giovedì 4 marzo 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) LA CHIESA È RESA “PIÙ LUMINOSA” DALLA SUA TESTIMONIANZA DI VITA - All'Udienza generale il Papa parla di san Bonaventura da Bagnoregio
2) BENEDETTO XVI PARLA DI SAN BONAVENTURA DA BAGNOREGIO - Catechesi all'Udienza generale del mercoledì
3) La dottrina del cattolico Kennedy? Da dimenticare - Nel 1960 teorizzò la più rigida separazione tra Chiesa e Stato, per farsi accettare come presidente. Mezzo secolo dopo, l'arcivescovo Chaput lo accusa d'aver fatto un grave danno. Un saggio del professor Diotallevi sui limiti e i fallimenti della "laïcité" - di Sandro Magister
4) Giustizia che trasforma - Autore: Andraous, Vincenzo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 3 marzo 2010
5) Il canto del Lògos in Clemente Alessandrino - E dall'infinito una voce risveglia l'uomo - di Leonardo Lugaresi - L'Osservatore Romano - 4 marzo 2010
6) Quando Joseph Roth scriveva di Pio XII - Il nemico delle bestie pre-apocalittiche - di Francesco M. Petrone - L'Osservatore Romano - 4 marzo 2010
7) Storia di Shazia. Novità per aiutare… - 28 FEBBRAIO 2010 – Antonio Socci - Che il Pakistan sia uno dei peggiori “buchi neri” del mondo sembra dimostrarlo anche l’uccisione del nostro eroico agente Pietro Colazzo, vicecapo dell’intelligence in Afghanistan (vedremo dopo perché).
8) Avvenire.it, 3 Marzo 2010 - IL CASO - Ma dove diavolo è finito Satana?
9) ELEZIONI/ 1. Formigoni escluso. Onida: cosa fuori dal mondo. Baldassarre: ora un decreto - INT. Valerio Onida, Antonio Baldassarre - giovedì 4 marzo 2010 – ilsussidiario.net
10) Avvenire.it, 4 Marzo 2010 - Matteo Ricci tomista alla cinese, di S.E. Camillo Ruini
11) È l’aborto l’ossessione delle Nazioni Unite - di Elena Molinari – Avvenire, 4 marzo 2010
12) ricerche - Bimbi terminali: terapia del dolore, non eutanasia – Avvenire, 4 marzo 2010
13) puntini fermi - Legge 40, un argine necessario di Michele Aramini – La fecondazione in vitro resta un atto moralmente illecito Ma sul piano legislativo, dove va cercata la necessaria tutela di beni essenziali, la norma è un compromesso che salvaguarda la vita nascente - Avvenire, 4 marzo 2010
14) eugenetica - Sindrome Klinefelter: le madri informate scelgono per la vita – Avvenire, 4 marzo 2010


LA CHIESA È RESA “PIÙ LUMINOSA” DALLA SUA TESTIMONIANZA DI VITA - All'Udienza generale il Papa parla di san Bonaventura da Bagnoregio
ROMA, mercoledì, 3 marzo 2010 (ZENIT.org).- I cattolici non si possono limitare solo a seguire i precetti evangelici ma devono dare anche testimonianza con “uno stile di vita povero, casto e obbediente”. Lo ha detto Benedetto XVI nell’udienza generale di mercoledì in Aula Paolo VI, davanti ad ottomila fedeli, dedicando la sua catechesi a San Bonaventura di Bagnoregio (1217-1274), dottore della Chiesa.
Nel suo discorso il Papa ha confessato di provare “una certa nostalgia” nel ripensare alle ricerche da lui condotte da giovane studioso su questo pensatore, che lo condussero nel 1957 a discutere la tesi per l’abilitazione all’insegnamento proprio su “La teologia della storia in San Bonaventura”.
“La sua conoscenza ha inciso non poco nella mia formazione”, ha riconosciuto il Papa che ha tratteggiato la figura di San Bonaventura da Bagnoregio come quella di un “uomo buono, affabile, pio e misericordioso, colmo di virtù, amato da Dio e dagli uomini”; un “uomo di azione e contemplazione”, che seppe ben armonizzare fede e cultura.
Benedetto XVI ha quindi raccontato che l'esperienza che segnò San Bonaventura fu quando ormai in fin di vita a causa di una grave malattia riuscì a guarire grazie all'intercessione di San Francesco d’Assisi. Fu allora che si interrogò sulla sua vita e “affascinato dalla testimonianza di fervore e radicalità evangelica dei Frati Minori”, decise di entrare a fare parte nel 1243 dei discepoli di Francesco.
Pur essendo nato a Bagnoregio, nell’Italia Centrale, Bonaventura di fatto crebbe e studiò a Parigi, diventando in seguito “uno dei teologi più importanti della storia della Chiesa”. In quegli anni, ha ricordato, si contestava ai francescani e ai domenicani di insegnare nell’università, mettendo “in dubbio persino l’autenticità della loro vita consacrata”.
In realtà, ha spiegato il Papa, i cambiamenti introdotti dagli Ordini Mendicanti “nel modo di intendere la vita religiosa” erano “talmente innovativi che non tutti riuscivano a comprenderli”.
Si aggiungevano poi come a volte accade, “anche tra persone sinceramente religiose, motivi di debolezza umana come l’invidia e la gelosia”.
Bonaventura si occupò della questione nell’opera “La perfezione evangelica” in cui dimostrò che gli Ordini Mendicanti, “praticando i voti di povertà, di castità e di obbedienza, seguivano i consigli del Vangelo stesso”.
A questo proposito, richiamando l'attualità di questo messaggio, il Papa ha detto che “la Chiesa è resa più luminosa e bella dalla fedeltà alla vocazione di quei suoi figli e di quelle sue figlie che non solo mettono in pratica i precetti evangelici ma, per la grazia di Dio, sono chiamati ad osservarne i consigli e testimoniano così, con il loro stile di vita povero, casto e obbediente, che il Vangelo è sorgente di gioia e di perfezione”.
Nel 1257 Bonaventura da Bagnoregio, in occasione del Capitolo generale svoltosi presso il Convento dell’Aracoeli a Roma, venne eletto Ministro generale dell’Ordine dei Frati Minori, un incarico questo che ricoprirà con “saggezza e dedizione” per 17 anni, intervenendo “talvolta con una certa severità per eliminare gli abusi”.
Bonaventura, ha quindi ricordato il Pontefice, volle sempre presentare “l’autentico carisma di Francesco, la sua vita ed il suo insegnamento”. Per questo ascoltò con attenzione i ricordi di coloro che avevano conosciuto direttamente Francesco, mettendo poi mano a una biografia del Santo di Assisi.
“Francesco è un alter Christus – ha detto il Papa – , un uomo che ha cercato appassionatamente Cristo. Nell’amore che spinge all’imitazione, egli si è conformato interamente a Lui. Bonaventura additava questo ideale vivo a tutti i seguaci di Francesco. Questo ideale, valido per ogni cristiano, ieri, oggi, sempre, è stato indicato come programma anche per la Chiesa del Terzo Millennio dal mio Venerabile Predecessore Giovanni Paolo II”.
Un programma, ha concluso, che si incentra in Cristo stesso “da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste”.
Al termine dell'udienza il Papa ha benedetto le due nuove corone per l'immagine della Madonna Nera di Częstochowa, in cui sono stati incastonati frammenti di pietre della Luna e di alcuni pianeti oltre che di Gerusalemme e Nazareth, e la lampada votiva per le celebrazioni dei cinquecento anni dell'apparizione della Madonna a Motta di Livenza.


BENEDETTO XVI PARLA DI SAN BONAVENTURA DA BAGNOREGIO - Catechesi all'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 3 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale nell'aula Paolo VI, dove ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, riprendendo il ciclo di catechesi sulla cultura cristiana nel Medioevo, si è soffermato sulla figura di San Bonaventura da Bagnoregio.


* * *
Cari fratelli e sorelle,
quest’oggi vorrei parlare di san Bonaventura da Bagnoregio. Vi confido che, nel proporvi questo argomento, avverto una certa nostalgia, perché ripenso alle ricerche che, da giovane studioso, ho condotto proprio su questo autore, a me particolarmente caro. La sua conoscenza ha inciso non poco nella mia formazione. Con molta gioia qualche mese fa mi sono recato in pellegrinaggio al suo luogo natio, Bagnoregio, una cittadina italiana, nel Lazio, che ne custodisce con venerazione la memoria.
Nato probabilmente nel 1217 e morto nel 1274, egli visse nel XIII secolo, un’epoca in cui la fede cristiana, penetrata profondamente nella cultura e nella società dell’Europa, ispirò imperiture opere nel campo della letteratura, delle arti visive, della filosofia e della teologia. Tra le grandi figure cristiane che contribuirono alla composizione di questa armonia tra fede e cultura si staglia appunto Bonaventura, uomo di azione e di contemplazione, di profonda pietà e di prudenza nel governo.
Si chiamava Giovanni da Fidanza. Un episodio che accadde quando era ancora ragazzo segnò profondamente la sua vita, come egli stesso racconta. Era stato colpito da una grave malattia e neppure suo padre, che era medico, sperava ormai di salvarlo dalla morte. Sua madre, allora, ricorse all’intercessione di san Francesco d’Assisi, da poco canonizzato. E Giovanni guarì. La figura del Poverello di Assisi gli divenne ancora più familiare qualche anno dopo, quando si trovava a Parigi, dove si era recato per i suoi studi. Aveva ottenuto il diploma di Maestro d’Arti, che potremmo paragonare a quello di un prestigioso Liceo dei nostri tempi. A quel punto, come tanti giovani del passato e anche di oggi, Giovanni si pose una domanda cruciale: "Che cosa devo fare della mia vita?". Affascinato dalla testimonianza di fervore e radicalità evangelica dei Frati Minori, che erano giunti a Parigi nel 1219, Giovanni bussò alle porte del Convento francescano di quella città, e chiese di essere accolto nella grande famiglia dei discepoli di san Francesco. Molti anni dopo, egli spiegò le ragioni della sua scelta: in san Francesco e nel movimento da lui iniziato ravvisava l’azione di Cristo. Scriveva così in una lettera indirizzata ad un altro frate: "Confesso davanti a Dio che la ragione che mi ha fatto amare di più la vita del beato Francesco è che essa assomiglia agli inizi e alla crescita della Chiesa. La Chiesa cominciò con semplici pescatori, e si arricchì in seguito di dottori molto illustri e sapienti; la religione del beato Francesco non è stata stabilita dalla prudenza degli uomini, ma da Cristo" (Epistula de tribus quaestionibus ad magistrum innominatum, in Opere di San Bonaventura. Introduzione generale, Roma 1990, p. 29).
Pertanto, intorno all’anno 1243 Giovanni vestì il saio francescano e assunse il nome di Bonaventura. Venne subito indirizzato agli studi, e frequentò la Facoltà di Teologia dell’Università di Parigi, seguendo un insieme di corsi molto impegnativi. Conseguì i vari titoli richiesti dalla carriera accademica, quelli di "baccelliere biblico" e di "baccelliere sentenziario". Così Bonaventura studiò a fondo la Sacra Scrittura, le Sentenze di Pietro Lombardo, il manuale di teologia di quel tempo, e i più importanti autori di teologia e, a contatto con i maestri e gli studenti che affluivano a Parigi da tutta l’Europa, maturò una propria riflessione personale e una sensibilità spirituale di grande valore che, nel corso degli anni successivi, seppe trasfondere nelle sue opere e nei suoi sermoni, diventando così uno dei teologi più importanti della storia della Chiesa. È significativo ricordare il titolo della tesi che egli difese per essere abilitato all’insegnamento della teologia, la licentia ubique docendi, come si diceva allora. La sua dissertazione aveva come titolo Questioni sulla conoscenza di Cristo. Questo argomento mostra il ruolo centrale che Cristo ebbe sempre nella vita e nell’insegnamento di Bonaventura. Possiamo dire senz’altro che tutto il suo pensiero fu profondamente cristocentrico.
In quegli anni a Parigi, la città di adozione di Bonaventura, divampava una violenta polemica contro i Frati Minori di san Francesco d’Assisi e i Frati Predicatori di san Domenico di Guzman. Si contestava il loro diritto di insegnare nell’Università, e si metteva in dubbio persino l’autenticità della loro vita consacrata. Certamente, i cambiamenti introdotti dagli Ordini Mendicanti nel modo di intendere la vita religiosa, di cui ho parlato nelle catechesi precedenti, erano talmente innovativi che non tutti riuscivano a comprenderli. Si aggiungevano poi, come qualche volta accade anche tra persone sinceramente religiose, motivi di debolezza umana, come l’invidia e la gelosia. Bonaventura, anche se circondato dall’opposizione degli altri maestri universitari, aveva già iniziato a insegnare presso la cattedra di teologia dei Francescani e, per rispondere a chi contestava gli Ordini Mendicanti, compose uno scritto intitolato La perfezione evangelica. In questo scritto dimostra come gli Ordini Mendicanti, in specie i Frati Minori, praticando i voti di povertà, di castità e di obbedienza, seguivano i consigli del Vangelo stesso. Al di là di queste circostanze storiche, l’insegnamento fornito da Bonaventura in questa sua opera e nella sua vita rimane sempre attuale: la Chiesa è resa più luminosa e bella dalla fedeltà alla vocazione di quei suoi figli e di quelle sue figlie che non solo mettono in pratica i precetti evangelici ma, per la grazia di Dio, sono chiamati ad osservarne i consigli e testimoniano così, con il loro stile di vita povero, casto e obbediente, che il Vangelo è sorgente di gioia e di perfezione.
Il conflitto fu acquietato, almeno per un certo tempo, e, per intervento personale del Papa Alessandro IV, nel 1257, Bonaventura fu riconosciuto ufficialmente come dottore e maestro dell’Università parigina. Tuttavia egli dovette rinunciare a questo prestigioso incarico, perché in quello stesso anno il Capitolo generale dell’Ordine lo elesse Ministro generale.
Svolse questo incarico per diciassette anni con saggezza e dedizione, visitando le province, scrivendo ai fratelli, intervenendo talvolta con una certa severità per eliminare abusi. Quando Bonaventura iniziò questo servizio, l’Ordine dei Frati Minori si era sviluppato in modo prodigioso: erano più di 30.000 i Frati sparsi in tutto l’Occidente con presenze missionarie nell’Africa del Nord, in Medio Oriente, e anche a Pechino. Occorreva consolidare questa espansione e soprattutto conferirle, in piena fedeltà al carisma di Francesco, unità di azione e di spirito. Infatti, tra i seguaci del santo di Assisi si registravano diversi modi di interpretarne il messaggio ed esisteva realmente il rischio di una frattura interna. Per evitare questo pericolo, il Capitolo generale dell’Ordine a Narbona, nel 1260, accettò e ratificò un testo proposto da Bonaventura, in cui si raccoglievano e si unificavano le norme che regolavano la vita quotidiana dei Frati minori. Bonaventura intuiva, tuttavia, che le disposizioni legislative, per quanto ispirate a saggezza e moderazione, non erano sufficienti ad assicurare la comunione dello spirito e dei cuori. Bisognava condividere gli stessi ideali e le stesse motivazioni. Per questo motivo, Bonaventura volle presentare l’autentico carisma di Francesco, la sua vita ed il suo insegnamento. Raccolse, perciò, con grande zelo documenti riguardanti il Poverello e ascoltò con attenzione i ricordi di coloro che avevano conosciuto direttamente Francesco. Ne nacque una biografia, storicamente ben fondata, del santo di Assisi, intitolata Legenda Maior, redatta anche in forma più succinta, e chiamata perciò Legenda minor. La parola latina, a differenza di quella italiana, non indica un frutto della fantasia, ma, al contrario, "Legenda" significa un testo autorevole, "da leggersi" ufficialmente. Infatti, il Capitolo generale dei Frati Minori del 1263, riunitosi a Pisa, riconobbe nella biografia di san Bonaventura il ritratto più fedele del Fondatore e questa divenne, così, la biografia ufficiale del Santo.
Qual è l’immagine di san Francesco che emerge dal cuore e dalla penna del suo figlio devoto e successore, san Bonaventura? Il punto essenziale: Francesco è un alter Christus, un uomo che ha cercato appassionatamente Cristo. Nell’amore che spinge all’imitazione, egli si è conformato interamente a Lui. Bonaventura additava questo ideale vivo a tutti i seguaci di Francesco. Questo ideale, valido per ogni cristiano, ieri, oggi, sempre, è stato indicato come programma anche per la Chiesa del Terzo Millennio dal mio Predecessore, il Venerabile Giovanni Paolo II. Tale programma, egli scriveva nella Lettera Tertio Millennio ineunte, si incentra "in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste" (n. 29).
Nel 1273 la vita di san Bonaventura conobbe un altro cambiamento. Il Papa Gregorio X lo volle consacrare Vescovo e nominare Cardinale. Gli chiese anche di preparare un importantissimo evento ecclesiale: il II Concilio Ecumenico di Lione, che aveva come scopo il ristabilmento della comunione tra la Chiesa Latina e quella Greca. Egli si dedicò a questo compito con diligenza, ma non riuscì a vedere la conclusione di quell’assise ecumenica, perché morì durante il suo svolgimento. Un anonimo notaio pontificio compose un elogio di Bonaventura, che ci offre un ritratto conclusivo di questo grande santo ed eccellente teologo: "Uomo buono, affabile, pio e misericordioso, colmo di virtù, amato da Dio e dagli uomini... Dio infatti gli aveva donato una tale grazia, che tutti coloro che lo vedevano erano pervasi da un amore che il cuore non poteva celare" (cfr J.G. Bougerol, Bonaventura, in A. Vauchez (a cura), Storia dei santi e della santità cristiana. Vol. VI. L’epoca del rinnovamento evangelico, Milano 1991, p. 91).
Raccogliamo l’eredità di questo santo Dottore della Chiesa, che ci ricorda il senso della nostra vita con le seguenti parole: "Sulla terra… possiamo contemplare l’immensità divina mediante il ragionamento e l’ammirazione; nella patria celeste, invece, mediante la visione, quando saremo fatti simili a Dio, e mediante l’estasi ... entreremo nel gaudio di Dio" (La conoscenza di Cristo, q. 6, conclusione, in Opere di San Bonaventura. Opuscoli Teologici /1, Roma 1993, p. 187).
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i partecipanti all’Incontro della Pastorale degli Zingari ed auspico che le Chiese locali sappiano operare insieme per un impegno sempre più efficace in favore degli Zingari. Saluto le Suore Missionarie dell’Apostolato Cattolico – Pallottine, che celebrano in questi giorni il loro Capitolo Generale ed assicuro la mia preghiera affinchè questo importante evento susciti nell’intero Istituto un rinnovato ardore apostolico. Saluto i pellegrini provenienti dal Santuario della Madonna dei Miracoli in Motta di Livenza e li incoraggio a coltivare una sempre più autentica devozione mariana. Saluto con particolare affetto i fedeli di Dugenta, Frasso Telesino, Limatola e Melizzano, terre dei Gambacorta, qui convenuti con i rispettivi Sindaci. Cari amici, vi ringrazio della vostra presenza ed auspico che la riscoperta delle comuni radici suscitino generose collaborazioni per la crescita del bene comune.
Saluto, infine i giovani, i malati e gli sposi novelli. Cari giovani, preparatevi ad affrontare le importanti tappe della vita, fondando ogni vostro progetto sulla fedeltà a Dio e ai fratelli. Cari malati, offrire le vostre sofferenze al Padre celeste in unione a quelle di Cristo, per contribuire alla costruzione del Regno di Dio. E voi, cari sposi novelli, sappiate quotidianamente edificare la vostra famiglia nell'ascolto di Dio, nel fedele e reciproco amore.
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]


