martedì 2 marzo 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) LA STORIA E LE RAGIONI DELLA CONVERSIONE DI GILBERT CHESTERTON - Intervista a Marco Sermarini, Presidente della Società Chestertoniana Italiana - di Antonio Gaspari
2) 01/03/2010 – IRAQ - Manifestazioni e digiuno dei cristiani irakeni contro le uccisioni e il “ghetto” di Ninive - Raduni, preghiere e digiuni in tutto l’Iraq contro le “uccisioni mirate”. Arcivescovo di Mosul: chiediamo sicurezza e indagini sugli autori delle stragi. Arcivescovo di Kirkuk: la comunità musulmana deve reagire e fornire iniziative concrete. Ausiliare di Baghdad: rischiamo l’olocausto, questo è un momento fondamentale.
3) I Dieci Comandamenti - Autore: Oliosi, don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 1 marzo 2010 - Le “Dieci Parole” o Dieci comandamenti sono un “grande codice etico” per tutta l’umanità
4) Avvenire.it, 28 Febbraio 2010 - L’amore che ci giudica e il dovere di affrontare le tentazioni -Il peccato non è banale e con il male ci si deve battere
5) Avvenire.it, 28 Febbraio 2010 - La disabilità estrema e noi - Signor giudice, nasconda a mia figlia quel nonno muto...
6) Avvenire.it, 27 Febbraio 2010 - RU486 - Twitter-choc: aborto in diretta
7) Famiglia e unioni gay «No all’equiparazione» - Torino, nota della Curia dopo il «rito» alla presenza del sindaco Chiamparino - DA TORINO MARCO BONATTI – Avvenire, 2 marzo 2010


LA STORIA E LE RAGIONI DELLA CONVERSIONE DI GILBERT CHESTERTON - Intervista a Marco Sermarini, Presidente della Società Chestertoniana Italiana - di Antonio Gaspari
ROMA, lunedì, 1° marzo 2010 (ZENIT.org).- La Lindau ha appena ripubblicato uno dei libri più famosi di Gilbert Chesterton la "Chiesa Cattolica. Dove tutte le verità si danno appuntamento".
Si tratta del libro in cui Chesterton racconta la sua conversione religiosa avvenuta nel 1922
Con la consueta genialità, ironica e brillante, il grande scrittore inglese racconta la trepidazione della sua anima perennemente in bilico durante le tre fasi che precedono l'ingresso nella Chiesa di Roma: l'assunzione di un atteggiamento intellettualmente onesto nei confronti di essa, quindi la sua progressiva e irresistibile scoperta e infine l'impossibilità di abbandonarla una volta entratovi.
Per Chesterton il cattolicesimo è una forza sempre nuova, in grado di competere con le altre religioni (oltre che con le altre confessioni cristiane) e con le ideologie prodotte dalla modernità dei suoi tempi (socialismo, spiritismo).

