martedì 22 gennaio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:

1) L'abbraccio di 200.000 persone al Papa - Dopo la sua mancata visita all'Università “La Sapienza” di Roma
2) La ragione e il coraggio della verità
3) Atei devoti nel giardino del Papa?
4) Il Cardinal Bagnasco al Consiglio Permanente della CEI (21-24 gennaio 2008). Tra i temi: Papa e “La Sapienza”, Legge 194, povertà in Italia
5) Il Papa: la scuola cattolica non deve perdere la sua identità - Deve mantenere la “prospettiva educativa, umana e cristiana”
6) UNA BENEFICA VENTATA D’ARIA FRESCA
7) PADRE GIANCARLO BOSSI IN VOLO PER LE FILIPPINE - «Torno dai miei amici sono loro il mio destino»
8) Il patriarca Scola agli sposi: «La fedeltà è il cuore dell’amore»



L'abbraccio di 200.000 persone al Papa - Dopo la sua mancata visita all'Università “La Sapienza” di Roma
Di Jesús Colina
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 20 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Erano circa 200.000 le persone riunite questa domenica in Piazza San Pietro per manifestare la propria solidarietà a Benedetto XVI dopo la sua mancata visita all'Università “La Sapienza” di Roma.
In uno degli incontri capitolini più affolati di questo pontificato, il Papa ha lanciato l'appello a rispettare sempre le opinioni altrui in un breve ma sincero intervento, interrotto costantemente dagli applausi e dalle grida di “Viva il Papa!”.
Nelle sue parole di saluto, subito dopo la preghiera dell'Angelus, ha ricordato che la visita all'Università, prevista per il 17 gennaio, era stata programmata su invito della stessa istituzione accademica.
“Purtroppo, com’è noto, il clima che si era creato ha reso inopportuna la mia presenza alla cerimonia”, ha spiegato Benedetto XVI, sottolineando di aver comunque inviato al Rettore Renato Guarini il testo del discorso preparato affinché venisse letto per l'inaugurazione del nuovo anno accademico.
“All’ambiente universitario, che per lunghi anni è stato il mio mondo, mi legano l’amore per la ricerca della verità, per il confronto, per il dialogo franco e rispettoso delle reciproche posizioni”, ha confessato poi.
“Come professore, per così dire, emerito che ha incontrato tanti studenti nella sua vita, vi incoraggio tutti, cari universitari, ad essere sempre rispettosi delle opinioni altrui e a ricercare, con spirito libero e responsabile, la verità e il bene”.
Prima di congedarsi, Benedetto XVI ha quindi rivolto un ultimo augurio a braccio: “Andiamo avanti in questo spirito di fraternità, di amore per la verità e per la libertà, nell’impegno comune per una società fraterna e tollerante. Grazie a voi tutti”.
Famiglie, studenti e persino diversi esponenti politici, provenienti da tutta Italia, hanno invaso quest'oggi Piazza San Pietro; tra i cartelli esposti, alcuni recavano la scritta: “La verità ci rende liberi”.
L'invito a manifestare il proprio affetto a Benedetto XVI era arrivato dal Cardinale Vicario Camillo Ruini, il quale aveva chiesto ai fedeli della città di Roma di mostrare “un gesto di affetto e di serenità [...] espressione della gioia che proviamo nell'avere Benedetto XVI come nostro Vescovo e nostro Papa".
Le proteste degli studenti hanno avuto luogo dopo la diffusione di una lettera indirizzata al Rettore dell'Università “La Sapienza”, e firmata da 67 dei 4.500 dell'Ateneo, nella quale si chiedeva di revocare la visita del Papa.
Nella missiva si accusava il Santo Padre di essere contrario alla libertà di ricerca, citando un discorso pronunciato dal Cardinale Joseph Ratzinger nel 1990, nella stessa Università, sulla crisi della fiducia nella scienza fine a se stessa.
In occasione della conferenza Ratzinger aveva citato questa frase incriminata: “La Chiesa dell'epoca di Galileo si attenne alla ragione più che lo stesso Galileo, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina galileiana. La sua sentenza contro Galileo fu razionale e giusta”.