La dottrina del cattolico Kennedy? Da dimenticare - Nel 1960 teorizzò la più rigida separazione tra Chiesa e Stato, per farsi accettare come presidente. Mezzo secolo dopo, l'arcivescovo Chaput lo accusa d'aver fatto un grave danno. Un saggio del professor Diotallevi sui limiti e i fallimenti della "laïcité" - di Sandro Magister
ROMA, 2 marzo 2010 – Cinquant'anni giusti dopo il memorabile discorso, entrato nelle antologie, che John F. Kennedy tenne ai pastori protestanti di Houston per convincere loro e l'intera nazione che da cattolico poteva essere un buon presidente (vedi foto), l'arcivescovo di Denver Charles J. Chaput è tornato sul luogo del delitto, a Houston, per una conferenza ai protestanti battisti sul ruolo dei cristiani nella vita pubblica.

Il "delitto" fu proprio quello commesso da Kennedy con quel discorso, ha sostenuto Chaput nella sua conferenza, tenuta ieri sera alla Houston Baptist University e riprodotta integralmente più sotto.

"Oggi, mezzo secolo dopo, ancora paghiamo quel danno", ha detto Chaput, che tra i vescovi degli Stati Uniti è quello più impegnato sul tema dei rapporti tra Chiesa e potere. Su questo tema ha scritto anche un libro, "Render Unto Caesar", la cui tesi centrale è che a Cesare va dato quel che gli si deve, ma un cristiano serve la nazione vivendo la propria fede nella vita politica in piena coerenza e visibilità, senza nasconderla né diluirla.

A giudizio di Chaput, la rigida separazione tra Chiesa e Stato esaltata da Kennedy non ha niente a che vedere con l'origine e la storia degli Stati Uniti. È un concetto introdotto solo a metà Novecento da una corrente laicista. Della quale il cattolico Kennedy si fece suddito, aprendo la strada alla privatizzazione del credo religioso nel chiuso delle coscienze e in definitiva al suo svuotamento, anche tra i cattolici.

Il paradosso, oggi, di questi cattolici incantati dalla laicità, negli Stati Uniti e altrove, è che essi sposano ed esaltano questo paradigma in modo acritico, applicandolo anche alla Chiesa, proprio mentre esso appare ovunque sempre più in crisi.

Nella cultura corrente, la parola "laicità" rimanda alla "laïcité" tipica della Francia, molto aggressiva nei confronti della religione e decisa ad estrometterla dallo spazio pubblico o comunque a sottoporla al proprio comando.

Ma questo concetto è in corso di revisione nella stessa Francia, e altrove è declinato con sensibili varianti, tutte piuttosto instabili.

Non solo. Nella stessa Europa, oltre che nel Nordamerica, la "laïcité" si è sempre confrontata con un modello molto differente di rapporto tra Chiesa e Stato, quello della "religious freedom", la libertà religiosa di matrice anglosassone, che negli Stati Uniti ha avuto la sua maggiore fioritura.

Sia l'uno che l'altro di questi modelli sono nati dentro il cristianesimo, ma hanno generato forme diverse del ruolo della Chiesa nella società.

Gli Stati Uniti sono la nazione dove il confronto tra "laïcité" e "religious freedom" è oggi più vivace e risolutivo. E la Chiesa cattolica ne è parte.

In Italia, lo studioso che più acutamente richiama l'attenzione su questo confronto è Luca Diotallevi, professore di sociologia all'Università di Roma Tre, vicepresidente del comitato scientifico delle Settimane Sociali dei cattolici italiani ed esperto molto consultato dai vertici della conferenza episcopale.

Diotallevi ha intitolato il suo ultimo saggio, edito da Rubbettino e in libreria da un mese, "Una alternativa alla laicità".

Un'illuminante anticipazione del suo saggio, con riferimenti all'Europa e all'America, l'ha pubblicata sulla rivista dell'Università Cattolica di Milano, "Vita e Pensiero":

> Se possiamo non dirci laici

Ma ecco qui di seguito la conferenza tenuta la sera del 1 marzo 2010 alla Baptist University di Houston dall'arcivescovo di Denver, in una nostra traduzione.

__________



LA VOCAZIONE DEI CRISTIANI NELLA VITA PUBBLICA AMERICANA - di Charles J. Chaput
Una delle ironie nel mio discorso di stasera è questa. Sono un vescovo cattolico, che parla a un'università battista nel cuore protestante dell'America. Ma sono stato accolto con più calore e amicizia di quanta ne possa trovare in tanti luoghi cattolici. Questo è un fatto che merita di essere discusso. Vi tornerò verso la fine della mia conferenza. [...]

Prima di dedicarmi alla sostanza della nostra discussione mi preme avvertirvi di tre cose.

La prima è questa: i miei pensieri di questa sera sono strettamente miei personali. Non parlo a nome della Santa Sede, o dei vescovi americani, o della comunità cattolica di Houston. Nella tradizione cattolica, il vescovo locale è il primo proclamatore e maestro della fede e il pastore della Chiesa locale. Qui a Houston avete un vescovo di valore – un uomo di grande fede e intelletto cristiani – nel cardinale Daniel DiNardo. In tutto ciò che è cattolico questa sera, sono felice di rispettare la sua guida.

La mia seconda avvertenza è quest'altra: sono qui come cattolico americano e come cittadino americano, in quest'ordine. Entrambe queste identità sono importanti. Non devono confliggere. Ma neppure sono la stessa cosa. E non hanno il medesimo peso. Io amo il mio paese. Apprezzo lo spirito dei suoi documenti fondanti e delle sue pubbliche istituzioni. Ma nessuna nazione, nemmeno quella che amo, ha diritto alla mia acquiescenza, o al mio silenzio, nelle materie che appartengono a Dio o che minano la dignità della persona umana che Egli ha creato.

Il mio terzo avvertimento è che i cattolici e i protestanti hanno memorie differenti della storia americana. Lo storico Paul Johnson una volta scrisse che l'America "è nata protestante" (1). Questo è sicuramente vero. Quale che sia o diventi l'America di oggi o di domani, la sua origine è profondamente modellata da uno spirito cristiano protestante, e il frutto di questo spirito è stato, tirate le somme, una grande benedizione per l'umanità. Ma è anche vero che, sebbene i cattolici siano sempre stati presenti e in crescita negli Stati Uniti, essi hanno vissuto per due secoli subendo discriminazioni, fanatismo religioso e violenze intermittenti. I protestanti naturalmente ricorderanno le cose in un modo un po' differente. Ricorderanno la persecuzione cattolica dei dissenzienti in Europa, gli intrecci tra la Chiesa romana e i poteri statali, le diffidenze papali nei confronti della democrazia e della libertà religiosa.

Non possiamo cancellare queste memorie. E non possiamo – né dobbiamo – voltar pagina sulle questioni che ancora ci dividono come credenti in termini di dottrina, di autorità e di concezione della Chiesa. Un ecumenismo basato sulle buone maniere invece che sulla verità è vuoto. È anche una forma di menzogna. Se condividiamo l'amore di Cristo e vincoli familiari nel battesimo e nella Parola di Dio, allora a un livello fondamentale noi siamo fratelli e sorelle. I membri di una famiglia si scambiano gli uni e gli altri più che una cortesia di superficie. Noi ci scambiamo gli uni e gli altri quel tipo di rispetto fraterno che "dice la verità nell'amore" (Efesini 4, 15). Inoltre urge scambiarci gli uni e gli altri solidarietà e sostegno nell'affrontare una cultura che sempre più irride la fede religiosa in generale e la fede cristiana in particolare. E questo mi porta al cuore di ciò che vi voglio dire.

*

Il nostro tema di questa sera è la vocazione del cristiano nella vita pubblica americana. È un tema piuttosto ampio. Tanto ampio che vi ho scritto un libro. Questa sera voglio concentrarmi in modo speciale sul ruolo dei cristiani nella nostra vita civile e politica. La parola chiave della nostra discussione sarà "vocazione". Essa viene dalla parola latina "vocare", che significa "chiamare". I cristiani credono che Dio chiama ciascuno di noi singolarmente, e tutti noi come comunità credente, a conoscerlo, amarlo e servirlo nelle nostre vite quotidiane.

Ma c'è di più. Egli ci chiede anche di fare discepoli in tutte le nazioni. Ciò significa che abbiamo il dovere di predicare Gesù Cristo. Abbiamo il mandato di propagare il suo Vangelo di verità, misericordia, giustizia e amore. Queste sono parole di missione, parole di azione. Non sono facoltative. Hanno conseguenze pratiche sul modo in cui pensiamo, parliamo, facciamo scelte e viviamo le nostre vite, non solo a casa ma sulla pubblica piazza. L'autentica fede cristiana è sempre personale, ma non è mai privata. E dobbiamo riflettere su questo semplice fatto alla luce di un particolare anniversario.

Nell'autunno di cinquant'anni fa, nel settembre del 1960, il senatore John F. Kennedy, candidato democratico alla presidenza, parlò alla Greater Ministerial Association di Houston. Aveva un obiettivo: doveva convincere 300 pastori protestanti piuttosto diffidenti, e il paese nel suo insieme, che un cattolico come lui era in grado di servire con lealtà come capo supremo della nostra nazione. Kennedy convinse il paese, se non proprio i pastori, e riuscì ad essere eletto. E il suo discorso lasciò un'impronta durevole nella politica americana. Fu sincero, convincente, argomentato... e sbagliato. Non sbagliato sul patriottismo dei cattolici, ma sbagliato sulla storia americana e ancor più sul ruolo della fede religiosa nella vita della nostra nazione. E non fu semplicemente "sbagliato". Il suo discorso di Houston minò dalle fondamenta il ruolo non solo dei cattolici, ma di tutti i credenti religiosi, nella vita pubblica e nello spazio politico dell'America. Oggi, mezzo secolo dopo, ancora paghiamo quel danno.