Al termine del pellegrinaggio lo scrittore inglese arriva alle stesse conclusioni del Pontefice Benedetto XVI, scoprendo che il fondamento della autentica universalità della Chiesa risiede nella razionalità e nella libertà del cattolicesimo.
Nell'introduzione al volume Marco Sermarini, Presidente della Società Chestertoniana Italiana, ha scritto che "quando Chesterton parla di religione, ne parla sempre a partire dalla ragione e dalla vita. Non fa un ‘discorso ecclesiastico' o clericale. Può partire da un pezzo di gesso, un dente di leone o un tramonto per arrivare al rapporto di ciascuno di noi con il Mistero. Perché per lui fu così: il Mistero che fa tutte le cose si manifestò nella sua vita attraverso gli umili ma potenti segni dell'allegria familiare, del gusto del bello scorto nelle cose di tutti i giorni".
Per conoscere a fondo Chesterton e le ragioni che lo portarono alla conversione, ZENIT ha intervistato Marco Sermarini, uno degli italiani che più hanno studiato l'autore inglese.
Perché ha caldeggiato e introdotto questo libro?
Sermarini: E' una delle opere che riescono meglio a far capire il pensiero di Chesterton sul fatto religioso, anzi, sulla sua adesione piena di ragione e di cuore al cattolicesimo; e soprattutto perché è molto utile oggi alle persone che si troveranno a leggerla.
A chi la fede già l'ha avuta in dono, perché permetterà di ripercorrerne le ragioni fondanti. A chi non ce l'ha ma la desidera, perché comprenderà quanto essa sia importante in aiuto alla ragione. A chi non ce l'ha e neppure la cerca, perché troverà un cattolico contento, arguto, intelligente e pure simpaticissimo in grado di fargli venire la voglia di averla.
Chesterton è ancora attuale oggi? Quali sono le opere e i concetti che lo rendono moderno?
Sermarini: Credo di avere in parte risposto. Tante volte tra amici ci troviamo a dire che ci vorrebbe un Chesterton (e vi assicuro che non ce n'è uno alla sua altezza, nessuno si offenda: troppo intelligente, troppo simpatico, troppo leggero e serio al tempo stesso, troppo battagliero e lontano dalle seduzioni di "destra sinistra centro"), ma poi scopriamo che se ci fossero sempre più chestertoniani in giro a far conoscere il suo pensiero sarebbe già molto più di qualcosa.
Ossia, se si riuscisse a far conoscere sempre più il suo pensiero, tutti se ne gioverebbero moltissimo. Infatti, in maniera apparentemente inspiegabile ci troviamo spesso a leggere nelle sue opere cose che stanno accadendo oggi, e che lui cento anni fa aveva già viste e capite. L'inspiegabilità è solo apparente, perché Chesterton aveva un'intelligenza acutissima illuminata da una fede cristallina, e quindi riusciva a leggere molto più lontano di tanti altri quello che già era iscritto nei fatti che stava vivendo e nelle idee del suo tempo.
Fra le sue opere le più rappresentative sono Ortodossia, Autobiografia, Uomovivo, la "saga" di Padre Brown e altre ancora. Ciò che lo caratterizza in modo assoluto è l'uso rigoroso della ragione dietro i fuochi artificiali dei suoi paradossi e della sua scoppiettante ironia. Stanley Jaki, letta l'Ortodossia e in particolare il capitolo "The Ethics of Elfland" (La morale delle favole), disse che quello era il modo assolutamente più sano di usare la ragione... scusate se è poco.
Quali sono le ragioni della sua conversione dall'anglicanesimo al cristianesimo? Quante di queste ragioni sono ancora valide e in che modo molti anglicani potrebbero rientrare nella Chiesa cattolica ripercorrendo il cammino di Chesterton?
Sermarini: I motivi della sua conversione vanno letti in Ortodossia, nella sua Autobiografia e nel libro che ho avuto la gioia di presentare. Chesterton fu battezzato anglicano, ma la famiglia aderì alla fede unitariana. In seguito egli si abbandonò ad una sorta di scetticismo che lo portò, complice anche la frequentazione con ambienti esoterici ed il clima culturale dettato dal decadentismo, sull'orlo della più insana delle idee.
Successivamente ad una sorta di esperienza mistica descritta in una lettera al suo carissimo amico Edmund Clerihew Bentley (vi si afferma che "è imbarazzante parlare con Dio faccia a faccia come si parla con un amico..."), Chesterton comprende il valore immenso della vita, qualunque ne sia la "qualità" o il "livello", e da ciò nasce la gratitudine che egli si darà come compito e vocazione della sua vita. Dirà nel suo diario giovanile di voler passare il resto della sua vita a ringraziare Dio di tutto (cosa che fece, in realtà).
Si riavvicinerà prima alla chiesa anglicana grazie alla moglie Frances Blogg, che ne era una sincera fedele, e ad alcune figure di pastori particolarmente significative. Successivamente, grazie alla frequentazione con l'amico di una vita Hilaire Belloc e con padre John O'Connor (che gli ispirerà il padre Brown degli omonimi Racconti), conosce sempre meglio il cattolicesimo ed inizia a difenderlo con le sue opere. Ortodossia è la punta di diamante della sua produzione in questo versante.
Dico sempre che andrebbe messa in programma nei seminari e nelle università cattoliche come materia di studio, potrebbe solo fare del gran bene. Per anni fu considerato cattolico pur non essendolo ancora, tanto che la notizia della sua conversione nel 1922 colse moltissimi di sorpresa e creò non poche "prese di distanza", non ultima quella di George Bernard Shaw che gli disse: "No, Gilbert, ora stai andando troppo avanti...". Il cattolicesimo per lui è la cosa cercata da gran tempo, come colui che crede di trovare una nuova esotica terra e invece riscopre la sua cara vecchia patria. Il cattolicesimo è la pienezza del cristianesimo, per Chesterton, ed è questo il motivo tuttora attuale che chiunque può adottare nel fare un passo simile a quello di Gilbert.
Chi sono gli unitariani e perché la loro negazione della divinità di Cristo è oggi così diffusa anche in ambiti vicini alla Chiesa cattolica?
Sermarini: Chesterton da giovane frequentò la Chiesa Unitariana, seguendo padre e madre. Gli unitariani predicano una sorta di cristianesimo privato dello scandalo inaccettabile della divinità di Cristo, fatto di amicizia, concordia e pace ma allontanato dalla loro vera autentica scaturigine.
Oggi sembra un'eresia tornata di moda, complice il dilavamento nei discorsi di uomini di Chiesa della sana dottrina (quella che Chesterton nell'Ortodossia vede sintetizzata nel Credo degli Apostoli) ad una sorta di morale civile di più alto rango, il che fa comprendere come mai il senso comune chestertoniano non sia più di casa in certi ambienti mentre passano con facilità tante idee distorte, quali eutanasia, eugenetica, opzioni libere nel cosiddetto orientamento sessuale, tanta intolleranza verso il cattolicesimo vero.
In che modo e perché Chesterton potrebbe aiutare nel rafforzamento della fede cristiana?
Sermarini: Chesterton era integralmente cattolico, intelligentemente cattolico, cordialmente cattolico, allegramente cattolico: chi meglio di lui potrebbe aiutarci? Tra amici spesso diciamo che Chesterton potrebbe essere considerato il San Tommaso d'Aquino del XX e del XXI secolo. Era buono e molto allegro ed amava tutti, anche i suoi avversari culturali (basterà guardare alla sua sincera amicizia con Shaw, Wells e tanti altri personaggi molto distanti da lui culturalmente).
Ci sono delle persone in Gran Bretagna che si stanno organizzando per chiedere la beatificazione di Chesterton. Lei che cosa ne pensa? L'Associazione che lei dirige sta pensando di promuovere iniziative per caldeggiare tale beatificazione?
Sermarini: Nel mondo anglosassone già da qualche tempo si parla della "santità di Chesterton": tanti sono gli indizi che ci fanno pensare che egli abbia vissuto in maniera esemplare la fede cattolica, basti solo elencare le personalità che gli debbono a loro volta la fede, acquistata dopo la lettura delle sue opere: sir Alec Guinness, Clive Staples Lewis, Joseph Pearce e tanti altri.
Molti di noi debbono tanto a Chesterton, per cui già gira una preghiera per chiedere al Signore di manifestare la Sua gloria in Gilbert, che non era solo un grande intellettuale, ma era soprattutto un uomo straordinariamente buono, dal cuore innocente di bambino. Chi vuole può trovare la preghiera nel nostro blog (http://uomovivo.blogspot.com) e in quello della Società Chestertoniana Inglese (in quest'ultimo tradotta in varie lingue). Noi non vogliamo anticipare il giudizio della Chiesa, ma per noi è un grande amico già da adesso, per il mistero della Comunione dei Santi. Inoltre presto uscirà un libretto di preghiere commentate da alcune citazioni di Chesterton, Le preghiere dell'Uomo Vivo, per i tipi di Fede & Cultura.
A Settembre il Pontefice Benedetto XVI si recherà in Gran Bretagna. In che modo la vicenda e le opere di Chesterton potrebbero aiutare la sua opera di nuova evangelizzazione?
Sermarini: Papa Benedetto fa spessissimo delle uscite... chestertoniane (una volta lo ha anche citato, seppure senza nominarlo), e a Chesterton lo accomuna proprio l'idea dell'amicizia tra fede e ragione ed il considerare la fede cattolica come la più avvincente delle avventure. La Gran Bretagna ha un grande bisogno di Chesterton: deve ritrovare il senso comune, l'amore per le sue vere radici, la sua originaria allegrezza. Chesterton potrebbe essere una delle punte di diamante avanzatissime di un ritorno degli inglesi alla fede cattolica, assieme al venerabile John Henry Newman, al cardinale Manning e a tanti altri che hanno fatto e continuano a fare il passo di Gilbert.


