martedì 29 gennaio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:

1) Benedetto XVI: per una scienza con coscienza
2) San Tommaso D'Aquino e la teologia della santità
3) La dolorosa illusione della pillola contro la responsabilità
4) Ruini: restituire alle donne la libertà di non abortire
5) Quanti inganni dietro la pillola del giorno dopo
6) Bruno Forte riflette sul vuoto morale degli attacchi condotti dagli 'ateologi'


Benedetto XVI: per una scienza con coscienza
Discorso ai partecipanti a un Colloquio interaccademico
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 28 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato da Benedetto XVI questo lunedì rivolgendosi ai partecipanti al Convegno interaccademico sul tema: "L’identité changeante de l’individu" ("L'identità mutevole dell'individuo") promosso dalla Académie des Sciences di Parigi e dalla Pontificia Accademia delle Scienze.
* * *
Signori Cancellieri,
Eccellenze,
Cari Amici Accademici,
Signore e Signori,

È con piacere che vi accolgo al termine del vostro Convegno che si conclude qui a Roma, dopo essersi svolto nell'Istituto di Francia, a Parigi, e che è stato dedicato al tema "L'Identità mutevole dell'individuo". Ringrazio prima di tutto il Principe Gabriel de Broglie per le parole di omaggio con le quali ha voluto introdurre il nostro incontro. Desidero parimenti salutare i membri di tutte le istituzioni sotto la cui egida è stato organizzato questo Convegno: la Pontificia Accademia delle Scienze, la Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, l'Accademia delle Scienze Morali e Politiche, l'Accademia delle Scienze, l'Istituto Cattolico di Parigi. Sono lieto del fatto che, per la prima volta, una collaborazione interaccademica di tale natura si sia potuto instaurare, aprendo la via ad ampie ricerche pluridisciplinari sempre più feconde.
Mentre le scienze esatte, naturali e umane, hanno fatto prodigiosi progressi nella conoscenza dell'uomo e del suo universo, grande è la tentazione di voler circoscrivere completamente l'identità dell'essere umano e di chiuderlo nel sapere che ne può derivare. Per non intraprendere questa via, è importante dare voce alla ricerca antropologica, filosofica e teologica, che permette di far apparire e mantenere nell'uomo il suo mistero, poiché nessuna scienza può dire chi è l'uomo, da dove viene e dove va. La scienza dell'uomo diviene dunque la più necessaria di tutte le scienze. È il concetto espresso da Giovanni Paolo II nell'Enciclica Fides et ratio: "Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento.
Non è possibile fermarsi alla sola esperienza; anche quando questa esprime e rende manifesta l'interiorità dell'uomo e la sua spiritualità, è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge" (n. 83). L'uomo va sempre al di là di quello che di lui si vede o si percepisce attraverso l'esperienza. Trascurare l'interrogativo sull'essere dell'uomo porta inevitabilmente a rifiutare di ricercare la verità obiettiva sull'essere nella sua integrità e, in tal modo, a non essere più capaci di riconoscere il fondamento sul quale riposa la dignità dell'uomo, di ogni uomo, dalla fase embrionale fino alla sua morte naturale.
Nel corso del vostro convegno, avete sperimentato che le scienze, la filosofia e la teologia possono aiutarsi nel percepire l'identità dell'uomo, che è sempre in divenire. A partire da un interrogativo sul nuovo essere derivato dalla fusione cellulare, che è portatore di un patrimonio genetico nuovo e specifico, avete messo in luce elementi fondamentali del mistero dell'uomo, caratterizzato dalla alterità: essere creato da Dio, essere a immagine di Dio, essere amato fatto per amare. In quanto essere umano, non è mai chiuso in se stesso; è sempre portatore di alterità e si trova fin dalla sua origine ad interagire con altri esseri umani, come ci rivelano sempre più le scienze umane. Come non ricordare qui la meravigliosa meditazione del salmista sull'essere umano, tessuto nel segreto del seno di sua madre e allo stesso tempo conosciuto, nella sua identità e nel suo mistero, da Dio solo, che lo ama e lo protegge (cfr Sal 138, 1-16)!
L'uomo non è il frutto del caso, e neppure di un insieme di convergenze, di determinismi o di interazioni psico-chimiche; è un essere che gode di una libertà che, pur tenendo conto della sua natura, la trascende, e che è il segno del mistero di alterità che lo abita. È in questa prospettiva che il grande pensatore Pascal diceva che "l'uomo supera infinitamente l'uomo". Questa libertà, che è propria dell'essere uomo, fa sì che quest'ultimo possa orientare la sua vita verso un fine, possa, con le azioni che compie, volgersi verso la felicità alla quale è chiamato per l'eternità. Questa libertà dimostra che l'esistenza dell'uomo ha un senso. Nell'esercizio della sua autentica libertà, la persona soddisfa la sua vocazione; si realizza e dà forma alla sua identità profonda. È anche nella messa in atto della sua libertà che esercita la propria responsabilità sulle sue azioni. In tal senso, la dignità particolare dell'essere umano è al contempo un dono di Dio e la promessa di un futuro.