I docenti, tuttavia, non spiegavano nella lettera che la frase non era del Cardinale Raztinger, ma del filosofo gnostico-scettico Paul Feyerabend. Il porporato tedesco aveva citato questo giudizio unicamente per illustrare la mutata posizione della Chiesa su Galileo.
Si tratta di un caso analogo alle proteste dei musulmani radicali innescate dalla Lectio magistralis del Papa all'Università di Ratisbona, nel settembre 2006, quando citò una frase di Manuele II Paleologo (1350-1425).
La riabilitazione del “caso Galileo”, che ha avuto lugo durante il pontificato di Giovanni Paolo II, è dovuta in parte anche al contributo del Cardinale Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede.


La ragione e il coraggio della verità
Avvenire, 22.1.2008
DI CAMILLO RUINI
I l discorso di Benedetto XVI per l’università 'La Sapienza' prosegue e sviluppa ulteriormente due sue grandi riflessioni: quella tenuta a Monaco di Baviera, in dialogo con il filosofo tedesco Jürgen Habermas, il 19 gennaio 2004, e quella del celebre discorso di Ratisbona. La prima riguardava piuttosto il versante etico­politico, la seconda era dedicata anzitutto al rapporto tra fede e ragione, nel contesto del compito dell’università.
Il testo preparato per 'La Sapienza' è densissimo e però molto chiaro, frutto di un pensiero e di un’esperienza della vita e della storia quanto mai maturi e insieme giovani e aperti; sorretto inoltre da una profonda certezza e al tempo stesso ricco di interrogativi e di stimolazioni a pensare ancora.
Non possiamo tentare di approfondirlo qui. Cercherò semplicemente di riassumerne alcuni nodi che toccano più immediatamente il sentire comune.
Benedetto XVI si rivolge alla più antica università di Roma, come Vescovo di Roma: a questo titolo infatti è «stato invitato». Perciò egli si pone in primo luogo la domanda: qual è la natura e la missione del papato? Il Papa è colui che da un punto di osservazione più elevato guarda all’insieme, prendendosi cura dell’intera comunità credente. Questa comunità però vive nel mondo, le sue buone condizioni o il suo degrado si ripercuotono perciò, inevitabilmente, su tutto il resto della comunità umana. Così il Papa, proprio come Pastore della sua comunità, è diventato sempre più anche una voce della ragione etica dell’umanità.
All’obiezione che il Papa parla alla luce della fede, e quindi non può pretendere che le sue parole valgano per quanti non condividono questa fede, Benedetto XVI risponde, in dialogo con il grande filosofo della politica americano John Rawls, che l’esperienza dei secoli, il fondo storico del sapere umano, quale si esprime nelle grandi tradizioni religiose, contiene, assai più che una ragione a­storica, concezioni etiche preziose anche oggi per l’umanità. Tutto ciò senza integralismi e chiusure difensive che non guardino in faccia la realtà: infatti molte affermazioni dei teologi e dell’autorità ecclesiastica sono state dimostrate false dalla storia e oggi ci confondono. Allo stesso tempo però la storia dei santi, la storia dell’umanesimo cresciuto sulla base della fede cristiana dimostra la verità di questa fede nel suo nucleo essenziale, rendendola con ciò anche un’istanza per la ragione pubblica.
L a seconda domanda intorno a cui ruota il discorso di Benedetto XVI riguarda la natura e la missione dell’università. In base al suo stesso concetto fondativo, l’università deve essere legata esclusivamente all’autorità della verità, e perciò libera e autonoma da altre autorità sia politiche sia ecclesiastiche. La vera, intima origine dell’università sta infatti nel desiderio, anzi in quella autentica brama di conoscere che è propria dell’uomo: egli vuole sapere chi sia egli stesso e cosa sia tutto ciò che lo circonda, vuole verità. L’interrogarsi di Socrate può dunque essere considerato l’impulso dal quale è nata l’università occidentale. Socrate, accusato di empietà, era invece alla ricerca del Dio veramente divino: da questo punto di vista i cristiani dei primi secoli si sono riconosciuti in lui. La loro fede, pertanto, non poteva prendere le distanze dall’interrogarsi della ragione, e così l’università poteva nascere nel mondo cristiano del medioevo.