01/03/2010 – IRAQ - Manifestazioni e digiuno dei cristiani irakeni contro le uccisioni e il “ghetto” di Ninive - Raduni, preghiere e digiuni in tutto l’Iraq contro le “uccisioni mirate”. Arcivescovo di Mosul: chiediamo sicurezza e indagini sugli autori delle stragi. Arcivescovo di Kirkuk: la comunità musulmana deve reagire e fornire iniziative concrete. Ausiliare di Baghdad: rischiamo l’olocausto, questo è un momento fondamentale.
Baghdad (AsiaNews) – Manifestazioni di piazza a Mosul e Baghdad, un digiuno e una veglia di preghiera a Kirkuk, appelli per la fine delle “uccisioni mirate” e il secco “no” – a una sola voce – contro il progetto di “ghettizzare” i fedeli nella piana di Ninive. Leader cristiani, vertici della Chiesa locale e tantissimi fedeli rilanciano il grido d’allarme contro il “massacro dei cristiani irakeni” e la fuga di centinaia di famiglie da Mosul, vittime di un conflitto politico ed economico fra arabi e curdi che rischia di svuotare il Paese della loro presenza.

All’indomani dell’appello lanciato da papa Benedetto XVI all’Angelus – fonte di “consolazione e fiducia”, commentano i leader cristiani – AsiaNews ha interpellato mons. Emil Shimoun Nona, arcivescovo caldeo di Mosul, mons. Louis Sako, arcivescovo di Kirkuk e mons. Shlemon Warduni, vescovo ausiliare di Baghdad, in un momento “cruciale” per il futuro della comunità irakena.

Mons. Emil Shimoun Nona, arcivescovo caldeo di Mosul, conferma che negli ultimi giorni centinaia di famiglie hanno abbandonato la città. Circa 600 per un totale di oltre 4mila persone secondo un rapporto Onu. “La situazione si è calmata – riferisce il prelato – e l’esodo è molto più lento. Le nostre stime parlano di circa 400 famiglie fuggite”, ma la realtà rimane comunque preoccupante. Ieri migliaia di fedeli a Mosul sono scesi in piazza per manifestare contro le violenze. La comunità ha risposto in maniera “positiva”, commenta il prelato, e “l’iniziativa è andata molto bene”.

