martedì 15 gennaio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:

1) Per attaccare il Papa i baroni rossi rinnegano Marx, di Antonio Socci
2) INTOLLERANZA INSPIEGABILE - L’UNIVERSITÀ È STATA LA CASA DI J. RATZINGER
3) Quel desiderio di una politica, per il popolo Giorgio Vittadini
4) Ecco le vere parole su Galileo, J. Ratzinger
5) I prof censurano il Papa senza mai averlo letto, Andrea Tornielli
6) La lezione di Voltaire valga anche per il Papa, Pierluigi Battista
7) Oscurantismo laicista, Stefano Zecchi
8) Nessun regime distrugge il cuore degli uomini, Giorgio Vittadini
9) «Ratzinger su Galileo? Leggetelo»
10) , Aborto, GRANDE MORATORIA. Ferrara: l'Ivg è un omicidio perfetto
11) Gesù concepito: vero uomo e vero Dio
12) L’incursione di una squadraccia rovina il lavoro del prof. Vescovi
13) L’ideologia nega il dolore che invece va ascoltato



PER ATTACCARE IL PAPA I BARONI ROSSI RINNEGANO MARX
Pur di scagliarsi contro di lui, i critici del Pontefice gli rinfacciano le frasi dei loro maestri comunisti...
di ANTONIO SOCCI
Un gruppo di professori dell'Università di Roma, in nome della "tolleranza", vuole che il Papa non parli nell'ateneo romano (l'intervento era stato richiesto dalle autorità accademiche). Strana idea di tolleranza. Il Pontefice sarebbe una figura che non ha niente a che fare con l'università? A parte il fatto che a fondare l'università romana è stato proprio il papa. Praticamente è casa sua. Si legge infatti nello stesso sito internet dell'ateneo: «L'atto di nascita della Università di Roma reca la data del 20 aprile 1303; in questo giorno venne infatti promulgata da Papa Bonifacio VIII Caetani la Bolla In Supremae praeminentia Dignitatis, con la quale veniva proclamata la fondazione in Roma dello "Studium Urbis"». Cosa ovvia, essendo la Chiesa all'origine di gran parte delle nostre istituzioni culturali. A parte poi il fatto che Joseph Ratzinger è appunto un docente universitario, anzi un luminare, uno dei più grandi intellettuali del nostro tempo, ed è casomai lui che fa onore all'Università di Roma intervenendo, e non l'Università che fa un favore al Papa. A parte il fatto, infine, che i laici ogni tre secondi citano Voltaire («non condivido ciò che dici, ma mi batterò fino alla fine perché tu possa dirlo») e poi lo contraddicono nella pratica. Ma l'aspetto più paradossale è un altro. Perché quello che viene imputato al Papa è di aver citato - in un discorso tenuto quando era cardinale - un intellettuale laico-agnostico, un antidogmatico, un libertario, uno che insegnava a Berkeley dove cominciò la contestazione e che - da anarchico - applaudì alla rivolta, insomma uno dei loro, il celebre epistemologo Paul Feyerabend. Ecco la sua frase citata dall'allora cardinale Ratzinger: «All'epoca di Galileo, la Chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello stesso Galileo e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina di Galilei. Il suo processo contro Galilei era razionale e giusto, mentre la sua attuale revisione si può giustificare solo con motivi di opportunità politica».
IL PARADOSSO
In effetti la vicenda Galilei fu molto più complessa di quanto racconti la storia a fumetti che vede un Sant'Uffizio tenebroso che opprime l'illuminato scienziato. E il cardinale Bellarmino, peraltro grande uomo di cultura, aveva le sue ragioni. Questo intendeva dire il filosofo Feyerabend. La sua provocazione sul processo non era condivisa da Ratzinger che, oltretutto, fu colui che volle la revisione del "caso Galileo" con Giovanni Paolo II. Quindi è l'ultimo a poter essere oggi accusato per questo. Ma - da studioso - ricostruendo il complesso dibattito moderno su quel caso, per far capire la complessità dei problemi e la pluralità delle posizioni, Ratzinger citò anche la celebre pagina di Feyerabend. Quindi Ratzinger viene oggi "scomunicato" in base non al proprio pensiero, ma al pensiero di un altro. Che oltretutto è uno "scettico", uno della loro stessa area culturale laica (ma lui è coerente e rifiuta tutti i dogmi, anche i loro). «Sono parole», scrivono i professori romani, «che, in quanto scienziati fedeli alla ragione e in quanto docenti che dedicano la loro vita all'avanzamento e alla diffusione delle conoscenze, ci offendono e ci umiliano». Ma - chiediamo, illustri professori - vi rendete conto che queste "parole" da voi citate e "scomunicate" appartengono non al Papa, ma ad un vostro illustre collega epistemologo che ha insegnato nei maggiori atenei? E come potete attribuire all'uno le parole dell'altro? No, i professori non sentono ragioni. E sentenziano: «In nome della laicità della scienza e della cultura e nel rispetto di questo Ateneo aperto a docenti e studenti di ogni credo e di ogni ideologia, auspichiamo che l'incongruo evento possa ancora essere annullato». Quindi, «in nome del rispetto di ogni credo» chiedono che non sia fatto parlare Benedetto XVI. Tutti, ma non lui. Se non fossero fatti preoccupanti, ci sarebbe da ridere. Perché in quel discorso tenuto a Parma il 15 marzo 1990, evocato e "scomunicato" dai professori, il cardinale Ratzinger insieme a Feyerabend citava - su una linea analoga - anche un altro filosofo, il "marxista romantico" Ernst Bloch su cui sarebbe interessante sentire il parere dei professori della Sapienza. Secondo Bloch sia il geocentrismo sia l'eliocentrismo si fondano su presupposti indimostrabili perché la relatività di Einstein ha spazzato via l'idea di uno spazio vuoto e tranquillo: «Pertanto» ha scritto Bloch «con l'abolizione di uno spazio vuoto e tranquillo, non accade nessun movimento verso di esso, ma solo un movimento relativo dei corpi l'uno in relazione agli altri e la loro stabilità dipende dalla scelta dei corpi presi come punti fissi di riferimento: dunque, al di là della complessità dei calcoli che ne deriverebbero, non appare affatto improponibile accettare, come si faceva nel passato, che la Terra sia stabile e che sia il Sole a muoversi». Il filosofo marxista non tornava certo all'universo tolemaico, né alle conoscenze scientifiche del tempo di Bellarmino e di Copernico, per i quali si potevano fare solo delle ipotesi. Bloch parlava in nome delle più avanzate scoperte scientifiche del XX secolo, esprimeva così - spiegava Ratzinger - «una concezione moderna delle scienze naturali». Infatti un'altra mente eccelsa del Novecento, grande nome del pensiero ebraico, una combattente contro il totalitarismo, Hannah Arendt, nel libro "Vita activa", scrive la stessa cosa: «Se gli scienziati precisano oggi che possiamo sostenere con egual validità sia che la Terra gira attorno al Sole, sia che il Sole gira attorno alla Terra, che entrambe le affermazioni corrispondono a fenomeni osservati, e che la differenza sta solo nella scelta del punto di riferimento, ciò non significa tornare alla posizione del cardinale Bellarmino e di Copernico, quando gli astronomi si muovevano tra semplici ipotesi. Significa piuttosto che abbiamo spostato il punto di Archimede in un punto più lontano dell'universo dove né la Terra né il Sole sono centri di un sistema universale. Significa che non ci sentiamo più legati nemmeno al Sole, scegliendo il nostro punto di riferimento ovunque convenga per uno scopo specifico».
IL SECOLO NICHILISTA
Secondo la Arendt «per le effettive conquiste della scienza moderna il passaggio dal sistema eliocentrico a un sistema senza un centro fisso è tanto importante quanto fu, in passato, quello da una visione geocentrica del mondo a una eliocentrica». Ratzinger - uno dei grandi intellettuali del mondo moderno - lo ha capito molto bene e segnala, come la Arendt, la necessità di riflettere sulle conseguenze sociali di questo nuovo scenario e sull'uso che, in questa situazione, si fa della scienza. Invece il mondo accademico italiano, più provinciale e ideologizzato, sembra ancora fermo al Seicento. Penso che il professor Ratzinger si riconoscerebbe in quest'altro pensiero della Arendt: «I primi 50 anni del nostro secolo hanno assistito a scoperte più importanti di tutte quelle della storia conosciuta. Tuttavia lo stesso fenomeno è criticato con egual diritto per l'aggravarsi non meno evidente della disperazione umana o per il nichilismo tipicamente moderno che si è diffuso in strati sempre più vasti della popolazione; l'aspetto più significativo di queste condizioni spirituali è di non risparmiare nemmeno più gli scienziati». Ma vi pare che l'università italiana possa volare a queste altezze? Domina l'intolleranza, non c'è spazio per l'avventura della conoscenza e per l'inquietudine delle domande. C'è spazio solo per le piccole lotte di potere attorno al rettorato di cui ha parlato Asor Rosa al Corriere. Buonanotte Illuminismo.
www.antoniosocci.it

