venerdì 26 marzo 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Maria a Medjugorje: messaggio del 25 marzo 2010 - Cari figli, anche oggi desidero invitarvi tutti ad essere forti nella preghiera e nei momenti in cui le prove vi assalgono. Vivete nella gioia e nell’umiltà la vostra vocazione cristiana e testimoniate a tutti. Io sono con voi e vi porto tutti davanti al mio figlio Gesù e Lui sarà per voi forza e sostegno. Grazie per aver risposto alla mia chiamata.
2) A proposito di un articolo del "New York Times" - Nessun insabbiamento - L'Osservatore Romano - 26 marzo 2010
3) Un’aggressione al Papa e alla democrazia - Una significativa lettera di Marcello Pera al direttore del Corriere della Sera. "Questa guerra al cristianesimo non sarebbe così pericolosa se i cristiani la capissero"... - Corrispondenza Romana n.1135 del 27/3/2010
4) Licenza di uccidere - Autore: Amato, Gianfranco Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 24 marzo 2010
5) Un inedito sull'educazione - La lezione di una lunga passeggiata - Nel 1910 giovane docente dell'Accademia teologica di Mosca, Florenskij iniziò un corso di lezioni sulla storia della filosofia. Quando le diede alle stampe, nel 1917, vi premise una breve introduzione metodologica, dove, esponendo la sua originale didattica, metteva in gioco i principi fondamentali del suo modo di concepire l'insegnamento. Queste brevi pagine, spesso citate ma fino a oggi inedite in italiano, saranno pubblicate nel prossimo numero della rivista "La Nuova Europa" che quest'anno compie cinquant'anni di attività, nell'articolo "Lezione e lectio", che riportiamo integralmente. - di Pavel Florenskij - L'Osservatore Romano - 26 marzo 2010
6) A 105 anni dalla nascita di Viktor E. Frankl un ricordo del suo incontro con Paolo VI - Il dovere di continuare a vivere dopo Auschwitz - di Eugenio Fizzotti - L'Osservatore Romano - 26 marzo 2010
7) Tragedia greca - Mario Mauro – ilsussidiario.net - venerdì 26 marzo 2010


A proposito di un articolo del "New York Times" - Nessun insabbiamento - L'Osservatore Romano - 26 marzo 2010
Trasparenza, fermezza e severità nel fare luce sui diversi casi di abusi sessuali commessi da sacerdoti e religiosi: sono questi i criteri che Benedetto XVI con costanza e serenità sta indicando a tutta la Chiesa. Un modo di operare - coerente con la sua storia personale e con l'ultraventennale attività come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede - che evidentemente è temuto da chi non vuole che si affermi la verità e da chi preferirebbe poter strumentalizzare, senza alcun fondamento nei fatti, episodi orribili e vicende dolorose risalenti in alcuni casi a decine di anni fa. Lo dimostra, ultimo in ordine di tempo, l'articolo pubblicato oggi dal quotidiano statunitense "The New York Times", insieme a un commento, in merito al grave caso del sacerdote Lawrence C. Murphy, responsabile di abusi commessi su bambini audiolesi ospiti di un istituto cattolico, dove ha operato dal 1950 al 1974.
Secondo la ricostruzione fatta nell'articolo, basata sull'ampia documentazione fornita dagli avvocati di alcune delle vittime, le segnalazioni relative alla condotta del sacerdote furono inviate soltanto nel luglio 1996 dall'allora arcivescovo di Milwaukee, Rembert G. Weakland, alla Congregazione per la Dottrina della Fede - di cui erano prefetto il cardinale Joseph Ratzinger e segretario l'arcivescovo Tarcisio Bertone - al fine di ottenere indicazioni circa la corretta procedura canonica da seguire. La richiesta non era infatti riferita alle accuse di abusi sessuali, ma a quella di violazione del sacramento della penitenza, perpetrata attraverso l'adescamento nel confessionale, che si configura quando un sacerdote sollecita il penitente a commettere peccato contro il sesto comandamento (canone 1387).
È importante osservare - come ha dichiarato il direttore della Sala Stampa della Santa Sede - che la questione canonica presentata alla Congregazione non era in nessun modo collegata con una potenziale procedura civile o penale nei confronti di padre Murphy. Contro il quale l'arcidiocesi aveva peraltro già avviato una procedura canonica, come risulta evidente dalla stessa abbondante documentazione pubblicata in rete dal quotidiano di New York. Alla richiesta proveniente dall'arcivescovo la Congregazione rispose, con lettera firmata dall'allora arcivescovo Bertone, il 24 marzo 1997, con l'indicazione di procedere secondo quanto stabilisce la Crimen sollicitationis (1962).
Come si può facilmente dedurre anche leggendo la ricostruzione fatta dal "New York Times", sul caso di padre Murphy non vi è stato alcun insabbiamento. E ciò viene confermato dalla documentazione che si accompagna all'articolo in questione, nella quale figura anche la lettera che padre Murphy scrisse nel 1998 all'allora cardinale Ratzinger chiedendo che il procedimento canonico venisse interrotto a causa del suo grave stato di salute. Anche in questo caso la Congregazione rispose, attraverso l'arcivescovo Bertone, invitando l'ordinario di Milwaukee a esperire tutte le misure pastorali previste dal canone 1341 per ottenere la riparazione dello scandalo e il ristabilimento della giustizia.