I cristiani hanno ricevuto messaggi di solidarietà e affetto, ma resta il problema legato alla sicurezza. “Al governo centrale e ai responsabili locali – afferma mons. Nona – chiediamo due cose: più sicurezza per la comunità e indagini precise, che diano risposte concrete sui chi sono i mandanti e gli autori dei massacri. Sarebbe un segnale forte per i fedeli, una testimonianza che non sono soli e abbandonati al loro destino”.

Oggi a Kirkuk la comunità cristiana ha indetto una giornata di digiuno. Alle 5 del pomeriggio è in programma una veglia di preghiera comune, alla quale partecipano solo i cristiani per evitare “strumentalizzazioni politiche” alla vigilia delle elezioni, in programma il 7 marzo prossimo. “Il governo ha condannato gli attacchi – riferisce mons. Louis Sako, arcivescovo di Kirkuk – e anche i leader musulmani, perché sottolineano che ‘questo non è l’islam’. Ma alle parole siamo ormai abituati, vogliamo risposte concrete”. Il prelato è durissimo: “è una vergogna che in una città come Mosul, di un milione di abitanti, nessuno ha parlato in maniera forte del massacro dei cristiani”.

Tuttavia, mons. Sako non perde la speranza per il futuro, e spiega che “è importante” che tutti i cristiani siano “contrari al progetto della piana di Ninive”, sebbene finora i vertici e i partiti hanno mostrato più di una debolezza e contrasti interni. “Bisogna essere uniti – ribadisce – perché è una trappola”. Un digiuno, la veglia comune di preghiera, bandiere e cartelli disseminati per la città che chiedono la “fine del massacro” e l’urgenza di promuovere il concetto di unità nazionale, unica via per riportare pace e sicurezza nel Paese. “L’iniziativa di oggi è rivolta solo ai cristiani – spiega mons. Sako – per evitare una politicizzazione della manifestazione. Finora la comunità musulmana è rimasta in silenzio contro i massacri, ora deve ‘reagire’ e avviare iniziative in prima persona”. Vi sono in gioco lotte di potere, conclude l’arcivescovo, in cui non vogliamo entrare; al contrario, "ci battiamo per la pace in Iraq”.

Ieri anche nella capitale dozzine di persone hanno manifestato contro le esecuzioni mirate, chiedendo al governo centrale garanzie per la sicurezza. Mons. Shlemon Warduni parla di “attacchi ben organizzati” contro i cristiani, vittime di “una politicizzazione del conflitto” fra arabi e curdi. “Rischiamo l’olocausto” afferma il prelato, secondo cui “non basta il conforto e la solidarietà della gente comune, anche dei musulmani”, se dalle personalità politiche e dal governo non arrivano risposte concrete. L’ausiliare di Baghdad è contrario al progetto della piana di Ninive e precisa: “non ci fermeremo… vivi o morti, questo è un momento fondamentale”.

Il prelato riferisce “l’incoraggiamento e la solidarietà” ricevuta da capi tribù e dalla gente semplice, per i quali “un Iraq senza cristiani non vale niente”. Tuttavia, mons. Warduni auspica risposte concrete dal governo, dalla classe politica, dai media che devono riportare “il nostro grido d’allarme”. In questi giorni il patriarca Emmanuel Delly è a Mosul per portare conforto ai familiari delle vittime e incontrare i vertici della politica locale. Attraverso AsiaNews l’ausiliare di Baghdad vuole infine ringraziare Benedetto XVI per l’appello lanciato ieri all’Angelus a favore dei cristiani irakeni. “È incoraggiante sentirlo così vicino – conclude mons. Warduni – ed è fonte di conforto per tutti i fedeli. Le sue parole sono fonte di consolazione e fiducia per il futuro”.(DS)