LIBERO 15 gennaio 2008


INTOLLERANZA INSPIEGABILE - L’UNIVERSITÀ È STATA LA CASA DI J. RATZINGER
Avvenire, 15.1.2008
MARCO TARQUINIO
La Sapienza si prepara a inaugurare il 705° an­no della sua ricca storia accademica. E, per i­niziativa del rettore Renato Guarini e degli orga­nismi universitari, vuole farlo insieme a Benedet­to XVI, rendendo così onore a se stessa e all’ospi­te: papa e accademico, testimone di fede e pen­satore. Eppure la Sapienza, nonostante la felice at­tesa di tantissimi, da qui a giovedì rischia di ritro­varsi un po’ più povera. Addirittura umiliata, e pri­gioniera delle logiche della gazzarra e della be­stemmia contro l’intelligenza, sciorinate da una tu­multuosa compagnia di professori-censori e di professionisti dell’antagonismo. Logiche che non dovrebbero avere corso in una Università, e che in­vece – per quanto ampiamente minoritarie – rie­scono a infestarla. Fino al punto di orchestrare u­na insulsa e insultante campagna contro la presa di parola di un papa nell’Ateneo romano che da un Papa, nel 1303, venne fondato.
E sì, la Sapienza rischia di essere un po’ più pove­ra. Anzi, lo è già adesso. Adesso che un manipolo di giovani (non tutti suoi frequentatori) si è dato il compito di preparare un 'assedio sonoro' all’in­tervento di papa Benedetto e si gloria di aver pro­posto all’Italia e al mondo una smemorata e in­concepibile idea di Università: luogo di non-pa­rola e di non-ascolto, di non-coraggio e di non-li­bertà. Adesso che una ses­santina dei suoi 4.500 inse­gnanti si sono autoprocla­mati giudici in un somma­rio processo a un sommo pontefice che si chiama Jo­seph Ratzinger, ed è uno degli intellettuali più im­portanti generati dalla cul­tura europea del nostro tempo, e si ritrovano irri­mediabilmente segnati dal marchio del fanatismo. Marchio che non risparmia di certo gruppuscoli di stu­denti (o presunti tali) dal pregiudizio e dall’intolle­ranza facili, ma che grava assai di più su di loro: docenti e ricercatori che dovrebbero parlare a ra­gion veduta e mossi, sempre, da uno sconfinato amore per la chiarezza e per la profondità. E che, invece, hanno preso a sentenziare ostracismi ap­pendendosi al chiodo esile e traditore di una cita­zione monca e adulterata.
Sprezzanti della verità – al pari dei cronisti fretto­losi e dei propagandisti in malafede che distorse­ro la splendida 'lectio magistralis' di Ratisbona per ridurla ad argomentazione anti-islamica – han­no tuonato contro il Papa che, da cardinale, a­vrebbe ri-condannato Galileo. Lo hanno fatto – come s’addice non a studiosi ma a ignoranti – ri­cordando poco e male il ruolo svolto dall’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede al fianco di Giovanni Paolo II nella piena e solenne 'resa di giustizia' nei confronti del gran­de scienziato cattolico. E addirittura imputando­gli di aver fatto proprie opinioni sulla 'giustezza' e 'ragionevolezza' del processo contro Galileo che, in realtà, in un testo del 1990, aveva ricorda­to solo per definire 'assurdo' il loro uso.
Si voleva un pretesto per alzare la voce e, soprattutto, un polverone intimidatorio. E lo si è sfrontatamente creato. Facendo tornare a cigolare vecchi catenac­ci ideologici e pretendendo di imporre i lucchetti dell’anticlericalismo. Nell’illusione, si direbbe, di poter erigere una barriera conformista attorno al­l’Accademia e di appostare sui camion di guardia 'vopos' che sparano ondate di suoni contro chi viene, invitato, per incontrare e parlare. Contro il Papa che crede e dimostra, indicando la via del rin­novato incontro tra fede cristiana e ragione, che la città degli uomini – il nostro mondo – va vissuto e amato come casa comune, luogo della costruzio­ne del bene comune secondo una legge comune ra­dicata nella natura e nella coscienza.
Forse è davvero un maldestro sessantottismo di ri­torno. Ma più che al caldo ’68 delle scomode e ir­riverenti curiosità culturali ed esistenziali, la rab­biosa frenesia censoria e antagonista manifesta­tasi in un ben determinato settore della Sapienza e del movimentismo romano contro papa Rat­zinger fa pensare al cupo ’61 di Berlino, ai giorni della vorticosa e raggelante costruzione del padre di tutti i muri, segno incancellabile dell’illibertà e dell’intolleranza. C’è, lo sappiamo bene, chi oggi si batte strenuamente per alzare reticolati d’in­conciliabilità tra fede e ragione, tra natura e scien­za, tra doveri morali e diritti di libertà. E sogna di far tacere Benedetto XVI, che chiama a riconcilia­re e a ricentrare in Cristo e nell’uomo cultura e so­cietà. Ma la voce del Papa – l’integrità del suo mes­saggio – non si può spezzare. Né, in ogni caso, chiudere di là da un muro.