Finalità, queste ultime, che vengono indiscutibilmente ribadite dal Papa, come dimostra la recente Lettera pastorale ai cattolici d'Irlanda. Ma la tendenza prevalente nei media è di trascurare i fatti e di forzare le interpretazioni al fine di diffondere un'immagine della Chiesa cattolica quasi fosse l'unica responsabile degli abusi sessuali, immagine che non corrisponde alla realtà. E che è invece funzionale all'evidente e ignobile intento di arrivare a colpire, a ogni costo, Benedetto XVI e i suoi più stretti collaboratori.
(©L'Osservatore Romano - 26 marzo 2010)

Un’aggressione al Papa e alla democrazia - Una significativa lettera di Marcello Pera al direttore del Corriere della Sera. "Questa guerra al cristianesimo non sarebbe così pericolosa se i cristiani la capissero"... - Corrispondenza Romana n.1135 del 27/3/2010
Caro direttore, la questione dei sacerdoti pedofili o omosessuali scoppiata da ultimo in Germania ha come bersaglio il Papa. Si commetterebbe però un grave errore se si pensasse che il colpo non andrà a segno data l’enormità temeraria dell’impresa. E si commetterebbe un errore ancora più grave se si ritenesse che la questione finalmente si chiuderà presto come tante simili. Non è così. È in corso una guerra. Non propriamente contro la persona del Papa, perché, su questo terreno, essa è impossibile. Benedetto XVI è reso inespugnabile dalla sua immagine, la sua serenità, la sua limpidezza, fermezza e dottrina. Basta il suo sorriso mite per sbaragliare un esercito di avversari. No, la guerra è fra il laicismo e il cristianesimo. I laicisti sanno bene che, se uno schizzo di fango arrivasse sulla tonaca bianca, verrebbe sporcata la Chiesa, e se fosse sporcata la Chiesa allora lo sarebbe anche la religione cristiana. Per questo i laicisti accompagnano la loro campagna con domande del tipo “chi porterà più i nostri figli in Chiesa?”, oppure “chi manderà più i nostri ragazzi in una scuola cattolica?”, oppure ancora “chi farà curare i nostri piccoli in un ospedale o una clinica cattolica?”.
Qualche giorno fa una laicista si è lasciata sfuggire l’intenzione. Ha scritto: «L’entità della diffusione dell’abuso sessuale su bambini da parte di sacerdoti mina la stessa legittimazione della Chiesa cattolica come garante della educazione dei più piccoli». Non importa che questa sentenza sia senza prove, perché viene accuratamente nascosta “l’entità della diffusione”: un per cento di sacerdoti pedofili? Dieci per cento? Tutti? Non importa neppure che la sentenza sia priva di logica: basterebbe sostituire “sacerdoti” con “maestri” o con “politici” o con “giornalisti” per “minare la legittimazione” della scuola pubblica, dei parlamenti o della stampa. Ciò che importa è l’insinuazione, anche a spese della grossolanità dell’argomento: i preti sono pedofili, dunque la Chiesa non ha autorità morale, dunque l’educazione cattolica è pericolosa, dunque il cristianesimo è un inganno e un pericolo.
Questa guerra del laicismo contro il cristianesimo è campale. Si deve portare la memoria al nazismo e al comunismo per trovarne una simile. Cambiano i mezzi, ma il fine è lo stesso: oggi come ieri, ciò che si vuole è la distruzione della religione. Allora l’Europa pagò a questa furia distruttrice il prezzo della propria libertà. È incredibile che soprattutto la Germania, mentre si batte continuamente il petto per la memoria di quel prezzo che essa inflisse a tutta l’Europa, oggi, che è tornata democratica, se ne dimentichi e non capisca che la stessa democrazia sarebbe perduta se il cristianesimo venisse ancora cancellato. La distruzione della religione comportò allora la distruzione della ragione. Oggi non comporterà il trionfo della ragion laica, ma un’altra barbarie.
Sul piano etico, è la barbarie di chi uccide un feto perché la sua vita nuocerebbe alla “salute psichica” della madre. Di chi dice che un embrione è un “grumo di cellule” buono per esperimenti. Di chi ammazza un vecchio perché non ha più una famiglia che se ne curi. Di chi affretta la fine di un figlio perché non è più cosciente ed è incurabile. Di chi pensa che “genitore A” e “genitore B” sia lo stesso che “padre” e “madre”. Di chi ritiene che la fede sia come il coccige, un organo che non partecipa all’evoluzione perché l’uomo non ha più bisogno della coda e sta eretto da solo. E così via.
Oppure, per considerare il lato politico della guerra dei laicisti al cristianesimo, la barbarie sarà la distruzione dell’Europa. Perché, abbattuto il cristianesimo, resterà il multiculturalismo, che ritiene che ciascun gruppo ha diritto alla propria cultura. Il relativismo, che pensa che ogni cultura sia buona quanto qualunque altra. Il pacifismo che nega che il male esiste.
Questa guerra al cristianesimo non sarebbe così pericolosa se i cristiani la capissero. Invece, all’incomprensione partecipano molti di loro.