I Dieci Comandamenti - Autore: Oliosi, don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 1 marzo 2010 - Le “Dieci Parole” o Dieci comandamenti sono un “grande codice etico” per tutta l’umanità
«Il Decalogo – le “Dieci Parole” o Dieci Comandamenti (Ex 20,1-17; Dt 5,1-21) – che proviene dalla Torah di Mosé, costituisce la fiaccola dell’etica, della speranza e del dialogo, stella polare della fede e della morale del Popolo di Dio, e illumina e guida anche il cammino dei Cristiani. Esso costituisce un faro e una norma di vita nella giustizia e nell’amore, un “grande codice” etico per tutta l’umanità. Le “Dieci Parole” gettano luce sul bene e sul male, sul vero e sul falso, sul giusto e l’ingiusto, anche secondo i criteri della coscienza retta di ogni persona. umana. Gesù stesso lo ha ripetuto più volte, sottolineando che è necessario un impegno operoso sulla via dei Comandamenti: “Se vuoi entrare nella vita, osserva i Comandamenti” (Mt 19,17). In questa prospettiva, sono vari i campi di collaborazione e di testimonianza. Vorrei ricordarne tre particolarmente importanti per il nostro tempo.
- Le “Dieci Parole” chiedono di riconoscere l’unico Signore, contro la tentazione di costruirsi altri idoli, di farsi vitelli d’oro. Nel nostro mondo molti non conoscono Dio o lo ritengono superfluo, senza rilevanza per la vita; sono stati fabbricati così altri e nuovi dei a cui l’uomo si inchina. Risvegliare nella nostra società l’apertura alla dimensione trascendente, testimoniare l’unico Dio è un servizio prezioso che Ebrei e Cristiani possono e devono offrire insieme.
- Le “Dieci Parole” chiedono il rispetto, la protezione della vita, contro ogni ingiustizia e sopruso, riconoscendo il valore di ogni persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio. Quante volte in ogni parte della terra, vicina e lontana, vengono ancora calpestati la dignità la libertà, i diritti dell’essere umano! Testimoniare insieme il valore supremo della vita contro ogni egoismo, è offrire un importante apporto per un mondo in cui regni la giustizia e la pace, lo “shalom” auspicato dai legislatori, dai profeti e dai sapienti di Israele.
- Le “Dieci Parole” chiedono di conservare e promuovere la santità della famiglia, in cui il “sì” personale e reciproco, fedele e definitivo dell’uomo e della donna, dischiude lo spazio per il futuro, per l’autentica umanità di ciascuno, e si apre, al tempo stesso, al dono di una nuova vita. Testimoniare che la famiglia continua ad essere la cellula essenziale della società e il contesto di base in cui si imparano e si esercitano le virtù umane è un prezioso servizio da offrire per la costruzione di un mondo dal volto più umano.
Come insegna Mosè nello Shemà (Dt 6,5; Lv 19,34) - e Gesù riafferma nel Vangelo (Mc 12, 19-31) -, tutti i comandamenti si riassumono nell’amore di Dio e nella misericordia verso il prossimo. Tale Regola impegna Ebrei e Cristiani ad esercitare, nel nostro tempo, una generosità speciale verso i poveri, le donne, i bambini, gli stranieri, i malati, i deboli, i bisognosi. Nella tradizione ebraica c’è un mirabile detto dei Padri d’Israele: “Simone il Giusto era solito dire: il mondo si fonda su tre cose: la Torah, il culto e gli atti di misericordia” (Aboth 1,2). Con l’esercizio della giustizia e della misericordia, Ebrei e Cristiani sono chiamati ad annunciare e a dare testimonianza al Regno dell’Altissimo che viene, e per il quale preghiamo e operiamo ogni giorno nella speranza» [Benedetto XVI, Visita alla Sinagoga di Roma, 17 gennaio 2010].

Di fronte all’attuale e globale questione antropologica per la riduzione della ragione all’immanente per cui ha luogo una radicale riduzione dell’uomo, considerato un semplice prodotto della natura, come tale non realmente libero e di per sé suscettibile di essere trattato come ogni altro animale, Cristiani e Ebrei hanno un grande patrimonio spirituale in comune da offrire, hanno le stesse radici per impedire che l’etica venga ricondotta entro i confini del relativismo e dell’utilitarismo, con l’esclusione di ogni principio morale che sia valido e vincolante per se stesso. Non è difficile vedere come questo tipo di cultura rappresenti un taglio radicale e profondo non solo con il cristianesimo ma anche con le radici ebraiche e più in generale con le tradizioni religiose e morali dell’umanità: non sia quindi in grado di instaurare, come la globalizzazione richiede, un vero dialogo con le altre cultura, nelle quali la dimensione religiosa, come per Ebrei e Cristiani, è fortemente presente, oltre a non poter rispondere alle domande fondamentali sul senso e la direzione della nostra vita. Perciò questa cultura, che rischia di divenire egemone a livello mondiale, è contrassegnata da una profonda carenza, ma anche da un grande e inutilmente nascosto bisogno di speranza. Cristiani ed Ebrei, uniti da una grande parte di patrimonio spirituale in comune, possono offrire un grande contributo vincendo il rimaner sconosciuti gli uni e gli altri. Dio oggi li chiama, con la loro identità, a mantenere aperto lo spazio del dialogo, del reciproco rispetto, della crescita nell’amicizia, della comune testimonianza alle sfide del nostro tempo che invitano a collaborare per il bene dell’umanità in questo mondo creato da Dio, l’Onnipotente e il Misericordioso.


Avvenire.it, 28 Febbraio 2010 - L’amore che ci giudica e il dovere di affrontare le tentazioni -Il peccato non è banale e con il male ci si deve battere
Furono i profeti a stabilire una prima analogia tra il deserto e la vita spirituale. Osea lo paragonò al luogo della prima tenerezza, lì dove Dio aveva raccolto il suo popolo e stipulato l’alleanza. Per Geremia, invece, era il luogo dell’ira ardente di Dio. Questa ambivalenza attraversa l’intero Antico Testamento e si ripresenta nella vita di Gesù. In rispondenza ai quaranta anni dell’esodo, i quaranta giorni di Gesù nel deserto sono il passaggio obbligato per dimostrare che l’uomo può effettivamente lasciare dietro di sé il diavolo e le inclinazioni malvagie che il nemico cerca di coltivare come altrettanti vincoli che tengono la creatura sottomessa al suo dominio.