L'uomo ha in sé una capacità specifica: quella di discernere ciò che è buono e bene. Posta in lui dal Creatore come un sigillo, la sinderesi lo spinge a fare il bene. Maturo grazie ad essa, l'uomo è chiamato a sviluppare la propria coscienza attraverso la formazione e l'esercizio, per procedere liberamente nell'esistenza, fondandosi sulle leggi fondamentali che sono la legge naturale e quella morale. Nella nostra epoca, in cui lo sviluppo delle scienze attira e seduce mediante le possibilità offerte, è più importante che mai educare le coscienze dei nostri contemporanei, affinché la scienza non divenga il criterio del bene e l'uomo sia rispettato come il centro del creato e non sia oggetto di manipolazioni ideologiche, né di decisioni arbitrarie o abusi dei più forti sui più deboli. Pericoli di cui abbiamo conosciuto le manifestazioni nel corso della storia umana, e in particolare nel corso del ventesimo secolo.
Qualsiasi pratica scientifica deve essere anche una pratica di amore, chiamata a mettersi al servizio dell'uomo e dell'umanità, e ad apportare il suo contribuito all'edificazione dell'identità delle persone. In effetti, come ho sottolineato nell'Enciclica Deus caritas est, "L'amore comprende la totalità dell'esistenza in ogni sua dimensione, anche in quella del tempo... Amore è "estasi"... ma estasi come cammino, come esodo permanente dell'io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, proprio così verso il ritrovamento di sé" (n. 6). L'amore fa uscire da se stessi per scoprire e riconoscere l'altro; aprendo all'alterità, afferma anche l'identità del soggetto, poiché l'altro mi rivela me stesso. In tutta la Bibbia è questa l'esperienza fatta, a partire da Abramo, da numerosi credenti. Il modello per eccellenza dell'amore è Cristo. È nell'atto di dare la propria vita per i fratelli, di donarsi completamente che si manifesta la sua identità profonda e che troviamo la chiave di lettura del mistero insondabile del suo essere e della sua missione.
Affidando le vostre ricerche all'intercessione di San Tommaso d'Aquino, che la Chiesa onora in questo giorno e che resta un "un autentico modello per quanti ricercano la verità" (Fides et ratio, n. 78), vi assicuro della mia preghiera per voi, per le vostre famiglie e per i vostri collaboratori, e imparto a tutti con affetto la Benedizione Apostolica.

[Traduzione distribuita da L'Osservatore Romano



San Tommaso D'Aquino e la teologia della santità
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 28 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'omelia pronunciata dal Cardinale José Saraiva Martins, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, durante la celebrazione eucaristica svoltasi questo lunedì presso la Pontificia Università San Tommaso d'Aquino, in occasione della festa del Patrono dell'Ateneo.
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1. Magnifico Rettore, Illustri autorità accademiche,Chiarissimi Professori e cari studenti, tornare fra queste celebri aule dell’Angelicum mi suscita commozione e gioia per i tanti ricordi di ex-alunno, evocati dall’odierna circostanza, che ha avuto la gioia di conseguire il dottorato in teologia proprio qui, nella nostra Pontificia Università S. Tommaso d’Aquino in Urbe.
La gioia poi si raddoppia per la grandezza del Santo che celebriamo, che ha sempre illuminato i nostri passi nel campo della ricerca teologica, dell’insegnamento ed anche nella quotidianità. Un uomo che, come disse il Papa Giovanni XXII ai delegati che gliene chiedevano la canonizzazione: “...ha illustrato la Chiesa più che tutti gli altri dottori: si trae più profitto in un anno dai suoi libri che in tutta la vita dagli altri” /cfr. B.Mondin, La metafisica di S.Tommaso d’Aquino, ESD, Bologna 202, p.8).
Ci aiuta, ancora una volta il noto episodio della fanciullezza di Tommaso quando, a cinque anni venne affidato, nel 1230, dai suoi genitori, potenti feudatari di Roccasecca, come oblato all’Abbazia di Montecassino, per la prima istruzione. Tommaso era un bambin odi poche parole, molto tranquillo e quando nei chiostri del monastero incontrava un monaco, non esitava a chiedergli: “Ditemi, padre, chi è Dio?” (cfr.Guglielmo da Tocco, Hystoria beati Thomae, c.5).
Una domanda semplice e chiara, per nulla ingenua, rivelatrice dell’orientamento fondamentale di tutta la vita e l’attività dell’Aquinate (cfr. Tommaso d’Aquino, L’esistenza di Dio, ed.La Scuola, Brescia, 2003, a cura di Zuanazzi, pag.7).
Di più, bisogna dire che si tratta di un interrogativo che ognuno di noi, specialmente chi consacra la sua vita al servizio della verità, quindi i professori e gli studenti di teologia in primo piano, portano davanti ai loro occhi, accomunati dall’aspirazione di ogni uomo di vedere Dio, conoscerne un giorno il volto, la sola cosa che ci farà eternamente felici.
2. Abbiamo ascoltato nel vangelo testé proclamato“Consacrali nella verità; la tua parola è verità”. Questa invocazione di Gesù, nella cosiddetta preghiera sacerdotale, può anche tradursi Santificali nella verità; la tua parola è verità: è così che traduce la Volgata (Sanctifica eos in veritate; sermo tuus veritas est) e non senza motivo, poiché il vocabolo greco qui usato (άγιάζειν) deriva da άγιος, che significa propriamente « santo », ed è lo stesso che, usato nella preghiera insegnata da Gesù, viene tradotto con « sia santificato il tuo nome ». Capirete senza dubbio che il prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi preferisca la traduzione: Santificali nella verità; la tua parola è verità.