La verità è anzitutto ricerca e comprensione del vero, non è mai però soltanto teorica. La conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. La verità ci rende buoni e la bontà è vera: è questo l’ottimismo tipico della fede cristiana, che crede nella Ragione creatrice fattasi uomo per amore dell’uomo. Come possiamo però individuare quei criteri di giustizia che rendono possibile vivere insieme la nostra libertà in maniera positiva e buona? In concreto, per quanto riguarda la sfera pubblica, si tratta dei processi democratici di formazione del consenso, che hanno il loro presupposto, come giustamente osserva Habermas, nella partecipazione pubblica egualitaria di tutti i cittadini e nella forma ragionevole in cui i contrasti politici vengono risolti, attraverso «un processo di argomentazione sensibile alla verità».
Proprio questo però è di fatto assai difficile, perché nella lotta politica gli interessi particolari spesso prevalgono sulla sensibilità per la verità e per il bene comune.
In ogni caso, rientra così in campo la domanda: che cos’è la verità? E come la si riconosce? Una tale domanda rimanda inevitabilmente a quelle discipline, come la filosofia e la teologia, che insieme alla medicina e alla giurisprudenza costituivano l’università medievale e che, riguardando la ricerca sulla totalità del nostro essere, hanno il compito di tener desta la sensibilità per la verità. Il rapporto reciproco tra filosofia e teologia deve essere «senza confusione e senza separazione»: ciascuna delle due deve conservare cioè la propria identità e in concreto la filosofia deve rimanere una ricerca compiuta dalla ragione nella propria libertà e responsabilità, mentre la teologia deve continuare ad attingere a un tesoro di conoscenza che essa non ha inventato, ma ricevuto in dono, e che sempre la supera e proprio perciò sempre di nuovo rilancia il pensiero.
Al tempo stesso, la filosofia non ricomincia ogni volta da capo con il singolo pensatore: sta infatti nel grande dialogo della sapienza storica, che essa accoglie e sviluppa criticamente. Non deve dunque chiudersi davanti a ciò che le religioni, e in particolare la fede cristiana, hanno ricevuto e donato all’umanità come indicazione del cammino. Molti contenuti della fede cristiana rimangono certamente inaccessibili alla ragione, e quindi non possono presentarsi come esigenze della ragione, ma il messaggio della fede è anche una forza purificatrice che aiuta la ragione ad essere più e meglio se stessa.
Nell’epoca moderna si sono aperte nuove dimensioni del sapere, che si riconducono a due grandi ambiti universitari: quello delle scienze naturali, che si sviluppano attraverso la sinergia tra sperimentazione e matematica, che presuppone la razionalità della materia, e quello delle scienze storiche e umanistiche, attraverso le quali l’uomo cerca di conoscere meglio se stesso. Si è dischiusa così per l’umanità una misura immensa di sapere e di potere e sono anche cresciuti la conoscenza e il riconoscimento dei diritti e della dignità dell’uomo.
Il cammino dell’uomo, però, non può mai dirsi completato e il pericolo della caduta nella disumanità non è mai del tutto scongiurato, come mostra purtroppo la storia del nostro tempo. Per il mondo occidentale il pericolo è oggi che l’uomo si arrenda di fronte alla questione della verità e così la ragione si pieghi davanti alla pressione degli interessi e accetti come suo criterio ultimo quello dell’utilità. Nell’ambito dell’università, il pericolo è che la filosofia, non sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi nel positivismo e che la teologia venga confinata nella sfera privata di un gruppo, sia pure grande come la Chiesa. Allora però la ragione inaridisce e diventa non più grande ma più piccola: così la cultura europea, se vuole autocostruirsi soltanto in base alle proprie argomentazioni e intende la sua laicità come distacco dalle radici delle quali vive, non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma.
