giovedì 10 gennaio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:

1) Benedetto XVI presenta la figura di Sant’Agostino
2) Svelare l'ambiguità delle parole - La parola "feto" dovrebbe essere bandita dall'uso comune. Nell'epoca delle ecografie a quattro dimensioni e degli studi comportamentali, sappiamo benissimo che non esiste differenza sostanziale tra il bambino prima della nascita e dopo il parto... - di Carlo Bellieni
3) Arcivescovo di Kirkuk: le bombe non uccidono la nostra speranza e il dialogo
4) La diplomazia della Chiesa ha una stella fissa: quella dei Magi
5) , Le conferenze di Ratzinger: "L'islam è da sempre antagonista dell'Europa"
6) Nel silenzio matura poco a poco il dialogo
7) la storia «Torturato perché sono sacerdote»
8) Crocefisso vietato a impiegata, assolta la British Airways
9) Staminali, l’Europa si muove
10) QUANDO I VALORI « BUCANO »LO SCHERMO


Benedetto XVI presenta la figura di Sant’Agostino
Intervento all'Udienza generale del mercoledì

CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 9 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale nell'Aula Paolo VI, dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nella sua riflessione, continuando il ciclo di catechesi sui Padri della Chiesa, si è soffermato sulla figura di Sant’Agostino.


