giovedì 11 marzo 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) BENEDETTO XVI: LA TEOLOGIA DELLA STORIA IN SAN BONAVENTURA DA BAGNOREGIO - Catechesi all'Udienza generale del mercoledì
2) In Italia avanza l’eutanasia? - Nutrizione e idratazione potranno essere sospese se ritenute inefficaci
3) Avvenire.it, 10 Marzo 2010 – Cure palliative - Buon testo, da applicare bene - Una rete di norme e solidarietà per sostenerci
4) Avvenire.it, 9 Marzo 2010 - Cure palliative cosa prevede la legge - Regole meno macchinose per l'accesso ai farmaci antidolore e maggiore attenzione alle strutture sul territorio. Sono alcuni dei punti della legge sulle cure palliative approvata definitivamente alla Camera.
5) Edith Stein dalla fenomenologia husserliana al lager di Auschwitz-Birkenau - Dio mi ha liberata da una vita deprimente - di Claudio Toscani - L'Osservatore Romano - 10 marzo 2010
6) Avvenire.it, 10 marzo 2010 - Ignorata anche la Convenzione sui diritti del fanciullo - Il no al crocifisso: l’impossibile pretesa di educare in un vuoto culturale
7) 10/03/2010 - ISLAM - Una Fatwa contro le giustificazioni religiose del terrorismo islamico - di Samir Khalil Samir - Il volume di 600 pagine del prof. Tahir ul-Quadri contro la violenza, apre una stagione nuova nel mondo islamico. Come il papa a Regensburg, egli afferma che Dio è Ragione ed è contro la violenza. Occorre ora un movimento di popolo che purifichi il volto sfigurato dell’islam.
8) "Sapere il mistero" di Inos Biffi - La nostalgia delle certezze intramontabili - Nell'ambito del progetto di pubblicazione dell'Opera omnia di Inos Biffi è uscito il volume Sapere il mistero. Il mistero di Cristo (Milano, Jaca Book, 2010, tomo i, pagine 506, euro 56). Ne ha scritto per "L'Osservatore Romano" il cardinale arcivescovo emerito di Bologna. - di Giacomo Biffi - L'Osservatore Romano - 11 marzo 2010
9) Se 500 cristiani macellati non fanno notizia - Antonio Socci - Da Libero, 9 marzo 2010 - Sui mass media la censura delle persecuzioni contro i cristiani continua in modi nuovi. E non parlo solo delle persecuzioni dei regimi comunisti o di quelli islamici.
10) Introvigne al convegno vaticano: Le vere cause della crisi del sacerdozio - Oggi 11 marzo si apre a Roma il convegno della Congregazione per il Clero sull'Anno Sacerdotale. Il 12 marzo è previsto l'intervento del Santo Padre Benedetto XVI. Trascrivo la mia relazione nella sintesi che è consegnata ai giornalisti (sufficiente ai non specialisti) e a seguire nel testo completo
11) Harvard ha paura di Dio - Lorenzo Albacete - giovedì 11 marzo 2010 – ilsussidiario.net
12) Avvenire.it, 11 Marzo 2010 - I profilattici «lezione» sbagliata in un liceo di Roma - Che a scuola trovi spazio la «disciplina dei sentimenti» - Paola Ricci Sindoni
13) Avvenire.it, 11 Marzo 2010 - La vita rallenta. E apre la strada di una grande semplice saggezza - Quel bianco che scende dal cielo c'insegna ancora l'imprevisto - Davide Rondoni
14) Per la Ru486 sette settimane possono bastare – Avvenire, 11 marzo 2010
15) «Diagnosi preimpianto? È contro la Costituzione» - Mentre si attende un nuovo pronunciamento della Consulta sulla legge 40 il giurista Filippo Vari ricorda i princìpi che nella nostra Carta fondamentale portano a escludere senza ombra di dubbio la possibilità di scartare vite umane «difettose» per ottenerne una (forse) sana: «In tutte le sedi giurisdizionali è sempre stata esclusa la selezione eugenetica» - di Ilaria Nava – Avvenire, 11 marzo 2010
16) Olanda, dopo i 70 anni «suicidio di Stato»? - di Lorenzo Schoepflin – Avvenire, 11 marzo 2010


BENEDETTO XVI: LA TEOLOGIA DELLA STORIA IN SAN BONAVENTURA DA BAGNOREGIO - Catechesi all'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 10 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale nell'aula Paolo VI, dove ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando il ciclo di catechesi sulla cultura cristiana nel Medioevo, si è soffermato ancora sulla figura di San Bonaventura da Bagnoregio.


* * *
Cari fratelli e sorelle,
la scorsa settimana ho parlato della vita e della personalità di san Bonaventura da Bagnoregio. Questa mattina vorrei proseguirne la presentazione, soffermandomi su una parte della sua opera letteraria e della sua dottrina.
Come già dicevo, san Bonaventura, tra i vari meriti, ha avuto quello di interpretare autenticamente e fedelmente la figura di san Francesco d’Assisi, da lui venerato e studiato con grande amore. In particolar modo, ai tempi di san Bonaventura una corrente di Frati minori, detti "spirituali", sosteneva che con san Francesco era stata inaugurata una fase totalmente nuova della storia, sarebbe apparso il "Vangelo eterno", del quale parla l’Apocalisse, che sostituiva il Nuovo Testamento. Questo gruppo affermava che la Chiesa aveva ormai esaurito il proprio ruolo storico, e al suo posto subentrava una comunità carismatica di uomini liberi guidati interiormente dallo Spirito, cioè i "Francescani spirituali". Alla base delle idee di tale gruppo vi erano gli scritti di un abate cistercense, Gioacchino da Fiore, morto nel 1202. Nelle sue opere, egli affermava un ritmo trinitario della storia. Considerava l’Antico Testamento come età del Padre, seguita dal tempo del Figlio, il tempo della Chiesa. Vi sarebbe stata ancora da aspettare la terza età, quella dello Spirito Santo. Tutta la storia andava così interpretata come una storia di progresso: dalla severità dell’Antico Testamento alla relativa libertà del tempo del Figlio, nella Chiesa, fino alla piena libertà dei Figli di Dio, nel periodo dello Spirito Santo, che sarebbe stato anche, finalmente, il periodo della pace tra gli uomini, della riconciliazione dei popoli e delle religioni. Gioacchino da Fiore aveva suscitato la speranza che l’inizio del nuovo tempo sarebbe venuto da un nuovo monachesimo. Così è comprensibile che un gruppo di Francescani pensasse di riconoscere in san Francesco d’Assisi l’iniziatore del tempo nuovo e nel suo Ordine la comunità del periodo nuovo – la comunità del tempo dello Spirito Santo, che lasciava dietro di sé la Chiesa gerarchica, per iniziare la nuova Chiesa dello Spirito, non più legata alle vecchie strutture.
Vi era dunque il rischio di un gravissimo fraintendimento del messaggio di san Francesco, della sua umile fedeltà al Vangelo e alla Chiesa, e tale equivoco comportava una visione erronea del Cristianesimo nel suo insieme.
San Bonaventura, che nel 1257 divenne Ministro Generale dell’Ordine Francescano, si trovò di fronte ad una grave tensione all’interno del suo stesso Ordine a causa appunto di chi sosteneva la menzionata corrente dei "Francescani spirituali", che si rifaceva a Gioacchino da Fiore. Proprio per rispondere a questo gruppo e ridare unità all’Ordine, san Bonaventura studiò con cura gli scritti autentici di Gioacchino da Fiore e quelli a lui attribuiti e, tenendo conto della necessità di presentare correttamente la figura e il messaggio del suo amato san Francesco, volle esporre una giusta visione della teologia della storia. San Bonaventura affrontò il problema proprio nell’ultima sua opera, una raccolta di conferenze ai monaci dello studio parigino, rimasta incompiuta e giuntaci attraverso le trascrizioni degli uditori, intitolata Hexaëmeron, cioè una spiegazione allegorica dei sei giorni della creazione. I Padri della Chiesa consideravano i sei o sette giorni del racconto sulla creazione come profezia della storia del mondo, dell’umanità. I setti giorni rappresentavano per loro sette periodi della storia, più tardi interpretati anche come sette millenni. Con Cristo saremmo entrati nell’ultimo, cioè il sesto periodo della storia, al quale seguirebbe poi il grande sabato di Dio. San Bonaventura suppone questa interpretazione storica del rapporto dei giorni della creazione, ma in un modo molto libero ed innovativo. Per lui due fenomeni del suo tempo rendono necessaria una nuova interpretazione del corso della storia:

Il primo: la figura di san Francesco, l’uomo totalmente unito a Cristo fino alla comunione delle stimmate, quasi un alter Christus, e con san Francesco la nuova comunità da lui creata, diversa dal monachesimo finora conosciuto. Questo fenomeno esigeva una nuova interpretazione, come novità di Dio apparsa in quel momento.
Il secondo: la posizione di Gioacchino da Fiore, che annunziava un nuovo monachesimo ed un periodo totalmente nuovo della storia, andando oltre la rivelazione del Nuovo Testamento, esigeva una risposta.
Da Ministro Generale dell’Ordine dei Francescani, san Bonaventura aveva visto subito che con la concezione spiritualistica, ispirata da Gioacchino da Fiore, l’Ordine non era governabile, ma andava logicamente verso l’anarchia. Due erano per lui le conseguenze:
La prima: la necessità pratica di strutture e di inserimento nella realtà della Chiesa gerarchica, della Chiesa reale, aveva bisogno di un fondamento teologico, anche perché gli altri, quelli che seguivano la concezione spiritualista, mostravano un apparente fondamento teologico.
La seconda: pur tenendo conto del realismo necessario, non bisognava perdere la novità della figura di san Francesco.
Come ha risposto san Bonaventura all’esigenza pratica e teorica? Della sua risposta posso dare qui solo un riassunto molto schematico ed incompleto in alcuni punti:
1. San Bonaventura respinge l’idea del ritmo trinitario della storia. Dio è uno per tutta la storia e non si divide in tre divinità. Di conseguenza, la storia è una, anche se è un cammino e – secondo san Bonaventura – un cammino di progresso.
2. Gesù Cristo è l’ultima parola di Dio – in Lui Dio ha detto tutto, donando e dicendo se stesso. Più che se stesso, Dio non può dire, né dare. Lo Spirito Santo è Spirito del Padre e del Figlio. Cristo stesso dice dello Spirito Santo: "…vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto" (Gv 14, 26), "prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà" (Gv 16, 15). Quindi non c’è un altro Vangelo più alto, non c’è un'altra Chiesa da aspettare. Perciò anche l’Ordine di san Francesco deve inserirsi in questa Chiesa, nella sua fede, nel suo ordinamento gerarchico.
3. Questo non significa che la Chiesa sia immobile, fissa nel passato e non possa esserci novità in essa. "Opera Christi non deficiunt, sed proficiunt", le opere di Cristo non vanno indietro, non vengono meno, ma progrediscono, dice il Santo nella lettera De tribus quaestionibus. Così san Bonaventura formula esplicitamente l’idea del progresso, e questa è una novità in confronto ai Padri della Chiesa e a gran parte dei suoi contemporanei. Per san Bonaventura Cristo non è più, come era per i Padri della Chiesa, la fine, ma il centro della storia; con Cristo la storia non finisce, ma comincia un nuovo periodo. Un'altra conseguenza è la seguente: fino a quel momento dominava l’idea che i Padri della Chiesa fossero stati il vertice assoluto della teologia, tutte le generazioni seguenti potevano solo essere loro discepole. Anche san Bonaventura riconosce i Padri come maestri per sempre, ma il fenomeno di san Francesco gli dà la certezza che la ricchezza della parola di Cristo è inesauribile e che anche nelle nuove generazioni possono apparire nuove luci. L’unicità di Cristo garantisce anche novità e rinnovamento in tutti i periodi della storia.
Certo, l’Ordine Francescano - così sottolinea - appartiene alla Chiesa di Gesù Cristo, alla Chiesa apostolica e non può costruirsi in uno spiritualismo utopico. Ma, allo stesso tempo, è valida la novità di tale Ordine nei confronti del monachesimo classico, e san Bonaventura – come ho detto nella Catechesi precedente – ha difeso questa novità contro gli attacchi del Clero secolare di Parigi: i Francescani non hanno un monastero fisso, possono essere presenti dappertutto per annunziare il Vangelo. Proprio la rottura con la stabilità, caratteristica del monachesimo, a favore di una nuova flessibilità, restituì alla Chiesa il dinamismo missionario.
A questo punto forse è utile dire che anche oggi esistono visioni secondo le quali tutta la storia della Chiesa nel secondo millennio sarebbe stata un declino permanente; alcuni vedono il declino già subito dopo il Nuovo Testamento. In realtà, "Opera Christi non deficiunt, sed proficiunt", le opere di Cristo non vanno indietro, ma progrediscono. Che cosa sarebbe la Chiesa senza la nuova spiritualità dei Cistercensi, dei Francescani e Domenicani, della spiritualità di santa Teresa d’Avila e di san Giovanni della Croce, e così via? Anche oggi vale questa affermazione: "Opera Christi non deficiunt, sed proficiunt", vanno avanti. San Bonaventura ci insegna l’insieme del necessario discernimento, anche severo, del realismo sobrio e dell’apertura a nuovi carismi donati da Cristo, nello Spirito Santo, alla sua Chiesa. E mentre si ripete questa idea del declino, c’è anche l’altra idea, questo "utopismo spiritualistico", che si ripete. Sappiamo, infatti, come dopo il Concilio Vaticano II alcuni erano convinti che tutto fosse nuovo, che ci fosse un’altra Chiesa, che la Chiesa pre-conciliare fosse finita e ne avremmo avuta un’altra, totalmente "altra". Un utopismo anarchico! E grazie a Dio i timonieri saggi della barca di Pietro, Papa Paolo VI e Papa Giovanni Paolo II, da una parte hanno difeso la novità del Concilio e dall’altra, nello stesso tempo, hanno difeso l’unicità e la continuità della Chiesa, che è sempre Chiesa di peccatori e sempre luogo di Grazia.
4. In questo senso, san Bonaventura, come Ministro Generale dei Francescani, prese una linea di governo nella quale era ben chiaro che il nuovo Ordine non poteva, come comunità, vivere alla stessa "altezza escatologica" di san Francesco, nel quale egli vede anticipato il mondo futuro, ma – guidato, allo stesso tempo, da sano realismo e dal coraggio spirituale – doveva avvicinarsi il più possibile alla realizzazione massima del Sermone della montagna, che per san Francesco fu la regola, pur tenendo conto dei limiti dell’uomo, segnato dal peccato originale.
Vediamo così che per san Bonaventura governare non era semplicemente un fare, ma era soprattutto pensare e pregare. Alla base del suo governo troviamo sempre la preghiera e il pensiero; tutte le sue decisioni risultano dalla riflessione, dal pensiero illuminato dalla preghiera. Il suo contatto intimo con Cristo ha accompagnato sempre il suo lavoro di Ministro Generale e perciò ha composto una serie di scritti teologico-mistici, che esprimono l’animo del suo governo e manifestano l’intenzione di guidare interiormente l’Ordine, di governare, cioè, non solo mediante comandi e strutture, ma guidando e illuminando le anime, orientando a Cristo.
Di questi suoi scritti, che sono l’anima del suo governo e che mostrano la strada da percorrere sia al singolo che alla comunità, vorrei menzionarne solo uno, il suo capolavoro, l’Itinerarium mentis in Deum, che è un "manuale" di contemplazione mistica. Questo libro fu concepito in un luogo di profonda spiritualità: il monte della Verna, dove san Francesco aveva ricevuto le stigmate. Nell’introduzione l’autore illustra le circostanze che diedero origine a questo suo scritto: "Mentre meditavo sulle possibilità dell’anima di ascendere a Dio, mi si presentò, tra l’altro, quell’evento mirabile occorso in quel luogo al beato Francesco, cioè la visione del Serafino alato in forma di Crocifisso. E su ciò meditando, subito mi avvidi che tale visione mi offriva l’estasi contemplativa del medesimo padre Francesco e insieme la via che ad esso conduce" (Itinerario della mente in Dio, Prologo, 2, in Opere di San Bonaventura. Opuscoli Teologici /1, Roma 1993, p. 499).
Le sei ali del Serafino diventano così il simbolo di sei tappe che conducono progressivamente l’uomo dalla conoscenza di Dio attraverso l’osservazione del mondo e delle creature e attraverso l’esplorazione dell’anima stessa con le sue facoltà, fino all’unione appagante con la Trinità per mezzo di Cristo, a imitazione di san Francesco d’Assisi. Le ultime parole dell’Itinerarium di san Bonaventura, che rispondono alla domanda su come si possa raggiungere questa comunione mistica con Dio, andrebbero fatte scendere nel profondo del cuore: "Se ora brami sapere come ciò avvenga, (la comunione mistica con Dio) interroga la grazia, non la dottrina; il desiderio, non l’intelletto; il gemito della preghiera, non lo studio della lettera; lo sposo, non il maestro; Dio, non l’uomo; la caligine, non la chiarezza; non la luce, ma il fuoco che tutto infiamma e trasporta in Dio con le forti unzioni e gli ardentissimi affetti ... Entriamo dunque nella caligine, tacitiamo gli affanni, le passioni e i fantasmi; passiamo con Cristo Crocifisso da questo mondo al Padre, affinché, dopo averlo visto, diciamo con Filippo: ciò mi basta" (ibid., VII, 6).
Cari amici, accogliamo l’invito rivoltoci da san Bonaventura, il Dottore Serafico, e mettiamoci alla scuola del Maestro divino: ascoltiamo la sua Parola di vita e di verità, che risuona nell’intimo della nostra anima. Purifichiamo i nostri pensieri e le nostre azioni, affinché Egli possa abitare in noi, e noi possiamo intendere la sua Voce divina, che ci attrae verso la vera felicità.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i Diaconi dell’Arcidiocesi di Milano ed invoco su ognuno di essi una copiosa effusione di doni celesti, a conferma dei loro generosi propositi di fedeltà a Cristo. Saluto i soci dell’Università della Terza Età, di Nardò, che nel contesto della loro attività hanno voluto partecipare a questo incontro. Li incoraggio a proseguire le loro iniziative culturali che rendono la Terza età un tempo propizio per la riflessione e il sapere. Saluto i fedeli che portano la Fiaccola Benedettina della pace, proveniente quest’anno da Colonia, dove è stata accesa dal Cardinale Joachim Meisner. Come simbolo di profondi valori umani e cristiani, essa sosta oggi presso le tombe degli Apostoli per proseguire per Norcia. Cari amici, faccio voti che tale manifestazione susciti in tutti un generoso impegno di solidarietà e di pace.
Saluto, infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. Cari giovani, il cammino quaresimale che stiamo percorrendo sia occasione di autentica conversione che vi conduca alla maturità della fede in Cristo. Cari ammalati, partecipando con amore alla sofferenza del Figlio di Dio incarnato, possiate condividere fin d'ora la gloria e la gioia della sua risurrezione. E voi, cari sposi novelli, trovate nell'alleanza che, a prezzo del suo sangue, Cristo ha stretto con la sua Chiesa, il sostegno e il modello del vostro patto coniugale e della vostra missione al servizio del Vangelo.
[APPELLO DEL SANTO PADRE]
Sono profondamente vicino alle persone colpite dal recente sisma in Turchia ed alle loro famiglie. A ciascuno assicuro la mia preghiera, mentre chiedo alla comunità internazionale di contribuire con prontezza e generosità ai soccorsi.
Il mio sentito cordoglio va anche alle vittime dell’atroce violenza, che insanguina la Nigeria e che non ha risparmiato nemmeno i bambini indifesi. Ancora una volta ripeto con animo accorato che la violenza non risolve i conflitti, ma soltanto ne accresce le tragiche conseguenze. Faccio appello a quanti nel Paese hanno responsabilità civili e religiose, affinché si adoperino per la sicurezza e la pacifica convivenza di tutta la popolazione. Esprimo, infine, la mia vicinanza ai Pastori e ai fedeli nigeriani e prego perché, forti e saldi nella speranza, siano autentici testimoni di riconciliazione.
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]