Gesù è Dio, ma anche uomo. Per cui la sua tentazione è autentica. Egli sperimenta l’attrattiva del male non verso qualche piccola soddisfazione sensibile, ma più profondamente verso la disobbedienza rispetto alla sua missione. Nella sua libertà egli sceglie la via dell’obbedienza, della sottomissione al Padre, e in questo momento ha già imboccato la strada che lo porterà alla croce.

La tradizione cristiana riprende su vasta scala il tema del combattimento spirituale per sconfiggere l’attrattiva del male. È nota la definizione di san Benedetto: la vita monastica è una scuola per servire il Signore, una palestra dove apprendere la fatica dell’obbedienza. Non è una via aspra e gravosa. La difficoltà sta nella decisione iniziale perché «quando si procede nella vita monastica e nella fede, allora il cuore si allarga e si corre per la via dei comandamenti di Dio con una inesprimibile dolcezza». A distanza di un millennio sant’Ignazio di Loyola scrive un altro capolavoro della spiritualità cristiana, gli Esercizi spirituali.

Lo scopo è la ricerca della divina volontà guidati dallo Spirito di Dio. Previamente, però, sant’Ignazio insiste sul discernimento degli spiriti che richiede paziente attesa, conoscenza della propria anima, un lungo itinerario di purificazione per scegliere secondo il progetto di Dio. Il cammino si impenna se ora consideriamo brevemente la via dei mistici. Come Maria e Giovanni, essi vogliono rimanere sotto la croce di Gesù per fare compagnia al Maestro, ma anche per guadagnare le anime dei fratelli, dei peccatori. Santa Maria Maddalena dei Pazzi si dichiarava pronta a offrire mille volte la sua vita per salvare anche una sola anima, mentre Maria des Vallées per lo stesso scopo si diceva disposta a subire la collera divina.

Su questa stessa via, bisogna cogliere una variante messa in risalto da due santi sacerdoti a noi relativamente vicini: il Curato d’Ars e san Pio da Pietrelcina. Come lascia intendere Bernanos, san Giovanni Maria Vianney si sforzava di seguire Gesù nella discesa agli inferi, che fece di lui l’agnello di Dio, il capro espiatorio che porta via i peccati del mondo. Certo, dopo il Vaticano II è stato giustamente messo l’accento sulla misericordia di Dio. Ugualmente, però, non bisogna dimenticare l’invito di C.S. Lewis a non banalizzare il peccato perché proprio questa è la tattica suggerita dal vecchio Berlicche al giovane aspirante Malacoda. Diceva san Massimo il Confessore: «Anche se Dio giudica, a torto viene giudicato dai giudicati, giacché egli è essenzialmente amore e viene chiamato amore». Non possiamo allora ignorare l’invito dell’amore, né possiamo dimenticare quanto è costato al Figlio riaprire la via che ci riporta alla casa del Padre.
Elio Guerriero


Avvenire.it, 28 Febbraio 2010 - La disabilità estrema e noi - Signor giudice, nasconda a mia figlia quel nonno muto...
«Che mia figlia non viva nella casa del nonno, paralizzato e muto per una sindrome neurologica. È troppo triste, troppo afflittivo per un bambino, assistere a certe situazioni». È, in sostanza, la richiesta di un padre separato al tribunale. E non è un caso isolato.
Dunque in quel laboratorio di diritti e affetti che sono le divisioni fra coniugi, in cui vengono alla luce prima che altrove questioni che altrimenti si discutono fra le mura di casa, emerge una nuova domanda che pretende di essere affermata giuridicamente: il diritto a non vedere la malattia e la sofferenza. Qualcosa di ulteriore rispetto al «diritto a morire» teorizzato nella battaglia per l’eutanasia: la pretesa di non far vedere quegli stati di vita, che ai sani possono apparire inaccettabili.

O almeno questa pretesa comincia con i bambini, vestendosi di premura paterna: che la bambina non entri in quella casa dove il nonno, cui pure vuole bene, ora non risponde, non parla. Benché privo di una sofferenza fisica evidente, il silenzio degli stati vegetativi o delle sindromi analoghe è giudicato insopportabile; si va dal giudice, perché non sia mostrato ai figli e ai nipoti. Questa premura di genitori è singolare. Vuole nascondere la sofferenza di un vecchio, renderla come inesistente. Invisibile, come se quell’uomo fosse già morto.