Queste parole suonano dure? Allora cercherò di spiegarle in tre modi. Anzitutto voglio guardare al problema stando a ciò che Kennedy disse realmente. In secondo luogo voglio riflettere su quale può essere un approccio propriamente cristiano alla politica e al pubblico servizio. E da ultimo voglio esaminare dove ci ha portati il discorso di Kennedy. In altre parole: la situazione reale entro cui ci troviamo oggi, e ciò che i cristiani devono fare in questa realtà.

*

John Kennedy era un grande oratore. Ted Sorensens, che aiutò a comporre il discorso di Houston, era uno scrittore di talento. Di conseguenza, è facile leggere al volo le tesi di Kennedy a Houston come un appassionato appello alla tolleranza. Ma il testo ha almeno due grosse falle (2). La prima è politica e storica. La seconda è religiosa.

All'inizio della sua esposizione, Kennedy disse: "Io credo in un'America nella quale la separazione tra Chiesa e Stato è assoluta". Posta la diffidenza storicamente presente nei confronti dei cattolici nel nostro paese, le sue parole furono scelte con accortezza. Peccato che la Costituzione americana non dica questo. I Padri Fondatori non credevano in questo. E la storia degli Stati Uniti lo smentisce. Diversamente dai capi rivoluzionari in Europa, i fondatori della nazione americana guardavano con favore alla religione. Molti erano personalmente credenti. Di fatto, uno dei motivi principali per cui fu scritta la clausola del Primo Emendamento che vieta ogni sostegno federale a una Chiesa, fu che diversi padri della Costituzione vollero proteggere le Chiese protestanti sostenute da fondi pubblici che già si erano stabilite nei loro Stati. John Adams davvero preferì un "dolce ed equo stabilimento della religione" e aiutò a includere questo nella Costituzione del 1780 del Massachusetts (3).

I fondatori dell'America incoraggiarono il mutuo supporto tra religione e governo. Le loro ragioni erano pratiche. Nella loro visione, una repubblica come gli Stati Uniti ha bisogno di un popolo virtuoso per sopravvivere. La fede religiosa, correttamente vissuta, forma un popolo virtuoso. Quindi il moderno, drastico, concetto di "separazione tra Chiesa e Stato" ha avuto scarso peso nella coscienza americana fino a quando il giudice Hugo Black lo tirò fuori da una lettera privata che il presidente Thomas Jefferson aveva scritto nel 1802 alla Danbury Baptist Association (4). Il giudice Black usò poi la frase di Jefferson nella sentenza della corte suprema Everson v. Board of Education, nel 1947.

La data di questa sentenza della corte è importante, poiché un anno dopo – nel 1948 – i vescovi cattolici americani scrissero una splendida lettera pastorale intitolata "Il cristiano in azione". Essa merita di essere letta. In quella lettera, i vescovi fecero due cose. Sostennero con forza la democrazia americana e la libertà religiosa. E anche contestarono con forza la logica del giudice Black nella sentenza Everson.

I vescovi scrissero che "sarebbe una completa distorsione della storia e del diritto americani" spingere le pubbliche istituzioni della nazione verso una "indifferenza verso la religione e una esclusione di cooperazione tra religione e governo". Respinsero il rigido nuovo concetto del giudice Black di separazione tra Chiesa e Stato come "parola d'ordine del laicismo dottrinario" (5). E i vescovi argomentarono la loro posizione sulla base dei fatti della storia americana.

Ricordare stasera questi pronunciamenti pastorali ha valore per questo: Kennedy citò la lettera dei vescovi del 1948 nel suo discorso di Houston. Volle dimostrare il profondo sostegno cattolico alla democrazia americana. E giustamente. Omise però di menzionare che gli stessi vescovi, nella stessa lettera, ripudiavano la nuova e radicale dottrina della separazione che egli stava predicando.

Il discorso di Houston creò anche un problema religioso. A suo merito, Kennedy disse che, se i suoi compiti come presidente "mi chiedessero di violare la mia coscienza o di violare l'interesse nazionale, io rinuncerei alla mia carica". Avvertì anche che "non rinnegherei le mie convinzioni o la mia Chiesa al fine di vincere queste elezioni". Ma nei suoi effetti il discorso di Houston fece esattamente questo. Diede inizio al progetto di alzare un muro tra la religione e il processo del governare in una forma nuova e aggressiva. Divise le credenze private della persona dai suoi compiti pubblici. E collocò "l'interesse nazionale" sopra e contro "le pressioni o i precetti religiosi esterni".

Al suo uditorio di pastori protestanti, l'insistenza di Kennedy sulla coscienza personale può essere suonata familiare e rassicurante. Ma ciò che Kennedy fece in realtà, secondo lo studioso gesuita Mark Massa, fu qualcosa di estraneo e di nuovo. Egli "secolarizzò la presidenza americana al fine di conquistarla". In altre parole, "proprio perché Kennedy non apparteneva alla corrente dominante della religiosità protestante che aveva creato e sostenuto le 'strutture di plausibilità' della cultura politica americana almeno a partire da Lincoln, egli dovette 'privatizzare' le credenze religiose presidenziali – incluse specialmente le proprie – al fine di conquistare questa carica" (6).

Nella visione di Massa, il modello di secolarità proposto dal discorso di Houston "rappresentò una quasi totale privatizzazione del credo religioso: una privatizzazione così spinta che degli osservatori religiosi sia di parte cattolica che di parte protestante discussero le sue evidenti implicazioni ateistiche per la vita e l'azione pubblica". E l'ironia – anch'essa rilevata da Massa – è che alcune di quelle stesse persone che in pubblico si dicevano in ansia per la fede cattolica di Kennedy, ottennero un risultato molto diverso da quello che si aspettavano. In effetti, "lo stesso sollevare la questione cattolica aprì decisamente la strada verso una secolarizzazione dello spazio pubblico americano, privatizzando le credenze personali. Proprio lo sforzo di 'salvaguardare' l'aura religiosa [essenzialmente protestante] della presidenza... contribuì in modo significativo alla sua secolarizzazione".

Cinquant'anni dopo il discorso di Houston, abbiamo cattolici in cariche pubbliche nazionali più numerosi che in passato. Ma io mi chiedo se ne abbiamo mai avuti anche solo alcuni che possano coerentemente spiegare come la loro fede ispiri le loro opere, o almeno si sentano obbligati a provarci. La vita del nostro paese non è più "cattolica" o "cristiana" di quanto lo fosse cento anni fa. Di fatto si può pensare che lo sia di meno. E almeno uno dei motivi è il seguente: troppi cattolici confondono le loro opinioni personali con una reale coscienza cristiana. Troppi vivono la loro fede come se fosse un'idiosincrasia privata: una cosa che non permetteranno mai diventi una seccatura per gli altri. E troppi semplicemente non credono. Forse negli ambienti protestanti è diverso. Ma spero che mi perdoniate se dico: "Ne dubito".

*

John Kennedy non creò le tendenze nella vita americana che ho appena descritto. Ma, almeno per i cattolici, il suo discorso di Houston chiaramente le alimentò. Il che mi porta al secondo punto del mio discorso: quale può essere un approccio propriamente cristiano alla politica? John Courtney Murray, lo studioso gesuita che parlò così intensamente della dignità della democrazia americana e della libertà religiosa, una volta scrisse: "Lo Spirito Santo non discende sulla Città dell'Uomo in forma di colomba. Viene solo nell'energia senza fine dello spirito di giustizia e di amore che abita nell'uomo della Città, il laico" (7).

Ecco cosa ciò significa. Il cristianesimo non riguarda prevalentemente – o almeno in misura significativa – la politica. Riguarda il vivere e diffondere l'amore di Dio. E l'impegno politico cristiano, quando c'è, non è mai prevalentemente il compito del clero. Questo compito appartiene ai laici credenti che vivono nel modo più pieno nel mondo. La fede cristiana non è una lista di precetti etici o di dottrine. Non è un insieme di teorie sulla giustizia sociale ed economica. Tutte queste cose hanno il loro posto. Tutte possono essere importanti. Ma la vita cristiana comincia in una relazione con Gesù Cristo; e porta frutti di giustizia, misericordia e amore che noi mostriamo agli altri a motivo di questa relazione.

Gesù disse: "Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti" (Matteo 22, 37-40). Questa è la prova della nostra fede, e senza una passione per Gesù Cristo nei nostri cuori che modelli le nostre vite, il cristianesimo è solo un gioco di parole e una leggenda. Una relazione ha delle conseguenze. Un uomo sposato impegnerà se stesso a certe azioni e comportamenti, non importa ciò che costano, se non per l'amore che porta per la propria sposa. La nostra relazione con Dio è la stessa. Dobbiamo vivere e provare il nostro amore con le nostre azioni, non solo nelle nostre vite personali e familiari, ma anche nello spazio pubblico. Di conseguenza i cristiani come singoli e la Chiesa come comunità credente si impegnano a livello politico come per un comandamento della Parola di Dio. La legge umana insegna e forma così come pone delle regole; e la politica umana è l'esercizio del potere: il che significa che entrambe hanno implicazioni morali che il cristiano non può ignorare, se vuol rimanere fedele alla sua vocazione come luce per il mondo (Matteo 5, 14-16).

Robert Dodaro, sacerdote e studioso agostiniano, ha scritto un bel libro pochi anni fa intitolato: "Cristo e la società giusta nel pensiero di Agostino". In questo libro e altrove, Dodaro fissa in alcuni punti chiave la visione di Agostino del cristianesimo e della politica (8).

Anzitutto, Agostino non ha mai realmente prodotto una teoria politica, e il motivo c'è. Egli non crede che l'essere umano possa conoscere o creare una giustizia perfetta in questo mondo. Il nostro giudizio è sempre segnato dalla nostra condizione di peccatori. Quindi, il giusto punto di partenza per ogni politica cristiana è l'umiltà, la modestia e un realismo molto misurato.

Secondo, nessun ordine politico, non importa quanto sembri buono, può mai costituire una società giusta. Errori nel giudizio morale non possono essere evitati. Questi errori aumentano esponenzialmente nella loro complessità quando muovono dai bassi agli alti livelli della società e del governo. Perciò il cristiano deve essere leale alla sua nazione e obbediente ai suoi legittimi governanti. Ma deve anche coltivare una vigilanza critica sull'una e sugli altri.

Terzo, nonostante queste riserve critiche, i cristiani hanno il dovere di prendere parte alla vita pubblica secondo le capacità date loro da Dio, anche quando la loro fede li mette in conflitto con la pubblica autorità. Non possiamo semplicemente ignorare o ritirarci dalla cosa pubblica. La ragione è semplice. Le classiche virtù civiche enumerate da Cicerone – prudenza, giustizia, fortezza, temperanza – possono essere rinnovate ed elevate, a beneficio di tutti i cittadini, dalle virtù cristiane della fede, della speranza e della carità. Quindi l'impegno politico è un degno compito cristiano, e un pubblico ufficio è una onorevole vocazione cristiana.

Quarto, nel governare come meglio possono, mentre conformano le loro vite e i loro giudizi al contenuto del Vangelo, i leader cristiani nella vita pubblica possono compiere un bene reale, e possono fare la differenza. Il loro successo sarà sempre limitato e mescolato ad altro. Non sarà mai ideale. Ma con l'aiuto di Dio possono migliorare la qualità morale della società, il che basta a rendere il loro sforzo inestimabile.

Ciò che Agostino si attende dai leader cristiani, possiamo ragionevolmente estenderlo alla vocazione di tutti i cittadini cristiani. Le doti dei cittadini cristiani sono in definitiva semplici: uno zelo per Gesù Cristo e la sua Chiesa; una coscienza formata in umiltà e radicata nelle Scritture e nella comunità credente; la prudenza per vedere quali questioni nella vita pubblica sono vitali e fondamentali per l'umana dignità, e quali no; il coraggio di operare per ciò che è giusto. Non coltiviamo tali abilità da soli. Le sviluppiamo insieme come cristiani, in preghiera, in ginocchio, alla presenza di Gesù Cristo... e anche in discussioni come stasera.

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Prima di concludere, voglio toccare brevemente il terzo punto che ho menzionato all'inizio della conferenza: le situazioni reali entro cui ci troviamo oggi, e ciò che i cristiani devono fare per affrontarle. Mentre preparavo il testo per questa sera, ho messo in fila tutte le questioni urgenti che richiedono la nostra attenzione come credenti: aborto; immigrazione; i nostri obblighi per i poveri, i vecchi e i disabili; i problemi della guerra e della pace; la nostra confusione nazionale circa l'identità sessuale a la natura umana, e gli attacchi al matrimonio e alla famiglia che derivano da questa confusione; la crescente separazione della scienza e della tecnologia dalla riflessione morale; l'erosione della libertà di coscienza nel nostro dibattito sul sistema sanitario nazionale; il contenuto e la qualità delle scuole che formano i nostri bambini.

La lista è lunga. Io credo che l'aborto sia la fondamentale questione di diritti umani del nostro tempo. Dobbiamo fare tutto ciò che possiamo per aiutare le donne nella loro gravidanza e per far cessare l'uccisione legale di bambini prima della nascita. Dovremmo ricordare che i romani avevano un odio profondo per Cartagine non perché Cartagine era loro rivale nel commercio, o perché la sua gente aveva diversi la lingua e i costumi. I romani odiavano Cartagine soprattutto perché vi si sacrificavano i bambini a Baal. Per i romani, che pure non mancavano d'esser crudeli, quella era una forma di barbarie e di perversione unica al mondo. Come nazione, dovremmo utilmente chiederci a chi e a che cosa sacrifichiamo i nostri 40 milioni di aborti "legali", dal 1973.

Tutte le questioni che ho messo ora in fila dividono il nostro paese e le nostre Chiese in un modo che Agostino avrebbe trovato abbastanza comprensibile. La Città di Dio e la Città dell'Uomo si sovrappongono in questo mondo. Solo Dio conosce a quale Città ciascuno appartenga. Ma nel frattempo, mentre cerchiamo di vivere il Vangelo in cui diciamo di credere, ci capita di trovare amici e fratelli in luoghi inattesi, in posti improbabili; e quando ciò accade, anche un luogo straniero può sembrare come un luogo di casa.