In Italia avanza l’eutanasia? - Nutrizione e idratazione potranno essere sospese se ritenute inefficaci
Il ddl Calabrò sul testamento biologico, già sufficientemente ambiguo da permettere una “capacità di manovra” piuttosto ampia, rischia di vedere allargate a dismisura le già lacerate maglie normative così da far passare senza particolari difficoltà il suicidio assistito dei malati. La commissione Affari sociali della Camera ha infatti approvato a maggioranza un emendamento che modifica l’art. 3 del ddl sul biotestamento in discussione al parlamento: l’idratazione e l’alimentazione artificiale possono essere sospese nel caso in cui non risultino più efficaci per garantire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo…
1) La nutrizione può essere sospesa se inefficace
2)Cosa cambia con l'approvazione degli emendamenti al Progetto di Legge Calabrò?


La nutrizione può essere sospesa se inefficace

La commissione Affari sociali della Camera ha approvato a maggioranza un emendamento che modifica l’art. 3 del ddl sul biotestamento in discussione al parlamento: l’idratazione e l’alimentazione artificiale possono essere sospese nel caso in cui non risultino più efficaci per garantire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo.
Domenico Di Virgilio, il relatore dell’emendamento, precisa che anche se il testo non specifica chi dovrebbe prendere la decisione di sospendere la nutrizione si evince naturalmente che questa spetterà al medico (sic!).
«Per lo stato vegetativo – dichiara Di Virgilio – non avrei presentato nessun emendamento perché nutrizione ed alimentazione non sono trattamenti medici e non vanno sospesi, ma diverso è il caso di pazienti in coma traumatico, ischemico, che hanno fatto le dat, per i quali il medico valuterà se ci sono le condizioni di continuare idratazione e alimentazione. Si tratta dunque di un punto di partenza diverso, cosa che non tutti hanno compreso».
Oltre ad annoverarci tra quelli che non hanno compreso a chi effettivamente possa giovare una tale modifica, ci preme sottolineare come si stia puntualmente verificando ciò che era lecito attendersi: il ddl Calabrò sul testamento biologico, già sufficientemente ambiguo da permettere una “capacità di manovra” piuttosto ampia, rischia di vedere allargate a dismisura le già lacerate maglie normative così da far passare senza particolari difficoltà il suicidio assistito dei malati.
L’emendamento è stato approvato grazie ai voti del centrodestra e di Paola Binetti (passata all’Udc di Casini), mentre l’opposizione ha votato contro, giudicando la modifica (effettivamente a ragione) un gran pasticcio che complica ulteriormente il guazzabuglio normativo del ddl Calabrò. Quel che preoccupa ulteriormente dell’attuale situazione è la mancanza quasi totale di voci serie ed autorevoli che si oppongano all’approvazione di una legge palesemente ipocrita.
Neppure la Pontificia accademia della Vita sembra accorgersi del tranello, al punto che il presidente mons. Rino Fisichella ha dichiarato che si tratta di «un emendamento che va ancora una volta a favore della vita perché specifica quanto il rispetto per l’ammalato e la dignità del malato non debba mai arrivare ad una forma di accanimento». L’obiettivo principale (se non unico) sembra essere quello di approdare ad un compromesso politico, una nuova “verità” da difendere ad oltranza. In effetti, l’ansia che trapela dalle dichiarazioni di diversi esponenti, politici e non, di chiudere la vicenda e giungere finalmente ad una legge, sembra derivare, più che dal timore di trovarsi di fronte ad un nuovo caso Englaro, dall’impellente necessità di giungere a ciò che è considerato il fine ultimo del legislatore e dell’attività politica, ossia il compromesso tra le diverse istanze rappresentate in parlamento. Una volta approvata la legge che spiana la strada all’eutanasia sarà sempre possibile per i neo pro-life appellarsi alla mancata applicazione delle parti buone in essa contenute oppure richiamare all’integrale applicazione della stessa.
CR n.1132 del 6/3/2010
Cosa cambia con l'approvazione degli emendamenti al Progetto di Legge Calabrò?

Mani legate ai medici, con il consenso preventivo scritto ad ogni trattamento sanitario; riconoscimento del potere dei tutori e dei genitori di decidere sulla vita e la morte degli interdetti e dei figli minori; estensione del concetto di accanimento
1. Che cosa è cambiato
L’esame del progetto di legge Calabrò, iniziato in Commissione alla Camera dei Deputati fin dal mese di luglio 2009, ha subito una brusca accelerazione negli ultimi giorni, con l’approvazione di due emendamenti proposti dal relatore on. Di Virgilio.
Quello che ha avuto maggiore eco riguarda la modifica della norma dell’art. 3 del progetto sull’alimentazione e l’idratazione.
Ecco il testo approvato dalla Commissione (in corsivo le modifiche introdotte alla Camera):
Anche nel rispetto della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13/12/2006, alimentazione ed idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, devono essere mantenute fino al termine della vita, ad eccezione del caso in cui le medesime risultino non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche del corpo. Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento.
Le differenze dal testo originario sono due.
Il progetto Calabrò definiva nutrizione e idratazione “forme di sostegno vitale, fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita”, e negava, quindi, la loro natura di terapia; di conseguenza il testamento biologico non poteva rifiutarle e, ovviamente, i medici non potevano sospenderle. Il legislatore sconfessava quindi la linea seguita dai giudici del caso Englaro, che, per autorizzare il distacco del sondino nasogastrico, lo avevano ritenuto “trattamento sanitario”: come si vede, quindi, era una affermazione forte, che puntava al nucleo di quella dolorosa vicenda.
Il nuovo testo cancella ogni definizione; stabilisce un obbligo: di mantenere alimentazione e idratazione fino al termine della vita. Un obbligo, però, che resta privo del fondamento logico: che cioè cibo e acqua non sono terapia, ma sostegno vitale.
La seconda decisiva differenza è l’eccezione all’obbligo: alimentazione e idratazione non devono essere mantenute nel caso in cui non risultino più efficaci nel fornire i fattori nutrizionali alle funzioni fisiologiche del corpo.
A prima vista si tratta di un riferimento ad una situazione medica ben conosciuta che riguarda i pazienti terminali, vale a dire coloro la cui morte è considerata imminente e inevitabile in conseguenza di una patologica inguaribile. Talvolta il corpo di quei pazienti non assimila più alimentazione e/o idratazione, le rifiuta, ne soffre: continuare ad erogarle significa, in questi casi, provocare una sofferenza inutile ad un morente; per accompagnare il paziente ad una morte serena, meglio, quindi, sospenderle, e procedere a cure palliative.
2. Non è una modifica innocua.
L’emendamento, infatti, stabilisce una regola generale che non riguarda soltanto i pazienti terminali, ma tutti coloro che beneficiano di alimentazione e idratazione artificiale. Diventa così molto più difficile – e discutibile – stabilire, caso per caso, quando esse “risultino non più efficaci nel fornire i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche del corpo”: i concetti di “efficacia”, di “necessità”, di “funzioni fisiologiche del corpo” saranno oggetto di interpretazioni diverse, magari anche frutto di una visione ideologica.
In poche parole: Beppino Englaro e i medici che hanno operato su Eluana Englaro concordavano tutti nel ritenere che il sondino nasogastrico fosse “efficace nel fornire i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche” della giovane donna? Se si ritiene la vita di un soggetto non degna di essere vissuta, quella di continuare a vivere non viene più considerata una “funzione fisiologica” e i fattori nutrizionali non vengono più ritenuti “necessari”…
Compare di nuovo la pretesa di sospendere alimentazione e idratazione a tutti i soggetti in stato di incoscienza o comunque in una condizione diversa da quella terminale.
3. Chi deciderà di sospendere alimentazione e idratazione?
Si risponde: ovviamente i medici.
Non è del tutto vero: saranno sì i medici, ma ai rappresentanti legali degli incapaci ora viene fornito lo strumento per pretendere per via giudiziaria la sospensione di alimentazione e idratazione, qualificandole come “accanimento terapeutico”.
Ecco il via libera a controversie civili – analoghe a quella promossa da Beppino Englaro – nelle quali si chiederà al Giudice (!) di valutare l’efficacia e la necessità di alimentazione e idratazione artificiale alla luce della condizione in cui si trova l’incapace.
E così, in un esplicito tentativo di compromesso, la Commissione ha fatto cadere l’unico “paletto” su cui il mondo cattolico e parte dei prolife avevano insistito: disposti a chiudere entrambi gli occhi sul contenuto eutanasico di alcune norme del progetto Calabrò – che il Manifesto Appello del Comitato Verità e Vita ha cercato di evidenziare – si puntava tutto su un’affermazione di alto significato simbolico: “di sospensione di alimentazione e idratazione artificiale non si deve parlare mai!”
Ecco: ora se ne può parlare; ora si potranno promuovere cause civili, nelle quali si reciterà un finto contraddittorio (con il medico che dirà: “io non lo posso fare, ma se il Giudice me lo ordina …”: non lo abbiamo già visto per la fecondazione artificiale? E tutti abbiamo visto come Eluana Englaro sia stata difesa in sede giurisdizionale).
Adesso i medici ispirati potranno sospendere la nutrizione e idratazione anche a soggetti non terminali: possiamo prevedere l’esito di eventuali denunce penali?
Pare un grottesco ripetersi della vicenda della legge 40: soltanto che in questo caso, i paletti stanno già cadendo prima dell’approvazione finale della legge.
4. Anche l’altro emendamento fatto approvare dall’on. Di Virgilio fa intravedere degli esiti ancora più nefasti della legge che il Parlamento sta approvando.
La modifica estende l’efficacia del testamento biologico a tutti i casi in cui “è accertato (da un collegio medico) che il soggetto si trovi nell’incapacità permanente di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario e le sue conseguenze e, per questo motivo, di assumere le decisioni che lo riguardano”; in precedenza il progetto Calabrò prevedeva che le dichiarazioni anticipate fossero efficaci solo per i soggetti in stato vegetativo.
Lo stesso relatore ha collegato i due emendamenti in modo assai sinistro: “…qui intendiamo ampliare la platea, per cui le DAT sono valide per tutti coloro che si troveranno incapaci di intendere e di volere. (…) Diverso (dallo stato vegetativo) è il caso di pazienti in coma traumatico, ischemico, che hanno fatto le DAT per i quali il medico valuterà le condizioni di continuare idratazione e alimentazione. Si tratta dunque, di un punto di partenza diverso, che non tutti hanno compreso”.
Temiamo di aver compreso: abbiamo innalzato il numero dei pazienti – in un’altra intervista l’on. Di Virgilio lo quantifica in 250.000 persone – per i quali “il medico valuterà le condizioni di continuare idratazione e alimentazione”.
E tutto – si guardi bene – a prescindere dalla loro volontà, che manca del tutto. Sì, perché quella norma viene beffardamente inserita nell’articolo che riguarda il testamento biologico – l’autodeterminazione! – ma attribuisce il potere di decidere al medico, magari in accordo con i rappresentanti legali degli incapaci.
5. Come già era stato fatto intendere in occasione dell’approvazione al Senato, nel passaggio alla Camera il progetto Calabrò non poteva che essere peggiorato: e così le altre modifiche approvate dalla Commissione non hanno scalfito quei punti chiaramente indirizzati verso l’eutanasia che il Manifesto Appello del Comitato Verità e Vita ha indicato: mani legate ai medici, con il consenso preventivo scritto ad ogni trattamento sanitario; riconoscimento del potere dei tutori e dei genitori di decidere sulla vita e la morte degli interdetti e dei figli minori; estensione del concetto di accanimento terapeutico al di fuori del trattamento dei pazienti terminali.
Il quadro resta intatto: anzi, viene ulteriormente peggiorato.
Pensare che, secondo il relatore, si tratta solo di un punto di partenza…
Giacomo Rocchi
www.comitatoveritaevita.it 4 Marzo 2010


Avvenire.it, 10 Marzo 2010 - Buon testo, da applicare bene - Una rete di norme e solidarietà per sostenerci
Da oggi in poi, l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore sarà regolato nel nostro Paese da una delle poche leggi approvate in condivisione da maggioranza e opposizione, nei due rami del Parlamento. E ci auguriamo che la ratifica finale del testo di legge su una problematica così particolare – il prendersi cura delle persone nel momento più gravoso della propria vita – avvenuta nonostante il clima pre-elettorale letteralmente invivibile di questi giorni, sia un segno della sostanziale tenuta, nonostante tutto, della nostra classe politica.

Tutti d’accordo, quindi, una volta tanto: la predisposizione di due reti nazionali di assistenza sanitaria, espressamente dedicate alle cure palliative l’una, e alla terapia del dolore l’altra, come prevede la nuova legge, significa la possibilità per ciascuno di noi di poter essere sostenuto e accompagnato, concretamente, nei momenti di massima fragilità, quelli nei quali non c’è più speranza di guarigione, ma soprattutto che non si possono affrontare in solitudine. Come sappiamo, il termine "palliative" deriva dal latino "pallium", cioè "mantello", una parola usata per evocare l’idea di proteggere, coprire, o meglio, di essere coperti e protetti: un "pallium" che non si è in grado di indossare da soli, perché in quei momenti abbiamo bisogno di qualcuno che ce lo appoggi sulle spalle, e sappia come farlo.