* * *
Cari fratelli e sorelle!
Dopo le grandi festività natalizie, vorrei tornare alle meditazioni sui Padri della Chiesa e parlare oggi del più grande Padre della Chiesa latina, sant’Agostino: uomo di passione e di fede, di intelligenza altissima e di premura pastorale instancabile, questo grande santo e dottore della Chiesa è spesso conosciuto, almeno di fama, anche da chi ignora il cristianesimo o non ha consuetudine con esso, perché ha lasciato un’impronta profondissima nella vita culturale dell'Occidente e di tutto il mondo. Per la sua singolare rilevanza, sant’Agostino ha avuto un influsso larghissimo, e si potrebbe affermare, da una parte, che tutte le strade della letteratura latina cristiana portano a Ippona (oggi Annaba, sulla costa algerina), il luogo dove era vescovo e, dall’altra, che da questa città dell’Africa romana, di cui Agostino fu Vescovo dal 395 fino alla morte nel 430, si diramano molte altre strade del cristianesimo successivo e della stessa cultura occidentale.
Di rado una civiltà ha trovato uno spirito così grande, che sapesse accoglierne i valori ed esaltarne l’intrinseca ricchezza, inventando idee e forme di cui si sarebbero nutriti i posteri, come sottolineò anche Paolo VI: "Si può dire che tutto il pensiero dell’antichità confluisca nella sua opera e da essa derivino correnti di pensiero che pervadono tutta la tradizione dottrinale dei secoli successivi" (AAS, 62, 1970, p. 426). Agostino è inoltre il Padre della Chiesa che ha lasciato il maggior numero di opere. Il suo biografo Possidio dice: sembrava impossibile che un uomo potesse scrivere tante cose nella propria vita. Di queste diverse opere parleremo in un prossimo incontro. Oggi la nostra attenzione sarà riservata alla sua vita, che si ricostruisce bene dagli scritti, e in particolare dalle Confessiones, la straordinaria autobiografia spirituale, scritta a lode di Dio, che è la sua opera più famosa. E giustamente, perché sono proprio le Confessiones agostiniane, con la loro attenzione all’interiorità e alla psicologia, a costituire un modello unico nella letteratura occidentale, e non solo occidentale, anche non religiosa, fino alla modernità. Questa attenzione alla vita spirituale, al mistero dell'io, al mistero di Dio che si nasconde nell'io, è una cosa straordinaria senza precedenti e rimane per sempre, per così dire, un «vertice» spirituale.
Ma, per venire alla vita, Agostino nacque a Tagaste – nella provincia della Numidia, nell’Africa romana – il 13 novembre 354 da Patrizio, un pagano che poi divenne catecumeno, e da Monica, fervente cristiana. Questa donna appassionata, venerata come santa, esercitò sul figlio una grandissima influenza e lo educò nella fede cristiana. Agostino aveva anche ricevuto il sale, come segno dell'accoglienza nel catecumenato. Ed è rimasto sempre affascinato dalla figura di Gesù Cristo; egli anzi dice di aver sempre amato Gesù, ma di essersi allontanato sempre più dalla fede ecclesiale, dalla pratica ecclesiale, come succede anche oggi per molti giovani.
Agostino aveva anche un fratello, Navigio, e una sorella, della quale ignoriamo il nome e che, rimasta vedova, fu poi a capo di un monastero femminile. Il ragazzo, di vivissima intelligenza, ricevette una buona educazione, anche se non fu sempre uno studente esemplare. Egli tuttavia studiò bene la grammatica, prima nella sua città natale, poi a Madaura, e dal 370 retorica a Cartagine, capitale dell'Africa romana: divenne un perfetto dominatore della lingua latina, non arrivò però a maneggiare con altrettanto dominio il greco e non imparò il punico, parlato dai suoi conterranei. Proprio a Cartagine Agostino lesse per la prima volta l’Hortensius, uno scritto di Cicerone poi andato perduto che si colloca all’inizio del suo cammino verso la conversione. Il testo ciceroniano, infatti, svegliò in lui l’amore per la sapienza, come scriverà, ormai Vescovo, nelle Confessiones: "Quel libro cambiò davvero il mio modo di sentire", tanto che "all’improvviso perse valore ogni speranza vana e desideravo con un incredibile ardore del cuore l’immortalità della sapienza" (III, 4, 7).
Ma poichè era convinto che senza Gesù la verità non può dirsi effettivamente trovata, e perché in questo libro appassionante quel nome gli mancava, subito dopo averlo letto cominciò a leggere la Scrittura, la Bibbia. Ma ne rimase deluso. Non solo perché lo stile latino della traduzione della Sacra Scrittura era insufficiente, ma anche perché lo stesso contenuto gli apparve non soddisfacente. Nelle narrazioni della Scrittura su guerre e altre vicende umane non trovava l'altezza della filosofia, lo splendore di ricerca della verità che ad essa è proprio. Tuttavia non voleva vivere senza Dio e così cercava una religione corrispondente al suo desiderio di verità e anche al suo desiderio di avvicinarsi a Gesù. Cadde così nella rete dei manichei, che si presentavano come cristiani e promettevano una religione totalmente razionale. Affermavano che il mondo è diviso in due principi: il bene e il male. E così si spiegherebbe tutta la complessità della storia umana. Anche la morale dualistica piaceva a sant'Agostino, perché comportava una morale molto alta per gli eletti: e per chi come lui vi aderiva era possibile una vita molto più adeguata alla situazione del tempo, specie per un uomo giovane. Si fece pertanto manicheo, convinto in quel momento di aver trovato la sintesi tra razionalità, ricerca della verità e amore di Gesù Cristo. Ed ebbe anche un vantaggio concreto per la sua vita: l’adesione ai manichei infatti apriva facili prospettive di carriera. Aderire a quella religione che contava tante personalità influenti gli permetteva di continuare la relazione intrecciata con una donna e di andare avanti nella sua carriera. Da questa donna ebbe un figlio, Adeodato, a lui carissimo, molto intelligente, che sarà poi presente nella preparazione al battesimo presso il lago di Como, partecipando a quei «Dialoghi» che sant'Agostino ci ha trasmesso. Il ragazzo, purtroppo, morì prematuramente. Insegnante di grammatica a circa vent’anni nella sua città natale, tornò presto a Cartagine, dove divenne un brillante e celebrato maestro di retorica. Con il tempo, tuttavia, Agostino iniziò ad allontanarsi dalla fede dei manichei, che lo delusero proprio dal punto di vista intellettuale in quanto incapaci di risolvere i suoi dubbi, e si trasferì a Roma, e poi a Milano, dove allora risiedeva la corte imperiale e dove aveva ottenuto un posto di prestigio grazie all’interessamento e alle raccomandazioni del prefetto di Roma, il pagano Simmaco, ostile al vescovo di Milano sant'Ambrogio.
A Milano Agostino prese l’abitudine di ascoltare – inizialmente allo scopo di arricchire il suo bagaglio retorico – le bellissime prediche del Vescovo Ambrogio, che era stato rappresentante dell’imperatore per l’Italia settentrionale, e dalla parola del grande presule milanese il retore africano rimase affascinato; e non soltanto dalla sua retorica, soprattutto il contenuto toccò sempre più il suo cuore. Il grande problema dell'Antico Testamento, della mancanza di bellezza retorica, di altezza filosofica si risolse, nelle prediche di sant'Ambrogio, grazie all'interpretazione tipologica dell'Antico Testamento: Agostino capì che tutto l'Antico Testamento è un cammino verso Gesù Cristo. Così trovò la chiave per capire la bellezza, la profondità anche filosofica dell'Antico Testamento e capì tutta l'unità del mistero di Cristo nella storia e anche la sintesi tra filosofia, razionalità e fede nel Logos, in Cristo Verbo eterno che si è fatto carne.
In breve tempo Agostino si rese conto che la lettura allegorica della Scrittura e la filosofia neoplatonica praticate dal Vescovo di Milano gli permettevano di risolvere le difficoltà intellettuali che, quando era più giovane, nel suo primo avvicinamento ai testi biblici gli erano sembrate insuperabili.
Alla lettura degli scritti dei filosofi Agostino fece così seguire quella rinnovata della Scrittura e soprattutto delle Lettere paoline. La conversione al cristianesimo, il 15 agosto 386, si collocò quindi al culmine di un lungo e tormentato itinerario interiore, del quale parleremo ancora in un'altra catechesi, e l’africano si trasferì nella campagna a nord di Milano presso il lago di Como – con la madre Monica, il figlio Adeodato e un piccolo gruppo di amici – per prepararsi al battesimo. Così, a trentadue anni, Agostino fu battezzato da Ambrogio il 24 aprile 387, durante la veglia pasquale, nella Cattedrale di Milano.
Dopo il battesimo, Agostino decise di tornare in Africa con gli amici, con l’idea di praticare una vita comune, di tipo monastico, al servizio di Dio. Ma a Ostia, in attesa di partire, la madre improvvisamente si ammalò e poco più tardi morì, straziando il cuore del figlio. Rientrato finalmente in patria, il convertito si stabilì a Ippona per fondarvi appunto un monastero. In questa città della costa africana, nonostante le sue resistenze, fu ordinato presbitero nel 391 e iniziò con alcuni compagni la vita monastica a cui da tempo pensava, dividendo il suo tempo tra la preghiera, lo studio e la predicazione. Egli voleva essere solo al servizio della verità, non si sentiva chiamato alla vita pastorale, ma poi capì che la chiamata di Dio era quella di essere pastore tra gli altri, e così di offrire il dono della verità agli altri. A Ippona, quattro anni più tardi, nel 395, venne consacrato Vescovo. Continuando ad approfondire lo studio delle Scritture e dei testi della tradizione cristiana, Agostino fu un Vescovo esemplare nel suo instancabile impegno pastorale: predicava più volte la settimana ai suoi fedeli, sosteneva i poveri e gli orfani, curava la formazione del clero e l’organizzazione di monasteri femminili e maschili. In breve l’antico retore si affermò come uno degli esponenti più importanti del cristianesimo di quel tempo: attivissimo nel governo della sua diocesi – con notevoli risvolti anche civili – negli oltre trentacinque anni di episcopato, il Vescovo di Ippona esercitò infatti una vasta influenza nella guida della Chiesa cattolica dell’Africa romana e più in generale nel cristianesimo del suo tempo, fronteggiando tendenze religiose ed eresie tenaci e disgregatrici come il manicheismo, il donatismo e il pelagianesimo, che mettevano in pericolo la fede cristiana nel Dio unico e ricco di misericordia.
E a Dio si affidò Agostino ogni giorno, fino all’estremo della sua vita: colpito da febbre, mentre da quasi tre mesi la sua Ippona era assediata dai vandali invasori, il Vescovo – racconta l’amico Possidio nella Vita Augustini – chiese di trascrivere a grandi caratteri i salmi penitenziali "e fece affiggere i fogli contro la parete, così che stando a letto durante la sua malattia li poteva vedere e leggere, e piangeva ininterrottamente a calde lacrime" (31,2). Così trascorsero gli ultimi giorni della vita di Agostino, che morì il 28 agosto 430, quando ancora non aveva compiuto 76 anni. Alle sue opere, al suo messaggio e alla sua vicenda interiore dedicheremo i prossimi incontri.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale pensiero ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto le Suore Figlie della Croce, qui convenute a suggello delle celebrazioni per il centesimo anniversario della morte del venerato fondatore, il Servo di Dio Nunzio Russo, e le incoraggio a proseguire nel loro servizio al Vangelo con rinnovato slancio apostolico. Saluto il folto gruppo di fedeli della Parrocchia Sacro Cuore di Gesù, in Rocca di Papa, che compiono un devoto pellegrinaggio presso la tomba degli Apostoli, ed auguro che un sempre più grande fervore missionario animi ogni loro attività pastorale. Saluto la Comunità diaconale della diocesi di Biella, auspicando che ciascuno perseveri nella fede e nella testimonianza della carità. Saluto poi i dirigenti e gli atleti della Serie D. Possa il gioco del calcio essere sempre più veicolo di educazione ai valori dell’onestà, della solidarietà e della fraternità, specialmente fra le giovani generazioni.
Il mio pensiero va infine ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Carissimi, in questi giorni che seguono la festa dell’Epifania, continuiamo a meditare sulla manifestazione di Gesù a tutti i popoli. La Chiesa invita voi, cari giovani, ad essere testimoni entusiasti di Cristo tra i vostri coetanei; esorta voi, cari malati, a diffondere ogni giorno la sua luce con serena pazienza; e sprona voi, cari sposi novelli, a essere segno della sua presenza rinnovatrice col vostro amore fedele.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]