B enedetto XVI conclude tornando alla domanda iniziale: che cosa ha da fare o da dire il Papa all’università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritativo la fede, che può essere solo donata in libertà. È suo compito, invece, mantenere desta la sensibilità per la verità e sollecitare la ragione a scorgere le luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia e aiuta a trovare la via verso il futuro.
La conclusione di questo riassunto, che ha cercato di essere soltanto fedele, è chiaramente una sola: un caldo invito a leggere il testo integrale di un discorso che è un contributo duraturo a quel desiderio di conoscere e di vivere bene che ciascuno di noi porta dentro di sé.



Atei devoti nel giardino del Papa?
Dal sito CulturaCattolica.it
Autore: Mereghetti, Gianni Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
domenica 20 gennaio 2008
Riportiamo questa lettera di Gianni Mereghetti ad Eugenio Scalfari, condividendo appieno il suo acuto giudizio
Carissimo Scalfari,

il suo editoriale dal titolo ATEI DEVOTI NEL GIARDINO DEL PAPA è purtroppo l'ennesima dimostrazione del suo arrancare dietro il corso degli eventi, tentando goffamente di bloccarli per riportarli ai suoi schemi. Sì, caro Scalfari perché la questione di questi giorni non è questa alleanza fantapolitica tra gerarchia ecclesiastica e atei devoti contro la genuinità del popolo cristiano! Non ci siamo proprio, la questione in gioco è un'altra, è che dentro la cultura italiana e nei luoghi in cui la si sviluppa ed educa, dall'università alle scuole, fino ai mezzi di comunicazione, sia tenuta viva la natura della ragione, la sua urgenza a ricercare il vero. In questi giorni è stata lanciata un'offensiva senza precedenti contro la ragione, è per questo che il popolo cristiano si stringe al Papa, è perché in forza della fede testimonia una profonda sensibilità verso la ragione, come del resto documenta il testo dell'intervento che avrebbe dovuto fare alla Sapienza di Roma. Quindi, caro Scalfari, al posto di spostare il problema su binari morti, provi a guardare cosa sta effettivamente accadendo. Se avesse l'umiltà di farlo certo si accorgerebbe che c'è un'urgenza oggi, quella che Benedetto XVI avrebbe voluto dire a docenti e studenti della Sapienza di Roma, l'urgenza di mantenere desta la tensione della ragione alla verità.
Gianni Mereghetti Abbiategrasso


Il Cardinal Bagnasco al Consiglio Permanente della CEI (21-24 gennaio 2008). Tra i temi: Papa e “La Sapienza”, Legge 194, povertà in Italia
ROMA, lunedì, 21 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della prolusione svolta questo lunedì dal Cardinale Angelo Bagnasco, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) in occasione dell'apertura del Consiglio Episcopale Permanente che rimarrà riunito a Roma fino al 24 gennaio prossimo.
* * *

Venerati e Cari Confratelli,
all’inizio del nostro Consiglio Permanente vogliamo rinnovare al Santo Padre Benedetto XVI la nostra incondizionata e cordiale condivisione, insieme all’ammirazione per il suo diuturno servizio pontificale a bene della Chiesa tutta. Il suo alto Magistero e l’esempio della sua dedizione serena, mite e forte per annunciare la verità di Cristo – nella cui luce si riscopre il volto autentico dell’uomo e si salvaguarda lo specifico della persona e della società – sono di sprone per tutti noi e per le nostre Comunità. Vicinanza e ammirazione, anzi amore vero verso il Papa, ci sono genuinamente testimoniati dal popolo delle nostre Chiese.

1. Questa comunione affettiva ed effettiva la rinnoviamo a pochi giorni da un grave episodio di intolleranza che ha indotto il Santo Padre a soprassedere rispetto alla visita da tempo programmata alla Sapienza. Università che da oltre settecento anni vive in quella Roma dove Vescovo è il Papa. Il clima di ostilità, creato da una minoranza assolutamente esigua di docenti e studenti, ha infine suggerito questa amara soluzione, essendo venuti meno – come ha scritto il Cardinale Tarcisio Bertone al Rettore – “i presupposti per un’accoglienza dignitosa e tranquilla”. Una rinuncia quindi che, se si è fatta necessariamente carico dei suggerimenti dell’Autorità italiana, nasce essa stessa da un atto di amore del Papa per la sua città. Tutt’altro, dunque, che un tirarsi indietro, come qualcuno ha pur detto, ma una scelta magnanime per non alimentare neppure indirettamente tensioni create da altri e che la Chiesa certo non ama, pur dovendole spesso suo malgrado subire.