In questo passo della preghiera di Cristo all’inizio della sua passione, proposto dalla liturgia per la festa di S. Tommaso d’Aquino, possiamo, secondo me, scorgere il fondamento della fisionomia spirituale del Dottore Comune e della sua santità. Per capire ciò, basta lasciarci guidare da lui stesso.
Gesù, dunque, chiede al Padre di santificare gli apostoli. Santificare significa, com’è ovvio, rendere santo e, qui, la prima osservazione da fare è che è il Padre che santifica, non è l’uomo a farsi santo; in altre parole, la santità, come la giustificazione che ne è il fondamento, è dono di Dio, frutto della grazia abituale: S. Tommaso parla della gratia sanctitatis (IIa IIae, q. 185, a. 3, ad 3m) e afferma che sanctificare homines proprium Dei opus est : dicitur enim Levit. 22 [32]: ego Dominus, qui sanctifico vos (4 CG 17) « santificare gli uomini è opera propria di Dio; è detto infatti nel Levitico, 22,32: “sono io, il Signore, che vi santifico” »; questa opera di santificazione è appropriata, in modo diverso al Figlio e allo Spirito Santo, in quanto lo Spirito è il dono stesso della santificazione, mentre il Figlio è l’autore di tale dono1.
3. Sarà utile, ora, farci una domanda: ma in che cosa consiste, dunque, la santità? Ecco la risposta dell’Aquinate: sanctitas dicitur per quam mens hominis seipsam et suos actus applicat Deo (IIa IIae, q. 81, a. 8, c.) « si chiama santità ciò per cui la mente dell’uomo applica se stessa e i suoi atti a Dio », o, in modo meno tecnico e articolato, ma del tutto equivalente: In hoc est sanctitas hominis ut ad Deum vadat (Super ev. Ioannis, c. 13, l. 1, n. 4 [Marietti, n. 1743]) « in ciò consiste la santità dell’uomo: che vada verso Dio ». Esser santo vuol dire quindi, fare di Dio il suo fine ultimo e comportarsi in conseguenza.
Cosa significa, però, per l’uomo, prender Dio come fine ultimo? Significa, evidentemente, prima di tutto, che l’uomo prende Dio come fine di ciò che lo specifica come uomo, cioè la sua mente e le facoltà di essa, ossia l’intelletto e la volontà. Esser santo vuol dire, quindi, conoscere e amare Dio come fine ultimo della propria vita, la qual cosa non può avvenire senza la grazia divina (cf. Ia IIae, q. 89, a. 6, c.).
Non sfuggirà alla vostra ormai affinata sensibilità teologica, il fatto che per poter amare Dio, bisogna, però, conoscerlo in una certa qual misura, poiché, come dice S. Agostino, Non [...] diligitur quod penitus ignoratur (Tract. 96 in Ioann. ev., n. 4 [CCLat 36, p. 571]) « Non si ama ciò che si ignora totalmente », che è stato tradotto con l’adagio ben conosciuto: Nihil amatum nisi praecognitum. E perché questi lo ami di carità bisogna che lo conosca – e normalmente in modo esplicito – come Creatore e Salvatore, come incarnato e risorto in Cristo, bisogna insomma che aderisca nella fede al Dio cristiano. E ritroviamo qui il versetto del vangelo di Giovanni da cui siamo partiti; commentandolo, S. Tommaso dice:
“ Santificali, immettendo in essi lo Spirito Santo, e questo nella verità, cioè nella conoscenza della verità della fede e dei tuoi comandamenti... Infatti, siamo santificati mediante la fede e la conoscenza della verità... (Super ev. Ioannis, c. 17, l. 4 [Marietti, n. 2229]).
4. Si deve, però, precisare subito che questa santità che ci dà Dio non è una perfezione sovrapposta alla natura umana e senza rapporto intrinseco con essa. Al contrario, la santità porta la natura umana verso la sua perfezione, se è vero che l’intelletto, il cui bene è la verità, non troverà riposo se non quando avrà raggiunto la conoscenza della « verità tutta intera », dell’άλήθειαπάσα (Gv 16,13), e questa verità è la verità prima, cioè Dio. Conoscere questa prima Verità è il fine naturale di ogni creatura intellettuale; questo fine, però, è raggiunto in pienezza dai soli beati i quali vedono Dio faccia a faccia, così come egli è, raggiungendo, in tal modo, la perfetta ed ultima felicità, come dice il Dottore Angelico: « quaggiù, nulla è più simile a tale felicità, se non la vita di coloro che contemplano la verità, per quanto è possibile in questa vita » (3 CG 63).
E questa contemplazione non è un esercizio riservato ad un ristretto gruppo di anime d’eccezione; è naturale ad ogni cristiano autentico ed è un altro nome della santità. Infatti, come insegna S. Tommaso, « è proprio dell’amicizia l’intrattenersi con l’amico. Ora l’uomo s’intrattiene con Dio contemplandolo; come l’apostolo diceva (Filip. 3,20): nostra conversatio in coelis est il nostro intrattenimento è nei cieli. Poiché, dunque, lo Spirito Santo ci fa capaci di amare di Dio, ne segue che, dallo Spirito Santo, siamo costituiti suoi contemplatori » (4 CG 22). E possiamo aggiungere, seguendo sempre S. Tommaso (IIa IIae, q. 180, a. 7, ad 1m), che se amiamo veramente Dio, desideriamo conoscerlo di più e che, più lo conosciamo, più lo amiamo, e in questa circulatio fra operazione della volontà e operazione dell’intelletto, fra amore e conoscenza, fra carità e fede, consiste la contemplazione stessa.