Sono quei teologi frustrati dalla supremazia intellettuale di Benedetto XVI. Quei vescovi incerti che ritengono che venire a compromesso con la modernità sia il modo migliore per aggiornare il messaggio cristiano. Quei cardinali in crisi di fede che cominciano a insinuare che il celibato dei sacerdoti non è un dogma e che forse sarebbe meglio ripensarlo. Quegli intellettuali cattolici felpati che pensano che esista una questione femminile dentro la Chiesa e un non risolto problema fra cristianesimo e sessualità. Quelle conferenze episcopali che sbagliano l’ordine del giorno e, mentre auspicano la politica delle frontiere aperte a tutti, non hanno il coraggio di denunciare le aggressioni che i cristiani subiscono e l’umiliazione che sono costretti a provare dall’essere tutti, indiscriminatamente, portati sul banco degli imputati. Oppure quei cancellieri venuti dall’Est che esibiscono un bel ministro degli esteri omosessuale mentre attaccano il Papa su ogni argomento etico, o quelli nati nell’Ovest, i quali pensano che l’Occidente deve essere laico, cioè anticristiano.
La guerra dei laicisti continuerà, se non altro perché un Papa come Benedetto XVI che sorride ma non arretra di un millimetro la alimenta. Ma se si capisce perché non si sposta, allora si prende la situazione in mano e non si aspetta il prossimo colpo.
Chi si limita soltanto a solidarizzare con lui o è uno entrato nell’orto degli ulivi di notte e di nascosto oppure è uno che non ha capito perché ci sta.
Corrispondenza Romana n.1135 del 27/3/2010


Licenza di uccidere - Autore: Amato, Gianfranco Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 24 marzo 2010
La Gran Bretagna si sta avviando oramai verso la legalizzazione dell’eutanasia
Non si è avuto il coraggio di farlo attraverso una legge del Parlamento e si è, quindi, optato per la soluzione ipocrita della via giudiziaria.
Infatti, un sostanziale contributo a questo processo di legalizzazione lo hanno dato le guideline predisposte da Keir Starmer, il Director of Public Prosecutions per l’Inghilterra ed il Galles, attraverso cui sono stati delineati i presupposti per procedere penalmente nei confronti di chi partecipa attivamente ad un suicidio assistito.
Le sei esimenti previste in quelle direttive rischiano di rappresentare, infatti, un vero e proprio disco verde alle pratiche eutanasiche.
Secondo le nuove regole di Starmer, l’azione penale non verrà esercitata quando:
1) la vittima ha assunto una volontaria, chiara, determinata e consapevole decisione di commettere suicidio;
2) l’indagato ha agito esclusivamente per motivi di compassione;
3) l’azione commessa dall’indagato, sebbene idonea ad integrare un’ipotesi di reato, si è in realtà risolta in una lieve istigazione o in semplice assistenza;
4) l’indagato ha tentato di dissuadere la vittima dalla commissione del suicidio;
5) le azioni dell’indagato si possono qualificare come una debole istigazione o come mera assistenza rispetto ad una precisa volontà della vittima di commettere suicidio;
6) l’indagato ha denunciato il suicidio della vittima alla polizia giudiziaria collaborando pienamente all’inchiesta sulle circostanze del suicidio o del tentato suicidio, e sul suo ruolo nell’istigazione o nell’assistenza.
E’ ormai chiaro, quindi, come da oggi sia possibile in Gran Bretagna ricorrere all’eutanasia senza rischiare di incorrere nella giustizia penale.
I criteri contenuti nelle guideline del Director of Pubblic Prosecutions rappresentano un calderone dove ciascuno può attingere facilmente una motivazione giuridica per praticare la dolce morte. Concetti come la «lieve istigazione» o la «compassione» consentono, a tutti gli effetti, di autorizzare l’omicidio di chi chiede di porre fine alla propria esistenza.
La prova migliore di quanto affermo la fornisce l’esultanza di Debbie Purdy, accanita sostenitrice del suicidio assistito, che ha definito le nuove guideline una vera e propria «victory». Per la precisione, ha dichiarato di essere «entusiasta e felice per questa vittoria». Sentimenti riecheggiati anche nelle parole di Sarah Wooton, responsabile di un gruppo pro-eutanasia, che ha parlato di una «vittoria del buon senso».
I primi a lamentarsi delle nuove direttive, invece, sono stati alcuni parlamentari sentitisi espropriati della propria funzione legislativa. Le guideline di Starmer vengono, infatti, viste come una “back door”, una porta di servizio da cui far entrare l’eutanasia bypassando il confronto democratico del dibattito parlamentare. Parlando alla House of Commons, il deputato conservatore Mark Pritchard ha denunciato la seria preoccupazione che vive la comunità britannica allarmata dal fatto «che venga tolta la parola alla Camera» e che la via giudiziaria rappresenti, appunto, una nuova «back door attraverso cui introdurre l’eutanasia nel Regno Unito».
Furiose le organizzazioni pro-life.
Peter Saunders, del Care Not Killing Alliance, ha aspramente criticato le nuove esimenti senza mezzi termini: «Chiunque prenderà parte ad un suicidio assistito, dichiarerà inevitabilmente di aver agito per compassione. Peccato che l’unico testimone in grado di conoscere come si siano realmente svolti i fatti, nel frattempo, sarà morto».
Anche organizzazioni a sostegno dei disabili non hanno mancato di far sentire la propria voce. Richard Hawkes, direttore di Scope, ha denunciato: «Molti disabili sono spaventati, e con buon motivo, dalle possibili conseguenze di queste nuove regole». «C’è un reale pericolo», continua Hawkes, «che le direttive del Director of Public Prosecutions possano tradursi in una pressione psicologica che spinga chi è affetto da disabilità a porre fine alla propria esistenza». Senza parlare dei possibili casi di abuso in cui la soppressione non consenziente del disabile venga poi giustificata dall’omicida attraverso un’inesistente motivo compassionevole.