Svelare l'ambiguità delle parole
La parola "feto" dovrebbe essere bandita dall'uso comune. Nell'epoca delle ecografie a quattro dimensioni e degli studi comportamentali, sappiamo benissimo che non esiste differenza sostanziale tra il bambino prima della nascita e dopo il parto...
di Carlo Bellieni


La parola "feto" dovrebbe essere bandita dall'uso comune. Nell'epoca delle ecografie a quattro dimensioni e degli studi comportamentali, sappiamo benissimo che non esiste differenza sostanziale tra il bambino prima della nascita e dopo il parto. Già: allora perché usare due termini diversi per parlare della stessa cosa? Eppure lo chiamiamo feto un minuto prima e bambino un minuto dopo. Cosa è cambiato? Sul piano fisico assolutamente nulla. Si è chiuso (e non sempre) un canale tra aorta e arteria polmonare e poco più. E' arrivata la luce agli occhi (ma già arrivava attraverso la parete sottile del pancione) ed è entrata l'aria nei polmoni. Non ci sembrano cambiamenti sostanziali: anche prima di nascere il "feto", si succhiava il pollice, poteva sentire il dolore, aveva memoria, sentiva le voci, gli/le batteva il cuore. Certo: ora l'ossigeno arriva dall'aria e non dal cordone ombelicale... ma non sono le differenze strutturali che determinano le differenze ontologiche.
Non pensiamo che una donna diventi "qualcosa d'altro" se per un incidente perde una gamba e deve camminare con una protesi; o se il cuore le batte non per via autonoma ma grazie ad un pace-maker. Non pensiamo neanche che una malformazione, per quanto imponente sia, renda la persona meno persona. Eppure per il bambino siamo indotti a pensare che il suo stare dentro l'utero invece che in una culla e la presenza di un cordone ombelicale ne cambino la sostanza, tanto da non chiamarlo "bambino" ma "feto"... per finire poi col parlare di "diritti del feto" come se parlassimo di "diritti del marziano" o "dell'ornitorinco".
Questa distinzione surrettizia è recente. Il termine "feto" deriva da una radice indoeuropea che significa "succhiare", e la parola "fetus" in epoca romana significava esattamente "frutto" oppure "progenie" (nec ulla aetate uberior oratorum fetus fuit, scriveva Cicerone e Catullo indicava come "dulces musarum fetus" i figli delle muse, cioè le poesie). Insomma, i romani non avevano un termine per indicare il bambino nascituro... perché sapevano bene che era un "puer".
Questa coscienza della continuità della vita proseguì nel tempo e appare chiara anche dai famosi disegni di Leonardo da Vinci che mostrano il bambino prenatale, e ne illustrano la sostanziale e inequivocabile umanità.
Eppure ad un certo punto della storia, si è verificata questa cesura, che ha un peso che va ben oltre lo scopo "descrittivo": qualcuno ha voluto usare un termine che fino ad allora era un sinonimo di "figlio" ("feto", appunto) per indicare qualcosa che, nella loro idea, figlio non è ancora. I termini "bambino", "adolescente", "anziano", "adulto" descrivono gli stadi di sviluppo di qualcuno che tutti riconosciamo come "persona"; invece il termine "feto" serve a denotare un minor livello di diritti. Sottolinea questa spersonalizzazione del termine il fatto che in italiano e in spagnolo il termine "feto" non abbia un corrispettivo femminile, così come "foetus" in inglese e francese: è una forma "neutra", che come tale non ha la caratterizzazione sessuale che è la principale caratteristica della persona. E questo porta anche al paradosso che, mentre ogni età della vita ha una branca della medicina che se ne occupa specificamente e un medico ad essa specificamente dedicato, il bambino prenatale viene curato dallo stesso medico specialista nella cura della donna adulta. Sicuramente il ginecologo curerà entrambi bene, ma è un paradosso che nell'era dell'ultra-specializzazione, il medico che sa tutto di donne di 30 anni debba essere anche esperto di bambini di 30 centimetri. Insomma: esiste il gerontologo, il pediatra, il neonatologo, ma non esiste il "fetologo".
D'altronde anche il termine "embrione" dovrebbe veder riparata la stessa ingiustizia, dato che più che una parola è una specie di aggettivo che vuol dire "che fiorisce dentro" (en- brỳein), il cui soggetto, evidentemente è "il bambino".
Ma perché dobbiamo usare per il bambino prenatale un termine stigmatizzante e dirottato dal suo significato originario? Lo capiamo bene, dato che spesso tutti noi usiamo termini stigmatizzanti per indicare che qualcuno che a noi non piace "non è dei nostri". E su questa linea di confine si basa il criterio "moderno" che il cosiddetto feto "valga un po' meno di noi". E' un criterio molto recente, dato che già in epoca romana il bambino non ancora nato poteva ereditare e che la lex Cesarea istituì il diritto del figlio di nascere per via non vaginale (da qui il termine "parto cesareo") se la madre stava per morire.
Questo non ci piace: non è aderente alla realtà e al progresso. Non rispetta i diritti della persona. E' un modo pregiudiziale di precludere l'accesso al consesso umano subordinandolo al diritto di "altri". Il nascituro deve trovare delle braccia che lo accolgano anche quando non si vede. I suoi diritti e quelli della donna vanno di pari passo... a meno di non voler fomentare una classica "guerra tra poveri", in cui chi è escluso vede i compagni di prigionia come rivali. La coscienza di ognuno di noi ci dice invece che invece di moltiplicare le divisioni è ragionevole, umano e moderno moltiplicare le risorse e il loro accesso. E che da oggi è ragionevole sentire un piccolo disagio la prossima volta che sentiremo chiamare "feto" un bambino o una bambina in utero.