5. Cari amici, voi che avete il privilegio di dedicarvi, in questa pontificia Università, agli studi che sono orientati, in modo più o meno prossimo, alla conoscenza di Dio e che, quindi, meritano, in qualche modo, come dice ancora S. Tommaso (IIa IIae, q. 180, a. 4, c.), il nome di contemplazione, e voi, soprattutto, che vi date allo studio della teologia o, come preferisce dire il nostro santo, della sacra doctrina, che è, secondo il Doctor communis, velut quaedam impressio divinae scientiae (Ia, q. 1, a. 3, ad 2m), dovete render grazie a Dio che vi dà la possibilità di dedicarvi, con l’ausilio dei mezzi più appropriati, in particolare, l’insegnamento dei vostri maestri, a questa contemplazione che è la vita stessa dell’anima cristiana.
Però, dobbiamo fare ancora un passo, per capire veramente cosa Gesù intende dire quando chiede al Padre di santificare i suoi discepoli nella verità. Infatti Gesù, nel versetto seguente aggiunge: Non lo chiedo per loro soltanto, ma anche per coloro che, a motivo della loro parola, crederanno in me. Questo fa vedere che Gesù, pregando per i discepoli, ha anche in vista la loro missione di annunciatori della verità salvifica. Ma quel che è importante qui, è capire bene che l’annuncio del Vangelo non è un ministero estrinseco alla santificazione nella verità, bensì uno sviluppo normale di questa santificazione. S. Tommaso lo spiega molto bene... (in particolare nella questione disputata de Caritate, a. 11, ad 6m (v. anche, IIa IIae, q. 188, a. 6).
Non è difficile scorgere qui i motivi per i quali il giovane Tommaso ha voluto lasciare la sua prevista carriera a Monte Cassino per entrare nell’Ordine dei Predicatori. E in modo più generale, possiamo riconoscere come il programma di santificazione che egli traccia nei testi che abbiamo cercato di riunire e riassumere qui, è stato, innanzitutto, il programma di santificazione che egli stesso ha voluto metter in pratica nella propria vita. S. Tommaso che non parla quasi mai alla prima persona, lo ha fatto una volta, prendendo a prestito le parole di S. Ilario; scrive infatti, nel capitolo secondo del primo libro della Summa contra Gentiles, esponendo l’« intenzione dell’autore »: « per usare le parole d’Ilario: sono consapevole che il dovere principale della mia vita verso Dio è che ogni parola mia, ogni espressione mia parli di Lui ». A questa dichiarazione fanno come da risposta le parole dette a Tommaso, verso la fine della sua vita, da Cristo nella visione di Napoli: Bene dixisti de me, Thoma « hai parlato bene di me, Tommaso » e il seguito di questa visione illustra bene quanto abbiamo detto finora, poiché Gesù prosegue chiedendo: « quale ricompensa riceverai per il tuo lavoro? » e S. Tommaso risponde: Domine, non nisi te « Signore, nient’altro se non te » (Tocco, c. 34).
Tommaso, quindi, ha saputo, nella sua vita, conseguire questa santificazione nella verità di cui abbiamo, alla sua scuola, tentato di evocare alcuni aspetti. Cerchiamo, quindi, con la grazia di Dio, di imitare il suo esempio, consacrando non solo il tempo degli studi, ma tutta la nostra vita, per quanto possibile, a contemplare Dio e a trasmettere ai nostri fratelli la verità così conosciuta, per raggiungere un giorno, insieme a loro, il definitivo gaudium de veritate al quale siamo chiamati.
Roma, Pontificia Università S.Tommaso d’Aquino,
28 gennaio 2008
José Card. SARAIVA MARTINS
Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi


La dolorosa illusione della pillola contro la responsabilità
Avvenire, 29 gennaio 2008

EUGENIA ROCCELLA
S embra che tutto, o quasi, si possa risolvere con una pillola. I farmaci sono ormai idoli a cui credere con cieco abbandono, fiduciosi che le sostanze chimiche possano far svanire ogni problema, e scioglierci dalle responsabilità nei confronti di noi stessi e degli altri.
Un analgesico fa passare il dolore fisico, e un antidepressivo allevia il 'male oscuro' dell’anima e della mente: così ogni cosa torna a posto.
