giovedì 24 gennaio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:

1) Lettera del Papa alla diocesi di Roma sul compito dell'educazione
2) IL BISOGNO DI SPERANZA, SECONDO BAGNASCO
3) Privilegiare sempre la vita
4) Legge 40, il Tar chiama la Corte Costituzionale
5) La Montalcini contro il Papa, appello dei professori per difenderlo


Lettera del Papa alla diocesi di Roma sul compito dell'educazione
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 23 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Al termine della preghiera dell’Angelus di domenica scorsa, il Santo Padre ha incoraggiato i responsabili, i dirigenti, i docenti, i genitori e gli alunni delle scuole cattoliche, convenuti in occasione della Giornata della scuola cattolica della Diocesi di Roma, a perseverare, nonostante le difficoltà, nell’importante compito di porre il Vangelo al centro di un progetto educativo che punti alla formazione integrale della persona umana.
All’argomento, il Papa ha dedicato una speciale Lettera recante la data del 21 gennaio, che pubblichiamo di seguito.


* * *
Cari fedeli di Roma,
ho pensato di rivolgermi a voi con questa lettera per parlarvi di un problema che voi stessi sentite e sul quale le varie componenti della nostra Chiesa si stanno impegnando: il problema dell'educazione. Abbiamo tutti a cuore il bene delle persone che amiamo, in particolare dei nostri bambini, adolescenti e giovani. Sappiamo infatti che da loro dipende il futuro di questa nostra città. Non possiamo dunque non essere solleciti per la formazione delle nuove generazioni, per la loro capacità di orientarsi nella vita e di discernere il bene dal male, per la loro salute non soltanto fisica ma anche morale.
Educare però non è mai stato facile, e oggi sembra diventare sempre più difficile. Lo sanno bene i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti e tutti coloro che hanno dirette responsabilità educative. Si parla perciò di una grande "emergenza educativa", confermata dagli insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro i nostri sforzi per formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita. Viene spontaneo, allora, incolpare le nuove generazioni, come se i bambini che nascono oggi fossero diversi da quelli che nascevano nel passato. Si parla inoltre di una "frattura fra le generazioni", che certamente esiste e pesa, ma che è l'effetto, piuttosto che la causa, della mancata trasmissione di certezze e di valori.
Dobbiamo dunque dare la colpa agli adulti di oggi, che non sarebbero più capaci di educare? E' forte certamente, sia tra i genitori che tra gli insegnanti e in genere tra gli educatori, la tentazione di rinunciare, e ancor prima il rischio di non comprendere nemmeno quale sia il loro ruolo, o meglio la missione ad essi affidata. In realtà, sono in questione non soltanto le responsabilità personali degli adulti o dei giovani, che pur esistono e non devono essere nascoste, ma anche un'atmosfera diffusa, una mentalità e una forma di cultura che portano a dubitare del valore della persona umana, del significato stesso della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita. Diventa difficile, allora, trasmettere da una generazione all'altra qualcosa di valido e di certo, regole di comportamento, obiettivi credibili intorno ai quali costruire la propria vita.
Cari fratelli e sorelle di Roma, a questo punto vorrei dirvi una parola molto semplice: Non temete! Tutte queste difficoltà, infatti, non sono insormontabili. Sono piuttosto, per così dire, il rovescio della medaglia di quel dono grande e prezioso che è la nostra libertà, con la responsabilità che giustamente l'accompagna. A differenza di quanto avviene in campo tecnico o economico, dove i progressi di oggi possono sommarsi a quelli del passato, nell'ambito della formazione e della crescita morale delle persone non esiste una simile possibilità di accumulazione, perché la libertà dell'uomo è sempre nuova e quindi ciascuna persona e ciascuna generazione deve prendere di nuovo, e in proprio, le sue decisioni. Anche i più grandi valori del passato non possono semplicemente essere ereditati, vanno fatti nostri e rinnovati attraverso una, spesso sofferta, scelta personale.
Quando però sono scosse le fondamenta e vengono a mancare le certezze essenziali, il bisogno di quei valori torna a farsi sentire in modo impellente: così, in concreto, aumenta oggi la domanda di un'educazione che sia davvero tale. La chiedono i genitori, preoccupati e spesso angosciati per il futuro dei propri figli; la chiedono tanti insegnanti, che vivono la triste esperienza del degrado delle loro scuole; la chiede la società nel suo complesso, che vede messe in dubbio le basi stesse della convivenza; la chiedono nel loro intimo gli stessi ragazzi e giovani, che non vogliono essere lasciati soli di fronte alle sfide della vita. Chi crede in Gesù Cristo ha poi un ulteriore e più forte motivo per non avere paura: sa infatti che Dio non ci abbandona, che il suo amore ci raggiunge là dove siamo e così come siamo, con le nostre miserie e debolezze, per offrirci una nuova possibilità di bene.