Il Foglio 31 dicembre 2007



Arcivescovo di Kirkuk: le bombe non uccidono la nostra speranza e il dialogo
Dopo i due attentati di ieri contro la cattedrale caldea e una chiesa siro-ortodossa, mons. Sako parla di “messaggio politico rivolto ai cristiani” e garantisce che “non si fermerà l’impegno per costruire la convivenza pacifica”.

Appello dei fedeli al mondo: non ci arrendiamo, ma abbiamo bisogno delle vostre preghiere.Kirkuk (AsiaNews) – “Siamo preoccupati per gli attacchi di ieri, ma continuiamo ad avere fiducia e speranza e porteremo avanti il nostro impegno nel dialogo interreligioso”. Lo dichiara ad AsiaNews mons. Louis Sako, arcivescovo caldeo di Kirkuk, dove ieri due autobombe (e non tre come sembrava dalle prime notizie) hanno colpito la cattedrale caldea del Sacro Cuore e la chiesa siro-ortodossa di Mar Ephrem. Le esplosioni - definite dal presule “messaggi politici ai cristiani” - hanno provocato solo danni materiali e “uno o due feriti lievi”.
“Non sappiamo chi siano i responsabili – spiega il presule – ma una cosa è sicura: queste azioni vogliono mandare un messaggio politico ai cristiani iracheni”. “Sono attacchi coordinati - continua mons. Sako - rivolti contro luoghi di culto cristiani, non hanno voluto fare morti, ma non ci fanno stare tranquilli”. Lo scorso 6 gennaio, con le stesse modalità (autobomba coordinate, ma senza intenzioni di strage) sono stati attaccati 7 obiettivi cristiani tra Mosul e Baghdad. Il governo iracheno aveva condannato gli atti terroristici e garantito protezione ai cristiani.
Parole e gesti di solidarietà alla comunità cristiana di Kirkuk sono giunti subito da personalità politiche e religiose. “Prima di tutto a mostrare partecipazione è stata la gente comune - racconta l’arcivescovo – poi anche i responsabili di governo, partititi politici, religiosi sunniti e sciiti”. A mons. Sako hanno telefonato anche le autorità ecclesiastiche: il Patriarca caldeo, card. Emmanuel III Delly; il Patriarca Assiro Mar Dinkha IV dagli Stati Uniti; come pure “vescovi ed amici da tutto il mondo”. Mons. Sako non si scoraggia e garantisce: “Una cosa rimane assoluta e incrollabile per noi qui a Kirkuk continuare il dialogo con tutti per costruire e rafforzare la convivenza pacifica”. E dai fedeli riuniti intorno al loro vescovo un appello al mondo: “Quella dei cristiani in Iraq è una testimonianza forte in un tempo difficile, continuate a pregare per noi”. (MA)


La diplomazia della Chiesa ha una stella fissa: quella dei Magi
Nel discorso d'inizio d'anno al corpo diplomatico Benedetto XVI ha fatto il punto sulla politica vaticana nel mondo. Ma ai fedeli, nella messa dell'Epifania, ha detto molto di più. Ha predicato la sua teologia della storia. Eccola

di Sandro Magister

ROMA, 8 gennaio 2008 – Il lunedì dopo l'Epifania, nella Sala Regia del Palazzo Apostolico Vaticano, papa Benedetto XVI ha rivolto al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede il tradizionale discorso augurale per il nuovo anno.

In discorsi come questo gli osservatori trovano una sintesi della geopolitica della Chiesa. E, in effetti, il testo che il papa ha letto ai diplomatici era il diligente prodotto degli uffici vaticani che si occupano dei rapporti con gli stati e con gli organismi internazionali.

Nel finale del discorso, però, il tocco personale di Benedetto XVI è arrivato inconfondibile. Con queste parole:

"La diplomazia è, in un certo modo, l'arte della speranza. Essa vive della speranza e cerca di discernerne persino i segni più tenui. La diplomazia deve dare speranza. La celebrazione del Natale viene ogni anno a ricordarci che, quando Dio si è fatto piccolo bambino, la Speranza è venuta ad abitare nel mondo, al cuore della famiglia umana".

Dalle arti della diplomazia a quel "piccolo bambino" che è Gesù il salto è vertiginoso. Eppure è tutta qui – secondo Benedetto XVI – la missione originale della Chiesa, la sua visione del mondo, la sua teologia della storia.

Di questa visione grandiosa il papa ha fatto balenare ai diplomatici solo un lampo.