Un altro gruppo che ha fermamente rigettato l’introduzione delle nuove regole sul suicidio assistito, è la combattiva ProLife Alliance, secondo cui la stessa idea che possano esistere delle esimenti al reato di omicidio del consenziente è di per sé aberrante.
La tesi di Starmer e le cause di non colpevolezza contenute nelle sue guideline non possono essere accettate da una società che pretende di considerarsi civile e fonda le proprie basi su una concezione democratica del diritto e della legge.
Chiunque abbia un minimo di cultura giuridica non può non avvertire l’esigenza di respingere tout court l’idea di legittimare un omicidio. Senza se e senza ma.
Quelle direttive non sono altro, in realtà, che una vera e propria una licenza di uccidere.


Un inedito sull'educazione - La lezione di una lunga passeggiata - Nel 1910 giovane docente dell'Accademia teologica di Mosca, Florenskij iniziò un corso di lezioni sulla storia della filosofia. Quando le diede alle stampe, nel 1917, vi premise una breve introduzione metodologica, dove, esponendo la sua originale didattica, metteva in gioco i principi fondamentali del suo modo di concepire l'insegnamento. Queste brevi pagine, spesso citate ma fino a oggi inedite in italiano, saranno pubblicate nel prossimo numero della rivista "La Nuova Europa" che quest'anno compie cinquant'anni di attività, nell'articolo "Lezione e lectio", che riportiamo integralmente. - di Pavel Florenskij - L'Osservatore Romano - 26 marzo 2010
Benché pòiema significhi esattamente "creazione", dovremmo rimanere giustamente perplessi se ci si mettesse a chiamare indifferentemente "poema" qualsiasi creazione. Ma c'è un genere particolare di opera letteraria che ha perso qualsiasi specificazione, al punto che la sua natura finisce per identificarsi col significato etimologico del suo nome. Si tratta appunto della lezione. Giustamente lectio significa lettura.
Ma attaccandosi a questo appiglio linguistico, capita spesso che si applichi il nome "lezione" a qualsivoglia opera letteraria, dissertazione scientifica, articolo di rivista o appendice di giornale, purché venga letta (o pronunciata) davanti a un pubblico; così facendo non si tiene però conto del fatto che, sebbene il nome lezione derivi da lectio, le due cose non sono affatto uguali. Sono concetti subordinati: da un lato non necessariamente una lectio è una lezione, e dall'altro non necessariamente una lezione dev'essere letta davanti a degli uditori, ossia essere una lectio, perché le lezioni possono venire alla luce anche direttamente in forma stampata.
Potrà sembrare che siano ragionamenti eccessivamente scolastici e che si tratti soltanto di una disquisizione sui termini. Sì; ma per colpa dell'imprecisione nell'uso delle parole, finisce che il genere stesso delle opere letterarie cui si può legittimamente attribuire il nome di "lezione" perde la sua fisionomia specifica; un nome nebuloso impedisce di riconoscere distintamente le prerogative che si richiedono a una lezione dal punto di vista della forma, e la lezione, senza che l'autore se ne renda conto, finisce per confondersi con altri generi letterari.
All'atto di dare alle stampe una serie di saggi - un ciclo di lezioni che aveva lo scopo di esaminare lo snodo del pensiero antico in cui la filosofia greca si salda organicamente con la religione greca, all'epoca del Rinascimento ellenistico del vi secolo - l'autore ritiene necessario indicare alcune caratteristiche, che definiscono la natura della lezione in quanto tale. E dunque, cos'è una lezione? È innanzitutto un genere particolare di opera letteraria di carattere didattico, ossia scolastico (non scientifico). E tuttavia un libro di testo, ancorché lo si legga dalla cattedra, non diventerà mai per questo una lezione né un corso di lezioni.
Il rapporto che c'è tra il libro di testo e il corso di lezioni è paragonabile al rapporto che c'è tra il meccanismo e l'organismo. I primi termini di questa proporzione (libro di testo, meccanismo) sono costruiti secondo un piano prestabilito, studiato fin nei minimi particolari ed esterno rispetto al materiale che realizza questo piano e quindi assolvono il loro compito proprio alla perfezione ("con la precisione di un meccanismo") anche se, a dire il vero, entro un cerchio già stabilito e con un diametro infinitesimale.
I secondi termini della proporzione (lezione, organismo) invece, si caratterizzano per la naturalezza e la libertà della costruzione, e proprio in forza di questo hanno un funzionamento multiforme, imprecisabile a priori; in compenso, però, non arrivano alla precisione assoluta nelle proprie azioni ("l'uomo vivo non è una macchina"); la loro crescita è un atto di creazione che si manifesta in ogni dettaglio della loro struttura, mentre il libro di testo e il meccanismo, a essere precisi, non crescono nemmeno ma semplicemente vengono messi insieme, costruiti con parti preconfezionate.