Cari fratelli e sorelle, per rendere più concrete queste mie riflessioni, può essere utile individuare alcune esigenze comuni di un'autentica educazione. Essa ha bisogno anzitutto di quella vicinanza e di quella fiducia che nascono dall'amore: penso a quella prima e fondamentale esperienza dell'amore che i bambini fanno, o almeno dovrebbero fare, con i loro genitori. Ma ogni vero educatore sa che per educare deve donare qualcosa di se stesso e che soltanto così può aiutare i suoi allievi a superare gli egoismi e a diventare a loro volta capaci di autentico amore.
Già in un piccolo bambino c'è inoltre un grande desiderio di sapere e di capire, che si manifesta nelle sue continue domande e richieste di spiegazioni. Sarebbe dunque una ben povera educazione quella che si limitasse a dare delle nozioni e delle informazioni, ma lasciasse da parte la grande domanda riguardo alla verità, soprattutto a quella verità che può essere di guida nella vita.
Anche la sofferenza fa parte della verità della nostra vita. Perciò, cercando di tenere al riparo i più giovani da ogni difficoltà ed esperienza del dolore, rischiamo di far crescere, nonostante le nostre buone intenzioni, persone fragili e poco generose: la capacità di amare corrisponde infatti alla capacità di soffrire, e di soffrire insieme.
Arriviamo così, cari amici di Roma, al punto forse più delicato dell'opera educativa: trovare un giusto equilibrio tra la libertà e la disciplina. Senza regole di comportamento e di vita, fatte valere giorno per giorno anche nelle piccole cose, non si forma il carattere e non si viene preparati ad affrontare le prove che non mancheranno in futuro. Il rapporto educativo è però anzitutto l'incontro di due libertà e l'educazione ben riuscita è formazione al retto uso della libertà. Man mano che il bambino cresce, diventa un adolescente e poi un giovane; dobbiamo dunque accettare il rischio della libertà, rimanendo sempre attenti ad aiutarlo a correggere idee e scelte sbagliate. Quello che invece non dobbiamo mai fare è assecondarlo negli errori, fingere di non vederli, o peggio condividerli, come se fossero le nuove frontiere del progresso umano.
L'educazione non può dunque fare a meno di quell'autorevolezza che rende credibile l'esercizio dell'autorità. Essa è frutto di esperienza e competenza, ma si acquista soprattutto con la coerenza della propria vita e con il coinvolgimento personale, espressione dell'amore vero. L'educatore è quindi un testimone della verità e del bene: certo, anch'egli è fragile e può mancare, ma cercherà sempre di nuovo di mettersi in sintonia con la sua missione.
Carissimi fedeli di Roma, da queste semplici considerazioni emerge come nell'educazione sia decisivo il senso di responsabilità: responsabilità dell'educatore, certamente, ma anche, e in misura che cresce con l'età, responsabilità del figlio, dell'alunno, del giovane che entra nel mondo del lavoro. E' responsabile chi sa rispondere a se stesso e agli altri. Chi crede cerca inoltre, e anzitutto, di rispondere a Dio che lo ha amato per primo.
La responsabilità è in primo luogo personale, ma c'è anche una responsabilità che condividiamo insieme, come cittadini di una stessa città e di una nazione, come membri della famiglia umana e, se siamo credenti, come figli di un unico Dio e membri della Chiesa. Di fatto le idee, gli stili di vita, le leggi, gli orientamenti complessivi della società in cui viviamo, e l'immagine che essa dà di se stessa attraverso i mezzi di comunicazione, esercitano un grande influsso sulla formazione delle nuove generazioni, per il bene ma spesso anche per il male. La società però non è un'astrazione; alla fine siamo noi stessi, tutti insieme, con gli orientamenti, le regole e i rappresentanti che ci diamo, sebbene siano diversi i ruoli e le responsabilità di ciascuno. C'è bisogno dunque del contributo di ognuno di noi, di ogni persona, famiglia o gruppo sociale, perché la società, a cominciare da questa nostra città di Roma, diventi un ambiente più favorevole all'educazione.
Vorrei infine proporvi un pensiero che ho sviluppato nella recente Lettera enciclica Spe salvi sulla speranza cristiana: anima dell'educazione, come dell'intera vita, può essere solo una speranza affidabile. Oggi la nostra speranza è insidiata da molte parti e rischiamo di ridiventare anche noi, come gli antichi pagani, uomini "senza speranza e senza Dio in questo mondo", come scriveva l'apostolo Paolo ai cristiani di Efeso (Ef 2,12). Proprio da qui nasce la difficoltà forse più profonda per una vera opera educativa: alla radice della crisi dell'educazione c'è infatti una crisi di fiducia nella vita.
Non posso dunque terminare questa lettera senza un caldo invito a porre in Dio la nostra speranza. Solo Lui è la speranza che resiste a tutte le delusioni; solo il suo amore non può essere distrutto dalla morte; solo la sua giustizia e la sua misericordia possono risanare le ingiustizie e ricompensare le sofferenze subite. La speranza che si rivolge a Dio non è mai speranza solo per me, è sempre anche speranza per gli altri: non ci isola, ma ci rende solidali nel bene, ci stimola ad educarci reciprocamente alla verità e all'amore.
Vi saluto con affetto e vi assicuro uno speciale ricordo nella preghiera, mentre a tutti invio la mia Benedizione.
Dal Vaticano, 21 gennaio 2008
BENEDICTUS PP. XV
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]