Ma ventiquattr'ore prima, predicando ai fedeli nell'omelia della messa dell'Epifania da lui celebrata nella basilica di San Pietro, Benedetto XVI ha dispiegato tale visione nella sua interezza, con una forza sintetica e immaginifica che non ha forse uguali nella precedente sua predicazione.

I Magi che arrivano a Gesù seguendo la stella – ha detto il papa – hanno fatto l'opposto di quello che accadde a Babele. L'Epifania è già Pentecoste. È la benedizione di Dio che salva e rappacifica gli uomini e le nazioni. Nel bambino di Betlemme sono iniziati gli "ultimi tempi". La Chiesa "assolve appieno la sua missione solo quando riflette in se stessa la luce di Cristo Signore, e così è di aiuto ai popoli del mondo sulla via della pace e dell’autentico progresso".

Il papa ha pronunciato l'omelia in italiano e gli uffici vaticani non hanno fornito nessuna traduzione in altra lingua. Eppure si tratta di un testo di capitale importanza per capire questo pontificato, un testo senza il quale il discorso al corpo diplomatico di lunedì 7 gennaio risulta monco e incomprensibile.

Ecco dalla prima parola all'ultima l'omelia di Benedetto XVI nella messa celebrata in San Pietro il 6 gennaio 2008, festa dell'Epifania:


"Abbiamo tutti bisogno del coraggio dei Magi..."

di Benedetto XVI


Cari fratelli e sorelle, celebriamo oggi Cristo, luce del mondo, e la sua manifestazione alle genti. Nel giorno di Natale il messaggio della liturgia suonava così: “Hodie descendit lux magna super terram", oggi una grande luce discende sulla terra (Messale Romano). A Betlemme, questa “grande luce” apparve a un piccolo nucleo di persone, un minuscolo “resto d’Israele”: la Vergine Maria, il suo sposo Giuseppe e alcuni pastori. Una luce umile, come è nello stile del vero Dio; una fiammella accesa nella notte: un fragile neonato, che vagisce nel silenzio del mondo... Ma accompagnava quella nascita nascosta e sconosciuta l’inno di lode delle schiere celesti, che cantavano gloria e pace (cfr Luca 2,13-14).

Così quella luce, pur modesta nel suo apparire sulla terra, si proiettava con potenza nei cieli: la nascita del Re dei Giudei era stata annunciata dal sorgere di una stella, visibile da molto lontano. Fu questa la testimonianza di “alcuni Magi”, giunti da oriente a Gerusalemme poco dopo la nascita di Gesù, al tempo del re Erode (cfr Matteo 2,1-2).

Ancora una volta si richiamano e si rispondono il cielo e la terra, il cosmo e la storia. Le antiche profezie trovano riscontro nel linguaggio degli astri. “Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele” (Numeri 24,17), aveva annunciato il veggente pagano Balaam, chiamato a maledire il popolo d’Israele, e che invece lo benedisse perché – gli rivelò Dio – “quel popolo è benedetto” (Numeri 22,12).

Cromazio di Aquileia, nel suo commento al Vangelo di Matteo, mettendo in relazione Balaam con i Magi; scrive: “Quegli profetizzò che Cristo sarebbe venuto; costoro lo scorsero con gli occhi della fede”. E aggiunge un’osservazione importante: “La stella era scorta da tutti, ma non tutti ne compresero il senso. Allo stesso modo il Signore e Salvatore nostro è nato per tutti, ma non tutti lo hanno accolto” (ivi, 4,1-2). Appare qui il significato, nella prospettiva storica, del simbolo della luce applicato alla nascita di Cristo: esso esprime la speciale benedizione di Dio sulla discendenza di Abramo, destinata ad estendersi a tutti i popoli della terra.

L’avvenimento evangelico che ricordiamo nell’Epifania – la visita dei Magi al Bambino Gesù a Betlemme – ci rimanda così alle origini della storia del popolo di Dio, cioè alla chiamata di Abramo.

Siamo al capitolo 12 del Libro della Genesi. I primi 11 capitoli sono come grandi affreschi che rispondono ad alcune domande fondamentali dell’umanità: qual è l’origine dell’universo e del genere umano? Da dove viene il male? Perché ci sono diverse lingue e civiltà?

Tra i racconti iniziali della Bibbia, compare una prima “alleanza”, stabilita da Dio con Noè, dopo il diluvio. Si tratta di un’alleanza universale, che riguarda tutta l’umanità: il nuovo patto con la famiglia di Noè è insieme patto con “ogni carne” .

Poi, prima della chiamata di Abramo, si trova un altro grande affresco molto importante per capire il senso dell’Epifania: quello della torre di Babele. Afferma il testo sacro che in origine “tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole” (Genesi 11,1). Poi gli uomini dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra” (Genesi 11,4). La conseguenza di questa colpa di orgoglio, analoga a quella di Adamo ed Eva, fu la confusione delle lingue e la dispersione dell’umanità su tutta la terra (cfr Genesi 11,7-8). Questo significa “Babele”, e fu una sorta di maledizione, simile alla cacciata dal paradiso terrestre.

A questo punto inizia la storia della benedizione, con la chiamata di Abramo: incomincia il grande disegno di Dio per fare dell’umanità una famiglia, mediante l’alleanza con un popolo nuovo, da Lui scelto perché sia una benedizione in mezzo a tutte le genti (cfr Genesi 12,1-3).

Questo piano divino è tuttora in corso e ha avuto il suo momento culminante nel mistero di Cristo.

Da allora sono iniziati gli “ultimi tempi”, nel senso che il disegno è stato pienamente rivelato e realizzato in Cristo, ma chiede di essere accolto dalla storia umana, che rimane sempre storia di fedeltà da parte di Dio e purtroppo anche di infedeltà da parte di noi uomini. La stessa Chiesa, depositaria della benedizione, è santa e composta di peccatori, segnata dalla tensione tra il “già” e il “non ancora”. Nella pienezza dei tempi Gesù Cristo è venuto a portare a compimento l’alleanza: Lui stesso, vero Dio e vero uomo, è il Sacramento della fedeltà di Dio al suo disegno di salvezza per l’intera umanità, per tutti noi.