Al contrario, pur attenendosi rigidamente alla direzione generale, alla corrente generale, a un generale progetto di pensiero, in un corso di lezioni, la lezione non procede in linea retta, totalmente rinchiusa in una formula razionale ma, come l'essere vivente, sviluppa i propri organi, rispondendo ogni volta alle esigenze che si manifestano in corso d'opera. In tal senso non sarebbe fuori luogo definire la lezione ideale una sorta di colloquio, di conversazione tra persone spiritualmente prossime. La lezione non è un tragitto su un tram che ti trascina avanti inesorabilmente su binari fissi e ti porta alla meta per la via più breve, ma è una passeggiata a piedi, una gita, sia pure con un punto finale ben preciso, o meglio, su un cammino che ha una direzione generale ben precisa, senza avere l'unica esigenza dichiarata di arrivare fin lì, e di farlo per una strada precisa. Per chi passeggia è importante camminare e non solo arrivare; chi passeggia procede tranquillo senza affrettare il passo.
Se gli interessa una pietra, un albero o una farfalla, si ferma per guardarli più da vicino, con più attenzione. A volte si guarda indietro ammirando il paesaggio oppure (capita anche questo!) ritorna sui suoi passi, ricordando di non aver osservato per bene qualcosa di istruttivo. I sentieri secondari, persino l'assenza di strade nel fitto del bosco lo attirano col loro romantico mistero. In una parola, passeggia per respirare un po' di aria pura e darsi alla contemplazione, e non per raggiungere più in fretta possibile la fine stabilita del viaggio, trafelato e coperto di polvere. Allo stesso modo, l'essenza della lezione è la vita scientifica in senso proprio, è riflettere insieme agli uditori sugli oggetti della scienza, e non consiste nel tirar fuori dai depositi di un'erudizione astratta delle conclusioni già pronte, in formule stereotipate.
La lezione è iniziare gli ascoltatori al processo del lavoro scientifico, è introdurli alla creazione scientifica, è un modo per insegnare attraverso l'evidenza e addirittura sperimentalmente un metodo di lavoro; non è la semplice trasmissione delle "verità" della scienza nella sua fase "attuale", "contemporanea".
Infatti che cos'è, in questo senso, la "verità" scientifica? Non è forse come il vento che non posa mai? Non è come l'onda che scivola via nell'instancabile risacca? Non è un processo inarrestabile? In una parola, non è un'energia viva, l'energèia, in contrapposizione alla cosa sclerotizzata, l'èrgon? Ma a parte questo, se la questione si riducesse esclusivamente alla trasmissione di "verità" già confezionate, la lezione diventerebbe assurda e priva di scopo.
Il libro di testo è sempre l'esito di un lavoro più ponderato della lezione; il libro di testo realizza questo compito infinitamente meglio di qualsiasi lezione. D'altra parte, leggere un libro di testo, anche il più brillante, a un intero uditorio in grado di leggere è un esercizio decisamente inutile dopo l'invenzione di Gutenberg. Sarebbe come se una cucitrice, messa da parte la macchina Singer, volesse cucire con una spina di pesce.
Ma se l'essenza della lezione è effettivamente tale, ne deriva un certo numero di segni particolari che differenziano fortemente la lezione da altri generi di opera letteraria. Innanzitutto, ha interesse per le minuzie, i particolari, i dettagli, le caratteristiche più infinitesimali che delineano il fenomeno studiato nella sua viva individualità e non solo "in generale", schematicamente. Sia l'oratore che l'ascoltatore si sentono nella situazione di un uomo che non è assolutamente obbligato a galoppare sui cavalli di posta, ma ha il diritto di perdere un po' di tempo con il sassolino o il filo d'erba che, fuori programma, hanno attirato il suo interesse.
È pur vero che i dettagli di questo genere devono necessariamente essere concentrati lungo il filo rosso della trattazione, proprio come per il nostro viandante gli oggetti della sua attenzione si susseguono lungo il sentiero; ma non sempre questi dettagli discendono dal pensiero portante della lezione in modo logico-razionale: talvolta il loro legame con l'idea generale del corso è psicologico (per associazione), o estetico (perché ci vuole un po' di varietà, per fare una pausa, o, diremmo, come fioritura), oppure, se non sbaglio usando questa espressione, didattico, suscitato da riflessioni del tipo: "Qui sarebbe il caso di comunicare il tal fatto istruttivo, o la tale teoria curiosa; lasciarli perdere sarebbe un peccato, e tornarvi sopra un'altra volta richiederebbe un giro troppo lungo".
Un buon libro di testo di solito è costruito in modo che eliminare questo o quel paragrafo vorrebbe dire rendere incomprensibili molte cose successive; mentre viceversa, tutto ciò che può essere eliminato senza compromettere la comprensione, diventa di per ciò stesso superfluo nel testo e deve essere eliminato.
Diversamente, in un corso di lezioni molti elementi che hanno realmente un legame organico col tutto e che vivono realmente della stessa vita del tutto, non derivano comunque dall'idea del tutto more geometrico, per necessità logica, e quindi possono anche essere respinti. Così, il getto secondario di una pianta, nella misura in cui si nutre della linfa dello stelo principale costituisce un corpo solo con questo; ma dall'idea della pianta intera non discende necessariamente che questo pollone collaterale debba crescere di sicuro. Talvolta un eccesso di steli secondari può danneggiare la pianta; allora è una questione di tatto individuale (e non di logica) decidere cosa, appunto, lasciar crescere e cosa recidere. Lo stesso avviene in un corso di lezioni.
Un'altra caratteristica specifica della lezione discende dal suo compito. La lezione, lo abbiamo già detto, non deve insegnare questo o quel genere di fatti, generalizzazioni o teorie, ma addestrare al lavoro, creare il gusto della scientificità, dare l'"innesco", il lievito all'attività intellettuale.