La dignità della nostra vita, quando la vita se ne sta andando, non si misura dal grado residuo di autosufficienza, ma da se e da quanto siamo nelle condizioni di accettare e affrontare il dolore, e la fine della nostra esistenza. È questo lo scopo ultimo del "pallium", che implica una rete di rapporti che ci accoglie e ci sostiene. E se non può certo essere una legge, seppur buona, a risolvere il mistero del dolore e della nostra finitezza, è anche vero che può aiutare a starci davanti, e ad averne meno timore.

Perché le nuove norme siano realmente efficaci, sarà necessario un monitoraggio accurato della loro applicazione da parte delle autorità coinvolte, per evitare da un lato che gli articoli di legge rimangano sulla carta, inattuati, e, allo stesso tempo, per escludere tassativamente ogni possibile abuso, tenuto conto della tipologia e della potenza dei farmaci utilizzati in queste circostanze.
Saggiamente, la legge sulle cure palliative è stata separata dal testo Calabrò sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (la cosiddetta legge sul fine vita), ancora in discussione in Parlamento: la possibilità di rifiutare terapie mediche, anche anticipatamente rispetto a quando potrebbero essere somministrate, come prevista dalle Dat, riguarda la libertà di cura e il consenso informato, e il dibattito di questi mesi ha mostrato che chi chiede di non essere curato qualora si trovasse in condizioni particolarmente gravi, non lo fa per mancanza di terapie che rechino sollievo al dolore, ma piuttosto per un’idea di autodeterminazione spesso esasperata, che si dilata fino a comprendere il «diritto a morire».

D’altra parte, proprio le storie di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro, che hanno costretto l’opinione pubblica italiana a confrontarsi con queste problematiche, hanno mostrato quanto le cure palliative non c’entrino con le Dat: Welby ed Eluana non erano malati terminali, e il problema del dolore si è posto per entrambi solo quando la loro vita è stata spenta da interventi esterni.
Insomma, le idee sul fine vita hanno un contorno più netto, adesso, e qualche alibi è caduto. Il Parlamento ha prodotto una buona legge, finanziata nonostante le difficoltà economiche del momento. Adesso bisogna applicarla al meglio.
Assuntina Morresi


Avvenire.it, 9 Marzo 2010 - Cure palliative cosa prevede la legge - Regole meno macchinose per l'accesso ai farmaci antidolore e maggiore attenzione alle strutture sul territorio. Sono alcuni dei punti della legge sulle cure palliative approvata definitivamente alla Camera.

CURE PALLIATIVE E TERAPIA DEL DOLORE. Sono "cure palliative" l'insieme degli interventi finalizzati al benessere dei malati terminali, per i quali le cure non servono più ai fini della guarigione. Le "terapie del dolore" sono invece quelle applicate alle "forme morbose croniche" e servono al controllo del dolore.

MONITORAGGIO DOLORE PER TUTTI RICOVERATI. Con la modifica introdotta in Senato, ogni ricoverato dovrà essere monitorato dai medici che lo hanno in cura anche sotto l'aspetto del dolore. Un obbligo che oggi esiste solo per i malati terminali e che ora si estende a tutti i pazienti, indipendentemente dalla patologia per la quale vengono ricoverati. Le osservazioni dovranno essere annotate sulla cartella clinica.

DUE RETI TERRITORIALI. Per assicurare le cure palliative e le terapie del dolore, inserite nel piano sanitario nazionale come obiettivo prioritario, il Senato ha previsto l'istituzione di due reti distinte: una per le cure palliative, l'altra per la terapia del dolore. Tali reti sono costituite dall'insieme delle strutture sanitarie, sia ospedaliere che territoriali (i cosiddetti 'hospicè ), nonchè dalle figure professionali, che provvedono all'erogazione delle cure.

STOP TARIFFA SELVAGGIA. Le tariffe delle cure palliative nelle strutture pubbliche e convenzionate, che oggi variano molto da regione a regione, dovranno essere omogenee su tutto il territorio nazionale.

COMMISSARIAMENTO REGIONI. Nel caso in cui una regione ritardi o ometta di adempiere a quanto previsto dalla legge, il ministero della Salute fissa un termine ultimo, scaduto il quale viene nominato un commissario 'ad actà.

ACCESSO SEMPLIFICATO AI MEDICINALI. La nuova legge semplifica le prescrizione dei medicinali per il trattamento dei pazienti affetti da dolore severo. Non sarà così più necessario da parte del medico utilizzare un ricettario speciale, ma il farmacista conserverà copia o fotocopia della ricetta. Alcuni principi cannabinoidi, che sono importanti per malattie come la Sla, vengono inseriti nell'elenco dei farmaci.

FONDI AD HOC. È stanziata una quota fissa di 50 milioni di euro, più 100 milioni di euro inseriti dal 2009 tra gli obiettivi di piano del fondo sanitario nazionale. Affinchè le risorse vengano effettivamente destinate alla cura del dolore, la nuova legge prevede che le Regioni inadempienti non potranno accedere per l'anno successivo ai finanziamenti sanitari nazionali.

FORMAZIONE. Viene disciplinata anche la formazione e l'aggiornamento del personale sanitario specializzato, con specifici percorsi universitari e l'istituzione di master.

OSSERVATORIO. La legge istituisce un Osservatorio nazionale permanente, incaricato di redigere un rapporto annuale sull'andamento delle prescrizioni.


Edith Stein dalla fenomenologia husserliana al lager di Auschwitz-Birkenau - Dio mi ha liberata da una vita deprimente - di Claudio Toscani - L'Osservatore Romano - 10 marzo 2010
Proprio per le figure più "praticate" o le opere più lette, per i personaggi più studiati o i più analizzati si verificano ogni tanto operazioni critiche, saggi o monografie, che stabiliscono un imperioso punto e a capo.
Per quanto riguarda l'immensa bibliografia sulla vita e sugli scritti di Edith Stein (1891-1942), protagonista della filosofia tedesca nella stagione della fenomenologia husserliana, il volume di Francesco Salvarani a lei dedicato (E.S. La grande figlia d'Israele, della Chiesa e del Carmelo, Milano, Edizioni Ares, 2009, pagine 568, euro 25, postfazione di Angela Ales Bello), realizza, sia un'aggiornata indagine esistenziale, sia il vaglio "verticale" di una rara vocazione alla santità. Non per nulla questo libro ha richiesto al suo autore, sacerdote emiliano ex docente di lettere e di filosofia, vent'anni di lavoro.
Undicesima figlia di una coppia di ebrei molto religiosa, Edith Stein, di vivace e brillante intelligenza fin dall'infanzia, inclina ben presto a una visione razionalistica della vita, alla quale consegue un netto distacco dalla religione ("in piena coscienza e per libera scelta smisi di pregare"). Dopo la maturità, nel 1911, si iscrive alla facoltà di Germanistica, storia e psicologia, all'università di Breslavia, e scoprendo la corrente fenomenologica di Edmund Husserl (1859-1938) si trasferisce all'università di Gottinga per seguirne le lezioni (ne diverrà poi assistente e discepola, curandone infine alcuni scritti lasciati dopo la morte).
Husserl veniva affermando un nuovo concetto di verità, come ritorno alle cose in se stesse, i "fenomeni", non mere apparenze contrapposte a ipotetiche realtà oggettive. "Fenomeni" come manifestazioni originarie della coscienza, che si verificano attraverso eventi o elementi nella loro pura forma, essenza, idea. Il procedimento fenomenologico, allora, esige la preliminare sospensione di ogni giudizio o pregiudizio, di ogni senso comune o sapere scientifico, per cui ogni teoria viene posta tra parentesi e il fenomeno emerge nella sua genuinità, in "carne ed ossa" può dirsi.
Vero è che Husserl, verso la fine, riterrà di sviluppare la sua filosofia in senso trascendentale, terreno dal quale la Stein si distanziò da lui, ma resta anche vero che la sua "dottrina", globalmente intesa, condusse non pochi dei suoi studenti verso la fede cristiana, dimensione alla quale la Stein, per prima, e più intensamente di altri, affidò la sua esistenza.
A Gottinga Edith incontra anche il filosofo Max Scheler - che, da convertito, richiamerà l'attenzione della giovane amica e collega verso il cattolicesimo - e il filosofo del diritto Adolph Reinach.
Quando scoppia la bomba del regicidio serbo, la conseguente prima Grande Guerra la vedrà crocerossina, in deroga ai voleri della madre, pur continuando, tra malati, medici, trasferte e reparti, la preparazione della tesi, conseguita a Friburgo, summa cum laude nel 1917 con Husserl, Sul problema dell'empatia.
Prima di Friburgo, sosta a Francoforte presso un'amica.
"Entrammo per qualche minuto nel Duomo e mentre eravamo lì in rispettoso silenzio entrò una donna con il suo cesto della spesa e si inginocchiò in un banco per una breve preghiera. Nelle sinagoghe e nelle chiese protestanti ci si recava solo per la funzione religiosa. Qui invece qualcuno era entrato nella chiesa vuota, nel mezzo delle sue occupazioni quotidiane, come per andare a un intimo colloquio".
Ricordo che, rimasto vivo nell'animo, darà i suoi frutti. Tutto si accelera alla morte dell'amico Reinach.
Visitandone la moglie e credendo di trovarla affranta o disperata, è invece colpita dalla sua serenità. Ciò che non è nei piani della Stein è nei piani di Dio, e lei se ne accorge tornando sui cardini speculativi della sua fenomenologia, di una filosofia della storia di cui sente i limiti, d'una storia stessa che avverte essere solo minimamente nelle mani dell'uomo ("... mi sto avvicinando sempre più a un cristianesimo assolutamente positivo. Mi ha liberata da una vita deprimente, dandomi la forza di accettare di nuovo e con riconoscenza la vita").
Nel cammino verso la conversione, Edith Stein si imbatte in molte letture: fra altre, il Kierkegaard di Esercizio del cristianesimo (che non condivide) e Teresa d'Avila (proprio come reazione alle pagine del filosofo danese). Una notte d'estate del 1921, tenendo fra le mani una biografia della santa, esclama: "Ecco la verità".
Qualcosa di nuovo e definitivo è accaduto in lei, nella più intima chiarezza del suo spirito, a conclusione di una assidua e faticosa ricerca. In quello di Teresa, Edith legge il suo destino. Il suo futuro è scritto: farsi cristiana, cattolica, carmelitana. Anche se la fiera, a volte straziata, opposizione della madre, che giungerà a respingerla da casa, la angoscia a morte.
A capodanno del 1922 è il battesimo, il 2 febbraio dell'anno dopo la cresima, ma solo la sera del 14 ottobre 1933 si apre per lei la ormai sempre più desiderata clausura.
Intanto - apprendendo da san Tommaso "che era possibile mettere la conoscenza al servizio di Dio" - accetta di insegnare a Spira, interessandosi delle fasce sociali più svantaggiate; tiene conferenze, tra Germania, Austria e Svizzera, coniugando fenomenologia e spirito della filosofia scolastica, divulgazione e ricerca della volontà divina; accetta anche una docenza a Münster quando a Spira le vengono vietate le lezioni. Hitler si è ormai insediato al potere e la sua lotta contro gli ebrei, non potendo essere se non anche odio verso la cristianità, si riassume nella Stein in una doppia persecuzione.
Neanche oltre la soglia del Carmelo sarà al sicuro, perché il 2 agosto del 1942, sarà prelevata dalle SS, assieme alla sorella Rose, lei pure convertitasi, e costretta verso il lager di Auschwitz-Birkenau.
(©L'Osservatore Romano - 10 marzo 2010)


Avvenire.it, 10 marzo 2010 - Ignorata anche la Convenzione sui diritti del fanciullo - Il no al crocifisso: l’impossibile pretesa di educare in un vuoto culturale
La notizia che il ricorso italiano contro la sentenza della Corte di Strasburgo sul crocifisso è stato dichiarato ammissibile, e che su di esso si pronuncerà la Grande Chambre, non era scontata. Sia perché la percentuale di accoglimento dei ricorsi a Strasburgo per essere discussi al più alto livello giurisdizionale è molto bassa, sia perché la sentenza del novembre scorso era stata sottoscritta all’unanimità. Il passaggio alla Grande Camera è il riconoscimento della fondatezza e credibilità del ricorso, e consente nei prossimi mesi di precisare ulteriormente e diffondere le ragioni per le quali la pronuncia deve essere rivista, rendendo giustizia a quanto dicono le leggi e onore alla verità di ciò che è il crocifisso per la storia e la cultura italiana ed europea.

È importante, tra l’altro, che diversi Stati si siano dichiarati a sostegno del ricorso italiano, preoccupati che l’indirizzo giurisprudenziale che si vuole affermare si ripercuota sulla propria capacità di disciplinare i rapporti con le confessioni in armonia con i principi di libertà religiosa e con la propria tradizione storico-culturale. La sentenza del 2009 ha rimesso in discussione anzitutto il ruolo della Corte di Strasburgo che non è quello di una Corte costituzionale che giudica le leggi nazionali rispetto alla normativa europea, ma quello – più limitato e importante – di verificare le lesioni della libertà religiosa sancita nella Carta europea dei diritti dell’uomo (Cedu) del 1950, in sintonia con altre Carte internazionali dei diritti umani.

Per decenni la stessa Corte ha affermato che gli Stati nazionali hanno una ampia disponibilità nel disciplinare i rapporti con le Chiese, in ragione della loro storia, tradizione, e realtà sociale. Per questo motivo, le sentenze della Corte hanno censurato gli Stati soltanto quando era determinata una vera lesione del diritto di libertà religiosa, ma hanno respinto tutti quei ricorsi che riguardavano normative e tradizioni legate all’identità religiosa di un Paese senza violare alcun diritto individuale. La Corte non ha addotto alcuna spiegazione (come un giudice deve fare) sul perché abbia cambiato così radicalmente orientamento, ha ignorato elementi normativi fondamentali, contenuti nelle carte dei diritti dell’uomo, e ha selezionato un concetto di educazione dei ragazzi contrario al diritto internazionale oltreché alle esigenze dell’età evolutiva.

La Convenzione internazionale dei diritti del fanciullo, del 1989, dichiara all’articolo 29 che i ragazzi devono essere educati al «rispetto dei valori nazionali del Paese nel quale vive, del Paese di cui può essere originario e delle civiltà diverse dalla sua». Questo principio ha un duplice riflesso, nei confronti del pluralismo sociale e culturale e della sfera soggettiva dei giovani. Per la Convenzione del 1989 uno Stato non deve nascondere i valori che lo caratterizzano dal punto di vista storico, religioso e culturale, che devono essere parte integrante della formazione dei giovani perché essi crescano nella conoscenza e nel rispetto dei principi della società nella quale si trovano. La Corte ha del tutto ignorato questo principio che regola la materia a livello internazionale, e ha taciuto che il crocifisso, secondo la generale opinione di personalità di ogni orientamento e religione, costituisce e rappresenta il simbolo di una religione che ha cambiato la storia umana, che predica l’amore per gli altri, opera nel mondo per aiutare chiunque (cristiani e non cristiani, religiosi e non religiosi), diffondere pace e conoscenza, sostenere i poveri della terra che dovunque soffrono fame, sete e indigenza, e subiscono violenza, sopraffazione, e subalternità culturale da parti di chi è più potente.

La sentenza ha preferito avallare un concetto di educazione veteroilluminista per il quale la formazione dei giovani, deve svolgersi in un vuoto culturale nel quale non esiste passato, non c’è evoluzione e crescita dell’uomo, né un futuro da costruire sulla base dei valori più alti che le precedenti generazioni hanno elaborato. Le Convenzioni internazionali e la pedagogia più elementare chiedono altro, che al giovane siano mostrati in un clima di libertà e serenità i segni e i simboli del cammino dell’uomo, soprattutto quelli che hanno determinato le svolte spirituali e umanistiche più importanti della storia umana. Per unanime riconoscimento, il crocifisso è uno dei più alti simboli al quale guardano miliardi di persone come a una speranza di miglioramento e perfezionamento etico e di crescita ed evoluzione pacifica dei rapporti tra gli uomini e tra i popoli, e la sua presenza nelle scuole costituisce un apporto di serenità e arricchimento etico e culturale senza confini di religione.


10/03/2010 - ISLAM - Una Fatwa contro le giustificazioni religiose del terrorismo islamico - di Samir Khalil Samir - Il volume di 600 pagine del prof. Tahir ul-Quadri contro la violenza, apre una stagione nuova nel mondo islamico. Come il papa a Regensburg, egli afferma che Dio è Ragione ed è contro la violenza. Occorre ora un movimento di popolo che purifichi il volto sfigurato dell’islam.
Beirut (AsiaNews) - Tahir ul-Qadri, sheikh soufi pakistano, ha annunciato il 2 marzo alla Bbc aver redatto un documento di 600 pagine che smantella l’ideologia dei gruppi terroristi che si rifanno al Corano e alla Sunna. Al-Qaeda, dice, è "un male vecchio con un nome nuovo". La fatwa sfida le motivazioni religiose dei kamikaze che sognano del paradiso promesso ai martiri. Loro non sono per niente martiri ma semplicemente criminali.

