scelta tra gli embrioni e quindi, di fatto, ad applicare un criterio di selezione eugenetica. Ma la legge 40 vieta questo tipo di pratiche. Nella sua ratio questa legge prevede che il figlio non possa essere prodotto o fabbricato secondo caratteristiche predefinite».
E poi?
«La legge 40 all’articolo 14 sancisce il divieto di soppressione e di crioconservazione degli embrioni; questo comma è stato impugnato davanti alla Consulta ma non è stato modificato.
Tuttavia la novità introdotta dalla Corte con la sentenza 151 ha eliminato il limite rigoroso sul numero massimo di embrioni da creare per ciclo. Questo potrebbe favorire il fatto che nella pratica molti embrioni poi non vengano mai impiantati e siano destinati alla crioconservazione, e alla lunga, alla morte. Ma anche questo è contro la legge».
Un altro fronte sotto attacco è il divieto della fecondazione eterologa. Cosa ne pensa?
«Personalmente sono assolutamente contrario all’eterologa. A mio parere si tratta di una sorta di adulterio medico.
Quindi condivido pienamente il divieto contenuto nell’articolo 4 della normativa. Ma a parte queste mie considerazioni di carattere valoriale, penso che tale pratica sia riprovevole anche dal punto di vista giuridico, sia perché è contro l’idea di famiglia proposta dalla Costituzione, sia perché il figlio non avrebbe un’identità genetica certa, dal momento che in quasi tutti gli ordinamenti in cui l’eterologa è permessa il cosiddetto donatore resta anonimo. E questo potrebbe precludere anche il diritto alla salute tutelato dall’articolo 32 della Costituzione».


Spagna - «Morte degna», il varco - di Michela Coricelli – Avvenire, 18 marzo 2010
Il nome ufficiale è «Legge dei diritti e delle garanzie della dignità delle persone nel processo di morte», ma in Spagna è stata subito ribattezzata come legge della «morte degna». Molti temono che in realtà sia solo il primo passo verso la regolarizzazione dell’eutanasia.
L’Andalusia ha bruciato i tempi e da ieri – con l’approvazione della nuova norma – è diventata la prima comunità autonoma spagnola con una legislazione ad hoc che sancisce i diritti del paziente in fase terminale e fissa gli obblighi dei medici e del personale sanitario. La nuova legge andalusa proibisce l’accanimento terapeutico, regola la limitazione degli interventi medici e permette al malato di rifiutare un trattamento che potrebbe prolungare la sua vita in modo 'artificiale'. Il paziente potrà inoltre fare richiesta di sedativi per fermare il dolore, anche se questo rischia di accelerare la morte.

Nonostante le prevedibili polemiche e i dubbi che genera fra il personale sanitario, il testo non contiene alcun regolamento a proposito dell’obiezione di coscienza di medici e infermieri.
La legge è regionale (ovvero legata allo statuto autonomo dell’Andalusia), eppure i socialisti andalusi – promotori del testo – sono convinti che l’obiezione di coscienza sia una competenza del governo centrale. Su questo punto e su altri due aspetti si sono opposti i parlamentari andalusi del Partito popolare (centrodestra), ma al di là di tre articoli specifici l’intera Camera – da destra a sinistra – ha votato a favore della legge.
Particolarmente soddisfatti i rappresentanti di Izquierda Unida (sinistra), che hanno invitato il governo centrale di José Luis Rodriguez Zapatero a «legiferare ed essere coraggioso nel campo dell’eutanasia e del suicidio assistito». Un lapsus o una più esplicita lettura della legge? I difensori della norma hanno sempre rifiutato la parola 'eutanasia' (in Spagna, a oggi, proibita), assicurando che non è questa la finalità della norma. Perché, allora, Izquierda Unida parla apertamente di 'eutanasia'? «Non si desidera né si può legiferare su questi temi» ha tagliato corto la socialista Rosa Rios.

Eppure c’è chi pensa che la norma sia la sala d’aspetto per future e radicali riforme. «In questa legge sono stati mescolati punti ambigui e molto conflittuali, come la limitazione dello sforzo terapeutico, che lascia aperta la porta all’eutanasia» commenta Federico Die, presidente del Forum andaluso della famiglia. Nel testo – ha ammesso Die – ci sono aspetti positivi come «l’assistenza medica palliativa al malato e l’assistenza ai suoi familiari». Ma «provoca grande inquietudine il fatto che i professionisti della medicina non possano esercitare il diritto costituzionale all’obiezione di coscienza». Allarmata anche la piattaforma civica Hazte Oir (Fatti Sentire, promotrice della recente manifestazione pro-vita a Madrid), secondo la quale il rischio è che un familiare o il medico di un paziente terminale incosciente possano decidere «se amministrare una dose letale di sedativo per non prolungare l’agonia». Hazte Oir denuncia inoltre che anche i minorenni – a 16 anni – potranno optare per una «sedazione terminale, senza comunicarlo ai genitori». L’Andalusia ha fatto il passo per prima. Altre comunità autonome spagnole potrebbero ora seguirne l’esempio.