Non è tanto un principio nutritivo quanto essenzialmente fermentativo, cioè tale da portare la psiche dell'ascoltatore a uno stato di fermento.
Questo effetto fermentante colloca la lezione, in quanto opera letteraria, all'estremo opposto dell'enciclopedia, del libro di testo, del vocabolario, il cui ruolo è esattamente quello di fornire materia per la fermentazione.
Quanto alla fermentazione della psiche, essa consiste nel gusto per il concreto acquisito per contagio; consiste nella scienza di saper accogliere con venerazione il concreto, nella contemplazione amorosa del concreto.
Del resto quest'ultimo, il concreto, è inteso qui nel senso dell'oggetto stesso della ricerca scientifica diretta, nel senso di fonte prima, che si tratti di una pietra e di una pianta o piuttosto di un simbolo religioso e di un monumento letterario. Questa gioia del concreto, questo realismo si manifesta in negativo come insoddisfazione interiore (non formale) per qualsiasi opinione intermedia sull'oggetto, che congeli l'oggetto e cerchi in ogni modo di spingere l'oggetto lontano dal centro dell'attenzione per mettersi al suo posto. L'aspirazione a vedere con i propri occhi, a toccare con le proprie mani la fonte prima è ciò che fa nascere, appunto, l'atteggiamento scientifico, che è ben diverso dall'erudita dossografia, la descrizione delle opinioni altrui.
Così come sarebbe assurdo studiare botanica non sui vegetali vivi, o nemmeno sulle loro immagini fotografiche, ma in base alle loro descrizioni, allo stesso modo in qualsiasi attività scientifica cercare e vedere l'originale è l'impulso naturale di un pensiero autonomo. Il gusto del vino sincero è conoscibile solo da chi prende il vino dal produttore stesso, direttamente dalle sue mani o con la sua garanzia scritta; allo stesso modo anche gli oggetti naturali e autentici della ricerca mostrano il loro sapore solo quando li ricevi di prima mano dagli stessi creatori del pensiero geniale, con la loro garanzia scritta, oppure dalla contemplazione di alcune cose, fotografie eccetera, così come i fatti autentici delle scienze naturali si colgono soltanto attraverso l'osservazione diretta.
Viceversa, il commercio al dettaglio delle idee, sulle bancarelle o nei negozi, non meno della vendita al dettaglio del vino, porta sempre con sé delle adulterazioni e, soprattutto, aggiunte assolutamente inutili: è ben difficile che simili costruzioni si possano produrre da soli, a tavolino. Mentre il pensiero autentico, il fatto autentico sono aspri e talvolta acerbi, come il vino non adulterato.
Ecco perché al gusto della lezione, che indirizza l'attenzione degli uditori al concreto, alla fonte prima, bisogna prima abituarsi. Potrebbe sorgere la domanda: ma allora una lezione di cui si prendono appunti, e ancor meglio una lezione stampata e tanto più pubblicata, non è una contradictio in adiecto? Se la lezione è creazione immediata come si può fissarla sulla carta e, una volta fissata non perderà vigore, non si dissolverà la sua sostanza più vitale? Non perde così il diritto di esistere, una volta scritta? Direi di no.
Anche una cosa che permane nello scorrere del tempo (gli appunti) può avere come contenuto qualcosa di transitorio; anche una cosa mediata dalla scrittura può essere immediata; anche una cosa fissata può essere libera quanto al contenuto. Così il diario, una delle forme più libere e indisciplinate tra le opere letterarie, può essere trascritto e talvolta (raramente!) reso pubblico. Come il petalo di una rosa dipinta splenderà per sempre della rugiada mattutina sul punto di asciugarsi; come sul cilindro del fonografo una voce appena tremolante per l'incertezza viene afferrata per essere riprodotta innumerevoli volte con la stessa incrinatura momentanea; così nel diario e persino negli appunti di una lezione resta immobilizzato qualcosa che ha senso solo come creato "ora" e "immediatamente", e pur restando fissato, rimane per sempre creato "ora" e "immediatamente": questo foglietto ingiallito e sfatto, arde di oro eterno nel canto.
Quanto abbiamo detto finora vale per le lezioni perfette, che forse si danno raramente. È più un auspicio che non la descrizione dell'esistente. Quanto invece alle lezioni qui proposte, è necessaria una riserva. Naturalmente all'autore è difficile giudicare quanto gli sia riuscita la forma in cui sono esposte, ma il loro contenuto (e questo va affermato con ogni insistenza) non pretende di essere particolarmente originale, né d'essere rielaborato con particolare erudizione. Tutta la novità cui osa aspirare l'autore è costituita dall'idea generale, e da qualche soluzione originale di compiti specifici. E se alla fine si è deciso a rendere pubblica la propria fatica è perché ancora non esiste una simile sintesi fra i dati storico-culturali e religiosi e i dati storico-filosofici.
E faccio un'ulteriore riserva: la forma della lezione, che richiede per sua natura un certo dettaglio, una certa incisività, una certa stilizzazione dei giudizi, certe volte mi ha costretto a esprimermi con più decisione di quanto sarebbe ammesso in un'opera scientifica.
Ma non era possibile evitare le esagerazioni, perché l'assoluta cautela scientifica nel trarre conclusioni e fare valutazioni porterebbe con sé una miriade di distinguo e renderebbe il pensiero stesso poco persuasivo, gonfio e incolore. Tuttavia, questo è un fattore con cui ognuno deve fare i conti autonomamente.