La vocazione dei cristiani nella vita pubblica americana non ha una specifica etichetta battista o cattolica o greca ortodossa o altra. Le parole di Giovanni 14, 6 – "Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me" – che sono la chiave dell'identità della Houston Baptist University, bruciano come fuoco in questo cuore e nel cuore di ogni cattolico che comprende veramente la sua fede. Il nostro compito è di amare Dio, predicare Gesù Cristo, servire e difendere il popolo di Dio e santificare il mondo come suoi inviati. Per fare questo lavoro, dobbiamo essere uniti. Non "uniti" in parole pie o buone intenzioni, ma uniti davvero, uniti perfettamente, nella mente nel cuore e nell'azione, come Cristo ha voluto. Questo è ciò che Gesù intendeva quando disse: "Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato" (Giovanni 17, 20-21).

Noi viviamo in un paese che fu una volta – nonostante i suoi peccati e mancanze – profondamente modellato dalla fede cristiana. Può essere così di nuovo. Tuttavia, o lo faremo assieme, o non lo faremo per nulla. Dobbiamo ricordare le parole di sant'Ilario, di tanto tempo fa: "Unum sunt, qui invicem sunt", si è una cosa sola quando si è l'uno per l'altro (9). Voglia Dio donarci la grazia di amarci l'un l'altro, aiutarci l'un l'altro e vivere pienamente l'uno per l'altro in Gesù Cristo, così che possiamo lavorare assieme nel rinnovare questa nazione che ha servito così bene l'umana libertà.

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(1) Paul Johnson, “An Almost-Chosen People", First Things, Giugno-luglio 2006; testo ricavato dalla sua Erasmus Lecture.

(2) Il testo integrale del discorso di Kennedy a Houston è disponibile online presso la John F. Kennedy Presidential Library and Museum.

(3) John Witte, Jr., “From Establishment to Freedom of Public Religion£, Emory University School of Law, Public Law and Legal Theory Research Paper Series, Research Paper No. 04-1, 2003, p. 5.

(4) Ibid., p. 2-3.

(5) Vescovi cattolici degli Stati Uniti, lettera pastorale “The Christian in Action", n. 11, 1948; vedi anche n. 12-18; ristampata in "Pastoral Letters of the American Hierarchy 1792-1970", Hugh J. Nolan, Our Sunday Visitor, 1971.

(6) Mark Massa, S.J.; le citazioni di Massa sono riprese da “A Catholic for President? John F. Kennedy and the ‘Secular’ Theology of the Houston Speech, 1960", Journal of Church and State, Spring 1997.

(7) John Courtney Murray, S.J., “The Role of Faith in the Renovation of the World", 1948; le opere di Murray sono disponibili online presso la Woodstock Theological Center Library.

(8) Robert Dodaro, O.S.A.; vedi la corrispondenza privata con l'autore di questa conferenza, assieme ai saggi "Christ and the Just Society in the Thought of Augustine", Cambridge University Press, 2008 (prima edizione 2004), ed “Ecclesia and Res Publica: How Augustinian Are Neo-Augustinian Politics?", raccolti in "Augustine and Post-Modern Thought: A New Alliance Against Modernity?", Peeters, Bibliotheca Ephemeridum Theologicarum Lovaniensium, 2009.

(9) Citato in Murray, “The Construction of a Christian Culture"; saggio originalmente pubblicato in tre conferenze nel 1940, disponibili come sopra.


Giustizia che trasforma - Autore: Andraous, Vincenzo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 3 marzo 2010
Tra gli appunti sparsi disordinatamente sulla scrivania ho ritrovato un mio vecchio articolo sulla Giustizia e sul Carcere, facce della stessa medaglia che dovrebbero trasformare al cambiamento di mentalità il colpevole e rendere migliore l’intera società.
Le parole su questa pagina ingiallita dagli anni trascorsi, possono ancora essere utili per pensare a quanti vivono nella marginalità, emarginando gli altri, e così facendo si crea una vera “giustizia ingiusta”, che poggia le fondamenta su due basi: il mancato riconoscimento dei diritti altrui, e il fatto di confondere ottusamente l’omertà con la solidarietà.
Due atteggiamenti di comodo, dettati da una necessità di sopravvivenza che però si maschera da “giustizia sociale”.
Quando si sta ai margini, ogni situazione, ogni limite e distanza, sono usate per giustificare le proprie azioni, la colpa è sempre degli altri che non ascoltano, non aiutano, rimangono indifferenti, eppure anche se povertà e solitudini creano ingiustizie, non sono sufficienti ad assolvere alcuno dalle proprie responsabilità.
Quale giustizia e quale pena possono arginare l’illegalità diffusa, la furbizia assunta a valore, la violenza cresciuta professionalmente ed economicamente, se il carcere continua a essere il luogo nel quale più di ogni altro si genera e si rigenera l’esclusione. Sebbene nel suo perimetro chiuso non ci siano eroi, ma unicamente uomini sconfitti, la pratica diventa metodo consolidato, si muore attaccati a una corda, si muore inascoltati da una giustizia che momentaneamente è nella posizione di non potere vedere le sue tante ingiustizie.
Forse bisogna di immaginare una giustizia diversa, finalmente condivisa, che non si risolva in una condanna e in una pena meramente da scontare, un debito da pagare senza alcuna consapevolezza di quanto sia difficile tentare una possibile riparazione, partecipando attivamente affinché il carcere recuperi davvero alla società: e ciò potrà avverarsi quando esso stesso sarà recuperato dal consorzio civile.
Per un detenuto, per un operatore, per una società che è comunque e sempre coinvolta nella sua opera di risanamento, dovrebbe significare che il tempo non sia un tragitto che scivola addosso, con poca importanza e nessuna dignità.
C’è necessità di partecipare a una buona Giustizia, a un carcere davvero utile, che non renda oltremodo inumana la disumanità. Su questi pilastri della convivenza civile non è sufficiente dire la propria usando toni aspri, dialettiche violente, forse occorrerà partecipare con la forza delle idee, con atteggiamenti che non banalizzano un problema che sta minando la percezione di equità e compassione.
La Giustizia è dimensione che ha bisogno di buona volontà per migliorare le cose e le persone, anche dentro una cella, ma per non concorrere a una civiltà che muore, non dobbiamo accontentarci di avere dei numeri, degli oggetti ingombranti, ma uomini da aiutare per diventare a propria volta perni su cui fare girare tanti altri in difficoltà.
Parlare di ciò è anche un po’ il pane del perdono, quel segno tangibile di una riconciliazione, un senso ritrovato nell’onore riconquistato, un pane e una dignità meritati sul campo, sul terreno fertile di una giustizia e di una pena a misura di uomo.


Il canto del Lògos in Clemente Alessandrino - E dall'infinito una voce risveglia l'uomo - di Leonardo Lugaresi - L'Osservatore Romano - 4 marzo 2010
La prima parola di Clemente Alessandrino sul Lògos divino, o meglio la prima parola con cui il Lògos divino ci viene incontro, all'inizio del suo Protrettico, è un canto: il "canto nuovo", come egli lo chiama a più riprese; ben diverso e superiore a quello di Orfeo e degli altri leggendari poeti - Anfione di Tebe, Arione di Metimna, Eunomo di Locri - a cui il mito greco attribuiva falsamente straordinari poteri come quello di ammansire le bestie selvagge, ma che in realtà erano degli impostori i quali "con il pretesto della musica corrompevano la vita" degli uomini rendendoli schiavi.
Anche il Lògos, afferma Clemente, intona un canto, ma non secondo i modi (nòmoi) della musica greca bensì con il "nòmos eterno della nuova armonia", e il suo canto contiene un "farmaco dolce e vero che persuade". Egli davvero "ha ammansito le fiere più difficili che mai vi siano state, cioè gli uomini", anzi ha reso uomini coloro che, a causa dell'ignoranza e del peccato, erano come pietre: "quelli che altrimenti erano morti, quelli che non avevano parte alla vita reale, solo divenendo ascoltatori del canto sono tornati alla vita" (Protrettico 1, 4, 1).
Da questa potente immagine iniziale, la metafora del canto del Lògos si dispiega in tutta la ricchezza delle sue sfaccettature: è il canto che ordina e intona a sé l'universo, "affinché il cosmo intero si armonizzi con Lui" (1, 5, 1); è "sostegno e armonia di tutto" (1, 5, 2); ha come strumenti il cosmo e il microcosmo, cioè l'uomo, ma il Lògos celeste è anche in prima persona lo "strumento panarmonico di Dio" (1, 5, 3-4) che svolge la sua incessante azione trasformatrice e benefica nel mondo (1, 6, 1-2). È un canto nuovo, ma c'è da sempre, perché il Lògos era dal principio (1, 6, 5; 7, 3); si è espresso "attraverso il coro dei profeti", e per certi uomini "canta" perché "ha molte voci e molti modi per la salvezza degli uomini" (1, 8, 2-3); ha in Giovanni Battista una voce che precorre, incita e prepara alla salvezza (1, 9, 1-2): grazie ad essa e all'altra voce precorritrice dell'angelo, il Lògos feconda la donna sterile e la terra che non produceva frutti (1, 9, 3-5); risuona nel silenzio, simboleggiato dal mutismo di Zaccaria, della lunga attesa dell'umanità, "affinché la luce della verità, il Lògos, divenuto evangelo, sciogliesse il mistico silenzio degli enigmi profetici" (1, 10, 1).
Per quanto aderente ai dettami della precettistica retorica, questa insistenza sulla metafora del canto del Lògos non è solo la sapiente mossa d'esordio di un retore raffinato quale Clemente indubbiamente sa essere: il tema del canto viene infatti ripreso in più occasioni, nel corso del libro, fino alla peroratio finale, quasi a suggerirci che in esso si trova uno dei motivi conduttori dell'intero discorso. Non possiamo qui citare tutti i passi: ci basti ricordare che, nell'ultimo capitolo, il tema del canto ricompare, quasi in una ideale contrapposizione a quello iniziale del Lògos, nella reinterpretazione cristiana del mito di Odisseo e le Sirene, che tanto aveva affascinato Hugo Rahner, là dove il padre alessandrino dice che "la consuetudine (synètheia)" è come lo scoglio delle Sirene, perché "in essa canta il piacere, una prostituta fiorente, che gode di una musica volgare", e che per "navigare oltre quel canto" che genera morte, bisogna, come Ulisse, farsi legare all'albero della nave e prendere il Lògos di Dio come proprio nocchiero (12, 118). Questa navigazione conduce a un "coro pieno di saggezza", ben diverso da quello delle Menadi, e alla gioia ineffabile della danza eterna. "Queste sono le feste bacchiche dei miei misteri. Se vuoi, anche tu fatti iniziare ai misteri, e danzerai insieme con gli angeli intorno all'Ingenerato e all'Imperituro, al solo vero Dio, mentre il Lògos di Dio canterà inni insieme con noi" (12, 120, 2).
Il ricorso alla metafora del canto non è limitato al solo Protrettico, ma si riverbera anche sulla successiva opera di Clemente, il Pedagogo, ove ritorna più volte a indicare la sapiente "armonizzazione" dell'azione del Lògos a beneficio degli uomini in tutta la varietà delle loro situazioni e caratteri, e non è assente neppure nella sua opera maggiore, gli Stromati. Ci limitiamo qui a richiamare un passo del ii libro, in cui l'autore scrive che "colui che crede nelle Scritture divine rende saldo il suo giudizio e ne riceve come prova inconfutabile la voce di Colui che ci ha dato le Scritture, di Dio: così la fede non diventa più una posizione corroborata per mezzo di dimostrazione. Dunque "beati coloro che non hanno visto e hanno creduto". D'altronde le voci ammaliatrici delle Sirene, che manifestavano un potere sovrumano, colpivano coloro che si trovavano nelle vicinanze, disponendoli all'ascolto dei loro canti quasi loro malgrado" (Stromati ii 9, 6-7). Qui la ripresa del mito delle Sirene, a cui abbiamo già accennato sopra, riceve un'inflessione particolare e di grande interesse, perché per una volta l'esempio delle fascinose e letali creature marine è addotto non per significare i pericoli e le tentazioni del mondo, ma al contrario per indicare la forza di persuasione che la parola di Dio ha su chi legge con fede le Scritture. È come se la "voce di Dio", cioè la parola che, dal testo, risuona "fisicamente" agli orecchi del fedele, rendendo concretamente percepibile, con la sua sonorità, la presenza divina, trapassasse, se così possiamo dire, la pagina della Scrittura, trascendendone il piano discorsivo di esposizione e dimostrazione razionale della dottrina e quasi soggiogando, a somiglianza del canto delle Sirene, colui che vi si accosta.
Che cosa vuol dirci Clemente, con questo suo insistente richiamo all'immagine del canto del Lògos, al di là dell'indubbio fascino retorico della ripresa di motivi della letteratura e del mito greco, e del ricorso a un patrimonio di conoscenze musicali di cui fa sfoggio anche altrove nei suoi scritti? Forse per capirlo meglio dovremmo rivolgerci innanzitutto a quella corrente del pensiero greco che, da Pitagora, Damone e Platone in poi, aveva lungamente riflettuto sulla corrispondenza tra rapporti armonici e struttura cosmologica e sui rapporti tra musica ed ethos, cioè sugli effetti psicagogici del canto - una tradizione che era ben viva nell'Alessandria del ii secolo, che Clemente mostra di conoscere bene e nella quale si inserisce a pieno titolo. Non è questa la sede per addentrarsi nella ricostruzione di un sistema di pensiero molto complesso, che da un lato conosce posizioni differenziate, e non sempre per noi esattamente definibili, stante anche la nostra scarsa conoscenza della concreta pratica musicale greca e la conseguente difficoltà di afferrare pienamente il significato di certe affermazioni teoriche degli antichi trattatisti, e dall'altro ha dimensioni molteplici che coinvolgono la cosmologia, la medicina, e la politica. Qui basterà rilevare che gran parte di quella cultura è assolutamente convinta che tra musica, anima e mondo ci sia una corrispondenza strutturale, e che in forza di questa corrispondenza la musica sia in grado di agire potentemente sull'uomo: essa non si limita a toccarne superficialmente la sensibilità o a provocare in modo irriflesso certe reazioni emotive, ma si imprime in profondità nell'animo, incide sull'ethos, arriva a trasformare la natura stessa dell'uomo, rendendolo migliore o corrompendolo, a seconda che si tratti di musica "buona" o "cattiva". La musica, in questa concezione, è la chiave che apre il cuore dell'uomo e penetra nell'intimo della sua coscienza: basti ricordare che l'Alcibiade del Simposio platonico, per tributare a Socrate il più alto elogio, lo paragona a un flautista, le cui musiche "da sole rendono invasati e rivelano [chi sono] quelli che hanno bisogno degli dèi e delle iniziazioni, per il fatto che sono divine" (Simposio 215 c).
Che Clemente sia profondamente consapevole e attento al problema dell'influsso esercitato dalla musica sugli uomini, lo si vede chiaramente nella sezione del Pedagogo specificamente dedicata a questo argomento (Pedagogo ii 40-44), dove, all'interno di una più ampia trattazione su come il cristiano possa praticare la vita di società in modo conforme al Lògos, egli fa osservazioni molto particolareggiate sulle esecuzioni musicali durante i banchetti, mostrando notevoli competenze "tecniche". Vita cristiana e vita mondana, nella sua prospettiva, vengono quasi a contrapporsi sotto gli emblemi di due modalità di canto tra loro assolutamente dissonanti: lo scontro tra il bene e il male, tra la vita della fede e la morte del peccato acquista l'evidenza sonora di una cacofonia. Parlare di forza psicagogica della musica, è bene ribadirlo, significa, in questo contesto, alludere a un'azione che non incide solo sulle manifestazioni esteriori dell'uomo, sulla sua "moralità" e sui costumi intesi come modi di comportamento esterno, ma opera una profonda e duratura trasformazione del suo habitus, una sorta di metamorfosi. Può essere illuminante, in proposito, il confronto con quanto Clemente dice all'inizio del iii libro del Pedagogo (1, 2-5): rifacendosi alla tradizionale tripartizione platonica dell'anima umana, egli ne caratterizza la parte concupiscibile (tò epithymetikòn) nel segno del polimorfismo, mitologicamente simboleggiato dal mutevole Proteo e, citando un passo dell'Odissea che ne descrive le trasformazioni, interpreta allegoricamente il suo farsi "fluida acqua" come un simbolo delle passioni che si riversano e si abbattono come onde sulla bellezza dell'uomo. "Il desiderio, infatti, diviene ogni cosa e prende ogni forma e vuole sedurre, per far sparire l'uomo" (iii 1, 4). Viene così individuato un polo negativo, che provoca la distruzione dell'uomo, caratterizzato dalla mutevolezza, dall'instabilità, dal continuo fluire delle forme, sull'onda di una concupiscenza che è di per se stessa insaziabile. A esso si contrappone, nel segno del Lògos, il polo della stabilità, dell'identità che non cambia, che non deflette dalla sua traiettoria di progressiva assimilazione alla bellezza divina. Non sfugga l'analogia con quanto egli dice a proposito della musica: varietà (poikilìa) e mollezza (hygròtes) non a caso, sono termini che impiega anche per qualificare la capacità delle harmonìai più pericolose e sensuali di insinuarsi nell'animo, indebolendolo e corrompendolo.
Se torniamo, con questa consapevolezza della partecipazione di Clemente alla dottrina dell'ethos musicale, all'immagine iniziale del Lògos-Canto, possiamo coglierne meglio il significato profondo. Presentare il Lògos non solo come parola proferita da Dio ma come parola "cantata", significa infatti metterne in evidenza il carattere, per così dire, performativo, cioè la capacità di fare ciò che dice, o meglio di essere una parola che è di per se stessa azione, gesto produttivo di effetti. Il canto, potremmo dire, è parola elevata a potenza, quanto alla sua efficacia psicagogica; considerato nel suo aspetto di evento produttivo di effetti morali, anzi di una duratura trasformazione dell'ethos di chi subisce la sua influenza, esso, nella metafora clementina si presta a significare che il Lògos-canto è più che semplice parola, è forza che agisce. La scelta di presentare, per prima cosa, il Lògos come canto divino che dispiega in tutto il cosmo la sua sonorità e raggiunge l'uomo con la sua vibrazione ha dunque una valenza molto forte, in quanto contribuisce a metterne in rilievo, sia pure implicitamente, la natura di soggetto che "agisce" nel mondo e nella storia. Mentre in Filone, come già osservava molti anni fa uno dei suoi più attenti studiosi, Salvatore Lilla, il Lògos divino, che pure gioca un ruolo importantissimo nell'etica ed è presentato come la fonte perpetua delle virtù, "rimane sempre la legge immanente dell'universo nel senso stoico e platonico e, di conseguenza, è solo la norma etica per l'uomo (...) per il cristiano Clemente il Lògos non è semplicemente la legge impersonale della physis e dell'etica, né rappresenta solo la ragione umana: essendo un'unica cosa con Cristo, il suo intervento nella sfera umana è molto più concreto e personale. Egli insegna, educa, guida, è il pedagogo, sia quando è un principio metafisico sia quando, dopo la sua discesa sulla terra, agisce come persona storica".
L'immagine del canto, infine, sottolinea mirabilmente il carattere di azione che si svolge nel tempo, assunto dall'apparizione del Lògos e richiesto parimenti alla risposta dell'uomo. In un bellissimo passo del ix capitolo del Protrettico Clemente osserva che, proprio perché il Lògos canta, e il canto è essenzialmente "temporaneo", è "tempo cantato", e propriamente risuona solo nel presente, anche la risposta dell'uomo deve avvenire "oggi", mentre quel canto vibra. "Grande, infatti, è la grazia della sua promessa, se oggi ascolteremo la sua voce, e questo "oggi" si accresce in ogni giorno, finché si dirà "oggi". Infatti, fino al compimento di tutte le cose l'oggi e [la possibilità di] apprendere permangono; e allora il vero "oggi", il giorno di Dio, che non manca di nulla, si estende nei secoli. Ascoltiamo sempre, dunque, la voce del Lògos divino; l'oggi, infatti, è eterno, è immagine dell'eternità, il giorno è simbolo della luce, e luce per gli uomini è il Lògos, per mezzo del quale noi contempliamo Dio" (84, 5-6). Nella densa espressione di Clemente, "l'oggi e l'apprendimento", ci appaiono strettamente congiunti l'oggi della fede, il sì della libertà umana che, anche quando matura attraverso un lungo travaglio, conosce sempre un discrimine momentaneo, un punto nel tempo in cui avviene, e il percorso diuturno della conoscenza che dalla fede si diparte. A partire dal concetto del Lògos come persona, che agisce "oggi", si può dunque impostare anche la questione del rapporto tra pìstis e gnòsis in modo un po' diverso da come ha fatto molta parte della ricerca clementina, quando ha puntato l'attenzione o sulla distinzione tra vera e falsa gnosi, o sulla distinzione tra (vera) gnosi e semplice fede. In realtà, nella concezione di Clemente, fede e conoscenza, per quanto distinte come fasi dello sviluppo del rapporto dell'uomo con il Logos, sono però fondamentalmente unite per il fatto di essere entrambe "azioni" che corrispondono, "nell'oggi", all'azione del Logos stesso. La distinzione che gli sta a cuore è piuttosto da una parte quella tra la gnosi cristiana e una conoscenza filosofica che, pur senza essere una "cattiva conoscenza", appare inadeguata perché rimane astratta, e dall'altra quella tra la fede-conoscenza e una ortoprassi nominalmente cristiana che risulta assolutamente insufficiente in quanto non è metodo della conoscenza.
(©L'Osservatore Romano - 4 marzo 2010)