L'organizzazione del dottor Qadri, Minhaj ul-Quran International, che ha circa 5000 aderenti e 10 moschee in Gran Bretagna, s’incarica di diffondere questo documento e il pensiero del maestro spirituale.

Dio sia lodato! Al-Hamdu li-llâh ! Finalmente un autorità si alza per proclamare ad alta voce e in maniera dotta ciò che ognuno sente nel fondo del cuore, cioè che la violenza non puo’ giustificarsi nel nome di Dio e che l’ingiustizia può spiegare certe reazioni, ma non puo’ mai giustificarle!

Violenza: caratteristica dell’Islam?

Certo, la violenza esiste da quando l’uomo esiste sulla terra. In un modo o nell’altro, quasi tutte le culture e le mitologie l’hanno praticata. Il racconto mitico di Adamo ed Eva nella Bibbia mostra che l’armonia sta nella sottomissione/obbedienza a Dio, ed essa introduce a una vita “paradisiaca”, mentre la violenza sta nella ribellione/disobbedienza a Dio.

In termini coranici, l’islam porta al salâm (la sottomissione a Dio genera la Pace e l’Armonia), invece la ‘isyân (ribellione) porta al Disordine e alla Violenza.

La storia di Caino e Abele (Qâbîl wa-Hâbîl), indicati nella Bibbia come i figli di Adamo ed Eva, esplicitano questa realtà: la violenza estrema, l’assassinio, sono iscritti nel cuore dell’uomo e sono un rifiuto di Dio, che porta al nostro proprio rifiuto dagli uomini.

Ritroviamo lo stesso approccio nel Corano, anche se con formule differenti, nella sura della Mâ’idah (la Tavola imbandita) 5, 27-32, con questa conclusione che mostra bene il legame con la tradizione ebraica (v. 32):

“Per questo abbiamo prescritto ai Figli di Israele che chiunque uccida un uomo che non abbia ucciso a sua volta o che non abbia sparso la corruzione sulla terra, sarà come se avesse ucciso l'umanità intera. E chi ne abbia salvato uno, sarà come se avesse salvato tutta l'umanità. I Nostri messaggeri sono venuti a loro con le prove! Eppure molti di loro commisero eccessi sulla terra”. (trad. UCOII).

Sappiamo come l’antropologo René Girard ha sviluppato questo mito fondatore nel suo libro “La violenza e il sacro” (1972), cura di Ottavio Fatica e Eva

Czerkl (Milano: Adelphi, 1980).

Il fatto certo è che l’uomo di qualunque tradizione culturale o religiosa ha praticato la violenza e ha cercato di giustificarla spesso perfino in nome di Dio. Nessuna religione, né cultura è esente.

Per questo, nel corso della storia, la violenza non è tipica dell’islam. Direi piuttosto che essa è tipica dell’essere umano, il solo capace di praticare la violenza anche quando essa non è una necessità vitale.

La non violenza come programma

Ad ogni modo, è proprio della riflessione spirituale il cercare di eliminare la violenza, fino a mettere al centro della cultura ilo rifiuto della violenza, la “non-violenza”.

Ai nostri tempi, è merito del Mahatma Gandhi (2 ottobre 1869 – 30 gennaio 1948) aver stabilito la non violenza non solo come principio etico, ma anche come programma politico. Non è stato lui il primo a sceglierla, ma è stato il primo – credo – ad aver istruito le folle per questo obbiettivo, e a dimostrare nei fatti l’efficacia pratica di questo ideale. E sappiamo anche che egli stesso ha pagato il prezzo di questa rivoluzione politica pacifica, con il proprio martirio.

Non-violenza nell’islam?

Muhammad Tahir ul-Qadri ha osato opporsi alla devastante corrente del terrorismo, per strappargli ogni pretesa religiosa: in nome dell’islam o in nome di Dio – che lo si chiami Allah, o Dio, o qualunque altro nome - nessuno può pretendere di ottenere il bene e la giustizia attraverso la violenza. Dio – qualunque siano le descrizioni che gli uomini (considerati profeti ) gli abbiano dato – non può identificarsi con la violenza.

Quadri non è il primo a condannare il terrorismo islamico: prima di lui, lo hanno fatto diverse personalità religiose musulmane. Fra questi: il gran rettore dell’università Al-Azhar, lo sheikh Muhammad Sayyed Tantawi. Ma Quadri è senz’altro il primo nell’islam ad affrontare il tema in maniera così radicale, scrivendo un trattato di 600 pagine per rispondere a tutti gli argomenti ispirati dal Corano o dalla Sunnah (tradizione) islamica.

È caratteristico del terrorismo islamico giustificare la propria pratica appoggiandosi su versetti coranici e su argomenti tratti dalla Sunnah. E per avere la certezza che essi – compiendo l’atto terroristico – fanno il gesto di pietà suprema, lo compiono solo dopo aver ricevuto una fatwa.

Al contrario, per Quadri la violenza non è mai accettabile; essa è contro Dio stesso.

È proprio quanto Benedetto XVI ha sviluppato a modo suo a Regensburg, nel famoso discorso del 12 settembre 2006, dicendo che la violenza è un atto irrazionale e per conseguenza contrario a Dio, che è ragione, e contrario alla religione.

Violenza giustificata dall’ingiustizia?

Spesso si sente dire che il terrorismo islamico non è che una reazione contro l’ingiustizia subita dal mondo musulmano ad opera del colonialismo e dell’imperialismo. Si cita la creazione dello Stato d’Israele nel 1948 sulla Terra d’Islam (Dâr al-Islâm), e il terrorismo praticato dai Paesi occidentali, specie gli Usa, contro il mondo musulmano. In particolare si utilizza molto l’argomento anti-Usa, soprattutto dopo che George W. Bush ha parlato di “crociata” a proposito della guerra contro l’Iraq.

Vi è comunque una differenza di misura fra il “terrorismo islamico” e il “terrorismo degli Usa”: i primi si appoggiano sul Corano e sulle fatwa degli uomini di religione; i secondi non si appoggiano sul Vangelo e sui Padri della Chiesa e nemmeno sull’insegnamento degli uomini di religione, ma lo fanno in nome della loro civiltà.

Per questo, non stupisce che il mondo consideri orribili la religione dei primi e la civiltà dei secondi.

Per questo è importante che gli americani discendano in piazza per protestare contro il terrorismo esercitato in nome della loro civiltà, e che i musulmani discendano in piazza per protestare contro il terrorismo esercitato in nome della loro religione.

Discendere in piazza non significa che io mi riconosco colpevole, ma che io protesto contro un misfatto compiuto in nome della ia religione e dunque in nome mio. In ogni caso io non sono certo responsabile di ciò che altri fanno. Ognuno è responsabile dei propri atti, e nessuno è responsabile per gli altri. Come dice il Corano (6/164) : “Ognuno pecca contro se stesso: nessuno porterà il fardello di un altro”.

La violenza in nome dell’Islam, inoltre, è così diffusa che essa si esercita ormai più contro altri musulmani che contro i “miscredenti (kuffâr): pensiamo all’Algeria degli anni ’92-2002, dove più di 100 mila musulmani (da 60 a150 mila, secondo le stime) sono stati uccisi, spesso sgozzati vivi o sventrati; pensiamo alle carneficine fra sunniti e sciiti in Iraq o in Pakistan…

Si sente spesso dire che le folle fanatiche sono manipolate dai loro governi che vogliono distogliere l’attenzione dei loro sudditi dai veri problemi. È vero!

Ma com’è che, per fare ciò, tali governo utilizzano l’islam? Il fatto è che troppi musulmani sono facilmente manipolabili in nome dell’islam.

Come sempre, si tratta di segnare bene la differenza: la religione non ha nulla a che fare con la difesa della terra e il concetto di “Terra islamica” (Dâr al-Islâm) è oggi superato e inaccettabile nel diritto internazionale. Se un Paese viene aggredito, io lo difenderò qualunque esso sia, in nome del diritto internazionale e della giustizia, ma non in nome di una religione, a meno che la religione non aiuti ad essere sensibile al diritto internazionale e alla giustizia).

Purtroppo, la violenza e il terrorismo degli islamisti sono divenuti quasi un mezzo normale per regolare i nostri problemi. E il peggio è che ciò viene giustificato ricorrendo alla religione.

Conclusione

La fatwa di Quadri è un gesto importante. Esa può essere come un fendente di spada nell’acqua, ma anche l’inizio di un movimento di pensiero e d’azione! Non è la fatwa che cambierà le cose. Come si dice: una rondine non fa primavera; allo stesso modo, una fatwa non fa una dottrina. Tanto più che le fatwa sono ormai migliaia ogni anno sui temi più disparati e obsoleti.[1]

Ad ogni modo questa fatwa è un gesto profetico. Una fatwa di 600 pagine (in realtà è un trattato) potrebbe suscitare un dibattito fra intellettuali e religiosi. È un atto di ragione, un atto riflesso, maturato durante gli anni.

Dipenderà dai sapienti musulmani e dalle folle musulmane (ma anche da tutti noi) che questo atto divenga una corrente di azione concertata e riflessa, per lavare l’islam (e ogni corrente religiosa) dalla vergogna d’aver attribuito a Dio la fonte d’ispirazione del Male assoluto. Il mondo ha bisogno di atti positivi.

Non basta dire e ripetere che “l’Islam vuol dire salâm, pace!”: è troppo facile. Occorrono dei gesti. Allo stesso modo in cui ci sono manifestazioni delle folle – attizzate dai discorsi degli ulema – contro le “caricature danesi”, o contro il discorso di Benedetto XVI a Regensburg, o – più recente – contro la persona e il pensiero di Talima Nasreen nel Karnataka, così occorrono manifestazioni di popolo per la non violenza.

Giorni fa il presidente Kadhafi ha proclamato un jihad contro la Svizzera, per salvare l’onore di suo figlio Hannibal! Come è possibile che questa sia l’unica reazione a venire in mente a un capo di Stato?

Il nostro mondo musulmano è in piena crisi e questo da numerosi decenni. Noi non osiamo confrontarci con la modernità per ripensare noi stessi, per distinguere il positivo e il negativo e proporre riforme che non siano un ritorno al passato, a una pseudo età d’oro, quella dei “califfi ben guidati” (al-khulafâ’ ar-râshidûn), dei quali tre su quattro sono morti assassinati.

Facciamo le nostre riforme, per ritrovare un po’ la nostra dignità in questo mondo arabo-musulmano. Forse l’occidente ci potrà guardare in un altro modo!



[1] Non più tardi di domenica 7 marzo 2010, il quotidiano libanese Al-Nahar ha dato a pag 11 un resoconto a firma del palestinese Jawwâd al-Bashiti dell’ultima fatwa dello sheikh saudita Abd al-Rahmân al-Barrâk, che propugna la morte per ogni persona che autorizzi le scuole miste.


"Sapere il mistero" di Inos Biffi - La nostalgia delle certezze intramontabili - Nell'ambito del progetto di pubblicazione dell'Opera omnia di Inos Biffi è uscito il volume Sapere il mistero. Il mistero di Cristo (Milano, Jaca Book, 2010, tomo i, pagine 506, euro 56). Ne ha scritto per "L'Osservatore Romano" il cardinale arcivescovo emerito di Bologna. - di Giacomo Biffi - L'Osservatore Romano - 11 marzo 2010
Dopo i sei volumi, corposi e densi, che raccolgono le ricerche e le valutazioni sulla teologia medievale nelle sue varie epoche e nelle diverse "scuole", monsignor Inos Biffi - nell'ambito dell'imponente progetto dell'Opera omnia - comincia a offrirci radunati in questo nuovo volume i risultati della sua riflessione speculativa.
Il discorso che qui inizia è diverso, ma in effetti non c'è tra i primi libri e questo nessuna cesura: le vaste e puntigliose indagini storiche hanno nutrito e arricchito (lo si percepisce subito) la meditazione teoretica, preservandola dall'inconsistenza e dalla superficialità che talvolta capita di incontrare nella letteratura teologica dei nostri tempi. Anzi, esse sono paradossalmente tra le ragioni dell'originalità e (mi arrischio a dire) persino della singolare "attualità" di un pensiero robusto come questo.
Queste pagine esaudiscono, mi pare, le inespresse aspirazioni di un'umanità che principia a essere un po' sazia delle cangianti "mode teologiche"; e, anche quando non se ne rende conto, avverte qualche nostalgia delle "certezze intramontabili" e della "verità" sostanziale che, continuando a sussistere nel mondo eterno di Dio, è venuta a "porre la sua tenda tra noi" (cfr. Giovanni, 1, 14).
"Io ho quel che ho donato", diceva Gabriele D'Annunzio che non aveva regalato molto di più della magia rutilante del suo eloquio. Inos Biffi, al contrario, è convinto di avere (anzi di essere) quello che ha ricevuto; soprattutto che ha ricevuto da una delle più luminose e feconde epoche della civiltà cristiana, alla quale ha avuto la ventura, la capacità, la costanza di abbeverarsi.
Di più, egli è convinto di essere quello che è anche in virtù degli insegnanti che ha potuto personalmente ascoltare. Così si spiega perché questo libro si apra con la rassegna (acuta, oggettiva, riconoscente) della mirabile schiera di maestri che - negli anni Quaranta e Cinquanta - hanno costituito nel Seminario di Venegono, senza neppure proporselo esplicitamente, una "scuola" imparagonabile di contemplazione e di vita. La trentina di pagine che in apertura egli dedica al suo "itinerario teologico" e, come egli la chiama, alla "ghirlanda" di maestri che l'hanno ispirato e guidato, non sono soltanto illuminanti per la comprensione della sua personalità: rappresentano altresì la migliore e più perspicace rievocazione di una stagione ecclesiale da non dimenticare, che adesso rischia invece di uscire definitivamente dalla conoscenza delle nuove generazioni.
A dire in sintesi il contenuto ontologico della prospettiva totalizzante che qui è proposta, serve (e basta) una sola parola: cristocentrismo, purché la si intenda come va intesa; che non è un caso frequente.
Il cristocentrismo nel significato autentico e pieno "non si limita ad affermare che il Verbo incarnato sta al centro o al vertice di tutto" (p. 252).
Il cristocentrismo nel significato autentico e pieno prende sul serio quanto è chiaramente insegnato dall'inno della lettera ai Colossesi (1, 13-20). Gesù di Nazaret, "per mezzo del quale abbiamo la redenzione e il perdono dei peccati", non è solo alla fonte dell'ordine di salvezza e di elevazione soprannaturale; è anche "il primogenito di tutta la creazione perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e in terra" (vv. 15-16). Egli "è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono" (v. 17).
Secondo san Paolo, dunque, Gesù "è l'evento assolutamente originale, che sta al principio, senza nessun presupposto necessario o motivazione logica; proviene da una pura e inimmaginabile grazia divina; comprende e coinvolge tutto, senza che nulla di quanto esiste gli sia estraneo" (p. 9).
A questo punto si capisce che è abbastanza comico che qualche cultore della sacra doctrina abbia deciso a un certo momento di procedere a una "svolta antropologica", e se ne sia vantato. L'unica esauriente inimitabile svolta antropologica è stata compiuta dal Padre nel suo progetto libero ed eterno: un progetto tutto fondato sul fatto che il suo Unigenito, rimanendo a lui consostanziale, possieda in verità e pienezza la natura umana.
"Se dall'eternità l'uomo è nel disegno di Dio, perché il Figlio era predestinato a farsi uomo, si può parlare in modo speciale di assolutezza dell'umanità, in quanto traguardo di predilezione e di preferenzialità della Trinità" (p. 41). Allora, può concludere Inos Biffi, "sorge da questa inimmaginabile filantropia divina una sorpresa immensa e incontenibile, che si fa adorazione silenziosa" (ibidem).
Come si vede la connessione nostra, e di ogni uomo fosse il più remoto dal Vangelo, anzi di ogni creatura esistente con l'Unigenito del Padre, pensato e voluto prima di tutti i secoli anche come il Figlio di Maria, è di una intensità ontologica da dare le vertigini. "In lui Dio ha fatto tutto e detto tutto, e tutto donato" (p. 9). Se per ipotesi assurda Cristo fosse estromesso dalla realtà, si sfascerebbe ogni cosa e nulla più esisterebbe (cfr. p. 9).
Si intuisce agevolmente che, una volta che questo convincimento conquisti e appassioni l'intelligenza del teologo, l'intera sua esplorazione della verità rivelata arrivi ad altezze inedite e sorprendenti; di tutta la verità rivelata, da quella che concerne l'esistenza cristiana (pp. 337-424) a quella della vita trinitaria (pp. 427-446), a quella della misteriosa santità della Chiesa (pp. 446-459).
Da un po' di tempo mi punge un interrogativo un po' inquietante. Quanti anni ancora dovranno passare prima che almeno una buona parte della res publica theologica, italiana e non italiana, si avveda con gioia di un teologo e di una teologia di questa originalità, di questa ineccepibile ortodossia, di questo valore?
(©L'Osservatore Romano - 11 marzo 2010)


Se 500 cristiani macellati non fanno notizia - Antonio Socci - Da Libero, 9 marzo 2010 - Sui mass media la censura delle persecuzioni contro i cristiani continua in modi nuovi. E non parlo solo delle persecuzioni dei regimi comunisti o di quelli islamici.