Per le donne, poi, non c’è che l’imbarazzo della scelta: ci sono pillole per non rimanere incinta, altre (si chiama contraccezione d’emergenza) per il giorno dopo, altre ancora per abortire. Le notizie degli ultimi giorni riportano sulla scena il Norlevo, la pillola che si assume entro 72 ore da un rapporto sessuale, per evitare la gravidanza nel caso non sia stato adottato alcun metodo contraccettivo. Il quotidiano inglese Guardian
racconta come in Gran Bretagna il farmaco sia offerto alle ragazze sotto i 16 anni senza il consenso dei genitori: molti ospedali lo distribuiscono anche alle dodicenni, senza alcun limite di età per le più giovani. In Spagna il premier Zapatero propone di promuoverne la diffusione rendendolo gratuito e accessibile senza ricetta, allo scopo di bloccare la crescita di aborti tra le minorenni. In altri Paesi europei è distribuito liberamente da tempo, senza però che questo in genere abbia nessun effetto sulla diminuzione degli aborti (vedi l’esperienza francese). In Italia le polemiche sono legate all’obiezione di coscienza dei farmacisti, dovuta al meccanismo d’azione del Norlevo, ancora poco chiaro: se, come è riconosciuto nel foglietto illustrativo, il farmaco può impedire l’impianto dell’ovulo già fecondato, si tratta di un’azione abortiva. In questo caso l’obiezione, prevista per i medici dalla legge sull’interruzione di gravidanza, deve valere anche per i farmacisti, che non sono solo addetti alla vendita ma hanno responsabilità professionali più ampie. Un recente studio svedese ha avanzato l’ipotesi che la pillola del giorno dopo non abbia alcun effetto sull’impianto, ma le certezze sono ancora lontane e il foglietto illustrativo è rimasto inalterato. Va detto però che anche se il Norlevo non avesse azione abortiva non sarebbe per questo un metodo da diffondere tra le ragazzine, senza ricetta medica e senza che madri e padri ne siano al corrente. C’è oggi – lo sa ogni genitore – una vera e propria emergenza educativa. Non è il lamento di chi mitizza i beati anni della propria adolescenza, e nemmeno l’invocazione di un ritorno a metodi pedagogici autoritari: è una semplice constatazione. La frattura tra le generazioni si è approfondita in maniera vertiginosa, anche grazie alle nuove forme di comunicazione e apprendimento, che isolano i giovani, li chiudono in un cerchio di autoreferenzialità che li rende esposti e insieme arroganti. Educare alla responsabilità è ancora più difficile sui temi dell’esperienza sessuale, del rapporto con il corpo, della relazione amorosa. La felicità tende a essere identificata con l’immediato soddisfacimento del desiderio, e chi è molto giovane non sa che il desiderio è per sua natura labile e sfuggente; si può spendere una vita a inseguirlo, acchiappandolo qualche volta per la coda, ma si materializzerà sempre da un’altra parte. Trasmettere ai nostri figli l’idea che qualunque gesto sia sostanzialmente privo di conseguenze, perché si può sempre cancellarne gli effetti con una pillola, crea illusioni dolorose. Le conseguenze di ogni atto restano.
Perché il cuore e la memoria non cancellano l’esperienza, né con un farmaco, né premendo il tasto 'reset'.


LA DIFESA DELLA VITA
Il vicario del Papa da Ferrara: «La fede non riguarda solo Dio ma anche i rapporti sociali» Poi conferma le parole di Bagnasco: i politici cattolici non promuovano leggi in contrasto con il bene
Ruini: restituire alle donne la libertà di non abortire
Avvenire, 29 gennaio 2008
DA ROMA MIMMO MUOLO
L’aborto «è la soppressione di un essere umano vivente». E una legge che lo preveda, come la 194 in Italia, «rimane intrinsecamente cattiva». Tuttavia la Chiesa non ha mai «incitato a rivolte o a comportamenti se­diziosi ». Chiede, però, che sia applicata in tutti i suoi aspetti. Lo ha detto ieri se­ra il cardinale Camillo Ruini, intervista­to da Giuliano Ferrara e Ritanna Arme­ni, durante la puntata di 'Otto e mezzo' andata in onda su La7. Sorridente e a suo agio, il vicario del Papa per la diocesi di Roma, ha risposto con pacata chiarezza a tutte le domande, che hanno toccato anche temi come la contraccezione, la presunta ingerenza della Chiesa nelle leg­gi dello Stato e l’atteggiamento dei poli­tici cattolici in materie eticamente sen­sibili.
Legge 194. «Un punto sul quale insistiamo da tempo – ha ricordato – è quello dell’attuazione integrale di questa normativa». So­prattutto «si faccia il pos­sibile per aiutare le donne ad accogliere il figlio». Spe­cie quando il problema è di ordine economico, ha sottolineato il cardinale, ri­solverlo non è eccessivamente difficile. «L’esperienza dei Centri di aiuto alla vi­ta che abbiamo promosso da tanti anni, ha già mostrato che 85mila aborti in Ita­lia sono stati evitati» in un primo mo­mento con modestissime somme e poi «attraverso il dialogo, l’aiuto psicologi­co, il far sentire alle madri che ci sono persone disposte a condividere il pro­blema con loro», infine con la capacità «di favorire un inserimento mondo del lavoro».
Quanto all’obiezione che in questo caso si restringe la libertà della donna, Ruini ha ribattuto: «È falsa in radice e va rove­sciata. La donna abortisce perché non è libera e diventa libera se le si dà la possi­bilità concreta di non abortire. Che non è un obbligo, nessuno può costringerla, è soltanto un’offerta, un atto di solida­rietà di solito graditissimo». Infine la que­stione terminologica. Aborto uguale o­micidio? «Personalmente non uso mai questa parola – ha risposto Ruini – anche per una forma di rispetto verso le donne e per le famiglie. Tuttavia anche altre e­spressioni, come 'interruzione volonta­ria della gravidanza' rischiano di occul­tare la realtà del fatto. Quindi il linguag­gio deve essere il più sereno possibile, ma anche veritiero e certamente ac­compagnato dall’affetto, dall’amicizia, dalla solidarietà». «Nei confronti delle donne che abortiscono, come nei con­fronti di tutte le persone che vivono per un motivo o per l’altro delle situazioni che la Chiesa giudica negative o irrego­lari, non abbiamo atteggiamenti perse­cutori od ostili, ma quanto mai acco­glienti ».