Quanto all'autore, nel rivedere le lezioni per la stampa ha cercato di conservare il tono essenziale dell'esposizione, e si è permesso solamente qualche ritocco scientifico e letterario qua e là.
Anche le "note" che seguono ogni lezione non possono restare senza una "nota". Il fatto è che attorno a ogni argomento trattato su queste pagine è cresciuta un'intera letteratura.
È possibile, ed è necessario prenderla in considerazione ogni volta per intero? Dirò di più: bisogna assolutamente dare delle indicazioni bibliografiche? Per l'autore la risposta è negativa: non importa quante opinioni ci siano o potrebbero esserci su un numero infinito di questioni.
Infatti non si può, perdendo ogni autostima, correre dietro a ogni parere, porgere l'orecchio a migliaia di voci! Tanto più che anche fra le voci erudite di solito i nove decimi sono pure chiacchiere. Al "piano inferiore" vengono riportate per lo più le opere in russo o i testi di carattere abbastanza generale. Mentre le indicazioni più specialistiche sarebbero state fuori posto in un'opera di divulgazione.
(©L'Osservatore Romano - 26 marzo 2010)


A 105 anni dalla nascita di Viktor E. Frankl un ricordo del suo incontro con Paolo VI - Il dovere di continuare a vivere dopo Auschwitz - di Eugenio Fizzotti - L'Osservatore Romano - 26 marzo 2010
Sono due i libri nei quali Viktor E. Frankl, nato 105 anni fa e fondatore della "Terza scuola viennese di psicoterapia" nota nel mondo come "logoterapia e analisi esistenziale", ricorda con toni appassionati l'incontro che nel maggio del 1970 ebbe con Paolo VI.
Nei suoi appunti autobiografici, apparsi nel 1995, due anni prima della morte, con il titolo Was nicht in meinen Büchern steht (Quintessenz, München) e tradotti in italiano nel 1997 con il titolo La vita come compito (Sei, Torino), Frankl ricorda che, rispondendo alle congratulazioni che il Papa gli rivolse per il successo della sua teoria sul senso della vita, disse: "Mentre gli altri vedono soltanto quel che posso avere conseguito e ottenuto o, per meglio dire, quel che mi è riuscito e che ho realizzato, solo in questo momento mi rendo davvero conto di quel che avrei dovuto e potuto fare, ma non ho fatto. In altre parole: quello di cui sono ancora debitore nei confronti della grazia che mi è stata fatta, regalandomi altri 50 anni, pur avendo io dovuto oltrepassare i cancelli di Auschwitz".
La richiesta di incontrare il Papa non fu iniziativa di Frankl, a Roma per tenere una conferenza sul tema "Psichiatria e volontà di significato". Ecco come descrisse l'incontro: "Mia moglie Elly (sposata dopo la tragica esperienza della detenzione nei lager nazisti) venne con me ed eravamo ambedue profondamente commossi. Paolo VI ci salutò in tedesco e proseguì in italiano, mentre un religioso faceva da interprete; il Papa lodò il significato della logoterapia non soltanto per la Chiesa cattolica, ma anche per l'umanità intera. Egli poi lodò il mio comportamento nel campo di concentramento ma, detto sinceramente, non so a cosa si riferisse in concreto".
In realtà il Papa ben conosceva la tragica esperienza che Frankl, assieme ai genitori, alla prima moglie Tilly e a tanti altri parenti, aveva vissuto nei lager di Theresienstadt, Auschwitz, Kaufering e Türkheim perché da fonti dirette si seppe che gli era stata fatta recapitare una copia del libro Uno psicologo nei lager (Ares, Milano) in cui Frankl aveva descritto non tanto le sevizie cui i prigionieri erano sottoposti, ma il suo impegno a sostenerli e incoraggiarli nel vivere l'esperienza di sofferenza e di umiliazione cui erano costretti come occasione privilegiata per realizzare il senso della sofferenza, della vita e della morte.
Ciò che invece il Papa non conosceva era il contenuto straordinario di alcune lettere che Frankl scrisse negli anni immediatamente seguenti la liberazione dai lager nazisti e che, ritrovate in archivio, sono state pubblicate nel volume Lettere di un sopravvissuto. Ciò che mi ha salvato dal lager (Rubbettino, 2008). In una di queste, inviata agli inizi del 1946 a degli amici che si erano rifugiati prima della guerra a New York, così rifletteva: "Il fatto che io, unico di una schiera di medici viennesi, sia riuscito a salvare la pelle dipende da una sequela di almeno mille interventi miracolosi. Non è possibile elencarli tutti. Alla fine di aprile del 1945 fui liberato dagli americani. Lavorando come medico capo in un ospedale americano presso un sanatorio bavarese mi ripresi subito. (...) A Monaco, poco prima di partire per Vienna nell'agosto del 1945, seppi che anche mia madre era giunta dopo di me ad Auschwitz, dove patì la morte di una martire per soffocamento nella camera a gas. Il giorno stesso del mio arrivo a Vienna mi fu riferito che mia moglie (all'età di 24 anni) aveva pagato il suo amore per me, ossia la scelta di seguirmi spontaneamente, con la morte. Finì i suoi giorni all'inizio del 1945 nel famigerato lager di Belsen. Potete immaginare la mia reazione. (...) Ormai il mio dovere è di continuare a vivere, per essere degno della grazia che mi è stata concessa nell'essere ancora in vita - nonostante tutto".