Nei giorni scorsi, per esempio, in India, quindi in uno dei pochi stati democratici dell’Asia, sono stati arrestati centinaia di cristiani e addirittura tre vescovi cattolici, rei di aver promosso una marcia pacifica di 800 chilometri per sensibilizzare le autorità contro le discriminazioni ai danni dai “dalit” cristiani.

I “dalit”, cosiddetti “fuori casta” o “intoccabili”, sono quei 300 milioni di indiani che in base alla teologia induista da secoli sono considerati nulla e non hanno diritti.

Ebbene, i dalit convertiti al cristianesimo sono ancora più diseredati e discriminati degli altri, proprio perché cristiani. Alla pacifica richiesta di giustizia e uguaglianza da parte della Chiesa le autorità rispondono col pugno di ferro.

Questa vicenda però non buca le pagine delle cronache. Bisogna che scorra sangue cristiano – come l’anno scorso, proprio in India, nello stato dell’Orissa, con i feroci pogrom di fondamentalisti indù contro i cristiani – perché i perseguitati cristiani possano essere un po’ considerati dai nostri mass media.

Ma anche in questo caso c’è modo e modo. Ieri, per esempio, dalla Nigeria è arrivata la notizia di 300 cristiani (perlopiù donne e bambini) ammazzati da islamici a colpi di machete nel villaggio di Dogo Nahawee (poi si è appreso che le vittime sono almeno 500).

Su alcuni giornali – compreso il Corriere della sera – la notizia del massacro è stata data per quello che è, in quanto da qualche anno si è cominciato ad aprire gli occhi: ricordo che quando, dieci anni fa, pubblicai il mio libro-denuncia sul martirio in corso dei cristiani (“I nuovi perseguitati”, edizioni Piemme), molti colleghi, anche autorevoli direttori (ricordo in particolare Paolo Mieli), mi confessarono il loro stupore per un fenomeno che neanche avevano mai immaginato.

Ma c’è chi continua a disinteressarsene e privilegia la propria ostilità pregiudiziale. Così l’Unità ieri ha dedicato al massacro Doko Nahawee una breve e remota notiziola presentandola con questo titolo: “Nigeria. Oltre 100 morti in disordini tra musulmani e cristiani”.

Una mattanza di cristiani, perpetrata a freddo, diventa un generico “disordine” dove non sembrano esserci né vittime né carnefici.

In questo modo ovviamente non si comprende nulla nemmeno del quadro geopolitico generale, dove un vasto tentativo di islamizzazione dell’Africa da parte dei Paesi arabi trova spesso un sorprendente alleato nella Cina interessata al petrolio. Connubio evidente in Sudan.

Ma anche il genocidio del Sudan, dove il regime islamista del Nord per venti anni ha massacrato le popolazioni cristiane e animiste del Sud per imporre la sharia, facendo circa due milioni di vittime, può essere rappresentato come un generico scontro fra cristiani e musulmani, in quanto i cristiani col tempo hanno organizzato una loro resistenza al genocidio.

E in effetti talora si è rappresentata la situazione sudanese così, come un’interminabile serie di scontri fra musulmani e cristiani.

In realtà, per capire cos’è il Sudan basti riportare una dichiarazione di Peter Hammond, direttore di Frontline Fellowship, intervistato da WorldNetDaily (27.5.2001): “Qualche tempo fa, la Corte Suprema sudanese ha stabilito che la crocifissione degli apostati, cioè di persone che erano musulmane praticanti e che si sono convertite al cristianesimo, è costituzionale. E questo (sudanese) è lo Stato che ha rimpiazzato quello statunitense nella Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite”

Ma – per tornare alla Nigeria – ieri c’è pure chi ha fatto peggio dell’Unità. La Repubblica, addirittura in prima pagina, ha titolato alla maniera dell’Unità, confondendo vittime e carnefici: “Nigeria, massacro infinito tra cristiani e musulmani”.

Poi l’articolo di Guido Rampoldi, che stava sotto, ha superato l’Unità, perché non si è limitato a scolorire il macello del giorno, contro i cristiani, in una indefinita sequela di disordini e di scontri. Ha fatto molto di più. Ha realizzato un reportage dove si rappresentano i cristiani (soprattutto loro) nella parte dei feroci carnefici.

E com’è possibile, visto che le 300 vittime di Dogo Nahawee sono cristiane? Semplice. Rampoldi non fa un reportage da lì, dov’è la notizia del giorno, ma da Kuru Karama, dove due mesi fa vi è stato un assalto di cristiani con vittime musulmane.

Ora, che la Nigeria sia un paese diviso a metà fra cristiani e musulmani e che molti cristiani abbiano cominciato a rispondere alla violenza con la violenza, è purtroppo vero. E le violenze sono tutte egualmente da condannare: i vescovi cattolici infatti non si stancano di implorare i fedeli di non rispondere agli attacchi con le armi.

Ma la scelta di Repubblica è davvero singolare, perché il fatto del giorno, secondo le più elementari leggi del giornalismo, è l’eccidio di cristiani avvenuto a Doko Nahawee.

E fa una certa impressione che il reportage di Rampoldi liquidi il massacro, ancora caldo, di trecento o “forse cinquecento” cristiani in tre righe tre, rappresentando poi per tutta la pagina i cristiani come sanguinari sterminatori.

In genere sui mass media quello che si vuole evitare di vedere e di riferire è che in tutti i paesi islamici i cristiani e le altre religioni sono discriminate e perseguitate, mentre da nessuna parte i cristiani perseguitano i musulmani.

Dove sta il problema? Nell’establishment intellettuale dell’Occidente che pretende di vedere i cristiani sempre sul banco degli accusati e che non sopporta di riconoscerli come vittime.

E’ il pregiudizio anticristiano – soprattutto anticattolico – che ha impedito finora di accorgersi di una clamorosa e dolorosa verità: che, cioè, i cristiani (e specialmente i cattolici), negli ultimi 50 anni, sono stati e sono il gruppo umano più discriminato del pianeta, perché sono perseguitati sotto tutti i regimi e a tutte le latitudini, mentre loro non perseguitano alcuna religione o ideologia, ma, anzi, con un esercito pacifico di missionari e opere di carità, aiutano tutti i sofferenti e i diseredati, dovunque, di qualsiasi credo o idea o etnia, senza nulla chiedere in cambio.

Solo per amore. Chi altro predica e testimonia l’amore e l’amore anche per i nemici?

Uno dei pochi coraggiosi intellettuali a denunciare questa assurda situazione dei cristiani è stato lo scrittore ebreo-americano Michael Horowitz in un suo memorabile scritto nel libro di Paul Marshall e Lela Gilbert, Their Blood cries out (Dallas 1997).

Horowitz afferma che per governi e mass media l’idea che i Cristiani siano oggi delle vittime “semplicemente non è concepibile. Armati della conoscenza dei peccati commessi nel nome della Cristianità e orrendamente inconsapevoli del ruolo fondamentale della Cristianità nella storia dell’Occidente, le élite dei giorni nostri sono indotte a pensare ai Cristiani come coloro che perseguitano, non come le vittime”.

Così “un’élite intellettuale che nei suoi interventi ha avuto a cuore i Buddisti del Tibet, gli Ebrei della passata Unione Sovietica e i Musulmani di Bosnia, trova facile respingere l’idea che i Cristiani possano essere egualmente vittime”.

E quando nella cronaca tracima il loro sangue, si può sempre parlar d’altro o confondere le acque. Perché in fondo nemmeno i cattolici conoscono veramente le dimensioni della persecuzione alla Chiesa. E difficilmente si attivano per aiutare i propri perseguitati.

Alla fine però resta sempre in sospeso un inquietante interrogativo: perché, nel mondo, tanto odio contro i cristiani?

E perché, in Italia, la Sinistra giornalistica e politica è così acrimoniosa contro la Chiesa e ostile ai cattolici, se poi pretende di avere il loro consenso e il loro voto?

Antonio Socci - Da Libero, 9 marzo 2010


Introvigne al convegno vaticano: Le vere cause della crisi del sacerdozio - Oggi 11 marzo si apre a Roma il convegno della Congregazione per il Clero sull'Anno Sacerdotale. Il 12 marzo è previsto l'intervento del Santo Padre Benedetto XVI. Trascrivo la mia relazione nella sintesi che è consegnata ai giornalisti (sufficiente ai non specialisti) e a seguire nel testo completo

“Recenti” mutazioni antropologiche
Massimo Introvigne
Sintesi della relazione al convegno teologico internazionale Fedeltà di Cristo, fedeltà del sacerdote organizzato dalla Congregazione per il Clero presso la Pontificia Università Lateranense – Roma, 11 marzo 2010

L’analisi di alcuni mutazioni antropologiche che sembrano di particolare rilievo per il sacerdozio cattolico è condotta in questo contributo secondo i principi della teoria sociologica detta dell’economia religiosa. Il punto di partenza della teoria è l’idea che alla sociologia delle religioni sia possibile applicare con frutto modelli, usati beninteso come semplici metafore, che derivano dagli studi sull’economia. Il “campo religioso” è studiato anche come una forma di “mercato” in cui organizzazioni in concorrenza fra loro si contendono la fedeltà di “consumatori religiosi”.
Le teorie dell’economia religiosa si sono occupate anche del sacerdozio e della vita consacrata cattolica. Corre quest’anno il decennale di uno studio famoso pubblicato nel 2000 da due dei padri dell’economia religiosa, Rodney Stark e Roger Finke: “La vocazione religiosa cattolica: declino e risveglio”. I due sociologi vi prendono in esame la caduta libera delle vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa maschile e femminile cattolica in sei Paesi – Stati Uniti d’America, Canada, Francia, Germania, Gran Bretagna e Olanda – nei trent’anni successivi al Concilio Ecumenico Vaticano II. Dal punto di vista quantitativo, la caduta è stata spettacolare soprattutto fra i candidati al sacerdozio – da -81% in Olanda a -54% in Gran Bretagna –, quindi fra le vocazioni religiose maschili, da -82% in Gran Bretagna a -68% in Francia, nonché, in misura minore, fra quelle femminili: da -51% in Olanda a -43% in Gran Bretagna.
Tra l’altro, la caduta davvero impressionante negli Stati Uniti delle vocazioni maschili inizia alla fine degli anni 1960 e ha i suoi tassi più significativi in un’epoca precedente agli episodi di pedofilia attribuiti a sacerdoti, i quali dunque – per quanto possano avere contribuito alla crisi vocazionale – non ne sono la causa principale.
Per Stark e Finke la caduta del numero delle vocazioni è repentina e discontinua, e avviene principalmente nel quadriennio 1966-1969, con successiva stabilizzazione verso il basso fino almeno alla fine del XX secolo. Finke e Stark ne concludono che si deve cercare come causa principale del declino delle vocazioni una serie di avvenimenti, che si è verificata nella seconda metà degli anni 1960 in modo improvviso. Secondo i due sociologi americani, può trattarsi solo dell’insieme di fattori che derivano dalla crisi successiva al Concilio Ecumenico Vaticano II, come è noto particolarmente grave negli Stati Uniti. Applicando il modello dell’economia religiosa, Stark e Finke affermano che, con questi avvenimenti, i costi della scelta sacerdotale e religiosa cattolica sono diminuiti in modo marginale – forse la disciplina si è rilassata, ma la struttura fondamentale improntata a rinuncia al matrimonio, povertà e obbedienza è rimasta ben presente – mentre i benefici sono diminuiti in modo repentino e drammatico. La crisi postconciliare ha reso meno viva sia la communitas all’interno dei presbiteri e dei conventi, sia la stima unica di cui le figure sacerdotali e religiose godevano all’interno del mondo cattolico.
È possibile una controprova empirica. Se si paragona la situazione dei sei Paesi studiati da Stark e Finke con quella del Portogallo, della Spagna e dell’Italia ci si accorge che dopo il 1965 in questi Paesi il numero di vocazioni, se diminuisce, non lo fa con lo stesso ritmo drammatico. Qui le figure sacerdotali e religiose continuano a godere di autorevolezza e stima confermata da numerose indagini statistiche e anche dalla cultura popolare. Pensiamo a come nei film e negli sceneggiati televisivi in Italia i sacerdoti e le suore siano rappresentati in modo in genere più favorevole rispetto ai prodotti di Hollywood. Ma è anche vero che in Italia o nella penisola iberica la crisi e il dissenso postconciliari, pure non assenti, non hanno raggiunto il grado di virulenza degli Stati Uniti.
Non si deve naturalmente esagerare la tenuta dei dati quantitativi relativi al clero e alle comunità cattoliche in Paesi come l’Italia. Tra l’altro i dati sulla partecipazione alla Messa devono tenere conto del cosiddetto over-reporting, cioè della discrepanza fra quanti affermano di andare a Messa tutte le domeniche nelle survey condotte per telefono o via questionari e quanti di fatto sono contati alle porte delle chiese in un week-end tipo. Sono in grado di anticipare i risultati di una ricerca, non ancora pubblicata, da me diretta nel 2009 nella diocesi siciliana di Piazza Armerina, che comprende oltre al capoluogo alcuni grossi centri come Enna e Gela. Nell’area della ricerca dichiara di andare a Messa almeno una volta la settimana il 30,1% della popolazione mentre la rilevazione alle porte delle chiese ha attestato una frequenza del 18,3%. Senza far dire al dato statistico più di quello che effettivamente dice, i numeri meritano qualche riflessione.
Un’altra controprova delle tesi di Stark e Finke, sulla cui pista metteva già la loro ricerca del 2000, consiste nel fatto che dove è promossa negli ultimi anni una vita religiosa e sacerdotale più immune dalla contestazione, più vivace e calorosa e più fedele alle indicazioni del Magistero della Chiesa, lì le vocazioni risalgono. In base a certi parametri, già Stark e Finke costruivano due elenchi, uno delle diocesi statunitensi considerate – almeno dalla stampa – più “ortodosse” e l’altro di quelle più toccate dal dissenso e dalla contestazione del Magistero. Il numero di ordinazioni e di seminaristi in percentuale sul numero dei cattolici diocesani risultava tre volte superiore nelle diocesi “ortodosse” rispetto a quelle dove più forte era il dissenso.
Tutta la discussione va inquadrata in un contesto sociologico più generale, applicando alle organizzazioni religiose la teoria del free rider: il soggetto “che non paga il biglietto”, che partecipa a un’organizzazione sociale cercando di ottenerne i benefici senza pagare i costi. Anche tra chi frequenta i sacerdoti e va a Messa molti vogliono solo “assistere”, non “partecipare” o contribuire. Le organizzazioni, le congregazioni e le parrocchie più rigorose e “ortodosse” chiedono di più, e quindi diminuiscono il numero di free rider. Si potrebbe ritenere che “chiedendo di più” sia i fedeli sia le vocazioni diminuiscano. In realtà spesso avviene il contrario. I “consumatori religiosi” sono disposti a pagare di più – entro certi limiti – se pensano di ottenere di più.
Naturalmente perché una congregazione cattolica non sia composta in maggioranza di free rider, abbia un buon rapporto con i suoi sacerdoti e generi anche vocazioni non basta una sociologia dell’efficienza. Occorre che ciascuno si senta partecipe e non solo spettatore, e prima di dare il suo contributo si senta “preso in cura” personalmente dal sacerdote. Se si vuole ridurre il numero di free rider occorre assicurarsi che il contatto personale e autorevole fra sacerdote – particolarmente, parroco – e fedeli sia sempre garantito. E ci si può chiedere se sia proprio così quando si passa dalle parrocchie alle unità pastorali, con la conseguenza di “allungare” le relazioni mentre sono proprio quelle che la sociologia chiama “relazioni corte”, più personali e dirette, a garantire contro la proliferazione dei free rider.
Naturalmente, la sociologia di per sé non risolve nessun problema pastorale e può dare contributi utili solo se si presenta con la necessaria umiltà metodologica. Ultimamente, vale anche per i sociologi il richiamo di Benedetto XVI nel discorso all’udienza generale del 1° luglio 2009, dedicata all’Anno Sacerdotale: “A fronte di tante incertezze e stanchezze anche nell’esercizio del ministero sacerdotale, è urgente il recupero di un giudizio chiaro ed inequivocabile sul primato assoluto della grazia divina, ricordando quanto scrive san Tommaso d’Aquino: ‘Il più piccolo dono della grazia supera il bene naturale di tutto l’universo’”.