14.01.2008, Quel desiderio di una politica, per il popoloGiorgio Vittadini, Il Riformista



14.01.2008, Ecco le vere parole su Galileo, J. Ratzinger, Il Giornale



14.01.2008, I prof censurano il Papa senza mai averlo letto, Andrea Tornielli, Il Giornale



14.01.2008, La lezione di Voltaire valga anche per il Papa, Pierluigi Battista, Corriere della Sera



14.01.2008, Oscurantismo laicista, Stefano Zecchi, Il Giornale



14.01.2008, Nessun regime distrugge il cuore degli uomini, Giorgio Vittadini, Il Giornale



«Ratzinger su Galileo? Leggetelo» Avvenire, 15.1.2008
Il professor Giorgio Israel non ha firmato l’appello e spiega perché: «È stato costruito su spezzoni del discorso fatto»
«È una minoranza del mondo accademico, anche se tra loro appare la firma del presidente del Cnr. C’è risentimento: non sopportano che il Papa parli di scienza»

DI PAOLO VIANA
È una sorta di sindrome Wikipedia quella che sta provocando tanto sconcerto nei fisici della Sapienza che si oppongono all’intervento del Papa all’inaugurazione dell’anno accademico. Con una punta d’ironia, Giorgio Israel, docente di storia della matematica, spiega perché è decisamente contrario all’appello dei suoi colleghi della facoltà di Scienze contro Ratzinger: «sarebbe meglio documentarsi e ragionare, invece troppo spesso si legge decontestualizzando e fraintendendo. Così chi ha scritto l’appello contro il Papa fondandolo sulla citazione di una frase di Feyerabend, avrebbe fatto meglio a leggersi tutto il discorso dell’allora cardinale Ratzinger e avrebbe capito che questo Papa non attaccava affatto la scienza né la ragione». Di più Israel non dice, ma il sospetto di un documento nato sulla lettura sbrigativa di documenti scaricati da internet è nell’aria.
I suoi colleghi si indignano, sobbalzano, si offendono e lei ci ride su?
Diciamo che allargo le braccia e spero che la protesta si eclissi in fretta, per decenza.
Dovranno pur rendersi conto di aver scritto una lettera assurda, citando un discorso del Papa che dimostra l’esatto contrario di quel che loro sostengono.
Sia più preciso.
Gli estensori dell’appello al rettore accusano il Papa citando una sua citazione e precisamente la frase di un filosofo della scienza in cui si dice che all’epoca di Galileo la chiesa fu più fedele alla scienza dello stesso Galileo e che quindi il processo a quello scienziato fu ragionevole e giusto. Se uno, invece di indignarsi per un presunto vulnus al metodo razionale, si leggesse il discorso integrale dell’allora cardinale Ratzinger in cui appare questa citazione coglierebbe che nel suo discorso essa veniva interpretata in senso esattamente contrario a quel che sostengono i contestatori.
Il cardinale, oggi Papa Benedetto XVI, parlava della crisi di fiducia della scienza in sé stessa e dimostrava che, mentre per secoli si è creduto che il processo a Galileo fosse la prova del carattere oscurantista della Chiesa, in seguito, nell’ambito della cultura scientifica erano emerse posizioni diverse, le quali sostenevano che Galileo non aveva fornito prove dimostrative dell’eliocentrismo e che Feyerabend era arrivato al punto di sostenere che il punto di vista della Chiesa era più razionale. Ratzinger con quel discorso voleva mostrare che la scienza stava perdendo la fiducia in se stessa e, di fatto, difendeva il punto di vista di Galileo. Altro che attacco alla scienza...
Com’è possibile che nel mondo scientifico nessuno abbia colto questo significato?
Diciamo che non l’hanno colto i firmatari della lettera.
Come non hanno colto il senso delle parole di Ratzinger, il quale nel discorso di Parma ha detto esplicitamente che la sua intenzione non era quella di porre delle rivendicazioni e ha sottolineato che la fede non cresce a partire dal risentimento e dal rifiuto della modernità.
Si può dire lo stesso del mondo scientifico italiano?
Non credo proprio. Sono convinto che questa sia una minoranza, anche se tra di essi vi è il presidente del Cnr. Il peso specifico delle firme non è trascurabile, ma i numeri della contestazione sono per ora modesti. Si tratta di una sessantina di persone in una facoltà di seicento docenti e in un ateneo che conta migliaia di professori. Ciò detto, sì, vi sono atteggiamenti ostili. C’è anzi il fastidio di alcuni ambienti, che non sopportano che il Papa parli di scienza. Del resto, in un paese in cui Oddifreddi vende 200.000 copie di un libro contro la religione e Veltroni continua a tenerselo stretto e lo vuol far convivere con la Binetti, perché stupirsi? Questi fenomeni riflettono il fatto che a una parte del mondo scientifico piace questo laicismo ateo e aggressivo e che a sinistra pochi se la sentono di opporsi a questi eccessi.