IL BISOGNO DI SPERANZA, SECONDO BAGNASCO
QUELLA PERCEZIONE SOTTILE SUL NOSTRO PAESE
Avvenire, 24.1.2008
MARINA CORRADI
Un Paese sempre pià frammentato, ha detto il cardinale Bagnasco. È l’I­talia, ha aggiunto, ad avere bisogno og­gi di speranza. C’è in questa afferma­zione la percezione autentica del Paese. Basta prendere un treno, entrare in un locale per sentire da Milano al Sud la stessa amarezza di fondo: una genera­lizzata sfiducia verso la politica, un av­vilimento per le troppe cose che paiono condannate a non funzionare mai, un sottaciuto timore, in una simile Italia, ad avere fiducia nel futuro, magari an­che nel modo più naturale, mettendo al mondo un figlio. Ed è vero, certo, che la rappresentazione mediatica evidenzia sempre ciò che non funziona a scapito di quanto c’è di buono e non fa rumo­re. È vero anche che dentro la realtà quo­tidiana incontri un sacco di gente che fa con competenza e generosità il proprio lavoro. Tuttavia, è come se la somma di tante persone che fanno del loro meglio si sfaldasse quando dall’individualità si passa all’azione collettiva: è quella «co­mune incapacità di costruire un futuro comune partecipato» descritta dal Cen­sis ed evocata da Bagnasco.
Un’incapacità di pensare e raggiungere obiettivi collettivi, che si tratti di con­trastare la caduta demografica, o anche solo di tracciare una politica condivisa dello smaltimento dei rifiuti. Il massi­mo che viene realizzato si risolve per lo più in provvedimenti estemporanei e dettati dall’ emergenza. I pendolari viag­giano su treni fatiscenti, in certe regio­ni per un esame medico aspetti dei me­si, gli asili nido continuano a mancare, ma questi problemi paiono originati da un fato irremovibile. Soprattutto, sem­bra mancare il senso della prospettiva: l’inquinamento, la carenza di infra­strutture, la crisi della scuola senza mi­sure di lungo periodo non possono che peggiorare. Invece, ogni giorno pare si ri­cominci da capo: ordini, liti, contrordi­ni e retromarce, in un gran parlare che si esaurisce nell’arco di 48 ore. Pare che in Italia oggi l’idea del futuro imbaraz­zi. Quasi che ciò che accadrà dopo, ai nostri figli, sfumi nell’ombra di una pro­spettiva troppo incerta per ragionevol­mente occuparsene.
L’Italia ha bisogno di speranza. Siamo la settima potenza industriale del pianeta, ma siamo in crisi di speranza. E nem­meno tutto è riconducibile alla crisi del­la politica o della rappresentanza; più in profondità c’è una crisi interiore, di­cono i vescovi, che della crisi pubblica è causa e radice.
«Incapacità di costruire un futuro co­mune partecipato», dice il Censis. Basta girare per il centro storico delle città i­taliane per imbattersi in strutture urba­nistiche, palazzi, chiese che sono pro­digiosi esempi di una antica capacità di «costruire un futuro comune partecipa­to », anche in secoli di carestie e pesti­lenze. I costruttori delle nostre cattedrali iniziavano opere che nemmeno i figli dei loro figli avrebbero visto compiute. Come naturalmente certi di un futuro che attendeva il proprio popolo; come proiettati, nonostante le guerre quoti­diane, verso un destino certo.
Uno sguardo che nasceva dentro a un mondo cristiano: in quella fede «so­stanza della speranza» di cui parla Be­nedetto XVI nella Spe salvi; in una già posseduta certezza, che proiettava ope­rativamente verso la storia e i figli che sa­rebbero nati. Gente radicalmente di­versa da quegli Efesini prima di Cristo, «senza speranza e senza Dio nel mon­do », come scrive Paolo. Si chiede il Pa­pa nell’enciclica: «La fede cristiana è per noi oggi una speranza che sorregge la nostra vita?». È qualcosa che la plasma oppure solo una 'informazione' cui ci siamo assuefatti? La rassegnazione dif­fusa, l’incapacità di pensare il futuro pongono ai credenti questa domanda.
Come una spinta a dare, della nostra speranza, la ragione. A testimoniare, in un’Italia «sfilacciata», quella speranza cristiana, mai individualistica e privata, che Benedetto XVI chiama «più gran­de »; e che dà alle altre energia, e senso.