Grande è stata la sorpresa e ancor più grande la tristezza dinanzi a quanto accaduto, in particolare per quella considerazione che da sempre la Chiesa nutre nei confronti dell’istituzione universitaria – basterebbe pensare a come e dove sono nate le Università – e che il discorso del Santo Padre preparato per l’occasione è stata riproposta con argomentazioni assolutamente pregnanti e originali. La risposta che Benedetto XVI ha dato alla domanda sulla “vera, intima origine dell’Università”, la risposta – dicevo – è da iscriversi idealmente sul frontespizio di ogni ateneo: soddisfare “la brama di conoscenza che è propria dell’uomo. Egli vuole sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole la verità”. è con questa vocazione squisitamente propria dell’università che deve in ultima istanza confrontarsi anche chi si è sottratto all’incontro col Papa. Di qui il rammarico – non solo nostro, ma generale – nel dover constatare che il “luogo” privilegiato dello studio e del confronto tra intelligenze libere – qual è l’Università, che per questo diventa scuola di vita – si sia precluso di fatto ad una presenza di universale autorevolezza e ad un apporto accademico altissimo, cui ambiscono Università di tutto il mondo. Questi d’altra parte sono gli esiti del settarismo illiberale, antagonista per partito preso, che assumendo per pretesto la nota e ormai ben indagata vicenda di Galileo, hanno superficialmente manipolato la posizione a suo tempo espressa da Joseph Ratzinger, facendone una bandiera impropria per imporre la loro chiassosa volontà.
Come cittadini e come Vescovi d’Italia non possiamo non essere preoccupati. Seppur ci conforta che l’assenza forzata all’incontro è presto diventata una presenza assai più dilatata del previsto. L’importante discorso non solo è stato letto alla Sapienza, ma è stato anche pubblicato su numerosi giornali, guadagnando allo stesso un ascolto incomparabile. La straordinaria folla di fedeli e di cittadini che ieri, domenica, sono convenuti su invito del Cardinale Vicario in Piazza San Pietro per la recita dell’Angelus, è la testimonianza fedele dei sentimenti forti che albergano nel popolo italiano. Il che ci induce, nonostante tutto, a guardare avanti e ad avere fiducia. Fiducia nel buon senso che da sempre connota la nostra gente, e che è congenitamente estraneo all’intolleranza. Fiducia nel buon senso comune. Fiducia nella forza della ragione aperta alla verità. Fiducia nella tradizione culturale del nostro Paese, che ha sempre considerato il dialogo tra fede e ragione la sorgente viva e vitale di progresso e di civiltà.

2. Cari Confratelli, allargando ora lo sguardo, possiamo dire che veniamo da mesi intensi di attività, ma anche, grazie a Dio, di riflessioni e acquisizioni spirituali importanti che, in particolare, ci sono state offerte con ritmo incalzante dal Santo Padre. Alla luce del recente Natale le nostre comunità sono state sospinte a chiedersi: “Abbiamo tempo e spazio per Dio? Può Egli entrare nella nostra vita? Trova uno spazio in noi, o abbiamo occupato tutti gli spazi del nostro pensiero, del nostro agire, della nostra vita per noi stessi?” (Omelia della Messa di Mezzanotte, 25 dicembre 2007).
A questo proposito, come Vescovi ci sentiamo interpellati in maniera tutta speciale. Al pari degli Apostoli, e in quanto loro successori, infatti “siamo stati chiamati innanzitutto per stare con Cristo, per conoscerlo più profondamente ed essere partecipi del suo mistero d’amore e della sua relazione piena di confidenza con il Padre” (Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti alla Riunione dei Vescovi di recente nomina, 22 settembre 2007). E poiché è questo il nostro fondamentale “programma apostolico”, va da sé che in esso rientra la preghiera che nutre il nostro legame con Pietro, e quella per Pietro stesso. È, dunque, con questa ispirazione che diamo avvio ai lavori della sessione invernale del Consiglio Permanente, svolgendo anzitutto un esercizio di discernimento collegiale sulla situazione presente.