Quando Joseph Roth scriveva di Pio XII - Il nemico delle bestie pre-apocalittiche - di Francesco M. Petrone - L'Osservatore Romano - 4 marzo 2010
Uno dei tre volumi che raccolgono l'opera giornalistica di Joseph Roth contiene una breve nota del marzo 1939, a pochi giorni dalla incoronazione papale di Eugenio Pacelli, in cui l'autore di Giobbe - uno dei più famosi scrittori ebrei del Novecento, "il più compiutamente ebreo" degli scrittori di lingua tedesca, diceva Mittner, con quell'"intelligenza poetico-profetica" che gli riconosceva Italo Alighiero Chiusano - celebra Pio XII come il nemico per eccellenza delle belve "pre-apocalittiche" al potere in Germania.
Anche i biografi che hanno maggiormente messo in evidenza l'avvicinamento alla Chiesa di Roma del romanziere non hanno mai menzionato queste poche righe che forse, nella discussione attuale, assumono un piccolo rilievo. Non si tratta di un documento storico ma di una testimonianza letteraria. Non sta chiusa negli archivi, in attesa di scadenze e di rivelazioni, ma si offre docile ai rari lettori di un diario dimenticato. Raccoglie intuizioni sull'epoca demoniaca avvolte in una nostalgia cupa del mondo di ieri che può apparire fatua soltanto ai fatui, pensieri lucidi di perseguitati che scombinano le interpretazioni ideologiche.
Cominciava l'ultima primavera nella vita di Roth. Ormai anche la sua amata Austria era finita da un anno nella gola del Terzo Reich, dissolto l'Impero danubiano, tramontato il sogno dei popoli federati nella corona degli Habsburg, una dozzina di lingue parlate, di etnie riconosciute per negare gli sciovinismi. Lui aveva risposto all'Anschluss con Die Kapuzinergruft ("La cripta dei cappuccini"), un'orazione funebre per la civiltà europea. Da tempo si accendevano roghi dei suoi libri nei Paesi di lingua tedesca, ma il grande inviato continuava ostinatamente a pubblicare in Olanda o sui periodici dell'emigrazione. Si aggirava per la Francia, senza soldi, senza più editori e prestigiose testate per cui scrivere, consumandosi in estenuanti dialoghi di profughi.
Il 12 marzo c'era stato a San Pietro il solenne rito di inaugurazione del Pontificato di Pio XII e, forse suggestionato anche dalla liturgia e dal simbolismo del triregno che sottolineava la superiorità spirituale dei Papi sui sovrani terreni, Roth pubblica sull'"Österreichische Post", giornale dei monarchici austriaci stampato a Parigi, una considerazione sull'evento romano. L'abile giornalista descrive la fisionomia di Pacelli come se lo vedesse per la prima volta, ma è un artificio retorico per mettersi nei panni dei lettori. A loro racconta di un personaggio maestoso, una figura tra cielo e terra, che sfida i nuovi barbari: "14 marzo. Il nuovo Papa è incoronato, e così comincia in mezzo all'anno un nuovo anno, una nuova decade. A giudicare dalla fisionomia e dalla postura, da asceta e uomo di mondo al contempo, questo papa sembra rappresentare, con uno zelo che ha come caposaldo la rinuncia, e una capacità scontata a rinunciare, uno dei più antichi ideali della Chiesa, lo spirito diplomatico, al quale non può e non deve abdicare mai. La Chiesa romana è una potenza soprannaturale impegnata a dare al mondo regole e norme, comandamenti e proibizioni. Sì, anche proibizioni. Perfino chi non la serve e non fa parte di essa deve poter ascoltare la sua voce. Ed è una delle sciocchezze più scontate pretendere che la Chiesa rimanga "impolitica". L'universalità del cattolicesimo non è solo da intendersi in modo orizzontale, ma - e forse ancora di più - verticale. Quello che lo caratterizza non è solo l'estensione ma anche la spinta verso la profondità. Per sua natura infatti il cattolicesimo mette le radici prima di diffondersi. Non può perdere di vista alcun aspetto della vita. Non la scuola, non la famiglia, non il lavoro, dunque neanche la "politica". In questo senso superiore e generale la Chiesa è eminentemente politica. Le bestie pre-apocalittiche che adesso dominano nella politica già presagiscono i veri motivi per cui perseguitano la Chiesa. Lei è l'unica che le danneggi veramente. E, ancor di più, semmai costoro hanno temuto un Papa, temono questo. E non si limitano a presagirlo, loro sanno già il perché". (Das Journalistische Werk, vol. iii, pp. 904-905).
Un'insolita apologia del cattolicesimo, con il punto di vista di chi è braccato in una fuga senza fine e cerca aiuto nelle antiche istituzioni. Poche righe in cui celebra la diplomazia del Papa che era stato nunzio in Germania, che aveva firmato il Concordato e ben cinquanta note di protesta rivolte al governo nazional-socialista per le sue ripetute violazioni: dunque, lo conosceva bene.
Roth, che da giovane si firmava sui fogli rivoluzionari "der rote Joseph", Joseph il rosso, che ancora nel 1933 sembrava perplesso nei confronti di quel Concordato, si era accostato negli ultimi anni ai legittimisti austriaci nella Parigi degli esiliati, e sembrava riconoscersi in quella monarchia cattolica che gli aveva permesso di essere "contemporaneamente un patriota e un cittadino del mondo", come confessò nella prefazione del suo ultimo romanzo.
Mentre andava in pezzi l'Europa sotto i colpi del nazismo e del comunismo staliniano, mentre la stessa bimillenaria storia ebraico-cristiana sembrava arrivata al termine, lo rincuora "la sonnolenta ma oculata saggezza del crollato impero asburgico, così abile nel sopire quei nazionalismi e terrorismi che ora sembrano impazziti e, più ancora, lo conquista fino alla conversione, il materno realismo condito di metafisica della vecchia Chiesa di Roma" (secondo il ricordo di Chiusano nel centenario della nascita).
Il romanziere Moma Morgenstern, conterraneo galiziano e compagno di esilio a Parigi, nel suo libro di testimonianza Joseph Roths Flucht und Ende (tradotto in italiano da Adelphi: Fuga senza fine, 1995), estremamente critico sulla svolta "cattolica" dell'amico - fu lui a opporsi risolutamente, senza riuscirci, ai funerali con la croce - non poté fare a meno di accennare all'interesse di Roth per la figura di Pio XII, rammentando l'ironia con cui i suoi vecchi sodali del bistrot circondavano lo scrittore per questo desiderio di interloquire con il Papa attraverso i suoi nuovi sostenitori cattolici. In quell'esilio parigino, la marea nazista, che le argomentazioni materia- liste non riuscivano a spiegare, gli appariva come il regime dell'Anticristo, il regno dei demòni. "Ci avviciniamo a grandi catastrofi - scrisse in una lettera allo scrittore Stefan Zweig quando il nazional-socialismo prese il potere - die Hölle regiert" l'inferno comanda. E cominciò a guardare a Roma.
Sull'"Österreichische Post", Roth pubblicava una volta a settimana un "Diario giallo-nero", dai colori asburgici, nel quale tornò più volte sulle questioni cattoliche.
Così qualche giorno dopo l'elezione di Pacelli al soglio di Pietro, polemizzava con i pregiudizi dei marxisti e con la superficialità di molti editorialisti e osservatori delle cose vaticane, che avevano dato per scontato l'"ingresso dei barbari nel conclave", quasi si trattasse di un qualsiasi congresso di partito, per poi rimanere delusi accorgendosi che "gli uomini in nero non portano la camicia nera".
Un uguale imbarazzo notava nei giornali dell'estrema sinistra e in quelli goebbelsiani di fronte al nome del nuovo Papa. Del resto, concludeva con un richiamo al mito di Cadmo, "i denti di drago sono germogliati: hanno seminato rivoluzioni e raccolto croci uncinate e fasci littori". E insistendo sulla generale perplessità dei giornalisti, come in una sospensione del tempo, un incantesimo, scriveva in "latino" parafrasando Eusebio di Cesarea con un gioco di parole benaugurante: "In hoc sogno tacent omnes. In hoc sogno vinces, Pontifex"!
Erano i giorni in cui Roth componeva la Leggenda del santo bevitore, l'ebreo galiziano abituato ai miracoli chassidici si spingeva a fantasticare su un aiuto celeste della petite Thérèse, la santa Teresa di Lisieux nella Parigi dei disperati. Chissà che cosa avrebbe saputo scrivere di agiografico, l'autore della moderna mi- tologia asburgica, sul suo Carlo i, l'ultimo imperatore, portato alla gloria degli altari da Giovanni Paolo II.
Pochi mesi dopo l'omaggio a Pio XII, il cantore della Finis Austriae moriva a Parigi in un ospedale dei poveri, a soli quarantacinque anni. Al suo funerale, tra corone di fiori degli Asburgo e cuscini rossi dei comunisti viennesi, gruppi di monarchici, di cattolici e di ebrei si accapigliarono in un litigio tra esiliati intorno alla bara. Il narratore di personaggi sradicati sembrava ritrovare tante radici.
(©L'Osservatore Romano - 4 marzo 2010)


Storia di Shazia. Novità per aiutare… - 28 FEBBRAIO 2010 – Antonio Socci - Che il Pakistan sia uno dei peggiori “buchi neri” del mondo sembra dimostrarlo anche l’uccisione del nostro eroico agente Pietro Colazzo, vicecapo dell’intelligence in Afghanistan (vedremo dopo perché).