Privilegiare sempre la vita
Avvenire, 24.1.2008
EUGENIA ROCCELLA
L a prolusione del presidente della Cei, il cardinale Bagnasco, contiene una
Non bisogna far dipendere la valutazione delle cure da prestare dalle previsioni su eventuali disabilità
riflessione sull’aborto molto articolata, che i media hanno semplificato e compresso, cercando di adattarla a interpretazioni immediatamente politiche. Ma tentare un’operazione simile vuol dire chiudersi all’ascolto, prestandosi all’equivoco. Nelle parole del cardinale c’è il ringraziamento a quei laici che hanno denunciato lo scandalo silenzioso dei milioni di non nati, ma c’è anche una dichiarazione di non belligeranza, la mano tesa a chiunque voglia davvero fare qualcosa per la «tutela della maternità», come recita il titolo della legge 194. C’è la consapevolezza di non essersi mai allontanati da una linea di intransigenza nella difesa della vita («considerare vita la vita, sempre»), ma non ci sono parole di colpa nei confronti delle donne; c’è invece il riconoscimento per chi, come i volontari dei Centri di aiuto alla vita, «ha cercato di promuovere un’iniziativa amica delle donne che le aiuti nella decisione, talora faticosa, di accettazione dell’esistenza diversa da sé che ormai è accesa in grembo». E poi c’è anche una domanda precisa: «Come si può, solo per questa legge, deliberatamente ignorare i progressi della scienza e della medicina e non tener conto che oltre le 22 settimane di gestazione c’è già qualche possibilità di sopravvivenza» per il nascituro? Si tratta di applicare la legge 194, che vieta l’aborto se il feto ha possibilità di vita autonoma, e indicare un limite cautelativo appunto tra la 21° e la 22° settimana di gravidanza.
L’altroieri, dopo quasi un anno di discussione, la commissione voluta dal ministro della Salute Livia Turco sulle cure per i neonati fortemente prematuri, ha chiuso i suoi lavori. Il testo prodotto dal gruppo di lavoro istituisce una casistica rigida e dettagliata: tra le 22 settimane e le 23 (anzi, le 22 più 6 giorni) sono indicate solo le «cure compassionevoli». Allo scattare della 23° settimana, il medico valuta se «sussistano condizioni di vitalità»; dopo la 24° la rianimazione diventa consigliabile, e dopo la 25°, necessaria. Ci sarebbe piaciuto qualcosa di meno prescrittivo, che però indicasse con chiarezza alcuni criteri di fondo da seguire. Per esempio quello di privilegiare comunque la tutela della vita, e non far dipendere la valutazione delle cure da prestare dalle previsioni su eventuali disabilità.
L’eugenetica preme alle nostre porte, e pretende ormai di diventare senso comune: sembra quasi ovvio che una vita da disabili non abbia lo stesso valore di una 'di qualità'. Come si legge nella bozza elaborata dal Comitato nazionale di bioetica sull’assistenza ai prematuri, «appare eticamente inaccettabile, oltre che scientificamente opinabile, la pretesa di individuare una soglia astratta a partire dalla quale rifiutare, a priori, ogni tentativo di rianimazione».
Qualcuno obietterà che non siamo coerenti: perché, allora, chiedere un limite preciso per l’interruzione di gravidanza? È semplice: nel caso dell’aborto, si tratta di una garanzia, di un limite oltre il quale un bimbo potrebbe – forse – vivere autonomamente. Il caso dell’assistenza ai prematuri è opposto: si tratta di rifiutare aprioristicamente le cure a un bambino solo perché è nato a 22 settimane e 6 giorni anziché a 23. Alla domanda del cardinale Bagnasco, aggiungiamo la nostra: perché non dare al neonato prematuro un’occasione, o almeno lasciare la valutazione alla responsabilità del medico? Il nostro è un criterio elementare: privilegiamo la vita.