3. Per l’inizio del tempo di Avvento, Benedetto XVI ha offerto alla Chiesa universale la sua seconda enciclica: “Spe salvi”, che ha suscitato una vasta eco all’interno della comunità cristiana ma anche nell’opinione pubblica generale. Il che, se da una parte dice qualcosa dell’arsura in cui vivono gli uomini d’oggi, dall’altra ci conforta sul fatto che proposte forti sotto il profilo dei contenuti si possono proficuamente fare anche in una temperie rarefatta come l’attuale. Con uno stile felicemente personale, il Papa elabora una proposta sorprendente che va al cuore e alla mente dei fedeli e dei Pastori. Attraverso una tessitura testimoniale, egli conduce un serrato ragionamento in cui storia, filosofia e teologia si intrecciano per decodificare il desiderio di vita buona e felice che c’è nel cuore dell’uomo e di ogni epoca.
Mostrando come, ad un certo punto del cammino dell’umanità, le due grandi idee-forza, la ragione e la libertà, si sono come sganciate da Dio, per diventare autonome e contribuire all’edificazione di un «regno dell’uomo» praticamente contrapposto al Regno di Dio, il Papa evidenzia il diffondersi di una mentalità materialista, che ha fatalmente illuso e deluso. Se per l’uomo moderno la novità sta nella correlazione, anzi nella sinergia, tra scienza e prassi, e l’attesa viene riposta nella successione stupefacente delle scoperte che hanno contrassegnato gli ultimi secoli, ecco che prende piede l’”ideologia del progresso”, ossia una “visione programmatica” per la quale la restaurazione del paradiso perduto non si attende più dalla fede, ma appunto dallo sviluppo scientifico. “Non è – precisa il Papa – che la fede, con ciò, venga semplicemente negata; essa viene piuttosto spostata su un altro livello – quello delle cose semplicemente private e ultraterrene – e allo stesso tempo diventa in qualche modo irrilevante per il mondo” (n. 17). In altre parole, ciò che “ha determinato il cammino dei tempi moderni” è anche ciò che ha influenzato “l’attuale crisi della fede che, nel concreto, è soprattutto crisi della speranza cristiana” (ib.).
Questo spiega molto bene perché Benedetto XVI non esiti, dinanzi agli effetti di questa congiuntura, ad invocare un atto di revisione profonda. E mentre nel famoso discorso di Ratisbona (12 settembre 2006) aveva avanzato l’esigenza di una seria autocritica da parte della modernità, nell’enciclica odierna va oltre, e sostiene che “nell’autocritica dell’età moderna confluisca l’autocritica del cristianesimo moderno, che deve imparare di nuovo a comprendere se stesso a partire dalle proprie radici” (n. 22). In altre parole, emerge da qui una grande chance offerta ai cultori della modernità di andare al fondo delle contraddizioni in cui si dimena la cultura odierna e individuare le aporie che sono la causa della grande suggestione che illude ma non convince. Nello stesso tempo, al cristianesimo d’oggi intimidito di fronte ai successi della scienza, e per questo spesso ripiegato solamente in ambito educativo e caritativo (cfr. n. 25), s’impone una ricentratura sul suo essenziale, per far scaturire da qui una nuova capacità propositiva che eviti al mondo la “fine perversa” descritta già da Kant. Per questo, asserisce il Papa, “la ragione ha bisogno della fede per arrivare ad essere totalmente se stessa: ragione e fede hanno bisogno l’una dell’altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione” (n. 23).