Contraccezione. Una battuta anche su questo tema. Si tratta di «una scelta eti­ca che la Chiesa ritiene sia corrispon­dente alla natura profonda del rapporto tra l’uomo e la donna e che perciò pro­pone ai cattolici, senza minimamente pensare che si debba im­porre per legge».
Ingerenza. «Vorrei sfatare che in Italia – ha detto il cardinale rispondendo a un’altra domanda – ci sia, da parte della Chiesa, più attenzione ai temi politici e sociali che altrove». E ha citato il caso del Canada, dove, «quando c’è stata la questione del matrimonio degli omo­sessuali due cardinali sono andati a pro­testare in Parlamento. Pensate che cosa sarebbe successo, se l’avessi fatto io». Quello che cambia, ha aggiunto, «è l’ef­ficacia degli interventi, certamente mag­giore da noi». Ruini ha quindi spiegato che «la fede cristiana non riguarda sol­tanto il rapporto con Dio», ma (e basti guardare i dieci comandamenti), anche i rapporti sociali. Perciò quando «vi so­no problemi etici che chiedono di esse­re codificati in leggi potenzialmente in contrasto con la visione cristiana della vita non si può non intervenire».
La mediazione dei politici cattolici. Ma tutto ciò, gli è stato chiesto, non dovreb­be avvenire, con la mediazione dei poli­tici? «La parola mediazione – ha risposto il porporato – può avere due significati. Se una legge viene approvata dalla mag­gioranza in Parlamento, anche se non ci piace, diremo che è ingiusta. Altro è che i cattolici stessi si facciano promotori di leggi in contrasto con ciò che anche alla luce della fede sappiamo essere il bene per l’uomo. Questo atteggiamento è cer­tamente sbagliato», ha detto, e anche su questo è apparso in accordo con l’attua­le presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco. «Anche al tempo della Dc – ha concluso Ruini – Mai coloro che si di­chiaravano politici di ispirazione cristia­na sostenevano loro stessi certe posizio­ni. Soccombevano in Parlamento, ma questo è un altro discorso».
Alla fine della registrazione, salutando i giornalisti presenti, il cardinale si è con­cesso una battuta scherzosa anche in merito alla sua presenza sui media: «Non fatemi parlare troppo. Altrimenti la Li­tizzetto poi mi dice 'Eminens'. Io non l’ho mai guardata, ma mi dicono che è simpatica. E poi la mia segretaria la imi­ta benissimo».

Quanti inganni dietro la pillola del giorno dopo
Avvenire, 29 gennaio 2008
In Italia crescono le prescrizioni Il ginecologo Boscia: non è solo un contraccettivo E non mancano i rischi per la salute della donna
DA MILANO
ENRICO NEGROTTI
La pillola del giorno dopo torna a far discutere. I dati che indicano la sua diffusione crescente anche in Italia, l’intenzione del governo spagnolo di renderne sempre più facile la distribuzione riportano d’attualità un dibattito che non si è mai chiuso, almeno nel nostro Paese.
Da quando è stata autorizzata la vendita del levonorgestrel (il principio attivo) nel 2001 le vendite del farmaco sono cresciute del 55 per cento, arrivando alle 350mila confezioni nel 2006. «Eppure non si tratta di contraccezione – obietta Filippo Boscia, direttore del Dipartimento Materno infantile della Ausl provinciale di Bari – bensì di intercettazione dell’embrione già formato.
L’informazione in questo caso è fondamentale. E l’uso del farmaco presenta non pochi problemi di sicurezza per le donne, sottoposte a un “bombardamento” di ormoni che andrebbe monitorato dal punto di vista medico». Il professor Boscia, che è anche presidente della Società italiana di bioetica e comitati etici (Sibce), è stato protagonista, nei mesi scorsi, di un lungo braccio di ferro con le autorità sanitarie pugliesi, che volevano favorire la diffusione del farmaco: «La Asl di Bari ne aveva fatto un approvvigionamento di ben 4mila dosi da distribuire gratis nei consultori – racconta Boscia – ma dopo alcuni dibattiti in direzione sanitaria, siamo riusciti a far revocare la disposizione. Si sarebbe favorito un messaggio contrario alla logica, alla salute delle donne, oltre che all’etica». Il primo problema riguardante il levonorgestrel riguarda un aspetto scientifico: quando fu commercializzato, il levonorgestrel venne definito contraccettivo d’emergenza e non abortivo, perché l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha definito la gravidanza a partire dall’annidamento dell’embrione nell’utero materno: «In realtà l’Oms si riferisce alla fecondazione in vitro – sottolinea il professor Boscia –, quando effettivamente lo stato di gravidanza comincia solo con il trasferimento in utero dell’embrione. Ma quando la fecondazione avviene entro il corpo materno, iniziano subito alcuni fenomeni biochimici, sia da parte del corpo della madre, sia da parte dell’embrione appena formato, che danno origine a una interazione mai riproducibile in altro modo». E l’azione del levonorgestrel può essere duplice: «Può agire da contraccettivo inibendo l’ovulazione, ma se questa è già avvenuta la forte dose di ormoni entra nel sangue e modifica in modo rapido l’endometrio, cioè il tessuto interno dell’utero, che poi tende a cadere e a rendere impossibile l’attecchimento dell’embrione eventualmente formato».