Ma davvero, censurando una parte fondamentale della vita, gli adulti proteggono i figli, o invece non proteggono se stessi da ciò che agli occhi loro, e non del figlio, è intollerabile? Sembra paradossale: in un tempo in cui tutto è visibile anche ai bambini, dalla pornografia alla violenza, prende forma un ultimo tabù: la malattia, l’invalidità, e quell’area grigia dell’assenza da sé, che a molti sembra una morte da vivi. L’ultimo tabù, l’inguardabile, l’osceno, è la malattia, e tanto più quella che paralizza, allontana – ineludibile primizia della morte.

Eppure, chiunque non sia più un ragazzo ricorda di essere stato portato al capezzale dei nonni, di averli visti magari in agonia; di avere avuto in casa un vecchio reso assente e bisognoso di tutto dalla demenza. Veramente quel vedere ci ha danneggiato? No: ci ha mostrato che esistono anche la sofferenza e la fine, dunque ci ha spiegato qualcosa, della vita, di fondamentale. Certo, accanto ai bambini una volta c’erano adulti che sapevano stare di fronte alla sofferenza. Che, pure nella paura e nel dolore, avevano la memoria di un senso; che rendeva la fine dei vecchi, e non solo quella dei vecchi, non assurda.

La speranza cristiana, magari neanche pienamente confessata ma respirata da sempre, in una naturale osmosi, alleviava e faceva umanamente tollerabili le invalidità e le agonie. Dolore, ma non insensato e cieco: e dunque le stanze dei malati potevano ben essere aperte ai bambini. Che proprio da quei momenti erano, e sono ancora provocati a farsi delle domande: per che cosa si vive e si muore, e cosa ne è di un nonno amato, quando sembra addormentato per sempre, e non riconosce più chi gli è caro. Domande che ne generano altre, che bruciano, che sfidano. Che fanno diventare grandi.

Ma forse oggi si preferiscono figli inebetiti dal rumore, storditi dai consumi. e il più a lungo possibile ignari della sofferenza, del limite che, in quanto uomini, hanno scritto addosso. O forse sono i padri che, avendo perso la memoria di un senso, stanno atterriti davanti a certe stanze di malati. Lì dentro si è insediato, tenace, assurdo, il dolore: una faccenda che, senza speranza, è atroce. Per questo vogliono che i loro figli non entrino, che i loro figli non vedano. Porte chiuse. Tabù. Signor giudice, che mia figlia non veda quel nonno assente, lontano, muto. A cui io, signor giudice, non tollero di stare davanti.
Marina Corradi


Avvenire.it, 27 Febbraio 2010 - RU486 - Twitter-choc: aborto in diretta
«Non vedo l’ora che arrivi lo sfratto. L’inquilino abusivo che occupa il mio utero se ne deve andare». Sono frasi come questa, oltre al titolo “aborto dal vivo su Twitter” ad aver suscitato l’attenzione – e l’orrore – di migliaia di utenti di Twitter ai “post” del diario di Angie Jackson.

Usando una raffica di messaggi da 140 caratteri al massimo, come impone il sito di “microblogging”, la 27enne disoccupata della Florida ha raccontato nei giorni scorsi ogni sintomo, ogni fase, ogni pensiero che ha attraversato il suo corpo e la sua mente quando ha deciso di interrompere la sua seconda gravidanza. Lo ha fatto chimicamente, prendendo le pillole note come Ru486 che hanno già causato almeno 17 morti accertate: la prima nello studio di un medico di Planned Parenthood, la principale associazione di pianificazione familiare negli Usa, le altre quattro a casa.
«I crampi stanno diventando più persistenti», ha scritto, e poi, dopo alcune ore: «Adesso sto davvero sanguinando». La Jackson ha detto di aver deciso di raccontare su Twitter la sua esperienza per aiutare altre donne a «sdrammatizzare l’aborto». «Sono spaventata. Non so come sarà o quanto starò male, o se avrò alcun aiuto, vorrei avere con me una famiglia», ha scritto su Twitter Angie poco prima di prendere le pillole.

Questa “famiglia” erano gli 800 seguaci su Twitter che la Jackson aveva prima dell’aborto e che da allora si sono moltiplicati. La donna ha un bimbo di quattro anni, nato con gravi problemi dopo una gravidanza a rischio, e i medici l’avevano avvertita che un’altra gravidanza avrebbe potuto ucciderla. «Tutto quello che voglio fare è restare viva, e il modo migliore di farlo è abortire», si giustifica la giovane madre, anche se più avanti si dice convinta che «non voler essere incinta» è un motivo abbastanza valido per non portare a termine una gravidanza.

Jackson ha ricevuto i messaggi di incoraggiamento che sperava, ma si è detta «sorpresa» dalla valanga di polemiche che il suo gesto ha provocato. Le sono arrivate proteste e – ha detto – anche minacce di morte. Il Family Research Council, un gruppo per la difesa della vita, ha definito la sua decisione una «tragedia».

Alcuni lettori l’hanno implorata di fermarsi, offrendole di adottare il bambino non nato. Molti si sono sentiti offesi dalle frasi con cui Angie ha liquidato l’embrione che aveva in utero come un incidente di cui liberarsi, un errore causato dal malfunzionamento dalla spirale. «Mi sento infettata, sono arrabbiatissima con il mio ragazzo anche se non è stato intenzionale», spiegò nel primo post intitolato “Incinta”.