L’arrivo dei Magi dall’Oriente a Betlemme, per adorare il neonato Messia, è il segno della manifestazione del Re universale ai popoli e a tutti gli uomini che cercano la verità.

È l’inizio di un movimento opposto a quello di Babele: dalla confusione alla comprensione, dalla dispersione alla riconciliazione. Scorgiamo così un legame tra l’Epifania e la Pentecoste: se il Natale di Cristo, che è il Capo, è anche il Natale della Chiesa, suo corpo, noi vediamo nei Magi i popoli che si aggregano al resto d’Israele, preannunciando il grande segno della “Chiesa poliglotta”, attuato dallo Spirito Santo cinquanta giorni dopo la Pasqua. L’amore fedele e tenace di Dio, che mai viene meno alla sua alleanza di generazione in generazione, è il “mistero” di cui parla san Paolo nelle sue lettere, anche nel brano della Lettera agli Efesini poc’anzi proclamato nella messa. L’Apostolo afferma che tale mistero “gli è stato fatto conoscere per rivelazione” (Efesini 3,2) e lui è incaricato di farlo conoscere.

Questo “mistero” della fedeltà di Dio costituisce la speranza della storia. Certo, esso è contrastato da spinte di divisione e di sopraffazione, che lacerano l’umanità a causa del peccato e del conflitto di egoismi. La Chiesa è, nella storia, al servizio di questo “mistero” di benedizione per l’intera umanità. In questo mistero della fedeltà di Dio, la Chiesa assolve appieno la sua missione solo quando riflette in se stessa la luce di Cristo Signore, e così è di aiuto ai popoli del mondo sulla via della pace e dell’autentico progresso.

Infatti resta sempre valida la parola di Dio rivelata per mezzo del profeta Isaia: “Le tenebre ricoprono la terra, nebbia fitta avvolge le nazioni; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te” (Isaia 60,2). Quanto il profeta annuncia a Gerusalemme, si compie nella Chiesa di Cristo: “Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere” (Isaia 60,3).

Con Gesù Cristo la benedizione di Abramo si è estesa a tutti i popoli, alla Chiesa universale come nuovo Israele che accoglie nel suo seno l’intera umanità.

Anche oggi, tuttavia, resta in molti sensi vero quanto diceva il profeta: “nebbia fitta avvolge le nazioni” e la nostra storia. Non si può dire infatti che la globalizzazione sia sinonimo di ordine mondiale, tutt’altro. I conflitti per la supremazia economica e l’accaparramento delle risorse energetiche, idriche e delle materie prime rendono difficile il lavoro di quanti, ad ogni livello, si sforzano di costruire un mondo giusto e solidale.

C’è bisogno di una speranza più grande, che permetta di preferire il bene comune di tutti al lusso di pochi e alla miseria di molti. “Questa grande speranza può essere solo Dio... Non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano” ("Spe salvi", n. 31): il Dio che si è manifestato nel Bambino di Betlemme e nel Crocifisso-Risorto.

Se c’è una grande speranza, si può perseverare nella sobrietà. Se manca la vera speranza, si cerca la felicità nell’ebbrezza, nel superfluo, negli eccessi, e si rovina se stessi e il mondo. La moderazione non è allora solo una regola ascetica, ma anche una via di salvezza per l’umanità. È ormai evidente che soltanto adottando uno stile di vita sobrio, accompagnato dal serio impegno per un’equa distribuzione delle ricchezze, sarà possibile instaurare un ordine di sviluppo giusto e sostenibile.

Per questo c’è bisogno di uomini che nutrano una grande speranza e possiedano perciò molto coraggio: il coraggio dei Magi, che intrapresero un lungo viaggio seguendo una stella, e che seppero inginocchiarsi davanti a un Bambino e offrirgli i loro doni preziosi. Abbiamo tutti bisogno di questo coraggio, ancorato a una salda speranza. Ce lo ottenga Maria, accompagnandoci nel nostro pellegrinaggio terreno con la sua materna protezione. Amen!


10.01.2008, Le conferenze di Ratzinger: "L'islam è da sempre antagonista dell'Europa"Joseph Ratzinger, Libero



10.01.2008, Nel silenzio matura poco a poco il dialogo, Massimo Camisasca, L'Osservatore Romano