Non è prevedibile la prevalenza di un effetto sull’altro: «Dipende molto – osserva Boscia – dal momento del ciclo in cui avviene il rapporto sessuale e l’assunzione della pillola: se è in coincidenza con l’ovulazione si tratterà verosimilmente di un aborto precocissimo, se è più lontano sarà probabilmente contraccezione.
Nell’incertezza bisogna rispettare anche il diritto all’obiezione di coscienza, visto che viene elusa in questo modo anche la legge 194: non c’è alcun registro della distribuzione della pillola. Tant’è vero che abbiamo verificato, nei mesi scorsi, che nella stessa sera una ragazza poteva farsene prescrivere dieci confezioni». E si continuano a ignorare i problemi di salute: «Prima di prescrivere ogni farmaco estroprogestinico, il medico sottopone la paziente ad analisi – ricorda Boscia –.
Nel caso della pillola del giorno dopo, nessuna indagine: se presa una volta ogni tanto può non far nulla, ma se viene utilizzata frequentemente, possono insorgere seri problemi di salute, sia a livello della coagulazione del sangue, sia a livello epatico».


Etica, ripartiamo dal dialogo
Bruno Forte riflette sul vuoto morale degli attacchi condotti dagli 'ateologi': «Troppa superficialità. Ma il tema del rapporto con l’altro coinvolge ogni uomo»
Avvenire, 29.1.2008

DI ALESSANDRO LANNI
«Quello dei vari pamphlet di moda in questi mesi è un ateismo piuttosto debole dal punto di vista del rigore del pensiero. Ma non è l’unica forma di ateismo esistente. Ne esiste anche uno tragico e pensoso con il quale ritengo sia utile dialogare». Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto e tra i più importanti teologi italiani, non fa nomi, ma di certo i bestseller dell’ateismo di Richard Dawkins e, da noi, di Piergiorgio Odifreddi, non sono tra le sue letture preferite. Da numerosi anni, intrattiene uno scambio con alcuni filosofi laici intorno al tema dell’incontro tra fede e ragione e apprezza chi, anche nel campo dei non credenti, s’interroga sulle 'cose ultime'. In Trinità per atei (Cortina 1996) discuteva con Massimo Cacciari, Giulio Giorello e Vincenzo Vitiello dell’ineluttabilità della fede anche per dirsi non credenti. Un uomo del dialogo che difende le proprie posizioni, ma riconosce la grandezza di un Kant e addirittura di un Nietzsche.
Uno dei temi centrali della recente enciclica «Spe Salvi» promulgata da Benedetto XVI è proprio l’ateismo. Al quale il papa dedica non solo una scontata condanna, ma una grande attenzione sia per le sue motivazioni (una forma di 'protesta' per l’ingiustizia che esso rappresenta) sia per le conseguenze nefaste che gli attribuisce nel XX secolo.
«Credo che il merito di questa enciclica sia duplice. Il primo è di aver riposto al centro la speranza, ovvero la grande domanda di Kant: che cosa possiamo sperare? È la domanda di tutti, in forme diverse: dei giovani che cercano un senso alla vita e al loro futuro e delle persone anziane che s’interrogano sull’ultimo domani. Il discorso sulla speranza cristiana, il papa lo coniuga con un’analisi attenta dei processi della modernità, in cui c’è rispetto per la scienza, la tecnica e le filosofie del progresso. Quello che il papa mette in luce - a mio avviso, in modo assolutamente corretto - è l’incompletezza di queste proposte. La fede nel progresso, l’ideologia della scienza, lo scientismo hanno mostrato i loro limiti nelle vicende degli ultimi due secoli. Il cumulo di violenza prodotto dai totalitarismi, dalle guerre e dalla stessa scienza quando non si è autoregolamentata (si pensi solo all’uso dell’atomica!), quando cioè si sono separate etica e scienza, dimostra come c’è bisogno di un riferimento etico assoluto. Non è un no alla scienza, ma allo scientismo».
Nella «Spe Salvi» si legge: «Un mondo che si deve creare da sé la sua giustizia è un mondo senza speranza». È l’esatto opposto di quello che pensa un laico, che la speranza è proprio nella possibilità di cambiare il mondo da parte degli uomini. È uno degli insegnamenti che l’Illuminismo ha lasciato a tutto il pensiero successivo.
«A me sembra che due sono stati i grandi modelli che si sono confrontati nella modernità.
Uno è quello che ha riposto la speranza nell’emancipazione, nella capacità dell’uomo di essere il liberatore di se stesso, il costruttore del suo domani in maniera assoluta. L’altro è invece il modello della redenzione che, mentre riconosce l’assoluta necessità del coinvolgimento dell’uomo, apre però l’essere umano a un senso ultimo e trascendente.