Legge 40, il Tar chiama la Corte Costituzionale
di Ilaria Nava
Avvenire, 24.1.2008

Una sentenza del Tribunale del Lazio annulla il divieto di diagnosi pre impianto non invasive, fissato nelle linee guida del 2004. Ma riconosce che alcuni princìpi a salvaguardia dell’embrione sono fissati dalla legge E chiede lumi alla Consulta

Diagnosi pre-impianto, sì o no? La questione è sospesa, almeno finché non si pronuncerà la Corte costituzionale, chiamata dal Tar del Lazio in una sentenza pubblicata nei giorni scorsi e divenuta di dominio pubblico solo ieri a decidere sulla legittimità costituzionale dell’articolo 14 delle legge 40, nella parte in cui vieta la produzione di più di 3 embrioni e il congelamento degli embrioni stessi, con conseguente obbligo di impianto. Non dovrebbe contenere sorprese, quindi, la nuova versione delle linee guida annunciata dal ministro Turco, visto che, come ha affermato il Tar nella sentenza, il divieto è contenuto nella legge e in ogni caso, i principi contenuti nella legge impongono il rispetto della salute e della vita dell’embrione.

È datata 31 ottobre, ma è stata depositata solo in questi giorni la sentenza 398/2008 del Tribunale amministrativo del Lazio sulla legge 40, che annulla le linee guida « laddove si statuisce che ogni indagine relativa allo stato di salute degli embrioni creati in vitro, ai sensi dell’articolo 13, comma 5, dovrà essere di tipo osservazionale». Sul divieto di crioconservazione e sulla creazione di un massimo di 3 embrioni alla volta, da impiantare contemporaneamente, il Tribunale amministrativo ha invece sospeso il giudizio, rimettendo la questione alla Corte Costituzionale. La sentenza, quindi, modifica le linee guida vigenti dal 2004 abrogando la disposizione impugnata, ma sembra anche ribadire che la diagnosi dovrà avere come finalità solo la tutela dell’embrione stesso, come prescritto dall’articolo 13 delle legge: «Dalla comparazione tra le due disposizioni – afferma il Tar – emerge che, mentre nella legge si consente la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano, sia pure per finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso, e si consentono interventi aventi finalità diagnostiche e terapeutiche, sempre al medesimo scopo, nelle linee guida tale possibilità viene contratta al punto di essere limitata alla sola 'osservazione' dell’embrione. In buona sostanza – proseguono i giudici amministrativi –, fermo il generale divieto di sperimentazione su ciascun embrione umano, la legge n. 40 del 2004 consente la ricerca e la sperimentazione e gli interventi necessari per finalità terapeutiche e diagnostiche se volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione», mentre «le linee guida riducono tale possibilità alla sola osservazione».