la storia «Torturato perché sono sacerdote» Profugo a Damasco, padre Hani a giugno è stato per 12 giorni in mano agli estremisti: «Mi chiedevano di passare all’islam e mi obbligavano a recitare il Corano»
Avvenire, 10.1.2008
DA DAMASCO
Anche quando ride l’entusia­smo è frenato dal dolore. Pa­dre Hani Abdel Ahad, 33 anni, è stato rapito lo scorso 6 giugno a Baghdad. Solo tre giorni prima, a Mosul, erano stati uccisi padre Ragheed Gani, parroco caldeo, e tre diaconi. Per lui invece era stato chiesto un «ingente riscatto», ma non erano solo i soldi a muovere i suoi rapitori.
Ora è a Damasco, parroco nella citta­dina di Sednaya. È dovuto fuggire con la sua fami­glia. «Qui in Siria – racconta lui stesso ad Asia­News – non è vi­ta, aspettiamo solo il via libera dalle diplomazie occidentali per poter partire e tentare l’impresa di ricostruirci un futuro, speranza alimentata solo dalla nostra fede».
Padre Hani, aveva già ricevuto minacce personali prima del suo se­questro?
Quando mi hanno rapito, ero rientrato in Iraq dal Libano da appena un anno. A Baghdad ero responsabile del seminario minore caldeo. Per un pe­riodo hanno continuato a gettare ca­daveri all’interno per spaventarci. Ho sporto denuncia, ma nessuno è in­tervenuto. A novembre 2006 erano rimasti solo tre studenti, così mi è stata assegnata la parrocchia della Divina Saggezza. Più volte gruppi di uomini in moto mi hanno circondato aggredendomi a parole.
Cosa accadde quel 6 giugno?
Avevo svolto del lavoro in parrocchia e stavo tornando a casa, camminavo con i 4 ragazzi rapiti insieme a me. All’improvviso alcuni miliziani a bordo di due moto hanno ordinato di fermarmi. Io ho spiegato loro che ero un sacerdote e subito è arrivata un’auto con dentro un uomo dal viso coperto il quale ha ordinato: «Il prete viene con noi». In un’altra macchina hanno fatto salire i ragazzi. Solo alla libera­zione ho saputo che erano stati rila­sciati il giorno successivo. Mi hanno bendato e porta­to in una casa, dove per quattro giorni mi hanno lasciato nudo in un bagno.
Come è prose­guita la sua prigionia?
In quei 12 giorni mi hanno fatto di tutto, in modo barbaro. Ogni giorno mi chiedevano di convertirmi all’islam, mi obbligavano a recitare il Corano e mi spiegavano gli insegnamenti islamici. Mi ripetevano in continuo che noi cristiani siamo degli infedeli. Ho potuto co­noscere la profondità dell’odio che quelle persone nutrono verso i cri­stiani. Ci accusavano di sostenere gli Stati Uniti e quando il Papa ha incon­trato il presidente americano Bush (9 giugno, ndr) hanno cominciato a tor­turarmi ancora di più. Poi abbiamo cambiato casa e mi hanno trattato peggio di prima. In questa seconda fase hanno giocato sul terrore psico­logico: ho visto uccidere un altro o­staggio, un ufficiale della polizia ira­chena. Poi mi hanno avvertito che sarei stato il prossimo. Volevano solo spaventarmi; uno di loro mi ha spiegato che non mi avrebbero ucciso, perché il mio sangue di cristiano avrebbe reso impura quella casa e non avrebbero più potuto pregare in quel luogo. Quando si rivolgevano a me mi chiamavano sempre «sporco».
Che idea si è fatto dei suoi rapitori?
Erano dei professionisti, ben addestrati. Non potevo vedere i loro volti, ma a sentire le loro voci e i loro ac­centi, alcuni erano di sicuro iracheni. Vi erano anche altri arabi, ma i più duri penso fossero afgani. L’idea che mi sono fatto è che il denaro non era il loro primo obiettivo. Mi hanno ra­pito e torturato per la mia religione. Prima di rilasciarmi mi hanno avver­tito: «Voi e le vostre famiglie dovete la­sciare l’Iraq, dovunque andrete vi tro­veremo ». Ero un simbolo dell’odiata cristianità.
Dopo il rilascio cosa è successo?
Sono andato dalle autorità, ma non è stata presa nessuna iniziativa. So­no stato costretto per sicurezza ad e­migrare qui in Siria con la mia fami­glia. Ma quella che viviamo ora non è vita; solo la nostra fede ci dà la spe­ranza in un futuro migliore. Speria­mo di ottenere presto il visto per gli Stati Uniti o per la Nuova Zelanda. L’unica cosa che ci rimane è Dio, la nostra fede. E questa non potranno togliercela nemmeno le più atroci violenze. ( E.A.)


Crocefisso vietato a impiegata, assolta la British Airways
La compagnia non dovrà pagare alla donna i danni
LONDRA. Un’impiegata cattoli­ca della compagnia aerea Bristish Airways ha perso la battaglia legale per essere ricompensata dei danni subiti dopo che il suo capo le aveva impedito di indossare la croce al collo durante le ore di lavoro. Il caso, scoppiato nel 2006, aveva sollevato molte polemiche in Gran Bretagna dove la comunità cristiana si era ribellata sottolineando che l’imposizione della compagnia aerea era in effetti una discriminazione non solo contro la donna ma tutti i cristiani in un Paese, dove alle musulmane è permesso di portare il velo e ai sikh il turbante. Dopo una serie di intensi dibattiti tra cui quello che vide il ministro Jack Straw sfidare le musulmane della sua circoscrizione di mostrarsi a volto scoperto, la British Airways decise di cambiare le regole e permettere ai suoi dipendenti di indossare il simbolo della loro fede. Nadia Eweida, 56 anni, rischiò il licenziamento quando si rifiutò di obbedire agli ordini della compagnia ma oggi è pronta a rientrare al lavoro, indossando la sua croce al collo.
«Sono dispiaciuta del verdetto del giudice – ha detto ieri –. Garantendo vittoria alla Ba, il giudice ha permesso a questa di imporre la sua volontà sui dipendenti». Un portavoce della compagnia ha invece espresso parole di entusiasmo: «Siamo felici che il tribunale abbia appoggiato la nostra posizione. È ormai parecchio tempo che abbiamo cambiato le regole e i cambiamenti sono stati discussi con il nostro staff che origini diverse».
All’epoca dell’accaduto il vescovo di York, John Sentamu, aveva condannato le regole della compagnia . «La Bristish Airways – aveva detto – deve guardare più a fondo alla storia del Paese che rappresenta la cui cultura, diritti e tradizioni devono così tanto a quel simbolo che vuole bandire».
Elisabetta Del Soldato


Staminali, l’Europa si muove
Giovedì prossimo la moratoria sugli embrioni sbarcherà all’Intergruppo di bioetica.
Molti gli eurodeputati favorevoli
Avvenire, 10.1.2008
di Daniela Verlicchi
Al Parlamento europeo si torna a parlare di moratoria temporanea delle sperimentazioni sugli embrioni. E sono molti gli europarlamentari, dal Ppe all’Alde, che hanno dato ragione all’editoriale con cui lo scorso 21 novembre, in seguito alle importanti scoperte di due distinti gruppi di ricerca (uno americano e l’altro giapponese) che hanno ottenute staminali riprogrammate, Eugenia Roccella ha chiesto di bloccare la distruzione degli embrioni nei laboratori europei per cinque anni dalle pagine di 'Avvenire'.
Ora si passa alle proposte concrete.
Giovedì prossimo, la moratoria sbarcherà ufficialmente a Strasburgo. Per quella data è infatti in programma la riunione dell’Intergruppo di bioetica, saltata a metà dicembre. Al centro del dibattito ci sono proprio le 'priorità della ricerca genetica'. Sarà l’occasione per interrogarsi sull’utilità scientifica delle sperimentazioni sugli embrioni. Ospite della riunione sarà Katrin Gruber, direttrice dell’ Institut Mensch, Ethik und Wissenschaft di Berlino, un’istituto che da anni si occupa di etica applicata alla medicina. L’eurodeputato Mario Mauro, del Ppe, è deciso a porre anche la questione della moratoria: «Se ne discuterà senz’altro. Se altri non lo faranno prima di me, io la metterò al centro del dibattito». Mauro ha le idee ben chiare sulle mosse dei prossimi mesi: «Il mio obiettivo – spiega l’eurodeputato – è notificare ufficialmente alla Commissione che sono stati fatti dei passi avanti nella ricerca scientifica che rendono inutile il ricorso alla sperimentazione sugli embrioni. A quel punto, l’Europa non potrà più fare finta di nulla: gli investimenti dovranno essere dirottati su questo nuova linea di ricerca.
E sarà una moratoria di fatto».