Naturalmente nessun commento e nessuna sintesi sostituiscono la lettura del testo dell’enciclica che noi, per la nostra parte, desideriamo porre nelle mani dei fedeli perché ne facciano una lettura personale e comunitaria, che può ravvivare i cammini di catechesi ed essere riferimento per la predicazione speciale dei tempi forti, come ad esempio della prossima Quaresima. Per la riconsiderazione che il Papa fa dei Novissimi, l’enciclica si pone come una concreta risorsa di rinnovamento della nostra pastorale: dal battesimo alla cura delle realtà ultime. Ci affidiamo in particolare ai nostri amati Sacerdoti, perché vogliano vedere in questo testo una autorevole interpretazione della crisi che ai vari livelli investe l’umanità di oggi, per cogliere le possibilità di un dialogo rinnovato che non sia fine a se stesso.
4. Non credo di sbagliare se dico che è l’Italia, in particolare, ad avere oggi bisogno della speranza. Questo Paese, che profondamente amiamo, si presenta sempre più sfilacciato, frammentato al punto da apparire ridotto addirittura “a coriandoli”, avvertono gli esperti. Proprio la recente analisi contenuta nel Rapporto Censis 2007 avverte che “un’inerzia di fondo … è la cifra più profonda della nostra attuale società”. In essa “si propende a pensare che la colpa di tutto … sia da ricondurre a una complessa e comune incapacità di costruire uno sviluppo partecipato” (pag. XVII). Sembra davvero che, bloccato lo slancio e la crescita anche economica, ci sia in giro piuttosto paura del futuro e un senso di fatalistico declino. Sembra circolare una sfiducia diffusa e pericolosa. Anche da osservatori stranieri arrivano i segnali di una medesima lettura, forse ancora più apocalittica e magari anche non disinteressata. Ma a me pare, che non sia tanto a questi osservatori che dobbiamo essere preoccupati di rispondere verbalmente, quanto che una risposta, quella vera, la dobbiamo dare a noi stessi, e alla ineludibile responsabilità verso il nostro futuro. Diagnosi più circoscritte circa i punti della crisi pubblica che ci affligge peraltro non mancano e il Presidente della Repubblica, nell’incontro prenatalizio con i dirigenti della politica, non ha mancato di farvi riferimento. A noi Vescovi interessa, se possibile, guardare più in profondità, alla crisi interiore che è in parte causa e radice della stessa crisi pubblica, seppur non ci sfuggono le tante, innumerevoli testimonianze di bene che prendono forma sul territorio, e neppure ci sfuggono una diffusa riservatezza e capacità di sopportazione che rappresentano esse stesse, se si vuole, un indizio di possibile ripresa e capacità di futuro.
Però, pensando ai nostri fratelli, non possiamo non dire loro con le parole dell’enciclica che, seppur avessimo tante piccole o anche grandi speranze “che ci mantengono in cammino”, ma non conoscessimo Dio, saremmo pur sempre privi della grande speranza, quella che “deve superare tutto il resto” (n. 31). Saremmo senza quella resistenza, quella lucidità di giudizio, quella carità profonda che fanno sperimentare la vita, e la vita in abbondanza (cfr. n. 27). Ecco da dove nasce l’offerta della Chiesa al nostro Paese. La Chiesa non vuole e non cerca il potere, come pure viene scritto in questa stagione su taluni giornali. Con la sua testimonianza pubblica e grazie alla capillarità della sua presenza vicina alla gente, la Chiesa vuole aiutare il Paese a riprendere il cammino, a recuperare fiducia nelle proprie possibilità, a riguadagnare un orizzonte comune. A fronte di tanti sforzi che pure vengono condotti, e che hanno bisogno di più energia per affermarsi, c’è davvero bisogno di una speranza più grande delle altre, che possa dare la direzione al cammino futuro.

5. Lo dicevamo nella recente Nota pubblicata all’indomani del Convegno ecclesiale di Verona (cfr. n. 20). Nel pronunciare il suo sì a Dio, la nostra Chiesa dice sì anche all’uomo concreto, dice sì a questa società con le sue dinamiche complesse e a volte contraddittorie, dice sì alla cultura magmatica eppure vitale in cui è a sua volta inserita. La Chiesa non ha paura di amare. E questo fa: si realizza cioè come la Chiesa del sì, anche quando si vede costretta a dire − senza arroganze e con parresìa − dei leali no. E ogni volta li dice per pronunciare un sì più grande alla vita, alla persona intera, alla giustizia, alla pace, all’amore, alla coscienza, al progresso, al creato; per confermare il sì all’Italia, al suo futuro e alla sua vocazione in seno all’Europa e nel concerto dei popoli.