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“Recenti” mutazioni antropologiche
Massimo Introvigne
Relazione al convegno teologico internazionale Fedeltà di Cristo, fedeltà del sacerdote organizzato dalla Congregazione per il Clero presso la Pontificia Università Lateranense – Roma, 11 marzo 2010

L’analisi di alcuni mutazioni antropologiche che sembrano di particolare rilievo per un accostamento sociologico ai problemi che il sacerdozio cattolico incontra oggi è condotta in questo contributo secondo i principi della teoria sociologica detta dell’economia religiosa. I fondatori di questa teoria sono i sociologi statunitensi Rodney Stark, Roger Finke e Laurence R. Iannaccone, e il punto di partenza del loro metodo è l’idea che alla sociologia delle religioni sia possibile applicare con frutto modelli che derivano dagli studi sull’economia. Il “campo religioso” è studiato anche come una forma di “mercato” in cui organizzazioni in concorrenza fra loro si contendono la fedeltà di “consumatori religiosi”. La teoria può sembrare brutale e perfino “scandalosa” in alcune sue formulazioni: va interpretata con un certo beneficio d’inventario, non senza affiancarle altri modelli interpretativi. Quella del “mercato religioso” non può che essere una metafora, un utensile metodologico, se non si vuole correre il rischio di ridurre la religione a un prodotto fra altri. Con queste precisazioni, la teoria si è rivelata però spesso utile come strumento sia d’interpretazione ex post sia di previsione ex ante.
Occorre, del resto, sgomberare il terreno da un equivoco frequente in tema di teorie dell’economia religiosa. Potrebbe sembrare che queste teorie s’interessino solo di come è “venduto” ciascun “prodotto” religioso, trascurando le dottrine. È precisamente il contrario. Proprio se si applicano modelli mutuati dalla scienza economica non ha senso ignorare le dottrine, perché sono le dottrine il “prodotto” che le “aziende religiose” offrono. Sarebbe come occuparsi del mercato delle automobili ignorando le automobili. Scrivono Stark e Finke che “nella pratica i comportamenti religiosi e la teologia sono collegati. Contrariamente alle proteste dei nostri critici meno attenti secondo cui il nostro accostamento riduce semplicemente la religione al marketing, abbiamo sempre sostenuto che l’incapacità di alcune denominazioni, quelle ‘progressiste,’ di ‘vendersi’ con successo trova le sue radici nelle loro dottrine – solo vivide concezioni di un soprannaturale attivo e provvidente possono generare un’atmosfera religiosa vigorosa” (Stark e Finke 2000a, 257-258).
Le teorie dell’economia religiosa si sono occupate anche del sacerdozio e della vita consacrata cattolica. Corre quest’anno il decennale di uno studio molto famoso e anche discusso – che vorrei particolarmente analizzare in questo intervento – pubblicato nel numero di dicembre del 2000 della Review of Religious Research, organo della Religious Research Association, dagli stessi Stark e Finke, con il titolo Catholic Religious Vocation: Decline and Revival, “La vocazione religiosa cattolica: declino e risveglio” (Stark e Finke 2000b). A giusto titolo, questa ricerca è stata considerata un esempio tipico e paradigmatico di come “funziona” in concreto il metodo dell’economia religiosa. Potrà essere il punto di partenza anche per le nostre considerazioni.
I due sociologi prendono in esame la caduta libera delle vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa maschile e femminile cattolica in sei Paesi – Stati Uniti d’America, Canada, Francia, Germania, Gran Bretagna e Olanda – nei trent’anni successivi al Concilio Ecumenico Vaticano II e ne indagano le cause. Dal punto di vista quantitativo, la caduta è stata indubbiamente spettacolare soprattutto fra i candidati al sacerdozio – da -81% in Olanda a -54% in Gran Bretagna –, quindi fra le vocazioni religiose maschili, da -82% in Gran Bretagna a -68% in Francia, nonché, in misura minore, fra quelle femminili: da -51% in Olanda a -43% in Gran Bretagna (ibid., 125-126). Per una serie di ragioni metodologiche – prima fra tutte la popolarità dei gender studies nella sociologia delle religioni di lingua inglese – la maggior parte degli studi si sono concentrati, più che sui sacerdoti, sulle suore, e sono stati dominati dai lavori dalla sociologa dell’Università di Houston Helen Rose Ebaugh (a partire da Ebaugh 1977; Ebaugh 1993) e dei suoi allievi. Secondo la Ebaugh, il numero delle suore è diminuito a causa delle maggiori possibilità offerte alle donne cattoliche — cui la scelta della vita religiosa offriva in precedenza opportunità uniche di mobilità verso l’alto — nei campi dell’educazione e del lavoro secolari.
Stark e Finke nella ricerca citata contestano questa conclusione della sociologa di Houston. Pur riconoscendola come “elegante” e bene argomentata (Stark e Finke 2000b, 126), i due teorici dell’economia religiosa sospettando che la tesi della Ebaugh abbia qualcosa a che fare con la sua stessa biografia di ex-suora (dell’ordine della Divina Provvidenza) sposata e non sia completamente confermata dai dati empirici. E questo per diverse ragioni, di cui tre decisive. Anzitutto, perché negli stessi anni insieme al numero di vocazioni religiose femminili è diminuito anche quello delle vocazioni maschili sia religiose sia sacerdotali – anzi, quest’ultimo in misura maggiore –, che non dovrebbe avere relazioni dirette con le opportunità di realizzarsi nella vita secolare offerte alle donne. Tra l’altro le mutazioni sono “recenti” fra virgolette – come nel titolo che gli organizzatori hanno assegnato a questa comunicazione – perché la ricerca di Stark e Finke mostra come la caduta davvero impressionante negli Stati Uniti delle vocazioni maschili inizi alla fine degli anni 1960 e abbia i suoi tassi più significativi in un’epoca precedente agli episodi di pedofilia attribuiti a sacerdoti, i quali dunque – per quanto possano avere contribuito alla crisi vocazionale – non ne sono la causa principale.
In secondo luogo la tesi della Ebaugh non appare convincente perché applicando gli “indici” costruiti dalla sociologa del Texas per misurare le “possibilità secolari” offerte alle donne, si conclude che queste “possibilità” aumentano in modo continuo almeno a partire dal 1948. Ma, dal 1948 al 1965, pur crescendo le possibilità di educazione e carriera secolari offerte alle donne negli Stati Uniti, cresce anche il numero di suore. Dal 1965 in poi, le “possibilità secolari” continuano a crescere, ma il numero di suore invece diminuisce.
Infine, mentre il processo di crescita delle “possibilità secolari” – anche per i cattolici americani di sesso maschile, le cui comunità hanno conosciuto una notevole mobilità sociale verso l’alto – è graduale e continuo, la caduta del numero delle vocazioni è repentina e discontinua, e avviene principalmente nel quadriennio 1966-1969, con successiva stabilizzazione verso il basso fino almeno alla fine del XX secolo. Finke e Stark ne concludono che si deve cercare come causa principale del declino delle vocazioni un avvenimento, o una serie di avvenimenti, che si è verificato nella seconda metà degli anni 1960 in modo improvviso e che ha coinvolto sia gli uomini sia le donne cattoliche. Questo avvenimento, secondo i due sociologi americani, può essere solo l’insieme di fattori che derivano dalla crisi successiva al Concilio Ecumenico Vaticano II, come è noto particolarmente grave negli Stati Uniti. Applicando il modello dell’economia religiosa, Stark e Finke affermano che, con questi avvenimenti, i costi della scelta sacerdotale e religiosa cattolica sono diminuiti in modo marginale – forse la disciplina si è rilassata, ma la struttura fondamentale improntata a rinuncia al matrimonio, povertà e obbedienza è rimasta ben presente – mentre i benefici sono diminuiti in modo repentino e drammatico. La crisi postconciliare ha reso meno viva sia la communitas all’interno dei presbiteri e dei conventi, sia la stima unica di cui le figure sacerdotali e religiose godevano all’interno del mondo cattolico in generale, anche in forza della loro “separatezza” segnata da particolari caratteristiche distintive.
Giacché la teoria dell’economia religiosa postula che le scelte vocazionali non si sottraggono alla normale dinamica di una stima implicita del rapporto costi-benefici, Finke e Stark concludono che questo rapporto è stato improvvisamente e drammaticamente alterato negli anni tumultuosi del postconcilio statunitense, evidentemente sia per gli uomini sia per le donne. Lo stesso Benedetto XVI ha notato che “in un mondo in cui la visione comune della vita comprende sempre meno il sacro, al posto del quale, la ‘funzionalità’ diviene l’unica decisiva categoria”, “la concezione cattolica del sacerdozio” ha rischiato “di perdere la sua naturale considerazione, talora anche all’interno della coscienza ecclesiale” (Benedetto XVI 2009a). La visione esclusivamente funzionalistica del sacerdozio, che ne attenua l’unicità e la visibilità – mentre per Benedetto XVI la concezione “sacramentale-ontologica” e quella “sociale-funzionale” non devono essere “contrapposte, e la tensione che pur esiste tra di esse va risolta dall’interno” (ibid.) – deriva certamente da condizioni esterne alla Chiesa, ma ha pure cause interne: “anche all’interno della coscienza ecclesiale”, afferma il Papa.
È possibile una controprova empirica. Se si paragona la situazione dei sei Paesi studiati da Stark e Finke con quella del Portogallo, della Spagna e dell’Italia – trascuriamo la Polonia, la Lituania o Malta, dove giocano fattori nazionali identitari che rendono il paragone con gli Stati Uniti o il Nord Europa meno omogeneo – ci si accorge che dopo il 1965 in questi Paesi il numero di vocazioni, se diminuisce, non lo fa con lo stesso ritmo drammatico. Qui il declino delle vocazioni sembra essere stato frenato anzitutto da ragioni di tipo culturale: le figure sacerdotali e religiose continuano a godere di autorevolezza e stima confermata da numerose indagini statistiche e anche dalla cultura popolare. Pensiamo a come nei film e negli sceneggiati televisivi in Italia i sacerdoti e le suore siano rappresentati in modo in genere più favorevole rispetto ai prodotti di Hollywood. Ma è anche vero che in Italia o nella penisola iberica la crisi e il dissenso postconciliari, pure non assenti, non hanno raggiunto quel grado di virulenza bene illustrato per gli Stati Uniti da un piccolo libro giustamente famoso e influente del grande filosofo e romanziere cattolico recentemente scomparso Ralph McInerny (1929-2010), What Went Wrong With Vatican II (McInerny 1998).
Non si deve naturalmente esagerare la tenuta dei dati quantitativi relativi alla Chiesa Cattolica in Paesi come l’Italia. Sappiamo che anche qui ci sono problemi, non solo in tema di sacerdoti ma anche di fedeli. Tra l’altro i dati sulla partecipazione alla Messa, che non è l’unico indice dello stato di salute sociologico di una Chiesa ma è considerato da molti il più significativo, devono tenere conto del cosiddetto over-reporting, cioè della discrepanza fra quanti affermano di andare a Messa tutte le domeniche nelle survey condotte per telefono o via questionari e quanti di fatto sono contati alle porte delle chiese in un week-end tipo. Sono in grado di anticipare i risultati di una ricerca, non ancora pubblicata, da me diretta nel 2009 nella diocesi siciliana di Piazza Armerina, che comprende oltre al capoluogo alcuni grossi centri come Enna e Gela. Questa ricerca ha cercato di superare obiezioni metodologiche rivolte a precedenti studi analoghi e ha combinato una survey telefonica (metodo CATI) con una rilevazione molto minuta dei presenti a tutte le Messe in un week-end considerato tipico, considerando anche le celebrazioni di piccoli gruppi e movimenti e perfino le comunioni portate a casa ai malati. Ebbene nell’area della ricerca dichiara di andare a Messa almeno una volta la settimana il 30,1% della popolazione (il 33,6% afferma di partecipare alla Messa o ad altri riti religiosi ma si deve considerare un 3,5% di fedeli di confessioni religiose non cattoliche, in un’area che ha una forte presenza di protestanti pentecostali). La rilevazione alle porte delle chiese ha attestato una frequenza del 18,3%.
Leggendo questi dati occorre evitare la tentazione di considerare la rilevazione come lo strumento che ci permette di scoprire i praticanti “veri”, nella specie il 18,3%, contrapposti a ipotetici praticanti “falsi”, il 30,1%. Al dato statistico non va fatto dire più di quello che effettivamente dice. Anche il risultato della survey telefonica è a suo modo importante, oltre che in linea con survey italiane precedenti, e non è “smentito” dalla rilevazione. Indica un’intenzione e un’aspirazione a partecipare alla Messa che è di assoluto rilievo per ogni discorso sull’identità e l’identificazione dei cattolici della zona. Ci sono poi, emerse dalla stessa ricerca, le cerchie più vaste dei praticanti occasionali (51,4%) e dei cattolici che dichiarano di sentirsi parte della Chiesa (92,2%), dato quest’ultimo a sua volta inferiore al numero dei battezzati, il quale comprende pure persone che dopo il Battesimo hanno aderito ad altra religione o che si dichiarano non credenti. Una situazione, come si vede, complessa. Ma che mostra come anche in Italia i “numeri della crisi” meritino qualche riflessione.
Un’altra controprova delle tesi di Stark e Finke, sulla cui pista metteva precisamente già la loro ricerca del 2000, consiste nel fatto che dove è promossa, in particolare a partire dagli anni 1990, una vita religiosa e sacerdotale più immune dalla contestazione, più vivace e calorosa e più fedele alle indicazioni del Magistero della Chiesa, lì le vocazioni riprendono ad aumentare. Questo si verifica in comunità e ordini religiosi considerati – almeno nel linguaggio giornalistico – “conservatori” e anche in alcune diocesi statunitensi. In base a certi parametri, già Stark e Finke costruivano nella loro ricerca due elenchi, uno delle diocesi statunitensi considerate – almeno dalla stampa – più “ortodosse” e l’altro di quelle più toccate dal dissenso e dalla contestazione del Magistero. Esaminavano poi i dati relativi alle ordinazioni e ai seminaristi negli anni 1990 per concludere che il loro numero in percentuale sul numero dei cattolici diocesani era tre volte superiore nelle diocesi “ortodosse” rispetto a quelle dove più forte era il dissenso.
Stark e Finke – che non sono cattolici, anche se Stark ha recentemente annunciato, proprio sulla base di una riflessione sociologica sulla storia, il suo ritorno al cristianesimo, che non è però maturato nell’adesione a una specifica comunità o Chiesa – ribadivano nel loro studio di non volere affatto sostenere “che la Chiesa cattolica deve adottare una soluzione conservatrice per risolvere i suoi problemi di vocazioni” (Stark e Finke 2000b, 136). Evidentemente fornire indicazioni di questo genere non spetta alle scienze umane. Dal loro punto di vista, meramente tecnico, Stark e Finke osservavano che la Chiesa Cattolica avrebbe potuto risolvere la crisi vocazionale in due modi: diminuendo i costi o “restaurando i benefici tradizionali” (ibid., 137). Come emergeva in quello studio (ibid.), e ancor più nelle discussioni che ha generato, “diminuire i costi” è una formula che è stata perseguita, per esempio, da diverse branche della Comunione Anglicana: “paghe alte” – soprattutto negli Stati Uniti, buoni stipendi da manager per i vescovi – e “virtualmente nessuna restrizione”; porte aperte ai divorziati, agli omosessuali praticanti, e così via. I risultati anglicani, come è noto, non sono stati brillantissimi. “Restaurare i benefici tradizionali” sembrerebbe dunque più promettente che “diminuire i costi”.
Tutta la discussione sulla ricerca di Stark e Finke va inquadrata in un contesto sociologico più generale. Da molti anni la sociologia delle religioni nota che – contrariamente alla vulgata secondo cui il cristianesimo perde colpi perché non è in sintonia con il mondo moderno e mantiene posizioni anacronistiche e premoderne, soprattutto in tema di morale sessuale – di fatto, nel mondo protestante avanzano le denominazioni evangelical e pentecostali, la cui morale sessuale è spesso rigorosa, e il cui antagonismo verso la modernità è notevole. Perdono invece membri le comunità liberal, che pure ricevono l’applauso di certi media per le loro posizioni tolleranti in materia di aborto, eutanasia o omosessualità. Questo non avviene perché i cristiani siano irragionevoli e masochisti ma, al contrario, perché quelli che la teoria che ho illustrato chiama “consumatori religiosi” sono a loro modo eminentemente ragionevoli e, come tutti i consumatori, non considerano né i soli costi, né i soli benefici, ma il rapporto costi-benefici, che nelle religioni è spesso più favorevole là dove i costi sono più alti.
Questi fenomeni sono stati spiegati applicando alle organizzazioni religiose la teoria del free rider (cfr. Iannaccone 1992, 1994; Iannaccone, Olson e Stark, 1995). La formulazione classica di questa teoria si deve a Mancur Olson (1932-1998). Il free rider, il viaggiatore “che non paga il biglietto”, è colui che partecipa a una qualunque forma di organizzazione sociale cercando di ottenerne i benefici senza pagare i costi. Chi sale a bordo di un autobus senza pagare corrisponde perfettamente alla definizione: riesce a “viaggiare gratis”, ma solo nel senso che in realtà sono gli altri a pagare per lui. Secondo Olson la strategia del free rider può avere successo solo se il numero degli stessi free rider è limitato. Se alcuni non pagano il biglietto, l’autobus continuerà a viaggiare – al massimo, ai viaggiatori onesti sarà chiesto di pagare di più. Ma se quasi nessuno paga il biglietto la linea di autobus sarà costretta a chiudere, e nemmeno il free rider potrà più viaggiare gratuitamente. Lo stesso vale per organizzazioni assai più complesse di una linea di autobus, comprese le parrocchie: possono tollerare un certo numero di free rider, ma se il numero cresce, si trovano di fronte a problemi sempre più difficili da risolvere e infine cessano di funzionare. Anche nelle organizzazioni religiose o tra chi frequenta i sacerdoti e va a Messa molti vogliono solo “assistere”, non “partecipare” o contribuire. Sono tipici free rider. Il problema, però, è che i beni simbolici offerti dalle organizzazioni religiose sono non soltanto fruiti, ma anche prodotti collettivamente.
Le organizzazioni, le congregazioni e le parrocchie più rigorose e “ortodosse” chiedono di più, e quindi diminuiscono il numero di free rider. Si potrebbe ritenere che chiedendo di più – in linguaggio economico, aumentando i costi – sia i fedeli sia le vocazioni diminuiscano. In realtà spesso avviene il contrario. Le teorie economiche infatti c’insegnano che i consumatori cercano di minimizzare i costi e massimizzare i benefici. Non cercano soltanto di limitare i costi, a qualunque condizione, ma si sforzano di arrivare a un ragionevole equilibrio fra costi e benefici. Chi acquista un’automobile non cerca semplicemente di spendere il meno possibile: anzi, sa che spendendo troppo poco sarà verosimilmente ingannato dal proverbiale venditore disonesto di auto usate. Anche i “consumatori religiosi” sono disposti a pagare di più – entro certi limiti – se pensano di ottenere di più. Nel loro caso non si tratta principalmente di costi economici, ma di costi simbolici. Chiedendo di rispettare norme che creano tensione con la maggioranza sociale in settori come la morale sessuale o il rapporto con la verità in una cultura dominata dal relativismo, le organizzazioni religiose creano barriere di entrata e riducono il numero di potenziali free rider che potrebbero entrare.
Naturalmente perché una congregazione cattolica sia viva, non sia composta in maggioranza di free rider, abbia un buon rapporto con i suoi sacerdoti e generi anche vocazioni sacerdotali e religiose non basta una sociologia dell’efficienza. Occorre che ciascuno si senta partecipe e non solo spettatore, e prima di dare il suo contributo si senta “preso in cura” personalmente dal sacerdote. Da questo punto di vista se si vuole ridurre il numero di free rider occorre assicurarsi che il contatto personale e autorevole fra sacerdote – particolarmente, parroco – e fedeli sia sempre garantito. E ci si può chiedere se sia proprio così quando si passa dalle parrocchie alle unità pastorali, con la conseguenza di “allungare” le relazioni mentre sono proprio quelle che la sociologia chiama “relazioni corte”, più personali e dirette, a garantire contro la proliferazione dei free rider: i quali, si potrebbe dire, non sono sempre free rider per colpa loro.
Ancora una volta, da sociologo, vorrei insistere sul fatto che la sociologia di per sé non risolve nessun problema pastorale e può dare contributi utili solo se si presenta con la necessaria umiltà metodologica. L’accostamento alla religione in termini di mercato, consumatori, costi e benefici potrà perfino scandalizzare chi ha meno familiarità con le teorie della religious economy. E sarebbe giusto che fosse così se queste non fossero – insisto sul punto, a costo di ripetermi – soltanto metafore, elementi metodologici da considerare come semplici – e umili – strumenti. Ultimamente, vale anche per i sociologi il richiamo di Benedetto XVI nel discorso all’udienza generale del 1° luglio 2009, dedicata all’Anno Sacerdotale: “A fronte di tante incertezze e stanchezze anche nell’esercizio del ministero sacerdotale, è urgente il recupero di un giudizio chiaro ed inequivocabile sul primato assoluto della grazia divina, ricordando quanto scrive san Tommaso d’Aquino [1225-1274]: ‘Il più piccolo dono della grazia supera il bene naturale di tutto l’universo’ (Summa Theologiae, I-II, q. 113, a. 9, ad 2)” (Benedetto XVI 2009b).