L’anno scorso aveva messo in subbuglio la rete la decisione di Penelope Trunk, una famosa blogger, di usare Twitter per raccontare la sua esperienza quando aveva perso un bambino per un aborto spontaneo. L’America si era poi scandalizzata in dicembre quando un’altra mamma della Florida, Shellie Ross, aveva annunciato in diretta ai suoi 5.000 seguaci nel Web che il figlio era annegato nella piscina di casa. La Jackson aveva appreso di esser rimasta incinta per la seconda volta il 13 febbraio, tre settimane dopo il concepimento. La settimana dopo, ha preso la Ru486.
Elena Molinari


Famiglia e unioni gay «No all’equiparazione» - Torino, nota della Curia dopo il «rito» alla presenza del sindaco Chiamparino - DA TORINO MARCO BONATTI – Avvenire, 2 marzo 2010
U na celebrazione 'simbolica', un 'matrimonio' fra due donne o­mosessuali. Si è svolta sabato scorso a Torino con un ospite impor tante: il sindaco Sergio Chiamparino, deciso a 'portare in Parlamento' il te ma dei matrimoni omosessuali (confondendo il matrimonio con le u nioni civili e i diritti individuali). E ieri è arrivato, dall’ufficio Famiglia della dio cesi di Torino, un comunicato che pun tualizza le posizioni della Chiesa tori nese, già espresse in più occasioni dal cardinale Poletto. Il 'matrimonio' o­mosessuale, infatti, era stato annuncia to da tempo, a novembre 2009; e fin da allora Chiamparino aveva fatto sapere che avrebbe partecipato. Poi è stata fis sata la data, e l’annuncio ha dato l’oc casione per tornare sul tema. Sabato scorso c’è stata la cerimonia, dopo aver conquistato il massimo di visibilità di sponibile. In questa vicenda si direbbe che la visibilità è 'tutto', visto che l’u nione 'matrimoniale' in quanto tale non ha nessun significato giuridico.
Il comunicato dell’Ufficio diocesano fa miglia ricorda prima di tutto che «non sono in discussione né il valore della fa miglia tradizionale e nemmeno l’ugua glianza dei cittadini di fronte alla legge, ma il modo di far coesistere questi va lori. Nel ribadire che la famiglia fonda ta sul matrimonio tra un uomo e una donna è realtà naturale a fondamento della società e del futuro stesso dell’u manità, la Chiesa non ignora che oggi si assiste ad un fenomeno di pluralizza zione dei significati di famiglia, né i­gnora la realtà delle persone omoses suali. Tuttavia essa riconosce che la fa miglia tradizionale fondata sul matri monio, pur in questi tempi di epocali cambiamenti, costituisce il nesso fon damentale tra individuo umano e so­cietà e ricorda che anche la Costituzio ne italiana (art. 29) lo ribadisce. Si trat ta di un bene fondato su un dato anzi- tutto antropologico».
I «diritti individuali» e l’«uguaglianza» riempiono facilmente la bocca, soprat tutto quando si avvicinano i temi in ma niera superficiale. Così forse, pur di pas sare per «progressisti non bigotti», ci si sente obbligati a dire sì a qualunque scelta. Ma la realtà non è questa. «Alla Chiesa sta anche a cuore il valore dell’u guaglianza dei cittadini, sancito dalla Costituzione italiana. Ma nello stesso tempo la «Chiesa non può accettare l’e­quiparazione della famiglia tradiziona le fondata sull’amore fedele tra un uo mo e una donna e aperto al bene della società alla relazione d’amore tra due persone dello stesso sesso e questo non per un fatto primariamente morale o peggio discriminatorio, ma anzitutto perché si tratta di realtà umane conno tate da differenze di finalità e di realiz zazione ». «Riteniamo, dunque, sia scor retto pensare l’amore omosessuale in perfetta analogia con l’amore eteroses suale: conosciamo quest’ultimo, – con tinua il comunicato – dobbiamo trova re forse delle categorie adeguate e ri spettose della dignità umana per il pri mo, ma avendo l’onestà di fare le debi te distinzioni. Distinguere e differen ziare è il presupposto della costruzione di una civiltà che sia degna di questo nome e non necessariamente sinonimo di ingiusta discriminazione». «Così alla Chiesa – conclude la nota dell’Ufficio famiglia diocesano – appare semplici stico e fuorviante parlare di nozze o ma trimonio omosessuali senza per questo voler avallare alcuna tesi apertamente o velatamente discriminatoria».
Così salta fuori un ulteriore aspetto di questa problematica, che 'ribalta' la propaganda libertaria: la presenza di un’autorità civile a cerimonie di questo genere, si chiede l’Ufficio diocesano per la famiglia, non rischia forse di ribadire la 'discriminazione', proprio perché, al di là della facile visibilità, non è in gra do di dare alcun serio contenuto politi co al proprio discorso?