Ne avevo parlato il 31 gennaio scorso su queste colonne, raccontando la storia di Shazia Bashir, la ragazzina cristiana entrata come serva in una casa di ricchi e potenti musulmani e uscita da lì morta.

La sua tragica vita è emblematica della situazione della minoranza cristiana di quel Paese, le cui figlie femmine sono costrette nelle condizioni di Shazia per poter guadagnare la miseria di 12 dollari al mese (8 euro) e far sopravvivere le loro famiglie.


Mi chiedevo perché nessun organismo umanitario o nessun ente cristiano o cattolico avesse lanciato un programma di adozioni a distanza per salvare queste povere bambine dall’orrore di una servitù che comporta spesso ogni tipo di violenza.

Tanti lettori di Libero mi hanno scritto desiderosi di far qualcosa. Oggi finalmente sono in grado di informare che qualcuno – dopo aver conosciuto la tragedia di Shazia – ha trovato il modo di lanciare un primo salvagente.

Non si tratta di organizzazioni femministe inorridite per la condizione delle giovani donne cristiane. E non si tratta neanche dei tanti “progressisti”, no global o robe simili che amano sciacquarsi la bocca con il Terzo mondo, gli immigrati, la solidarietà e via dicendo.

Nossignori. A rimboccarsi le maniche per aiutare queste sventurate ragazzine e le loro famiglie cristiane, che sono i più poveri dei poveri, è l’ “Umanitaria padana onlus” (per avere notizie su internet si veda www.umanitariapadanaonlus.net).

Sì, avete capito bene, un’organizzazione umanitaria nata dal popolo della Lega Nord (precisamente dall’ “Associazione donne padane”). Del resto non c’è troppo da stupirsi se si pensa che il Nord Italia e specialmente la Lombardia hanno letteralmente riempito il mondo di missionari.

L’anima e il motore dell’Umanitaria padana è Sara Fumagalli, una donna straordinaria, ardente di fede cristiana, piena di dinamismo, di coraggio e di umiltà, che ha portato aiuto – anche rischiando fisicamente – negli angoli più disperati del mondo, dal Darfur (in Sudan), all’Etiopia, da Haiti all’Iraq, quindi in Kosovo, in Kenia, Libano, Sri Lanka, in Terra Santa e appunto in Afghanistan.

Ieri Sara mi ha scritto: “Da anni la mia Associazione è venuta in contatto col problema della discriminazione o persecuzione dei Cristiani nel mondo (non solo quello islamico). Noi abbiamo deciso di muoverci sul piano pratico”.

Mi racconta di contatti con il Vescovo di Faisalabad, Monsignor Joseph Coutts, per aiutare i Cristiani perseguitati del Punjab e di borse di studio per alcuni seminaristi pakistani.

“Dopo di allora”, mi racconta Sara “ho mantenuto contatti stabili con il Pakistan attraverso un giovane docente pakistano della Pontificia Università Lateranense, professor Mobeen Shadid, che mi aveva informato anche del caso di Shazia. Mi diceva che capita spesso, anche senza arrivare alla tragedia della piccola, che le famiglie musulmane non restituiscano le bimbe alle famiglie cristiane d’origine e impongano loro conversioni e matrimoni forzati”.

Si pensava – dice Sara – a iniziative di sensibilizzazione sul piano culturale, politico e diplomatico: “La grande idea, bella pratica come piace a me, è arrivata leggendo il tuo articolo. Mi sono subito attivata. Ho chiamato Mobeen e attraverso di lui ho saputo che un suo direttore spirituale, padre Edward Thuraisingham, Oblato di Maria Immacolata, si occupava già di un progetto per garantire un’istruzione e un futuro a bambini cattolici in condizioni a vario titolo disagiate”.

“L’ho subito contattato” prosegue Sara “e così, in una serie di messe a punto successive, è nato il progetto: ‘Borse di studio Shazia Bashir -adotta una bambina con la sua famiglia’. Si tratta di un progetto di sostegno a distanza che consente di far studiare bambine o ragazze di famiglie cristiane povere”.

Ma – attenzione – “l’obiettivo non è solo quello di mandare a scuola le bambine, magari togliendole alla famiglia per mandarle in collegio – cosa che risolverebbe sì il problema della ragazzina, ma non della famiglia – bensì quello di mandarle a scuola facendole continuare a vivere, ogni qualvolta sia possibile, nella loro famiglia”.

Come è possibile? Tramite i missionari. “La gestione di un progetto così è più difficile per il missionario che se ne occupa, ma ha una ricaduta sociale a favore della comunità Cristiana, molto superiore. Il costo per ogni ragazzina adottata è di 500 euro l’anno e comprende la retta scolastica, l’uniforme (fondamentale per evitare differenze), i libri di testo, il materiale didattico e di consumo e un piccolo sostegno alla famiglia (coprendo di fatto il sostentamento della figlia e il mancato guadagno avendola mandata a scuola invece che a lavoro)”.

L’operazione (a cui partecipano anche le “Donne padane”) inizia con 10 borse di studio, ma – aggiunge Sara – “se vediamo che il progetto va bene e se la gente ci aiuta, più avanti si potrà pensare di aumentare il numero delle borse di studio, per riscattare sempre più bambine all’amara condizione di Shazia”.

A giudicare dalle mail che mi sono arrivate saranno certamente tanti a contribuire. A tutti costoro giro un ulteriore chiarimento della Fumagalli: “Mi preme dirti che, com’è nostro costume, l’intera quota di 500 euro andrà a Padre Thuraisingham per le bambine e le loro famiglie, senza perder neppure un centesimo in costi di struttura o propaganda, grazie al fatto che l’associazione vive di solo volontariato e ama fare le cose in piccolo, ma concreto e verace (come piace alla Madonna)”.

Naturalmente sarà difficile vedere e ascoltare in televisione persone straordinarie come Sara Fumagalli (gli eroi del nostro tempo sono altri: Morgan, per esempio, alle cui gesta sono stati dedicati addirittura due talk show di informazione).

Ma sono queste eroiche formichine quelle che cambiano la storia. E da cambiare in Pakistan c’è moltissimo, cominciando dai diritti umani e dalla libertà religiosa come accadde con i Paese dell’Est. Proprio ieri i vescovi pakistani hanno lanciato un appello: “nessuno ci protegge”.

I cristiani sono le prime vittime del fondamentalismo islamico che infierisce su di loro – scrive Avvenire – con “rapimenti, violenze e uccisioni nelle aree sotto l’influenza taeban”.

I vescovi accusano il governo pakistano di lasciare “mano libera ai taleban”, che opprimono i cristiani con la “jazija” (imposta richiesta ai non musulmani sottomessi) e con ogni sorta di violenza.

Inoltre i vescovi chiedono al governo pakistano di abolire le leggi più odiosamente discriminatorie, come quella orrenda sulla blasfemia, e promuovere tolleranza e uguaglianza davanti alla legge.

Un sogno per ora remotissimo. Gli stessi sviluppi giudiziari del “caso Shazia”, per esempio, fanno temere che non sarà fatta giustizia.

Non si creda che il Pakistan sia solo un remoto e insignificante paese del Terzo Mondo. E’ anzitutto una potenza nucleare di 180 milioni di abitanti e ha un ruolo strategicamente decisivo per gli equilibri mondiali.

Nel mio articolo del 31 gennaio scrivevo che un Paese come quello non poteva essere il credibile pilastro dell’Occidente nella lotta al terrorismo islamista. E’ un inquietante buco nero atomico.

Lo fa pensare anche – come dicevo – l’assassinio del nostro agente Pietro Colazzo. Ieri Lucia Annunziata, con un editoriale sulla Stampa intitolato “Sacrificato dai servizi pachistani”, rivelava proprio l’inquietante retroscena che sembra emergere: “l’attacco sarebbe stato ideato e portato a termine non dai taleban, ma dai servizi segreti del Pakistan con lo scopo di inviare un pesante avvertimento all’India”.

Vedremo se ci saranno conferme. Ma intanto aiutiamo le ragazzine come Shazia, giovane martire cristiana. Sarà una piccola luce accesa nelle tenebre. Ma la luce prima o poi vince le tenebre. Sempre.

Antonio Socci
Da “Libero” 28 febbraio 2010


Avvenire.it, 3 Marzo 2010 - IL CASO - Ma dove diavolo è finito Satana?
Avvertenza: faciloni astenersi da lettura. Perché chi pensa che il diavolo non esista dovrebbe rispolverare Charles Baudelaire: «La più grande astuzia del demonio è far credere che egli non esiste». Ma che fine ha fatto il Maligno nella teologia e nella predicazione? Tra gli scaffali Belzebù si è – in maniera variegata – ripresentato. Si trovano testimonianze di chi, per missione, si occupa di spiriti maligni.

Memorie di un esorcista (Piemme) è il nuovo titolo di padre Gabriele Amorth, intervistato da Marco Tosatti. Matt Baglio, cronista americano, ha da poco dato alle stampe Il Rito. Storia vera di un esorcista di oggi (Sperling&Kupfer). Gino Oliosi, esorcista di Verona, ha spiegato Il demonio come essere personale (Fede&Cultura). Io combatto il demonio gli fa eco don Ferruccio Sutto (Biblioteca dell’Immagine). Sutto afferma che in 13 anni ha ricevuto dal Triveneto 9 mila persone «che ritenevano di essere oggetto di attenzioni da parte di Satana».

Recente è l’agghiacciante resoconto A tu per tu con il diavolo. Una famiglia perseguitata dal maligno (San Paolo), opera di due autori anonimi. Più spirituale San Francesco di Sales e la sua lotta contro il diavolo di Gilles Jeanguenin (Paoline). Oggi sono circa 300 gli esorcisti in Italia: al Pontificio Ateneo Regina Apostolurum di Roma vi è un corso per allontanatori del Principe delle tenebre; proprio oggi a Palermo si apre un corso per esorcisti in Sicilia.

C’è chi del demonio si occupa scientificamente. Come padre Moreno Fiori, domenicano, specialista in satanismo, il cui ultimo lavoro è Spiritismo, satanismo, demonologia, edito da Aleph. Ed è Fiori, residente a Cagliari, a dar fuoco alle polveri: «La maggior parte dei libri recenti sulla demonologia non si possano ritenere di rilevante valore scientifico e di indiscutibile incidenza teologica». Come mai? «Molte di queste pubblicazioni sono di carattere divulgativo, con uno scarso apparato critico e una bibliografia spesso abborracciata. In alcuni casi poi, per esempio il teologo specializzato in demonologia Josè Antonio Fortea, redige il suo Trattato di Demonologia più completo al mondo (sic!) senza una nota critica né un riferimento al Magistero o ad opere precedenti. Il Trattato è presentato come un "libro che ci trasporta, in pieno XXI secolo, nell’universo ancestrale della possessione diabolica e ci insegna come affrontare e sconfiggere la parte più tenebrosa della Creazione". Come ritenere un’opera simile un trattato scientifico?».

Ma parlare del diavolo «fa male» alla fede? «Le pubblicazioni divulgative sul diavolo, demoni, possessioni ed esorcismi, possono fuorviare i lettori meno attenti e più semplici dal depositum fidei tramandato dal Magistero. Alcuni scritti contengono affermazioni contrarie alla dottrina della Chiesa: ad esempio la negazione dell’essere personale del diavolo, l’esasperazione del suo potere sull’uomo e nel mondo insinuano, con tale pandemonismo, perniciose credenze superstiziose che ingenerano paure».

Colpa del silenzio dal pulpito? Ovvero: quale prete parla del diavolo in un’omelia? «È vero, non si affronta questo tema che crea imbarazzo. Oppure lo si approccia in maniera retrò, non più consona al nostro tempo».

Don Chino Biscontin, docente di omiletica alla Facoltà teologica del Triveneto, è esplicito nel mettere in guardia da due estremi: «Negare l’esistenza del diavolo a causa della difficoltà postmoderna di pensarlo. Ed evitare una religione dualista per cui vi è una divinità maggiore, Dio, e una minore, il diavolo, con la sua autonomia. E invece il maligno, dopo la resurrezione di Cristo, non possiede l’autonomia di prima». Ma perché parlare di più del Maligno? «Per un guadagno: si possono sgravare le spalle degli uomini dalla responsabilità del male del mondo». Don Biscontin suggerisce un’idea: «Nell’iter teologico di formazione dei futuri preti l’insegnamento sul diavolo andrebbe reso autonomo, mentre oggi è inserito nell’antropologia teologica. Così i predicatori di domani eviteranno di dire fesserie». Ma in una predica come spiegare che il diavolo opera? «Quando si sente di adulti che schiavizzano i bambini come soldati in Africa, se si pensa alla violenza gratuita della guerra nei Balcani, in questo vedo il diavolo in azione come una forza più grande degli uomini».