Accanto all’annullamento delle linee guida laddove sanciscono che ogni indagine sull’embrione dovrà essere di tipo esclusivamente osservazionale, il Tribunale ribadisce quindi che il divieto di selezione degli embrioni è una scelta compiuta dal legislatore, non dalle linee guida. Potranno essere eseguite diagnosi, a condizione che siano comunque volte alla tutela dell’embrione stesso e non alla sua selezione.
La decisione si pone in tal modo in contrasto con quanto stabilito nei recenti provvedimenti di Firenze e di Cagliari, che hanno affermato che il divieto di selezione, e conseguentemente anche di crioconservazione e soppressione degli embrioni malati, è contenuto esclusivamente nelle linee guida, che pertanto vanno disapplicate. Prosegue infatti il Tar: «Il potere relativo non può che competere al legislatore, con la conseguenza che se quest’ultimo, nella sua ampia discrezionalità politica ha stabilito di consentire interventi diagnostici sull’embrione per le finalità prima espresse, (ossia quelle volte esclusivamente alla tutela e alla salute dell’embrione stesso; ndr) questi ultimi non possono essere limitati nel senso prospettato nella norma delle linee guida».

Ne è un’ulteriore conferma il fatto che il Tar ha deciso di rimettere la questione alla Corte Costituzionale, invitandola a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’articolo 14, nei commi 2 e 3. La pendenza di questo giudizio davanti alla Consulta va a incidere sull’iter di modifica delle linee guida, attualmente in corso presso il Ministero della Salute. La nuova versione non potrebbe certo introdurre nel nostro ordinamento la possibilità di crioconservazione o soppressione degli embrioni, né prevedere deroghe all’obbligo di un unico e contemporaneo impianto dei tre embrioni creati, neppure a fronte di una diagnosi che lascia supporre qualche patologia, visto che questa parte della legge è attualmente all’esame della Consulta.

Il provvedimento del Tar è stato emesso a seguito del ricorso presentato dalla Warm, (World Association Reproductive Medicine), associazione che riunisce centri che svolgono attività di procreazione medicalmente assistita, che aveva impugnato le linee guida sotto diversi profili. Con la sentenza 3452 del 2005 il Tar aveva già respinto il ricorso, affermando che la diagnosi pre impianto «è preclusa dalla legge (art. 13, III comma, lett. b) in quanto ricade nel divieto di selezione a scopo eugenetico, seppure trattasi di eugenetica negativa, volta cioè a fare sì che non nascano persone portatrici di malattie ereditarie, e non già a perseguire scopi di 'miglioramento' della specie umana». Un provvedimento poi annullato per questioni procedurali dal Consiglio di Stato, che aveva rispedito il fascicolo al Tar. Di qui la nuova sentenza.

Scienza & Vita: «Nessun via libera alla diagnosi pre-impianto»
Interpretazioni forzate, eccessive, in alcuni casi addirittura incoerenti: la sentenza del Tar del Lazio sulle linee Guida della legge 40 ha causato un terremoto politico e culturale in cui si sono travisati sia i contenuti della sentenza stessa sia quelli della norma. Basti pensare alle prime dichiarazioni dei rappresentanti della associazioni che hanno presentato ricor­so: da Filomeno Gallo, presidente di Amica Cicogna, che ha sostenuto «la possibilità di effettuare la diagnosi pre-impian­to già da domani» in tutta Italia (quando nella sentenza non v’è alcuna traccia di un via libera alla tecnica), al ginecologo e presidente dell’Associazione Warm Severino Antinori, che ha espresso la sua soddisfazione «per le coppie che si sono viste negare i più elementari diritti civili, quale quello alla genito­rialità » (diritto che la Legge 40 non ha mai leso) e ha addirit­tura chiesto le immediate dimissioni del ministro Turco, che avrebbe volutamente rallentato la revisione delle linee guida (le dichiarazioni fatte dal ministro nelle ultime settimane era­no di tutt’altro segno). Soddisfatti per la sentenza anche i Ra­dicali e i politici dei diversi schieramenti che avevano espres­so il loro sfavore alla legge già ai tempi del referendum (Pre­stigiacomo, Boniver e Moroni per il centrodestra, Marino e Ferrero per il centrosinistra). Di parere opposto, invece, Scien­za & Vita («L’esclusione da parte del Tar del Lazio della cosid­detta diagnosi di tipo osservazionale sull’embrione – ha pre­cisato l’associazione – non implica un via libera alla diagnosi preimpianto»), Luca Volontè dell’Udc («La sentenza del Tar Lazio contiene aspetti gravi, ma anche un’implicita tutela a favore dell’embrione») e le senatrici del Pd Emanuela Baio e Paola Binetti («Confermiamo il nostro sì alla legge 40 che tu­tela l’embrione»). (V. Dal.)