Riferimenti
Benedetto XVI. 2009a. Udienza Generale, 24 giugno 2009, Anno Sacerdotale.
Benedetto XVI. 2009 b. Udienza Generale, 1° luglio 2009, Anno Sacerdotale (2).
Ebaugh, Helen Rose. 1977. Out of the Cloister. A Study of Organizational Dilemma. University of Texas Press, Austin (Texas).
Ebaugh, Helen Rose, 1993. Women in the Vanishing Cloister. Organizational Decline in Catholic Religious Orders in the United States. Rutgers University Press, New Brunswick (New Jersey).
Iannaccone, Laurence R. 1992. “Sacrifice and Stigma: Reducing Free-Riding in Cults, Communes, and Other Collectives”. Journal of Political Economy, vol. 100, n. 2, aprile 1992, pp. 271-292.
Iannaccone, Laurence R. 1994. “Why Strict Churches are Strong”. American Journal of Sociology, vol. 99, n. 5, marzo 1994, pp. 1180-1211.
Iannaccone, Laurence R. - Daniel V. A. Olson - Rodney Stark. 1995. “Religious Resources and Church Growth”. Social Forces, vol. 75, n. 2, dicembre 1995, pp. 705-731.
McInerny, Ralph M.. 1998. What Went Wrong With Vatican II. The Catholic Crisis Explained. Sophia Institute Press, Manchester (New Hampshire) (trad. it. Vaticano II. Che cosa è andato storto?, Fede & Cultura, Verona 2009).
Olson, Mancur. 1965. The Logic of Collective Action. Harvard University Press, Cambridge (Massachusetts) (trad. it. La logica dell’azione collettiva, Feltrinelli, Milano 1983).
Stark, Rodney - Roger Finke. 2000a. Acts of Faith. Explaining the Human Side of Religion. University of California Press, Berkeley.
Stark, Rodney - Roger Finke. 2000b. “Catholic Religious Vocation: Decline and Revival”. Review of Religious Research vol. 42, n. 2, dicembre 2000, pp. 125-145.


Harvard ha paura di Dio - Lorenzo Albacete - giovedì 11 marzo 2010 – ilsussidiario.net
Uno degli argomenti in discussione la settimana scorsa ha riguardato il contenuto e la forma di quella “riforma dell’educazione” che, secondo il parere generale, è necessaria agli Stati Uniti. Il presidente Obama ha presentato un sua proposta e i politici hanno, ovviamente, cominciato a discutere secondo i loro interessi ideologici e di parte.

Gli ultimi numeri sia di The New York Times Magazine che di Newsweek hanno dedicato la loro storia di copertina alla riforma dell’educazione, ma mi sembra interessante discutere dell’argomento partendo da un precedente articolo di Lisa Miller, che si occupa della cronaca religiosa a Newsweek. L’oggetto dell’articolo è la riforma del piano di studi all’Università di Harvard, dove vengono educati molti dei futuri leader del Paese (cfr. “Harvard’s Crisis of Faith: Can a Secular University Embrace Religion Without Sacrificing its Soul?” nel numero di Febbraio 2010).

La vicenda comincia nel 2006, quando un gruppo scelto di professori prepara una proposta di revisione del piano di studi dell’Università. Il progetto era guidato da Louis Menand, critico letterario e professore di inglese, vincitore di un premio Pulitzer. Nella proposta, il gruppo concludeva che gli studenti avrebbero dovuto seguire almeno un corso in una materia definita Ragione e Fede. I professori affermavano che ogni futuro leader moderno dovrebbe sapere qualcosa della religione, dato che la maggior parte dei conflitti nazionali e internazionali che influenzano il futuro di questo Paese sono di natura religiosa.

Quando furono rese note le loro conclusioni, si scatenò una dura lotta tra sostenitori e oppositori di questo punto centrale nella riforma costituito dall’insegnamento della religione. L’opposizione era guidata da Steven Pinker, psicologo evoluzionista e molto popolare come professore. Il punto sollevato da Pinker era che “il compito primario di una educazione ad Harvard era la ricerca della verità attraverso l’indagine razionale, quindi non vi era in esso nessun ruolo per la religione”. Un corso su Ragione e Fede, sosteneva, avrebbe creato la sensazione che esse fossero due strade sullo stesso piano per raggiungere la verità. Invece, secondo lui “la fede è una pratica, la promozione della ragione è ciò per cui l’Università esiste”.

In effetti, il motto di Harvard è Veritas, adottato nel 1843, ma precedentemente era Christo et Ecclesiae (Per Cristo e per la Chiesa). La separazione tra fede e ragione ad Harvard è iniziata nella prima parte del XIX secolo e Pinker insiste sul fatto che questa secolarizzazione dell’Università rappresenti una conquista che non può essere in alcun modo compromessa. Come sottolinea la Miller, tutto il lavoro di Pinker “è coerente, all’insegna del concetto generale che la visione di un mondo scientifico e razionale sia la più elevata conquista della mente umana”. Secondo la Miller, la moglie di Pinker, la scrittrice Rebecca Goldstein, gli ha detto: “Tutte le forme di irrazionalità ti infastidiscono, ma la religione è l’irrazionalità che ti infastidisce al massimo”.
Comunque, nel 2006 Pinker vinse la battaglia e la religione non fu inserita nel piano di studi principale. Ora però l’argomento è tornato alla ribalta e la battaglia si è riaccesa. Menand accusa Pinker di fondamentalismo per la sua insistenza nell’affermare che il ragionamento scientifico è l’unica strada alla verità. Menand tuttavia non parla della fede come una via alla verità, ma sostiene che “la religione è importante” nel mondo d’oggi ed è importante per gli studenti di Harvard.

Nell’articolo della Miller vi sono altri aspetti interessanti della discussione di Harvard, ma quanto esposto è sufficiente a descrivere la confusione che vi è nella più prestigiosa università della nazione. Come scrive la Miller: “Harvard non riesce a fare i conti con la religione”. Devo confessare che nella discussione le mie simpatie vanno a Pinker. Ovviamente non sono d’accordo con la sua posizione, ma almeno lui prende sul serio la questione della fede come una via per la conoscenza. L’approccio di Menard in termini di “importanza”, invece, lascia da parte la questione della verità.

Entrambi dovrebbero studiare le parole di Benedetto XVI per La Sapienza, quando rimase vittima del “fondamentalismo scientifico”: “Nei tempi moderni si sono dischiuse nuove dimensioni del sapere, che nell’università sono valorizzate soprattutto in due grandi ambiti: innanzitutto nelle scienze naturali, che si sono sviluppate sulla base della connessione di sperimentazione e di presupposta razionalità della materia; in secondo luogo, nelle scienze storiche e umanistiche, in cui l’uomo, scrutando lo specchio della sua storia e chiarendo le dimensioni della sua natura, cerca di comprendere meglio se stesso.

In questo sviluppo si è aperta all’umanità non solo una misura immensa di sapere e di potere; sono cresciuti anche la conoscenza e il riconoscimento dei diritti e della dignità dell’uomo, e di questo possiamo solo essere grati. Ma il cammino dell’uomo non può mai dirsi completato e il pericolo della caduta nella disumanità non è mai semplicemente scongiurato: come lo vediamo nel panorama della storia attuale! Il pericolo del mondo occidentale - per parlare solo di questo - è oggi che l’uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità”.


Avvenire.it, 11 Marzo 2010 - I profilattici «lezione» sbagliata in un liceo di Roma - Che a scuola trovi spazio la «disciplina dei sentimenti» - Paola Ricci Sindoni
Accanto a nuove discipline legate allo sviluppo tecnologico, come l’informatica, o a quelle connesse alle tendenze comunicativo-linguistiche a opera della globalizzazione, come lo studio dell’inglese, bisognerà che si cominci a pensare all’opportunità che a scuola si insegni anche la «disciplina dei sentimenti». Intesa nel suo duplice significato semantico di «materia» di riflessione e di studio, che coinvolga le scienze umane – dalla psicologia alla filosofia, dalla psicanalisi alla sociologia –, e di «orientamento» nella complessa e necessaria formazione personale ai legami affettivi. Le giovani generazioni, infatti, appaiono sempre più disarmate e sprovviste di strumenti psicologici e spirituali, volti a quella che tradizionalmente veniva chiamata «formazione del carattere», quell’insieme di motivazioni, di desideri, di impulsi che vanno accolti, disciplinati, e infine metabolizzati nel patrimonio personale di crescita, così da prepararsi all’incontro con il mondo affettivo dell’altro, che viene veicolato «anche» attraverso la scoperta dell’altro sesso. Non è certo questione di moralismo spicciolo, o di generico appello ai valori tradizionali, se si ritiene urgente allargare l’àmbito dell’educazione – soprattutto familiare e scolastica – all’intero ventaglio dei sentimenti e degli affetti, gli autentici volani per una più consapevole pratica della propria sessualità. Ridotto ormai a un semplice esercizio fisico, pilotato dalla naturale attrazione e dalle pulsioni ormonali, il sesso praticato dai giovanissimi è lasciato senza orientamento o, tutt’alpiù, monitorato nelle sue possibili conseguenze igienico-sanitarie. Da qui l’obiettivo corto del preside e degli insegnanti del liceo scientifico Keplero di Roma: i ragazzi fanno sesso? Aiutiamoli a non "farsi male", garantendo loro preservativi a portata di tutte le tasche, come precisava premuroso in tv il preside che ha fatto installare i distributori di profilattici nei bagni scolastici diventati bisex, luoghi un cui tra una lezione e l’altra sia possibile scaricare la propria tensione ormonale o, magari, l’istantaneo brivido di un’emozione. Non viene in mente a questi educatori che il problema sta da un’altra parte? Non si accorgono che in tal modo privano i giovani che sono affidati loro dell’opportunità di vedere la scuola come luogo in cui affrontare questioni legate al mondo affettivo, così da garantire una formazione più allargata che maturi al gusto del voler bene, all’apprezzamento e al rispetto dell’altro, orientando il desiderio verso un’affettività più stabile, il culto per i sentimenti duraturi? Non c’è bisogno infatti che questa disciplina venga formalmente inserita nei programmi ministeriali per mettere in moto, nei docenti, l’esigenza di intercettare le difficoltà e i bisogni dei ragazzi, offrendo loro momenti di riflessione, di confronto e di verifica. C’è da immaginare che molti di questi insegnanti siano padri e madri di altrettanti studenti che, come quelli consegnati alle loro cure a scuola, sentono l’esigenza di punti di riferimento, di persone autorevoli cui affidare una parte di vita vissuta insieme per anni fra i banchi di scuola, e che nessuna vendita di oggetti a basso prezzo può sostituire. Si potrà obiettare che è inutile fermare questa marcia inarrestabile, e che farebbe bene la Chiesa a rassegnarsi e a smettere di lanciare i suoi richiami. È auspicabile invece che non smetta di parlare, anche se è lasciata sola: la sua naturale passione per l’uomo, specie per quello in via di formazione, è la sua preoccupazione e la sua cura, la sua inquietudine, ma anche la sua speranza.
Paola Ricci Sindoni


Avvenire.it, 11 Marzo 2010 - La vita rallenta. E apre la strada di una grande semplice saggezza - Quel bianco che scende dal cielo c'insegna ancora l'imprevisto - Davide Rondoni
C’è chi alla mattina legge il giornale (o accende la radio o la tv o il pc) e chi legge il cielo. L’uno penserà che la vita è in balia delle tante forze che si contendono nel magma della storia e della quotidianità. Le forze chiare e oscure della politica, le peripezie dell’economia, le pressioni dei media. E considerando tutto questo sente la vita un po’ assediata, attraversata da possibili guai che si aggiungono a quelli che, per dirla con Lucia nel finale dei Promessi Sposi, vengono anche se non li cerchi. Invece, chi guarda il cielo e vede scendere, come accade in questi giorni, larghi fiocchi di neve intuisce che la vita è forse maggiormente in balia di un altro genere di forze, quelle naturali.