Don Severino Dianich, tra i più noti teologi italiani, evidenza che «a livello teologico oggi la presentazione sul diavolo è corretta. Invece è squilibrata nell’opinione pubblica, dove tale interesse è cresciuto molto: esorcismi, esoterismo e mistero aggrovigliano molte persone, e questo è un serio problema». Dianich boccia l’ipotesi di corsi teologici ad hoc sul diavolo: «Si darebbe un’importanza sproporzionata a questo tema». Secondo don Dianich sono due le necessità impellenti: «Un’interpretazione teologica che butti acqua sul fuoco: bisogna parlare più di Dio che in Cristo ci ha liberati dal diavolo». E poi? «È necessaria una certa critica a questa tendenza esoterica, che alla fine è un dato gnostico: rappresenta un allontanamento dalla cristologia storica del fatto-Gesù».
Lorenzo Fazzini


ELEZIONI/ 1. Formigoni escluso. Onida: cosa fuori dal mondo. Baldassarre: ora un decreto - INT. Valerio Onida, Antonio Baldassarre - giovedì 4 marzo 2010 – ilsussidiario.net
La batosta è arrivata ieri, nel tardo pomeriggio: le Corti d’Appello hanno respinto i ricorsi, e le liste di Formigoni e della Polverini sono fuori dalla competizione elettorale. L’autenticazione delle firme - ha detto l’Ufficio centrale elettorale della Corte d’Appello di Milano, respingendo il ricorso di Formigoni - «deve essere compiuta con le modalità previste dalle normative specifiche». Con l’aggravante secondo i giudici che non sarebbe più, com’era fino a ieri, solo questione di timbri, ma anche di firme non valide, che quindi andrebbero a peggiorare la situazione del governatore. Soprattutto in vista di un ricorso al Tar.
È accanimento giudiziario? Di sicuro un po’ di zelo formale c’è stato, ma l’inettitudine politica dei presentatori ha dato una buona mano ai giudici. O, per dirla con le parole di Bossi: «Sono dilettanti allo sbaraglio».
Nel caos del dopo-decisioni si è fatto sentire il ministro Calderoli. «Serve subito una risposta politica ai furbi che cercano vittorie a tavolino» ha detto il ministro per la Semplificazione. E qui arrivano i problemi, che fanno apparire la strada tutta in salita. Perché sì, una soluzione politica è possibile: si chiama decreto legge. Un decreto legge in materia elettorale a gioco iniziato, cioè piena campagna elettorale, che riapra i termini per la raccolta delle firme, consentendo a tutti di mettersi in regola. Apparentemente non fa una piega, ma Antonio Baldassarre, ex presidente della Consulta, non è di questo avviso. «Richiederebbe un accordo di tutte le forze, maggioranza e opposizione - dice Baldassarre a ilsussidiario.net -, perché si tratta di cambiare delle regole in corsa». E se l’opposizione non fosse d’accordo? «Ci sarebbe soltanto un piccolo ostacolo - dice ironicamente Baldassarre -: la firma del Presidente della Repubblica. Non credo che Napolitano firmerebbe, in mancanza di un accordo tra le forze politiche, almeno le principali».
Sulla strada del Tar si concentra un altro costituzionalista, Valerio Onida. È sorpreso, molto sorpreso il professore, quando lo raggiungiamo al telefono. «Francamente, la storia delle firme mi sembra una cosa fuori dal mondo. Ho visto l’esposto dei Radicali e la prima deliberazione dell’Ufficio centrale regionale. L’idea che i timbri, o la mancanza di indicazione del luogo possano viziare l’ammissibilità di una lista, mi sembra molto fragile».
Eppure, la legge prevede delle modalità ben precise per la raccolta e la presentazione delle firme, obiettiamo. Queste modalità, hanno detto ieri i giudici, «costituiscono il minimo essenziale per assicurare la certezza della provenienza della sottoscrizione dal soggetto che figura averla apposta». «Ma qui bisogna distinguere tra formalità essenziali e formalità irrilevanti -ribatte Onida -. Se devo presentare mille firme ma arrivo con 999, sbaglio, ma irregolarità su timbri e certificazione dei luoghi in cui l’autenticazione è avvenuta non dovrebbero portare ad escludere la lista, al massimo ad una sua regolarizzazione».
Chiediamo a Onida una valutazione più di fondo. È immaginabile una competizione elettorale monca, senza il partito di maggioranza relativa, solo perché hanno vinto i formalismi insomma?
«Astrattamente parlando l’elezione è sempre una competizione aperta - risponde l’ex presidente della Corte costituzionale -, quindi se una lista non c’è, gli elettori possono o astenersi o non andare a votare. Altrimenti vorrebbe dire che un partito, perché ha la maggioranza, ha diritto più degli altri di partecipare alle elezioni. Farei un altro ragionamento: siccome le regole - continua Onida - sono fatte per garantire la sostanza della democrazia, quindi non solo che il partito di maggioranza relativa ma che tutti i partiti possano partecipare ad una particolare competizione elettorale, fermarsi a formalismi come l’assenza o la differenza di un timbro, mi sembra francamente eccessivo».
L’alternativa alla soluzione politica tramite decreto, è dunque quella di percorrere fino in fondo la strada della soluzione giuridica, con il ricorso al Tar. E l’altro ieri, tra la prima e la seconda decisione dell’Ufficio di Corte d’Appello, Formigoni si è fatto forte di passate sentenze del Consiglio di Stato che su casi analoghi e controversi in materia elettorale gli darebbero ragione. Ma anche la via del Tar, per Onida, non è esente da incognite. «Sì, in altre ipotesi di questo genere si è fatto ricorso prima al Tar e poi al Consiglio di Stato. Il problema però è che c’è una tesi del Consiglio per cui non si possono fare ricorsi prima delle elezioni, ma solo dopo; con l’eventualità di annullare ex post la consultazione elettorale». Si spieghi, professore.
«Se a posteriori risultasse che l’esclusione di una lista che doveva esser ammessa è stata illegittima, oppure che l’inclusione di una lista che doveva esser esclusa è stata anch’essa illegittima, si annullano le elezioni. Però questa tesi del Consiglio di Stato mi lascia un po’ perplesso. Non è un giudice che ha deciso nell’Ufficio centrale regionale di Corte d’Appello per la non ammissibilità di Formigoni o Polverini. Infatti questi uffici elettorali sono stati considerati dalla Corte costituzionale come organismi che fanno un’attività puramente amministrativa, e la stessa Corte ha escluso che possano sollevare questioni di costituzionalità. Per farla breve: se ha ragione il Consiglio di Stato, manca la possibilità di ricorrere ad un vero giudice prima delle elezioni».
Una soluzione alternativa però ci sarebbe: il rinvio. «Capisco invece - dice ancora Onida al sussidiario - che si possa arrivare a rinviare le elezioni per consentire, a seguito dei vari ricorsi, di chiarire la situazione. C’è un caso analogo. In occasione delle elezioni regionali del Trentino Alto Adige del 2008, è stata prima esclusa, poi ammessa dal Tar e poi esclusa nuovamente dal Consiglio di Stato la lista Udc. L’ufficio circoscrizionale aveva dichiarato l’invalidità della lista Udc, per motivi molto simili a quelli che hanno penalizzato la lista di Formigoni. L’Udc aveva fatto ricorso al Tar il 30 settembre, e il Tar prima in via cautelare e poi con sentenza di merito il 10 ottobre aveva accolto il ricorso e riammesso la lista. Ma il 17 ottobre il Consiglio di Stato ha sospeso l’efficacia della sentenza del Tar, escludendo nuovamente la lista. Però nel frattempo sono state rinviate le elezioni, perché non c’era più il termine per gli adempimenti elettorali. Anche nel nostro caso un epilogo sensato potrebbe essere il rinvio».
Serve una tregua, diceva ieri a ilsussidiario.net Stefano Folli, negoziata possibilmente in Parlamento. Non solo. «Servirebbe anche - conclude Baldassarre - un esame di coscienza della maggioranza».


Avvenire.it, 4 Marzo 2010 - Matteo Ricci tomista alla cinese, di S.E. Camillo Ruini
Matteo Ricci è giustamente ritenuto un genio dell’inculturazione del cristianesimo – e in concreto del cattolicesimo – in un Paese e in una civiltà estremamente diversi da quelli nei quali il cattolicesimo aveva allora il suo baricentro, e più ampiamente da quelli in precedenza penetrati dal cristianesimo. Si può aggiungere che la «strategia dell’inculturazione» adottata da Matteo Ricci risentì certamente delle condizioni imposte dall’autosufficienza del mondo cinese e dalla sua diffidenza nei confronti degli stranieri. Il genio di Ricci seppe accogliere quelle condizioni e volgerle al servizio della missione.

Molto peso viene attribuito, giustamente, alle parole da lui scelte per esprimere in quel linguaggio così diverso i concetti portanti della nostra fede, a cominciare dalla parola «Dio», che egli ha reso con Tian zhu – «Signore del Cielo» –, o anche con Shang» – «Sovrano dall’Alto» –: una scelta coraggiosa, anche perché esposta «ad un’ampia gamma di fraintendimenti», come osserva Alessandra Chiricosta nella sua approfondita introduzione all’edizione italiana dell’opera di Ricci Il vero significato del «Signore del Cielo» (Urbaniana University press).

Leggendo però tale opera, si può constatare che Matteo Ricci spiega con chiarezza il concetto cristiano dell’unico Dio, così come era formulato e argomentato nella teologia scolastica del suo tempo, superando in tal modo il rischio di fraintendimenti o interpretazioni riduttive e fuorvianti. Inoltre Ricci aggiunge, ad evitare ogni equivoco: «Ora questo Qualcuno non è altri che il Signore del Cielo, che le nostre nazioni occidentali chiamano Deus».

È anche molto interessante che egli precisi espressamente che, nell’esporre i principi degli insegnamenti del Signore del Cielo, la sua «spiegazione sarà basata sulla sola razionalità». Ciò sebbene egli faccia menzione degli «scritti canonici» in cui questa dottrina è contenuta «in modo tale da non lasciar adito a dubbi». Questa scelta di basarsi sulla sola razionalità, oltre alle ben note e giustamente sottolineate motivazioni legate all’ambiente culturale in cui Matteo Ricci intendeva penetrare, mi sembra non sia senza rapporti con la teologia nella quale egli si era formato, una teologia che tendeva ad «indurire» la puntuale distinzione di san Tommaso tra ragione e fede.
In particolare riguardo alla conoscenza di Dio, la via della ragione viene concepita come del tutto evidente e apodittica, ciò che poteva corrispondere al clima culturale di allora ma nel nostro tempo sarebbe difficilmente sostenibile.

Perciò oggi, senza rinunciare all’argomentazione razionale nell’approccio a Dio, è sottolineata anche l’importanza delle nostre disposizioni morali e scelte esistenziali, quindi il ruolo della nostra libertà. Così la via della ragione e quella della fede, pur rimanendo ben distinte, risultano meno dissimili e più vicine l’una all’altra.

La decisione di procedere basandosi soltanto sulla razionalità offre a Ricci una giustificazione teologica per la scelta, dettata anch’essa anzitutto dalle sue finalità di «strategia» missionaria e culturale, di ridurre al minimo il riferimento esplicito a Gesù Cristo. Soltanto nell’ultimo capitolo di <+corsivo>Il vero significato del «Signore del Cielo»<+tondo> si trova infatti una breve «spiegazione» della ragione per la quale il Signore del Cielo è nato in Occidente, senza però far menzione delle tre Persone della Trinità e dell’incarnazione specificamente del Figlio e senza accennare in alcun modo alla sua croce e alla sua morte.

Specialmente qui appare con grande chiarezza che l’intenzione e il metodo missionari di Matteo Ricci erano contrassegnati dalla gradualità, ossia da una sorta di «pedagogia», che in qualche modo poteva richiamarsi alla «pedagogia» che presiede allo sviluppo della rivelazione attraverso l’Antico e il Nuovo Testamento. Non è pensabile, infatti, che un missionario innamorato di Cristo e convinto che solo in lui, nella sua passione, morte e risurrezione, si è aperta la strada per la salvezza dell’umanità, potesse concepire il silenzio sulla Trinità e sulla croce se non come provvisorio. Fin dall’inizio, del resto, Matteo Ricci ha insegnato le verità della fede cristiana attraverso sussidi e catechismi in lingua cinese redatti per i catecumeni e i battezzati.

Matteo Ricci si è ampiamente servito delle sue conoscenze scientifiche e tecnologiche – ancora «pre-galileiane» ma già permeate da un nuovo spirito – per accreditarsi culturalmente nell’universo culturale cinese. Oggi le scienze e le tecnologie sono diventate il più potente fattore di globalizzazione e di unificazione del mondo e le loro conquiste vengono trasmesse in tempo reale dall’una all’altra parte della terra. È profondamente cambiato, però, il modo stesso di concepire la ragione e la razionalità: alla verità come adeguamento alla realtà, nel quale tutti devono ritrovarsi, è largamente subentrata l’idea di una verità soltanto «operativa», intesa come ciò che è possibile fare e realizzare, in particolare attraverso la razionalità scientifica e tecnologica.

Vi è poco spazio, invece, per una verità oggettiva in tutti quei campi che la razionalità scientifico-tecnologica – per i suoi intrinseci limiti metodologici – lascia scoperti: tra questi in particolare i grandi interrogativi sul senso e la direzione della nostra vita e dell’intera realtà. In queste materie ciò che sembra importante sono piuttosto le preferenze personali dei singoli e, quando si tratta di decisioni comuni e vincolanti, l’opinione della maggioranza. Questo relativismo, che oggi cerca di penetrare anche dentro la fede e la teologia, è forse il problema più grande della nostra epoca.

Nello studio delle culture e delle religioni l’attuale relativismo si esprime nei procedimenti rigorosamente a-valutativi, che interdicono di istituire confronti di valore tra le diverse culture e religioni e si limitano a descrivere e inquadrare concettualmente le loro parentele, analogie e differenze. In questa prospettiva ogni rivendicazione di verità e di valenza salvifica del cristianesimo diventa improponibile e quindi la missione cristiana perde la sua intrinseca giustificazione e ragion d’essere: semmai dovrebbe limitarsi a un aiuto umanitario, senza la finalità di convertire al cristianesimo. Siamo lontanissimi dall’approccio di Matteo Ricci che, nella sua opera culturale-missionaria, faceva leva proprio sulla verità e capacità salvifica di ciò che andava proponendo.
Camillo Ruini


È l’aborto l’ossessione delle Nazioni Unite - di Elena Molinari – Avvenire, 4 marzo 2010
L’uguaglianza fra i sessi come chiave per lo sviluppo e per il raggiungimento degli Obiettivi del Millennio. È il punto di partenza della 54esima Commissione sulla condizione delle donne, in corso al Palazzo di Vetro di New York fino al 12 marzo. La Conferenza si propone anche di misurare il raggiungimento degli obiettivi posti alla Conferenza di Pechino sulle donne 15 anni fa, soprattutto su un punto: la salute riproduttiva delle donne.