15 Gennaio 2008 - Corriere della sera, Aborto, GRANDE MORATORIA. Ferrara: l'Ivg è un omicidio perfetto


Gesù concepito: vero uomo e vero Dio
di Mario Palmaro da "il Timone"
Dio irrompe nella storia con la delicatezza di Un piccolo embrione d’uomo che bussa al cuore di una giovane donna dl Nazareth. Una verità della fede che non mortifica la ragione ma che la aiuta a riconoscere la dignità dl ogni concepito.
Forse non siamo abituati a pensarci. Ma il grande mistero dell’Incarnazione di Dio getta una luce sfolgorante sulla stupefacente realtà della vita umana prima della nascita. Non occorrono straordinarie competenze teologiche per accorgersi che la strada scelta da Dio per farsi uomo passa concretamente, realmente attraverso ogni fase della nostra vita. Gesù è stato un tenero bambino nella mangiatoia della stalla di Betlemme; un ragazzo abile e sveglio nel tener testa ai dottori del tempio; un giovane vigoroso nella bottega di Giuseppe; è stato, in una parola, l’uomo perfetto. Egli ha attraversato ogni età della vita non come un fantasma, o come un simulacro di umanità, ma come vero Dio fatto vero uomo in tutto, fuorché nel peccato. Poiché tutto ciò è realmente accaduto, allora non rimane che riconoscere che Gesù di Nazereth è stato anche, per nove mesi della sua vita, un uomo concepito. Lo è stato attraversando tutte quelle fasi dello sviluppo embrionale, necessarie alla crescita organica di ognuno di noi, e che continueranno a essere la strada obbligata per ogni uomo che si affaccia alla vita.
Una mortificazione per la ragione?
Se contempliamo Gesù concepito ci accorgiamo che egli, prima ancora di iniziare la sua vita pubblica e la sua predicazione, di compiere miracoli e di consolare le folle, di morire in croce e risorgere; prima di tutte queste cose egli già ci parla silenziosamente. E ci comunica la straordinaria dignità che ogni concepito d’uomo porta impressa su di sé. Quasi un sigillo regale che l’uomo contiene nella sua stessa natura, non a partire dalla nascita, ma dal momento stesso in cui è chiamato misteriosamente alla vita, nell’intimità del grembo materno. Qualcuno potrebbe ravvisare in questo discorso un che di offensivo per la ragione, potrebbe addirittura pensare che la dignità del concepito sia un dogma delta fede cattolica, una verità rivelata comprensibile soltanto agli occhi del credente. Nulla di più lontano dalla realtà. L’embrione merita di essere trattato con rispetto innanzitutto perché è un uomo, e come tale partecipa delta sua dignità e dei suoi diritti naturali. La ragione umana non ha bisogno, in questo riconoscimento, di alcuna «stampella» soprannaturale. Ma è anche vero che la profonda comprensione della grandiosità di ogni singolo essere umano, della sua antropologia e del suo destino eterno non può che avvenire in Gesù Cristo. Ecco perché la contemplazione di Gesù Concepito ci rivela con sorprendente efficacia chi abbiamo davanti quando ci troviamo di fronte a un embrione umano, seppure alle primissime fasi del suo sviluppo. Nella prospettiva della fede, quell’embrione è Gesù stesso.
L’Annunciazione, Dio si fa uomo
Del resto, le parole dell’Angelo Gabriele non lasciano dubbio alcuno sulla consistente concretezza di quell’avvenimento, realizzato attraverso il fiat della Madonna: «Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù» (Luca 1, 30-31). Maria è la donna del sì. Del sì alla vita che si compie in lei nella pienezza più assoluta. «Non temere», le dice l’angelo, che evidentemente ha letto sul volto bellissimo della Vergine la paura, lo smarrimento di fronte all’annuncio più sconvolgente che orecchie umane abbiano mai ascoltato. Ma Maria non giunge impreparata all’appuntamento con l’angelo. Nella sua storia tutto sembra ruotare intorno all’istante prodigioso del concepimento. Maria è senza macchia, perché Dio l’ha preservata dal peccato originate, e l’ha resa immacolata non dalla nascita, ma sin dal suo concepimento. «Io sono l’Immacolata Concezione», dirà alla piccola Bernadette Soubirous apparendo nella grotta di Lourdes. E Maria dice il suo sì proprio al concepimento verginale del Figlio di Dio. Ed è un sì non viene pronunciato di fronte a un Dio che irrompe nella storia degli uomini in maniera trionfale, con un frastuono di trombe e di eserciti cui nessuno potrebbe resistere; ma al contrario con la delicatezza, la debolezza, diremmo, di un piccolo embrione d’uomo che bussa al cuore di una giovane donna di Nazareth.
Una parola tagliente come una spada
D’altra parte, al di là di troppo facili sentimentalismi, il riconoscimento di questo Dio che si fa embrione si trasforma immediatamente in una parola impegnativa per l’uomo moderno. Una parola tagliente come una spada, che ci inchioda di fronte all’ambivalenza di questa misteriosa identificazione tra l’onnipotenza dl Dio e la fragilità assoluta del concepito. Il credente contempla nel nascituro il Cristo concepito. Se lo rifiuta, rifiuta Cristo sin dal momento del suo incarnarsi. «In verità vi dico, ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). La parola di Gesù si abbatte tagliente come una lama sulla nostra vita di tutti i giorni, apparentemente cosi lontana dal Mistero del Dio fatto bambino. E invece, quotidianamente, si ripete per noi l’incontro con l’uomo concepito, che ci costringe a scegliere. Aborto, fecondazione, artificiale, diagnosi prenatale, clonazione terapeutica... Ci accorgiamo improvvisamente che ognuna di queste parole non è più una fredda questione moralistica, un lontano problema di regole teoriche; ma diventa la «mia» risposta a una domanda che mi interpella direttamente, fino alle profondità del mio cuore.
«Et homo factus est» recita il Credo che riassume la nostra fede. Nel pronunciare queste parole chiniamo il capo, perché vogliamo esprimere con il gesto del corpo il nostro fermarci per un momento, attoniti ed esultanti — come Giovanni Battista non ancora nato — di fronte al Dio che si fa carne e sangue net corpo di Maria. «Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo ed esclamò a gran voce:
«Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo! A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo»» (Lc 1, 41-44). Non un dio greco bello e inafferrabile, dunque; ma un embrione umano di poche cellule. Lì, fin dal momento del concepimento, c’é Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio. Lì, fin dal momento del concepimento, c’è ognuno di noi. C’erano i nostri genitori, i nostri antenati, i nostri figli. Tutti i nostri figli: desiderati, attesi, sani; ma anche indesiderati, inaspettati, handicappati. Dal concepimento, ognuno di loro bussa alla nostra porta. Proprio come il Dio Bambino.