Sul come raggiungere quest’obiettivo, Mauro ha qualche dubbio in più: «Sicuramente occorre invitare in Parlamento Shinya Yamanaka, il giapponese che ha ottenuto importanti risultati con le staminali adulte. Magari proprio all’Intergruppo di bioetica.
Stiamo verificando la sua disponibilità a intervenire. E poi occorrerà innescare un dibattito parlamentare: con qualsiasi mezzo (dichiarazione o interrogazione) che imponga alla commissione europea di formulare una riflessione e una risposta puntuale». Occorre, poi, sgombrare il campo dal relativismo scientifico, aggiunge Mauro: perché «dopo l’articolo della Roccella hanno iniziato a circolare, in alcuni ambienti scientifiche tesi contrarie a quelle di Yamanaka e Thompson», cioè l’altro scienziato americano che sta conducendo sperimentazioni sulle staminali riprogrammate. «Bisogna bloccarle sul nascere e iniziare subito una battaglia culturale su questi temi», conclude Mauro. Proprio quello che sta cercando di fare 'Avvenire'. E in Europa, la presidente dell’Intergruppo di bioetica Hiltrud Breyer, tedesca, che al Parlamento europeo rappresenta i Verdi, sta preparando un’interrogazione parlamentare che presenterà alla Commissione a fine gennaio. La questione che pone la Breyer è semplice: «Perché se nessuno, a partire dalle aziende farmaceutiche private, investe nella ricerca sugli embrioni, lo fa l’Europa con il denaro dei contribuenti?».



QUANDO I VALORI « BUCANO »LO SCHERMO
Avvenire, 10.1.2008
GIORGIO DE SIMONE
Ieri, su «Repubblica», Pietro Citati ha illustrato cos’è per lui il tenente Colombo. Detto in un una parola, un irrinunciabile.
Nel senso che, se anche si trova di fronte a un episodio visto e rivisto, non riesce a negarvisi.
Più che giusto, direi. Più che giusto perché anche a chi scrive capita, da sempre, la stessa cosa: tre o quattro volte ho visto un Colombo, 'quel' Colombo e non vi rinuncio. Non capisco perché dovrei, del resto. Colombo ha tutto per avvincermi: è di povere origini italiane e lavora a Los Angeles, città (se si può dire città) per me tremenda e avvincente, ha quell’impermeabile, quel braccio che si leva sempre a salutare l’assassino che interroga, ma più che interroga, scava, storce, ritorce semplicemente avvolgendolo in un gomitolo di sottile, compiaciuta complicità. Quante volte non mi sono, non ci siamo augurati un tenente Colombo per uno dei tanti delitti di casa nostra così reiteratamente non sbrogliabili e il più delle volte impuniti? Anche per questo, perché arriva a 'fissare' il colpevole con il ragionamento, l’intuizione, la sagacia e, come dice Citati, il genio, a Colombo non rinuncio. Come lui, lo confesso, per me ci sono solo Peppone e don Camillo. Che vengono dal genio (anche qui) di Giovannino Guareschi e (per i primi due episodi, poi si passò a Carmine Gallone) dalla mano felice di un regista francese, Julien Duvivier. Mi vergogno a dire le volte che ho rivisto quei due. Bravi, 'efficaci' secondo la critica, ma che non ci portano alle vette dell’arte. Non ci porteranno, ma come mai, a mezzo secolo di distanza, la coppia è ancora così trascinante e insuperabile?
La risposta che mi do è che, con loro come con Colombo, siamo di di fronte a dei personaggi dalla forte connotazione morale. Colombo si muove sempre e solo sulla scena del delitto, ma la sua visione della vita non è quella, mai, del poliziotto cinico. La giustizia con lui arriva dopo essere salita su una scala di accordi umani e logici per finire con l’essere quale noi la vorremmo, la giustizia che vede i colpevoli portati a rendersi conto di aver commesso un delitto che è anche un’idiozia perché altera un ordine e oscura la convivenza civile. Quanto a Peppone/don Camillo, lì ci sono i buoni, anzi gli ottimi sentimenti portati nella storia a far vedere quanto contano: nella storia di un paese, Brescello, che è il mondo così come si configurava in quegli anni, spaccato tra 'rossi' e 'bianchi', ma capace, sempre, di trovare un senso comune, una comune morale. E dei valori condivisi che oggi, invece, nessuno vuole più condividere.
Così se c’è, come non può non esserci, una morale comune, questa nel cinema, nella letteratura, nell’arte non viene più fatta circolare perché non più universalmente avvertita e, se avvertita, non più chiara e innegabile. Non c’era una volta bisogno della distinzione oggi dominante tra laicità e religione perché la morale condivisa era laico-religiosa. Religiosa nel senso etimologico, capace cioè di tenere insieme, di legare, di unire (basta pensare a come stava insieme la famiglia anche non cattolica osservante): un senso del vivere oggi stolidamente perduto e che Colombo da un lato, don Camillo e Peppone dall’altro, ogni volta mi restituiscono. Per questo, credo, sto così bene con loro.