La Montalcini contro il Papa, appello dei professori per difenderlo
Rita Levi Montalcini, premio Nobel per la medicina e membro della Pontificia Accademia delle Scienze ha affermato rispondendo ai giornalisti che le chiedono se avrebbe fatto parlare il Papa all'Università La Sapienza di Roma: «Sono membro del Vaticano e non potevo firmare quello che invece approvavo completamente»…


ROMA «Sono membro del Vaticano e non potevo firmare quello che invece approvavo completamente». Il premio Nobel per la medicina Rita Levi Montalcini, a Milano durante la cerimonia con cui l'università di Milano Bicocca le ha conferito la laurea honoris causa in Biotecnologie industriali, risponde ai giornalisti che le chiedono se avrebbe fatto parlare il Papa all'Università La Sapienza di Roma o se avrebbe invece firmato il documento dei professori contrari all'intervento del Pontefice. «Ma non devo parlare di questo», precisa subito la senatrice a vita, «come non ho voluto parlarne». Indagando sulla frase «sono membro del Vaticano», si scopre che la senatrice a vita si riferisce al fatto di essere membro della Pontificia Accademia delle Scienze. Dunque, questa appartenenza le avrebbe impedito di prendere parte attiva, per così dire, alla polemica divampata nei giorni scorsi. Facendo però capire con chiarezza da che parte sta. Quella sua appartenenza, comunque, non le ha impedito, in passato, di esprimere giudizi critici al «pensiero supercattolico» che avrebbe prodotto «guasti» propri «delle ideologie categoriche». Questo succedeva nel 2001, quando questi suoi giudizi sono stati duramente stigmatizzati dall'Osservatore Romano.
IL DOCUMENTO
Ma il mondo universitario italiano mostra adesso anche un'altra faccia. Non solo chiamate alle armi in nome «della laicità», non solo liste di nomi che non hanno voluto in visita il Papa e che continuano a sostenere le ragioni di questo "no", ma anche un vero e proprio "Appello per la ragione e la libertà in Università". Appello promosso a seguito di quanto accaduto in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico della Sapienza da una novantina di professori ordinari delle diverse università italiane. L'appello, peraltro, segna l'inizio di una campagna culturale sul tema della ragione nell'università. Come si legge nel testo diffuso, questo è «un invito a difendere quella ampiezza e vastità della ragione, di quella libertà di ricerca e di confronto essenziale all'esercizio della professione di docente e per la costruzione di una civile convivenza. Ora tutti possono firmare l'appello - che si rivolge anche ai docenti degli atenei di tutta Europa - visitando il sito www.appellouniversita.net . Nei giorni della polemica più calda, subito sono fioccati gli inviti a Benedetto XVI da parte di diversi atenei italiani, da quello di Viterbo a quello di Firenze.
GLI INVITI
Anche il governatore della Regione Veneto, Giancarlo Galan, ha fatto presente che il prestigioso ateneo di Padova potrebbe invitare il Pontefice. Senza contare che gli interventi del professor Joseph Ratzinger sono sempre stati ricercatissimi da parte delle università di mezzo mondo. E la sua esperienza di «professore emerito» è stata con orgoglio ricordata dal Papa stesso durante l'Angelus di domenica scorsa a piazza San Pietro.
Ed è prossima la pubblicazione, da parte delle edizioni Porziuncola (francescane) dello studio del '57 del giovanissimo Ratzinger, con il quale otteneva la libera docenza, su «San Bonaventura. La teologia della storia».

di Caterina Maniaci
Libero 23 gennaio 2008