Ci sono altri passaggi del suo incontro con Paolo VI che Frankl ha sempre tenuto vivi nella memoria. In modo esplicito li riferì in un lungo dialogo, avuto con il teologo ebreo Pinchas Lapide, che ha visto la luce in traduzione italiana nel 2006 nel libro Ricerca di Dio e domanda di senso. Dialogo tra un teologo e uno psicologo (Claudiana). Il primo riferisce che del Pontefice ricevette l'impressione "di un uomo con il volto segnato dalle notti insonni, trascorse lottando con se stesso, con la propria coscienza, per prendere delle decisioni, quelle che la coscienza gli imponeva; e questo pur sapendo perfettamente che rendevano impopolare non solo lui, ma l'intera Chiesa. Era segnato da un'umiltà incredibile, impossibile da immaginare".
L'altro passaggio è altrettanto significativo: "Mia moglie, che era lì, ha pianto tutto il tempo; era sconvolta. Poi ci congedò, dopo aver donato a mia moglie un rosario e a me una medaglia. Al momento di allontanarci, improvvisamente, mi chiamò in tedesco. Si immagini la situazione: il Papa che, dopo il saluto alla fine dell'udienza tenutasi quasi interamente in italiano, chiama di nuovo il neurologo ebreo di Vienna per dirgli in tedesco Bitte, beten Sie für mich! ("Per favore, preghi per me!"). Ha detto esattamente così. Una cosa incredibile, che uno non si immagina, se non l'ha vissuta, o non ne è stato testimone. Lui era così".
(©L'Osservatore Romano - 26 marzo 2010)


Tragedia greca - Mario Mauro – ilsussidiario.net - venerdì 26 marzo 2010
A cosa serve l’Europa? Questa è la domanda che a tutti i livelli ci si pone spesso e volentieri quando capita di avere a che fare con le istituzioni europee. Altrettanto spesso si finisce con il rispondere che l’Europa non serve a nulla, che l’Europa è lontana, che potremmo farne volentieri a meno. Di fronte ad un’emergenza quasi epocale come quella che si sta verificando in Grecia con una crisi economico-finanziaria senza precedenti, nella quale il debito pubblico è volato a 300 miliardi di euro, ossia al 113% del Pil e potrebbe salire al 120% entro il 2010, la risposta alla domanda va cercata alla luce di uno dei principi che da sempre ha contraddistinto il progetto politico chiamato Europa unita: la solidarietà.

A cosa serve cioè oggi l’Europa se non ad aiutare la Grecia? Non avrebbe alcun senso il nostro stare insieme se l’emergenza greca non fosse l’emergenza di tutti i Governi e di tutti i cittadini europei. Da più di un mese ormai si discute incessantemente su quali mezzi utilizzare per risolvere la crisi e sulle priorità da individuare. E’ un dibattito che si sta pericolosamente dilungando perché troppo spesso utilizzato a piacimento per un personale tornaconto politico. Anche il dibattito di mercoledì scorso al parlamento europeo, ha mostrato purtroppo che molti esponenti politici che dicono di voler combattere la speculazione finanziaria, la sostituiscono con la speculazione politica, il modo migliore per gettare l’Europa nel baratro.

Perché attaccare un altro paese membro, in questo caso la Germania e la Cancelliera Merkel, solo perchè ci ricordano che la politica della solidarietà deve andare di pari passo con la politica della responsabilità? Questo significa non aver compreso affatto l’eccezionalità di un momento in cui la sorte degli amici greci è legata in maniera indissolubile alla bontà e all’efficacia dell’Unione Europea. E’ un banco di prova decisivo per il futuro. E’ il momento in cui la Commissione europea deve avanzare pretese ambiziose nei confronti degli Stati membri e imporre loro misure che alla lunga possano tradurre il senso del progetto europeo. Rigore e solidarietà devono essere le parole d’ordine. Ma per ripartire davvero serve un’altra consapevolezza.
L’Europa, ma soprattutto gli europei, storicamente, nei periodi di difficoltà sanno tirare fuori il meglio in termini di creatività, di talento e di solidarietà. Oggi l’Europa conserva ancora punti di eccellenza mondiale che possono essere presi da esempio per strategie a livello comunitario. Penso ad alcune regioni come la Lombardia, ma penso anche alle migliaia di piccole e grandi aziende, o al nostro settore agricolo, o alla nostra tradizione marittima.

Un'Europa che voglia essere competitiva e moderna non può che partire dalla valorizzazione della risorsa che la contraddistingue nel mondo: il capitale umano. Un tempo l’Europa era la più grande società della conoscenza e questo la faceva essere anche la più grande economia della conoscenza. Da un po’ di tempo non è più così.
Tutto il percorso che con pazienza e umiltà stiamo cercando di disegnare per dare nuova speranza per il futuro ai nostri cittadini ci porterà a risultati soddisfacenti soltanto se davvero sarà un percorso comune. Se nessuno, oggi di fronte alla crisi greca, domani di fronte ad altri mille ostacoli, si sottrarrà dalle proprie responsabilità. Se tutti quanti, governi, cittadini e istituzioni europee, guarderemo cioè nella stessa direzione, quella della ricerca del bene comune, in cui l’uomo e il suo desiderio di compimento costituiscano l’unico orizzonte possibile.