A RISCHIO 4 ANNI DI RICERCHE DELL’ESPERTO IN STAMINALI
L’incursione di una squadraccia rovina il lavoro del prof. Vescovi
Avvenire, 15.1.2008
ASSUNTINA MORRESI
C i aspettiamo che il ministro dell’Università e della Ricerca scientifica Fabio Mussi intervenga a fianco dell’Università Bicocca e del professor Angelo Vescovi, tra i più affermati studiosi al mondo di cellule staminali, per condannare l’inquietante gesto accaduto nella notte fra venerdì e sabato scorsi (se ne dà notizia a pagina 8). È accaduto infatti che ignoti si siano introdotti in uno dei laboratori dell’università milanese, dove erano riposti diversi contenitori di materiale biologico conservato a bassissima temperatura in azoto liquido. Andando evidentemente a colpo sicuro hanno aperto l’unico lucchetto, quello che sigillava il solo contenitore delle cellule su cui sta svolgendo attività di ricerca il gruppo diretto da Vescovi – un lavoro delicatissimo e promettente svolto su cellule neuronali per comprendere meccanismi sinora indecifrabili e individuare in futuro terapie risolutive – ne hanno rovesciato a terra l’intero contenuto distruggendo quattro anni di lavoro, con un danno incalcolabile legato al valore intrinseco della ricerca condotta da 22 giovani 'cervellì', e solo sul piano materiale stimabile in una cifra superiore ai 500 mila euro.
Saranno le indagini – lo auspichiamo – a stanare i colpevoli e chiarire il movente di un gesto irresponsabile.
D’altra parte la ricerca contro la quale si è tentato un folle gesto di sabotaggio andrà sicuramente avanti, come assicurano gli scienziati vittime dell’atto vandalico. Ma non si può lasciar passare sotto silenzio quel che è accaduto. Ci troviamo di fronte a una delle pagine più nere per quella che dovrebbe essere la massima istituzione educativa di ogni nazione civile, e cioè l’università. Cercare di interrompere con la violenza una libera attività di ricerca non è soltanto un fatto inquietante: sa tanto di squadraccia, ricorda i raid degli anni di piombo, tristi episodi che pensavamo di esserci lasciati alle spalle. Il professor Angelo Vescovi, professore di Biologia cellulare nell’ateneo milanese ma anche direttore dell’Istituto di cellule staminali di Terni, si è battuto con forza al tempo del referendum sulla legge 40 per una ricerca scientifica libera e rispettosa della dignità di ogni essere umano. Da allora, come ha dichiarato egli stesso senza alcun vittimismo, è stato più volte oggetto di intimidazioni e minacce. La società civile e soprattutto la comunità della ricerca italiana sanno bene come reagire in questi casi: facendo innanzitutto quadrato attorno a chi è stato colpito, stigmatizzando tutti, senza se e senza ma, la gravissima offesa subìta dagli scienziati dell’équipe di cui Vescovi è leader. In un momento in cui la ricerca è impropriamente diventata terreno di scontro ideologico, un gesto di solidarietà in particolare da parte del mondo scientifico sarebbe un prezioso e chiaro segnale di rispetto reciproco e di civiltà. Le autorità giudiziarie faranno ciò che loro compete. Dal mondo della scienza, ora, ci si attende un sussulto di dignità.