Ma se l’obiettivo di ridurre la mortalità materna e infantile e di promuovere l’istruzione e la dignità delle donne è condiviso universalmente, i mezzi promossi dalla Conferenza dell’Onu e il linguaggio usato nei documenti ufficiali hanno suscitato l’allarme di molte associazioni per la vita. Prima ancora di aprire le porte ai delegati governativi e alle ong di tutto il mondo, infatti, la Conferenza ha steso un «programma d’azione» che introduce una nuova strategia. Come si legge in un documento introduttivo della Conferenza, l’accento dei vari gruppi di lavoro deve essere posto su come «enfatizzare il collegamento fra popolazione e sviluppo, e concentrarsi sull’accesso ai servizi riproduttivi come mezzo di pianificazione familiare e di controllo demografico». In quest’ottica, scopo della Commissione è di «rendere la pianificazione familiare universalmente disponibile entro il 2015».

Il timore delle organizzazioni di difesa della vita è che questo linguaggio miri a spingere l’aborto come strumento di controllo delle nascite e di protezione della salute femminile, lasciando poca o nessuna scelta ai singoli governi. «Negli ultimi 15 anni abbiamo visto un progresso limitato nel cammino della salute riproduttiva – ha detto in apertura di lavori Asha-Rose Migiro, vice segretario generale delle Nazioni Unite –: la mortalità materna resta troppo alta.
Questo non è accettabile. Quasi tutte queste morti potrebbero essere prevenute. È ora di passare all’azione e di indurre tutti i governi a riconoscere il diritto di ogni individuo alla salute riproduttiva».
Thoraya Ahmed Obai, direttore esecutivo del Fondo per la popolazione delle Nazioni Unite, è stata più specifica: «Più di mezzo milione di donne muore per cause connesse alla gravidanza e al parto ogni anno – ha detto – e il 13 per cento
GLOSSARIO Conferenza Onu di Pechino Nel 1995 si svolse in Cina la Quarta Conferenza mondiale sui diritti delle donne, al termine della quale fu varata una piattaforma d’azione che comprendeva 12 ambiti, tra cui la povertà, l’istruzione e la salute.

di questi decessi è dovuto ad aborti non sicuri. In zone dell’Africa sub sahariana questa percentuale sale al 30, persino 40 per cento. L’accesso universale alla salute riproduttiva, compresa la pianificazione familiare, accelererebbe il processo verso gli Obiettivi del Millennio». Inoltre, ha aggiunto, le scelte riproduttive potrebbero influenzare le dinamiche della crescita della popolazione. A dire della Obai, infatti, le «sfide poste dalla pressione demografica non hanno precedenti ed esigono risposte forti».

Fra queste, quella della pianificazione familiare a livelli governativo, che prevede di «rivitalizzare i programmi per la salute riproduttiva a aumentare il numero di donne e di coppie che scelgono il numero e la distanza di nascita fra i loro figli». Una novità introdotta dalla Conferenza è dunque una rinnovata enfasi sul collegamento fra l’obiettivo numero 5 stabilito alla svolta del Millennio: migliorare la salute materna, e i dati sulla crescita delle popolazione mondiale.

Fra i primi atti del comitato organizzativo della Conferenza sulla condizione femminile c’è inoltre stato un appello agli Stati membri affinché «migliorino l’accesso ai servizi di pianificazione familiare, compreso un rafforzamento degli sforzi per aumentare la conoscenza e l’accesso a metodi contraccettivi di basso costo». Un obiettivo abbracciato, nei giorni scorsi, dalla sottosegretaria argentina per l’Uguaglianza dell’Istruzione, Mara Brawer, che ha fatto dell’accesso alla «salute riproduttiva» uno degli obiettivi del suo mandato. Fra i risultati che ha portato alla Conferenza di New York ha citato la diffusione dell’uso di preservativi all’85 per cento della popolazione argentina sessualmente attiva. Il Comitato ha anche richiamato «con urgenza» i governi nazionali a promuovere l’uso dei «metodi di contraccezione d’emergenza», come la pillola del giorno dopo, e a promuovere un’educazione sessuale che ponga particolare attenzione «alla prevenzione delle gravidanze premature e del controllo delle malattie trasmesse sessualmente, compreso l’Hiv-Aids».


ricerche - Bimbi terminali: terapia del dolore, non eutanasia – Avvenire, 4 marzo 2010
Un’importante rivista medica riporta uno studio intitolato: «Considerazioni fatte dai genitori di bambini in fin di vita per cancro, sull’affrettarne la morte» e subito si pensa: «La gente vuole l’eutanasia».
In realtà, lo studio dice ben altro, ma dobbiamo fare un passo indietro per capirlo. Quale genitore, al vedere il proprio figlio che non trova per ore e giorni requie al suo dolore non spera che, se non c’è altra strada, il figlio muoia? È comprensibile. Ma attenzione: i genitori sono più inclini a chiedere di affrettare la morte se c’è dolore gravissimo – scrivono gli autori dello studio – piuttosto che se il bimbo è in coma e quelli che reclamano un miglior trattamento del dolore sono il doppio di quelli che sono portati a chiederne la morte. Questo è già un punto interessante: non si chiede di metter fine a una «vita non degna di essere vissuta» – come argomenta qualche fautore dell’eutanasia di chi ha incoscienza e mancanza di autodeterminazione –, ma di far cessare il dolore.

Ma se è comprensibile la richiesta di morte, la risposta non è mai l’eutanasia, non solo per motivi morali, ma anche perché un’altra strada c’è: il buon uso dei farmaci contro il dolore. Gli autori scrivono infatti a conclusione dello studio: «L’attenzione verso il dolore e la sofferenza e verso il loro trattamento possono mitigare tra i genitori di bambini con cancro le idee sull’affrettarne la morte».
Insomma, si chiede la morte solo se non si sa o non si vede che il dolore può essere curato. Ma talora non abbiamo buoni esempi. Un nostro recente studio mostrava come un’alta percentuale di reparti di rianimazione per neonati troppo spesso non usa abbastanza analgesia. E anche all’estero la situazione è simile. Un’altra nostra analisi in via di pubblicazione mostra addirittura come quasi non esistano studi per la cura del dolore specificamente indirizzati ai pazienti disabili mentali, nei quali la semplice vista di un ago, di un camice, o una puntura può determinare reazioni gravi.

Dunque bisogna curare il dolore; e conoscerlo bene per non ingannarsi. Esistono strumenti talora raffinati, come il dosaggio di ormoni nella saliva o tabelle studiate per anni: la valutazione estemporanea fatta da parenti o medici non è tante volte attendibile, un dolore insopportabile viene sottovalutato e uno che il paziente riesce a dominare genera angoscia in chi vede e sembra intollerabile.
Ma la vita di una persona non può dipendere dalla fatica di un’altra, sia pure un genitore che può risentire della propria ansia e paure.
Non curare e non riconoscere oggettivamente il dolore e passare a pensieri di morte può essere 'comprensibile', ma non è 'razionale'. Ma se si tratta di trovare scorciatoie, la nostra società è all’avanguardia, certo più che nella lotta al dolore. Perché è più facile far accomodare all’uscio dell’eutanasia un anziano che impegnarsi in un cammino sia medico contro la depressione che sociale contro la solitudine. È più facile lasciare che i genitori che vedono il figlio soffrire ne chiedano la morte, piuttosto che insistere per un corretto trattamento che ci coinvolge con il paziente e la sua famiglia, non ci lascia 'indenni' dal contatto con chi soffre. Viviamo in una società delle scorciatoie: vale per il dolore fisico così come per quello psicologico. Vogliamo provare a creare una società della solidarietà?
Carlo Bellieni



puntini fermi - Legge 40, un argine necessario di Michele Aramini – La fecondazione in vitro resta un atto moralmente illecito Ma sul piano legislativo, dove va cercata la necessaria tutela di beni essenziali, la norma è un compromesso che salvaguarda la vita nascente - Avvenire, 4 marzo 2010

Alcuni lettori mi hanno rimproverato di difendere la legge 40 sulla fecondazione artificiale, quando è noto che tale metodica è moralmente inaccettabile.
Mi è stato fatto osservare che il Magistero della Chiesa ha preso una posizione chiaramente contraria alla fecondazione artificiale, che per ogni bambino in braccio viene sacrificato un considerevole numero di embrioni, che la magistratura e le associazioni di orientamento libertario vogliono demolire la legge 40 per allargarne oltre misura le maglie, fino ad eliminarne i punti qualificanti.
È evidente che queste osservazioni, in se stese corrette, possono essere usate in modo errato quando si confondono i piani della morale e del diritto.
I fedeli più attenti sanno bene che sul piano morale il Magistero della Chiesa ha autorevolmente chiarito quali valori universali (e non solo cattolici) vengano violati dalle tecniche di fecondazione artificiali: la vita di molti embrioni, il diritto dei figli a nascere dentro alla famiglia, il valore della generazione umana, che non permette di ridurre l’uomo a un oggetto prodotto in laboratorio.
L’insegnamento del Magistero è chiarissimo nelle sue argomentazioni e nelle sue istruzioni: la fecondazione artificiale è illecita. Purtroppo queste motivazioni non sono chiare a molti altri cattolici, che ritengono erroneamente che la fecondazione artificiale omologa sia considerata lecita dalla Chiesa.
Su di un piano diverso si pone però la questione della legge 40. In questo caso non siamo più nel campo della sola dottrina morale, ma nell’ambito di una legge civile, elaborata con il concorso di forze politiche le cui posizioni ideali e morali erano, e sono, molto lontane. A questo proposito si sa che i cattolici, in particolare i parlamentari, hanno l’obbligo di contrastare le leggi inique, quindi debbono votare contro una legge che introducesse l’aborto o che lo facilitasse ulteriormente.

La valutazione morale della legge 40 deve essere particolarmente attenta, considerando il modo con cui essa agisce nella società, perché con essa non si sono introdotti disvalori, ma valori. Infatti prima dell’entrata in vigore della legge eravamo in una condizione di grave violazione di tutti i principali principi morali relativi alla generazione. La legge 40, per l’apporto determinante di molti cattolici, ha introdotto norme protettive della vita degli embrioni e del diritto del figlio a nascere in una famiglia. Si è passati perciò da una condizione di nessuna protezione della persona e dei diritti dei figli a una situazione di protezione per quanto incompleta.

Durante l’iter legislativo si ebbe anche l’autorevole incoraggiamento di Giovanni Paolo II che, rivolgendosi il 22 maggio 2003 ai membri del Movimento per la Vita italiano, disse: «Consapevoli della necessità di una legge che difenda i diritti dei figli concepiti, come Movimento vi siete impegnati di ottenere dal Parlamento italiano una norma rispettosa, il più concretamente possibile, dei diritti del bambino non ancora nato, anche se concepito con metodiche artificiali di per sé moralmente inaccettabili. Colgo l’occasione per auspicare che si concluda rapidamente l’iter legislativo in corso e si tenga conto del principio che tra i desideri degli adulti e i diritti dei bambini ogni decisione va misurata sull’interesse dei secondi». È chiaro che si può sempre discutere se si sia riusciti ad ottenere il miglior risultato possibile, ma non si può negare che qualche buon risultato sia stato ottenuto dalla legge 40.
L’ultima considerazione vorrei dedicarla all’impegno futuro. Ritengo prioritario fronteggiare attentamente la subdola strategia messa in atto da più parti contro la legge 40, per vanificarla nei suoi punti qualificanti di difesa della vita e della dignità del figlio. Perciò è importante che dal punto di vista sociale, giuridico e politico si uniscano gli sforzi di tutti i cattolici e degli uomini di buona volontà per contrastare modificazioni peggiorative della legge 40, anche quelle attuate con sentenze dei tribunali. Accanto a questo sforzo, occorre svolgere quello educativo morale e lavorare per far crescere la coscienza che la fecondazione artificiale non è via corretta per la nascita della persona umana.


eugenetica - Sindrome Klinefelter: le madri informate scelgono per la vita – Avvenire, 4 marzo 2010
Non sono solo i feti con sindrome di Down a essere abortiti in mas sa. C’è un’altra anoma lia cromosomica che spaventa i genitori, pur essendo del tutto compatibile con la vita: è la sindrome di Kli nefelter, che colpisce un nato maschio ogni 5/600. Il 25% dei feti che in seguito all’indagine geneti­ca vengono diagnosticati come Klinefelter – han no un cromosoma in più nella coppia di cromo somi sessuali –, vengono abortiti: una percentua le altissima, ma niente se paragonata al 70% del l’Europa del Nord. «Eppure – assicura Carlo Fore sta, professore all’Università di Padova e direttore di un gruppo di studio sulla sindrome – le conse guenze per chi ne è affetto sono nella maggior par te dei casi trascurabili: fianchi larghi, maggiore al­tezza, testicoli di volume ridotto, ingrossamento delle ghiandole mammarie...». La scorsa settima na 500 medici tra pediatri, genetisti, endocrinologi, andrologi e ginecologi si sono riuniti ad Abano per fare il punto sulla diagnosi e sulla 'gestione' del la sindrome, che è classificata tra le malattie rare.
Professor Foresta, lei dice che la sindrome di Klinefelter non impatta in maniera drammatica sulla vita di chi ne è affetto. E allora perché un feto diagnosticato su 4 viene abortito?
« Ci sono studi che dimostrano come la scelta della coppia di far nascere un Klinefelter o di a bortire è strettamente collegata con la profes­sionalità e con la specializzazione del medico che fa counselling. Bisogna essere preparati e sa pere quali sono veramente le manifestazioni cli niche di questa sindrome, che nella maggior par te dei casi sono sfumate. Sappiamo che in Italia vivono 60 mila Klinefelter, ma solo 1 su 4 è con­sapevole di soffrirne».
Dunque, se si spiega bene di cosa soffrirà il fi glio non ancora nato, ci sono buone probabi lità che la coppia decida di non abortire?
«Sì, in questo caso la coppia fa nascere il bambi no. A me capita di frequente di essere consultato da coppie che hanno saputo di attendere un figlio affetto da sindrome di Klinefelter: negli ultimi 2 anni ho parlato almeno con 15 coppie. Nessuna ha abortito».
Dunque è possibile ipotizzare che nel caso di Na poli che l’anno scorso ha sollevato tanto cla more (una donna si è avvalsa della 194 per in­terrompere la gravidanza di un bambino porta tore della sindrome e l’ospedale è stato denun ciato), la madre non avesse ricevuto informa­zioni adeguate?
«È possibile. Comunque, quel caso ha sollevato il coperchio sulla sindrome e ha fatto capire a che non c’è nessuna motivazione per abortire».
La sindrome però comporta anche l’infertilità maschile. Su questo fronte esistono cure?
«Ad Abano abbiamo convenuto che non è vero che i Klinefelter non abbiano nessuna possibilità di procreare. Nel 47% dei casi è possibile recupe rare spermatozoi nel liquido seminale o all’inter no dei testicoli. Le tecniche legate alla procreazio ne assistita fanno il resto».
Antonella Mariani