Un po’ di neve fa rallentare il passo a tutte le nostre città, portentose di auto, di treni, di aerei e di tram. Un po’ di bianco che scende dal cielo "sconfigge" la gran potenza meccanica che dà il ritmo alla vita. Insomma, guardando il cielo dobbiamo considerare anche ora– nell’oltre Duemila – la nostra vita sottomessa a forze che non generiamo noi, e che paiono ben più di quelle della politica e del potere in grado di condizionare concretamente e nell’immediato la nostra vita. Che ci appare così piccolissima, paragonata alla furia di certi elementi quando si scatenano. Certo, di fronte all’impedimento (quando non alla grave crisi che può esser provocata come in alcuni luoghi da smottamenti, pericoli etc) si può, naturalmente, conoscere la rabbia. Ma di fronte a impedimenti non gravi, a ritardi, a cambi di panorama, si può invece conoscere qualcosa che somiglia a una presa di coscienza nuova. Si può vedere le cose di sempre con altri più limpidi occhi. Siamo indotti a considerare con più distacco la pressione degli appuntamenti, degli impegni, le scadenze degli orari.

La vita rallenta, e per un attimo almeno si deve riconsiderare. E magari scoprirsi sì più precaria, più fragile, ma anche per così dire più naturale, libera di adeguarsi a qualcosa di imprevisto, di non predeterminato. Una vita capace di respirare nell’imprevisto. Il maltempo forse ci può insegnare un po’ di buona vita? Sentire più vicini i passi di chi come noi si fa largo in un marciapiede innevato e scivoloso, aspettare con pazienza e magari un sorriso che passi chi ha più età o chi è più incerto, dare una mano a spalare davanti a un cancello, accettare di dover andare a piedi anziché che chiusi nell’abitacolo dell’auto, sono tutte esperienze che possono condurci a guardare con maggior semplicità la vita. La saggezza secolare contadina e marinara, di cui la nostra nazione è stata ricca per lunghi secoli, vista la sua configurazione, ha sempre concepito la vita dell’uomo fortemente inserita nel ciclo delle evoluzioni della natura e nei suoi ritmi. Calendari, proverbi, usanze che riguardano tutte le stanze della casa (dalla cucina alla camera da letto) si sono formati lungo i secoli considerando la vita dell’uomo e della natura in stretto rapporto tra loro.

Ora, molto di quel patrimonio è perduto. E prevale una specie di vita neutra che al di là di certe "grossolane" differenze, come la distinzione del caldo dal freddo, non riconosce più se stessa dentro una scena mutante e viva. Anche il cibo tende a essere "uniforme", a non registrare se non limitatamente il fatto d’esser di stagione oppure no. Ci sfugge il senso di cosa sia invece vivere il nostro tempo piccolo, quotidiano e limitato di anni, dentro un tempo grande che è quello della natura, degli elementi, del formarsi a volte secolare o millenario di fenomeni naturali. Poi, dunque, arriva invece la neve, un po’ più di neve del solito e allora dobbiamo alzare il nostro muso di umani, guardare il cielo, guardare il panorama cambiare e cercare come vivere di fronte all’imprevisto. E forse in questo momento, quasi di sospensione, si può aprire la via di una grande semplice saggezza.
Davide Rondoni


Per la Ru486 sette settimane possono bastare – Avvenire, 11 marzo 2010
Si cerca di aprire un nuovo caso sulla Ru486: quello dei termini entro i quali dovrebbe essere usata. Che, in base a quanto ha sostenuto la stessa Agenzia italiana del farmaco più volte, devono essere fissati entro le 7 settimane di gravidanza, cioè a 49 giorni dal concepimento, a differenza dei 63 giorni previsti in altri Pesi dove il farmaco è adottato, e dei 90 giorni previsti per l’aborto chirurgico. Il motivo? Semplice: perché entro la settima settimana si ha un completamento dell’aborto nel 95 99% dei casi, mentre fra la settima e la nona si scende sotto il 95% e le complicanze hanno un picco. Dati di fatto.

Ma ieri è circolato un nuovo allarme circa le «restrizioni» che il nostro Paese avrebbe messo in campo per ostacolare l’aborto chimico. Stavolta la firma è di due epidemiologi di Roma, che in un dossier che riassumerebbe i «risultati scientifici» degli studi effettuati sulla Ru486 – in particolare riguardo al profilo beneficio-rischio del mifepristone nell’interruzione di gravidanza – sostengono che la discrepanza tra i limiti previsti nel nostro Paese e in altri costituirebbe una «penalizzazione» per la donna che volesse fare uso della pillola abortiva e una difficoltà per i medici, che si troverebbero di fronte a una indicazione di uso differente da quella italiana (il farmaco è brevettato in Francia). Il punto sarebbe, secondo i due ricercatori, che «il risultato, condiviso a livello europeo, è rappresentato dall’indicazione che prevede l’uso fino a 63 giorni di amenorrea. Da allora – sottolineano – non è emerso alcun fatto nuovo che possa essere citato a sostegno della restrizione italiana e che possa rimettere in discussione la valutazione positiva assunta».

Tutto il contrario di quello che sosteneva – in una delle delle due sperimentazioni che sono state considerate valide dall’Agenzia del farmaco americana (Fda) per l’approvazione della Ru486 negli Usa – l’autorevole rivista scientifica New England Journal of Medicine , che nel marzo 1998 pubblicò un’accurata ricerca condotta su un campione di oltre 2mila donne che avevano impiegato la pillola per abortire. In quello studio – le cui conclusioni sono ancora valide, oggi, perché basate sul dosaggio con cui la Ru486 è oggi impiegata nel resto del mondo e lo sarà in Italia – si stabiliva con chiarezza (grafici alla mano) che oltre il 49esimo giorno di gravidanza l’effetto della pillola abortiva crollava – letteralmente – da un percentuale di fallimenti pari all’1 fino al 9%. Più importante ancora, dal 57esimo giorno in avanti le pazienti mostravano effetti collaterali devastanti, con dolori addominali, nausea, vomito, diarrea e sanguinamento vaginale. E proprio per questo mentre fino al 49esimo giorno soltanto il 2% delle donne necessitava di una ospedalizzazione successiva all’aborto chimico, tale percentuale oltre quella soglia saliva al 4%.
per tutelare la salute della donna, dunque – un punto tanto invocato E’
dalla stessa Aifa nelle fasi preliminari all’approvazione della Ru486 – che in Italia è stato scelto il limite delle sette settimane: «Dopo il 49esimo giorno di gravidanza, la pillola abortiva è caratterizzata da un 'crollo di efficacia'», come ha ribadito ieri il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella rilevando come l’indicazione dell’Agenzia del farmaco per l’assunzione del farmaco entro tale termine sia legata proprio a questo dato. «L’evidenza – ha proseguito il sottosegretario – dimostra che il limite si basa su un calcolo di efficacia, poiché dopo tale termine quest’ultima cala; con l’allungamento dei tempi, cioè, diminuisce l’efficacia e la capacità del farmaco, e quindi si registra la necessità di un’alta percentuale per il ricorso a interventi chirurgici di revisione uterina, che vogliamo evitare». Davvero questa sarebbe una 'penalizzazione' per le donne?


«Diagnosi preimpianto? È contro la Costituzione» - Mentre si attende un nuovo pronunciamento della Consulta sulla legge 40 il giurista Filippo Vari ricorda i princìpi che nella nostra Carta fondamentale portano a escludere senza ombra di dubbio la possibilità di scartare vite umane «difettose» per ottenerne una (forse) sana: «In tutte le sedi giurisdizionali è sempre stata esclusa la selezione eugenetica» - di Ilaria Nava – Avvenire, 11 marzo 2010

Un’ordinanza che ha fatto discutere, perché ha autorizzato l’accesso alla fecondazione artificiale a una coppia senza problemi di sterilità, ma solo al fine di poter selezionare l’embrione sano attraverso la diagnosi preimpianto. Pratiche vietate dalla legge 40, ma autorizzate nel caso specifico da un giudice di Salerno, che in poche pagine di motivazione è riuscito a intaccare molti dei principi garantisti fortemente voluti dal Parlamento in sede di approvazione della legge. Ne abbiamo parlato con Filippo Vari, professore associato di diritto costituzionale all’Università europea di Roma e autore del volume Concepito e procreazione assistita. Profili costituzionali (2008, Cacucci).
Iniziamo dalla diagnosi preimpianto. L’ordinanza afferma che la legge e le linee guida ora la prevedono.
«Chiariamo subito che con l’espressione diagnosi preimpianto si fa riferimento non alla pratica esclusivamente conoscitiva circa lo stato di salute dell’embrione bensì alla selezione degli embrioni 'sani' e allo scarto di quelli 'non sani'. Questa diagnosi oggi non è consentita dalla legge 40, come si ricava, oltre che da tutto l’impianto della legge, dalla norma che prevede l’obbligo di impianto per tutti gli embrioni creati, oltre che da quella sul divieto di selezione eugenetica. Ci sono tante pronunce di giudici in tal senso (Tribunale di Catania, Tar Lazio, Tribunale di Cagliari)».
Un divieto in linea con il resto dell’ordinamento e con la legge 194 sull’aborto?
«Sì. Anche la Cassazione ha costantemente escluso l’esistenza nell’ordinamento italiano di un 'principio di eugenesi o di eutanasia prenatale', che per la Suprema Corte è, giustamente, da ritenere in contrasto con 'i princìpi di solidarietà' (Cassazione, sez. III civile, sent. 29 luglio 2004, n. 14488; Cassazione, sez. III civile, sent. 14 luglio 2006, n. 16123). Per quanto riguarda la legge 194 sull’aborto, è un errore affermare che consente di abortire in caso di malattia del feto. La normativa esclude le sanzioni per l’interruzione di gravidanza solo per problemi legati alla salute della madre, anche se nella prassi si registrano violazioni del chiaro disposto normativo».
Com’è possibile allora che il giudice abbia autorizzato la se lezione?
«Robert George, professore a Princeton, fra i più autorevoli giuristi americani, ha di recente richiamato l’attenzione sull’attivismo giudiziario, un male che affligge le democrazie occidentali. Nelle democrazie il momento del disporre, ossia di porre la norma in via generale e astratta, non spetta al giudice, ma agli organi democratico rappresentativi del popolo, che nel nostro caso hanno già preso una decisione nel 2004 con la legge 40; decisione confermata oltretutto dalla nota vicenda referendaria. È chiaro che si è di fronte a decisioni nelle quali l’opinione dei giudici non trova supporto nelle chiare previsioni di legge, come ad esempio l’articolo 4 della legge 40 che esplicita uno dei cardini della disciplina in materia, e cioè che la procreazione assistita è uno strumento per superare deficienze nella capacità di procreare e, dunque, a disposizione esclusivamente delle persone sterili».
Nell’ordinanza di Salerno si af ferma che esiste il diritto invio labile della donna al figlio sano, e che per le coppie fertili e por tatrici di malattie genetiche solo l’accesso alla procreazione assi stita può garantire questo dirit to.
Cosa ne pensa?
«L’espressione 'diritto al figlio sano' viene utilizzata non per indicare il diritto – già tutelato nell’ordinamento italiano – a godere di prestazioni mediche che non danneggino il concepito, bensì per introdurre, in forma edulcorata, un diritto a scegliere gli embrioni più sani e a distruggere quelli che siano affetti da qualche malattia o imperfezione. Siamo di fronte a una chiara piega eugenetica, come ha chiarito in un noto scritto Jürgen Habermas. E questa piega contrasta con i principi costituzionali, oltre che con le previsioni della legge 40 del 2004. L’alternativa non è, come si vorrebbe far credere, se si vuole un figlio sano o un figlio malato, ma se i genitori sono disposti a eliminare i figli malati per avere soltanto figli 'selezionati' e, dunque, sani. La storia ha dimostrato i drammi prodotti dall’idea secondo la quale ci sono 'vite che non vale la pena vivere'. Nel 2008, in una prefazione a un mio volume sul tema, che rappresenta credo il suo ultimo articolo scientifico, Giuliano Vassalli – presidente emerito della Corte costituzionale e autore della sentenza con la quale la Corte riconobbe che il diritto alla vita del concepito si colloca tra i 'valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana', che 'non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale' – chiariva come si tratta, al riguardo, di affermare elementari principi di civiltà giuridica».


Olanda, dopo i 70 anni «suicidio di Stato»? - di Lorenzo Schoepflin – Avvenire, 11 marzo 2010
L’Olanda si appresta a discutere l’accesso facilitato al suicidio assistito per gli ultrasettantenni. La legge in vigore dal 2002 nei Paesi Bassi consente il suicidio assistito nel caso in cui per il paziente si riscontri una situazione di sofferenza insopportabile. Adesso, un gruppo di attivisti chiede che per accedere all’assistenza per porre fine ai propri giorni, nel caso in cui ci si dichiari 'stanchi di vivere', l’unico requisito necessario sia il compimento dei settanta anni di età.
L’

Olanda non è nuova a certi tipi di spinte in avanti in materia di 'fine vita'. I numeri parlano di una continua ascesa dei casi di morte procurata con intervento medico: secondo quanto reso pubblico dal quotidiano Telegraaf a inizio 2010, nel 2009 sarebbero stati circa 2500 i casi di eutanasia. Ciò fa segnare un aumento rispetto ai 2331 casi registrati nel 2008, anno in cui l’aumento rispetto al 2007 era stato del 10%. Cifre che, secondo molti studi pubblicati negli anni, potrebbero lievitare ulteriormente se si considerassero i tanti casi di eutanasia non dichiarati ufficialmente. E non si deve neppure dimenticare la continua pressione per ottenere il via libera per l’eutanasia infantile, culminata con la stesura del Protocollo di Groningen, redatto dal dottor Eduard Verhagen, col quale si proponeva una sistematizzazione delle decisioni di fine vita per i neonati con prospettive di scarsa qualità della vita.

Come detto, ora è la volta degli anziani. L’iniziativa che vorrebbe ottenere il diritto all’assistenza medica per gli ultrasettantenni che desiderano suicidarsi parte da un’associazione, Uit Vrije Wil (traducibile come 'libera volontà', 'autodeterminazione'), costituitasi recentemente. L’associazione ha dapprima raccolto 40mila firme in favore della petizione, un numero di sottoscrizioni sufficiente per costringere il Parlamento olandese a discutere dei contenuti della proposta. Successivamente, nei giorni scorsi, è stato superato l’obiettivo dichiarato delle 100mila firme (112.500, per la precisione).
Il 9 giugno in Olanda si voterà per eleggere il nuovo Parlamento. Dopo quella data, secondo quanto dichiarato dalla portavoce della Uit Vrije Wil, Marie-Jose Grotenhuis, il Parlamento non potrà evitare di prendere in seria considerazione la possibilità per gli anziani di scegliere come e quando morire, una volta che abbiano raggiunto la convinzione che «il valore e il significato della vita sono così diminuiti da preferire la morte».

Iprimi firmatari della proposta sono volti noti della politica olandese.
Tra essi quello della settantaduenne Hedy d’Ancona, già europarlamentare socialista e Ministro della salute, nonché militante femminista.
D’Ancona ha detto che la sua battaglia per il diritto a scegliere il momento della propria morte è parte dell’impegno da lei sempre profuso per l’emancipazione. Tra i promotori c’è anche Eugene Sutorius, presidente della Nvve, l’Associazione olandese per il diritto a morire, che ha dichiarato al quotidiano Volkskrant che i timori di abusi sono infondati: «Si diceva lo stesso per la legge sull’eutanasia, ma non è accaduto».
Proprio sullo stesso quotidiano, però, nel giugno scorso fu pubblicato un editoriale in cui si sosteneva che sono frequenti i casi in cui non vengono rispettate le disposizioni di quei medici che negano l’autorizzazione a procedere all’eutanasia.

In Olanda, infatti, il via libera ad eutanasia e suicidio assistito deve essere concesso da due medici. Ma, in relazione ai soggetti coinvolti, i sostenitori della nuova proposta che riguarda gli ultrasettantenni vorrebbero che a seguire le procedure di assistenza al suicidio, compresa la preparazione del mix letale di sedativi, non fossero necessariamente medici. Gli assistenti dovrebbero essere scelti tra personale certificato (tra cui infermieri, psicologi, cappellani ) capace di accertare che la richiesta di morte non sia frutto di uno stato di depressione, ma di un desiderio certo e duraturo di morire.