Senza questo senso ultimo l’orizzonte della vita e della storia appare troppo breve e tutto diviene possibile, anche il male assoluto che le ideologie della modernità hanno dimostrato di sapere produrre, come è avvenuto nella Shoah, nei totalitarismi e nelle guerre. Di fronte a questa alternativa tra emancipazione e redenzione, il papa sta ovviamente dalla parte della redenzione, ma sarebbe banale ritenere questo una svalutazione del contributo che ognuno di noi può dare».
Ma a chi si rivolge il papa nella sua critica all’ateismo? A Dawkins e Odifreddi?
«Il papa parla con Bacone, con Kant, con Horkheimer. Con gente che le questioni se le è poste fino in fondo. Come dicevo, la modernità ci presenta due modelli diversi di ateismo: uno piuttosto superficiale e negligente; l’altro pensoso e drammatico».
In che cosa si distinguono questi due modelli di ateismo?
«Quello non troppo pensante o negligente è quello di questi pamphlet e in effetti non merita grande attenzione.
Questi libri sono perfino una propaganda a favore di Dio, se si valuta la povertà delle loro argomentazioni. Dall’altra parte, c’è l’ateismo pensoso e militante della rivoluzione, del progresso, della fatica di credere, di un Nietzsche davanti a cui bisogna levarsi il cappello quando dice del folle uomo che nella piazza del mercato grida 'Dio è morto'. Egli ha il coraggio di individuarne tutte le conseguenze: sentirsi orfani dopo che si è ucciso Dio. È con questo tipo di ateismo che il papa dialoga: con esso è possibile confrontarsi perché c’è la serietà della domanda. Ciò che invece è difficile, se non impossibile, è potersi incontrare con l’ateismo banale, poco pensoso e poco profondo. Il significato del 'Dio è vivo' o 'Dio è morto' è la vera questione. È questo che manca nei libretti anti­teologici o ateologici, come oggi si dice, nei quali 'Dio' è solo un ornamento di cui si può fare a meno. Norberto Bobbio amava ripetere che la vera differenza non è tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti. E questo si potrebbe tradurre in un linguaggio che, per esempio, ama Cacciari, quando dice che è un pensiero negligente quello che non si confronta con le questioni ultime».
Eppure la questione dei valori, lo scontro tra laici e credenti anche in politica si pone tutti i giorni.
«A me sembra che alcune scaramucce che appaiono come grandi battaglie sono di retroguardia. Una politica senza parametri etici forti rischia di essere autolesionista e si stacca completamente dalla realtà. Si fanno battaglie su questioni marginali e la questione quotidiana di tanta gente che fa fatica ad arrivare alla fine del mese, di gente che vuole sposarsi ma non ha un lavoro, di anziani che sono spesso soli, queste questioni non si affrontano...»
È possibile un’etica atea?
«Bisogna dire innanzitutto che l’etica è un mettersi in relazione con l’altro. Non c’è etica dove non c’è alterità, ovvero un corrispondere, un portare responsabilità nel senso del pondus, del peso dell’altro. Dunque, può esserci un’etica anche di chi non crede e riconosce l’alterità immediatamente nel prossimo, nel vicino, come esigenza con cui misurarsi e a cui corrispondere».
E perché prendersela con l’ateo, se l’ateo è comunque portatore di valori, diversi ma pur sempre valori?
«L’etica riferita all’altro, cioè al prossimo di cui vedo il volto, può essere totale e assoluta? Ecco la grande domanda, che poi è quella che ha posto Lévinas a tutto il Novecento. Lévinas riconosce che il volto degli altri è una traccia di un Altro ultimo, sovrano e trascendente. Dunque è proprio sul cammino dell’etica che si affaccia la possibilità del riconoscimento di Dio e della verità ultima e trascendente. Ecco perché da una parte affermo che è possibile un’etica della responsabilità verso gli altri anche in chi non crede, ma devo dire pure che portando fino in fondo la responsabilità etica verso altri ci si apre alla possibilità di riconoscere un’alterità ultima, ovvero il mistero santo di Dio».
Ci sarebbe dunque un’inconsapevolezza da parte degli atei della inevitabile necessità di un Dio quale fondamento anche di sistema di valori per i non credenti.
«'Inconsapevolezza' è un termine un po’ forte. In tutti c’è una sorta di 'nostalgia del Totalmente Altro'. Certo, noi possiamo darle molti nomi, questo è quello che gli hanno dato Adorno e Horkheimer. Ma questa nostalgia è quella che Agostino esprime all’inizio delle Confessioni: 'Hai fatto il nostro cuore per te ed è inquieto finché non riposa in te'. Dunque, più che di inconsapevolezza direi che si tratta di un non esplicitare fino in fondo ciò di cui siamo tutti inconsciamente consapevoli, perché radicalmente bisognosi.
Nella struttura più profonda del suo essere, l’uomo è capax Dei, fatto per Dio e chiamato a entrarci in dialogo per lodarlo, amarlo e lasciarsi amare».
«La 'Spe Salvi' non risponde certo ai Dawkins, ma dialoga con l’ateismo tragico di Nietzsche o di Horkheimer: quello che coglie la profondità della domanda di senso. Anche chi non crede può avere un’etica della responsabilità, ma se si arriva fino in fondo ci si apre alla possibilità di Dio»