LA CURA DEI DISTURBI DELLA SESSUALITÀ
L’ideologia nega il dolore che invece va ascoltato
CLAUDIO RISÉ
L’ ascolto e l’acco­glienza del dolore umano (la parte più difficile, ma decisiva, della psicoterapia) ha un grande nemico: l’ideologia, che pretende di distinguere tra sofferenze 'giuste', ascoltabili, e sofferenze sbagliate, inaccettabili.
Quando Freud, alla fine dell’800, a Vienna, incominciò a prestare ascolto (anche) alle fantasie o ai disagi sessuali di ottimi mariti e padri, o delle loro mogli e figlie inquiete, la cosa infastidì i benpensanti, e i relativi Ordini. Cosa mai poteva esserci di strano nella sessualità di una coppia regolarmente sposata? Perché quello psichiatra ebreo ascoltava queste storie? Cosa aveva a che fare, tutto ciò, con la malattia psichiatrica, organica, l’unica 'ufficialmente riconosciuta'?
Un secolo dopo, ancora si rifiuta, in un nuovo modo, di dar voce al dolore umano dissonante con pregiudizi potenti. Che oggi sostengono (tra l’altro) che nella persona omosessuale tutto va bene, e quindi non ci può essere un dolore che un terapeuta debba ascoltare, per aiutarla, se lo desidera, a porvi rimedio.
Questo, e non altro è lo sfondo della penosa vicenda (di cui Avvenire
si è già occupato il 6 e il 10 gennaio scorsi), che ha visto un collaboratore del quotidiano Liberazione
presentarsi sotto le spoglie di un omosessuale desideroso di mutare il proprio orientamento, dal professor Cantelmi, presidente dell’Associazione Psicologi e Psichiatri Cattolici, per poi procedere al suo linciaggio mediatico.
Un’operazione rivelatrice del cinismo con cui certa politica guarda al dolore umano che non porti voti al proprio partito. Poi, però, il presidente dell’Ordine nazionale degli Psicologi, su sollecitazione del presidente dell’Arcigay, ha scritto al quotidiano del Partito di Rifondazione Comunista. La lettera cita opportunamente l’art. 4 del Codice Deontologico degli Psicologi: «Nell’esercizio della professione, lo psicologo rispetta la dignità, il diritto...
all’autodeterminazione... di chi si avvale delle sue prestazioni; ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall’imporre il suo sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religione, … sesso di appartenenza, orientamento sessuale». Perfetto. Poi conclude: «È evidente quindi che lo psicologo non può prestarsi ad alcuna 'terapia riparativa' dell’orientamento sessuale di una persona». Ora, come si concilia il «diritto all’autodeterminazione e all’autonomia del paziente» col rifiuto di terapie che accolgano il bisogno che egli esprima di modificare il proprio orientamento sessuale? Se una persona credente, con tendenze omosessuali, si rivolge ad un terapeuta perché queste gli causano disagio, lo psicologo può derogare al rispetto di «opinioni e credenze»? In quel caso non rispettando, cioè, la sua fede religiosa, perché ha un orientamento omosessuale?
In realtà, l’omosessualità egodistonica, indesiderata, è prevista come disturbo nei due principali manuali diagnostici oggi in uso nella comunità scientifica.
Vale a dire innanzitutto il DSM-IV-TR (pubblicato dall’American Psychiatric Association), che riporta tra i sintomi del Disturbo Sessuale Non Altrimenti Specificato (302.9): «Persistente e intenso disagio riguardo all’orientamento sessuale».
Omosessuale o eterosessuale non fa differenza: se qualcuno soffre per la propria sessualità, va ascoltato, e preso in carico. Inoltre il manuale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ICD-10, riporta il disturbo F66.1 Orientamento Sessuale Egodistonico, prevedendo che «l’individuo può cercare un trattamento per cambiare... la propria preferenza sessuale». Anche in Italia dunque, come negli altri Paesi democratici, gli psicologi rispondano al bisogno di cura di chi soffre, e non alle intimazioni di partiti e ideologie.


L’Italia salvata dalla poesia
Avvenire, 15.1.2008
DI DAVIDE RONDONI
La poesia appartiene a quell’esperienza della lingua in cui si . prova a dire 'quel che non si sa'. Accade a tutti, non solo ai poeti. Se qualcosa ci colpisce davvero (un amore storto o dolce, un dolore, un accidente qualsiasi imprevisto, una notizia, o una città che si apre ai nostri occhi quando giriamo l’angolo), allora le parole, ameno per un istante, non riescono più a essere 'solite'. La lingua, per così dire, si riaccende. E si cercano le parole per mettere a fuoco quel che ci ha colpito. Come quando diamo soprannomi alle persone amate, ai piccoli o alle donne. Vengono, quei soprannomi. Sembriamo scemi. Diciamo: cucciolo mio, cavallino; diciamo: stellina mia, o dromedario mio, o cosa diavolo ci viene da dire. Sono un modo per decorare quelle presenze, come posare un fiore sui capelli. Ma sono anche di più: si tratta del modo primario, più naturale che abbiamo per cercare di mettere a fuoco quel che ci colpisce in certe presenze.
La poesia non nasce in strani laboratori della lingua, tra amanti di libri polverosi. Nasce per la strada, e ovunque, quando un tizio che può avere una vita normale o speciale, o una vita così così, poco importa, si lascia colpire dal continuo avvenimento dell’esistenza.
Indicherà la luna, ne proverà a mettere a fuoco la presenza amica o forse indifferente... O una ragazza in bicicletta, o una notizia­dura sul giornale. La chiamavano ispirazione. È una parola antica e giusta. Una parola senza più corona. A volte anche lei ondeggia un po’ ubriaca o smarrita. Ma il suo sguardo e i suoi gesti non falliscono. Il mondo chiede di essere messo a fuoco al di là delle prime apparenze. Ci invita. I poeti fanno questo lavoro con le parole.
Altri lo fanno con alambicchi e microscopi. O con l’aratro sul campo o lo scalpello sul marmo.
Per cercarne il segreto. Che non smette di parlare, di sollecitare.
Dante fu colpito dall’avvenimento di Beatrice, «venuta da cielo in ter­ra a miracol mostrare» e volle met­tere a fuoco il senso di quell’in­contro. Perciò scrisse la sua fantastica Commedia. Aveva la vita come motivo, co­me motore del suo poe­ma del movimento. E tanti leggano e ascol­tino, mettendo a fuoco la propria vi­ta.
In questo tempo duro chi non è so­lo un sopravvissu­to fa esperienza della poesia. Non c’è niente di peg­gio, diceva il grande Péguy, che avere un’anima bell’e fatta. Un’a­nima confeziona­ta. La poesia rom­pe le confezioni.
Per chi scrive poesie, interveni­re in dibattiti su un’epoca in cui si discute di civiltà e della sua permanenza o meta­morfosi mette quasi timore. Non politico, non teologo, è il poeta.
Quando mi invitano (e ciò accade di raro, per fortuna) a riflettere su queste cose, per qualche minuto vorrei aver studiato più filosofia, o più storia, o più politica, insomma qualsiasi cosa invece di aver letto questi mucchi di poesie. Poi i mi­nuti passano. E le poesie che mi so­no restate dentro come voci offro­no intonazioni. Loro, le poesie, non mi tacciono dentro e danno un suono, un tono alle idee. Come cantare con dietro un coro. Più che alla mia competenza mi affido al coro di voci antiche e recenti che mi abitano. Poeti che hanno dato voce al farsi e disfarsi, alle crisi di nascita, di crescita, di tante civiltà...
Da Omero a Virgilio, da Baudelaire a Eliot, da Leopardi a Pound, da Ungaretti a Luzi... Insomma, andia­mo in giro in tanti, per così dire, e io in quel coro, minima tra le voci, mi confondo e m’appoggio...
Dalla voce dei poeti, qualunque fosse il loro punto di vista nell’ago­ne politico del momento, imparia­mo che lo stato di crisi di una ci­viltà è, in senso profondo, lo stato permanente. Abbiamo visto ottimi poeti aderire a ideologie orrende, o non opporvisi con il coraggio o la lucidità necessari. Ma quale che fosse l’adesione personale a errori politici – il che per un filosofo o po­litologo è grave – nella loro poesia è ugualmente presente qualcosa di più. Il discorso della loro poesia sulle crisi della civiltà resta sempre fertile di provocazioni. Il susseguir­si e il rincorrersi delle crisi di una civiltà possono essere il suo irrobu­stimento, la sua vita interiore che procede in maniera non scontata, con acquisti imprevedibili, secon­do dinamiche non lineari. Dal mo­do in cui quei grandi poeti parlaro­no delle crisi delle loro epoche vie­ne l’invito a non dare troppa im­portanza all’elaborazione di un messaggio politico di bre­ve gittata. Un secolo come quello appena trascorso ha elaborato le più effera­te ideologie, i più spietati totalitarismi, e una radica­le avversità a Dio. Intanto però scrittori e poeti lavo­ravano proprio negli abis­si delle ombre della li­bertà, dove nessuna ideo­logia giunge coi suoi finti lumi. O scendevano nelle indagini su un Dio misterioso. Ora quest’e­poca che viviamo ha visto finire certe ideologie manifeste. E il pro­blema di Dio, che molti intellettuali organici davano per eclissato dalla convivenza umana, invece splende tremendo e affascinante. E dobbia­mo, anche faticosamente, imparare di nuovo a riconoscere cosa ci sta a cuore della nostra civiltà.
Per chi scrive versi, intervenire in dibattiti su un’epoca in cui si discute di civiltà mette timore. Non politico, non teologo, è il poeta Abbiamo visto ottimi poeti aderire a ideologie orrende, o non opporsi con coraggio. Ma nella loro opera è presente qualcosa di più