5.1. La Chiesa, ad esempio, dice sì alla famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna. Per questo si oppone alla regolamentazione per legge delle coppie di fatto, o all’introduzione di registri che surrogano lo stato civile. Non la muove il moralismo, o peggio il desiderio di infliggere pesi inutili o di frapporre ostacoli gratuiti. Al contrario, abbiamo a cuore davvero il futuro e il benessere di tutti. Conferendo diritti e privilegi alle persone conviventi, apparentemente non si tolgono diritti e privilegi ai coniugi, ma si sottrae di fatto ai diritti e ai privilegi dei coniugi il motivo che è alla loro radice, ossia l’istituto matrimoniale che nessuno – a questo punto − può avere l’interesse a rendere inutile o pleonastico, o a offuscare con iniziative, quali il divorzio breve, che avrebbero la forza di incidere sulla mentalità e il costume, inducendo atteggiamenti di deresponsabilizzazione. Un importante uomo di cultura, il prof. Aldo Schiavone, in un articolo del 24 dicembre, tra l’altro scriveva: “Quel che chiamiamo famiglia è infatti una costruzione sociale che non ha al suo interno nulla di prestabilito in eterno. Tutto in essa è solo storia …”. Individuando in un simile assunto la tipologia di tante affermazioni, talora anche strampalate, ci permettiamo con rispetto di obiettare radicalmente a questa posizione: certamente le forme culturali hanno il loro peso nell’espressività dell’uomo e persino nella definizione che l’uomo riesce a dare di sé, ma non arrivano al punto di manomettere la figura umana tipica e distintiva. La struttura della famiglia non è paragonabile ad un’invenzione stagionale, e questo almeno per due motivi. Il primo, è relativo alla indubitabile complementarietà tra i due sessi; il secondo, riguarda il bisogno che i figli hanno, e per lunghi anni, di entrambe le figure genitoriali, quanto meno per il loro equilibrio psichico e affettivo. Il nostro Paese ha bisogno della struttura che è garantita dalle famiglie vere per continuare a dare a se stesso un impianto di solidità e di slancio in avanti. È una problematica questa che, per la verità, non investe solo l’Italia, anzi per certi versi la investe meno di altri Paesi. Il che spiega, ad esempio, perché c’è stato nell’ottobre scorso, a Fatima, un incontro dei Presidenti delle Conferenze episcopali d’Europa che hanno messo a fuoco la loro convergente preoccupazione sul futuro della famiglia, svanendo la quale si metterebbe peraltro a repentaglio il futuro dell’Europa stessa. Di qui il riproporsi significativo, al di là dei confini nazionali, di iniziative come il nostro Family Day che per nessuno voleva essere e per nessuno è stato una minaccia, ma piuttosto l’indicazione di una via da percorrere.
5.2. La Chiesa, mentre fermamente si oppone alle discriminazioni sociali poste in essere a motivo dell’orientamento sessuale, dice anche la propria contrarietà all’equiparazione tra tendenze sessuali e differenze di sesso, razza ed età. C’è un gradino qualitativo che distanzia le prime dalle seconde, e non è interesse di alcuno misconoscere la realtà che appartiene alla struttura dell’essere umano in quanto tale. Come non scorgere nelle teorie che tolgono ogni rilevanza alla mascolinità e alla femminilità della persona, quasi che queste siano una mera convenzione pseudo-culturale, un’accentuazione oggettivamente autolesionistica, un deprezzamento alla fin fine della stessa corporeità che si vorrebbe unilateralmente esaltare? Facile obiettare che la Chiesa non dovrebbe ingerirsi in queste questioni: diciamo anche noi, con Benedetto XVI (nel Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2006), forse che la persona non ci deve interessare? Come facciamo a non curarci del destino e della felicità di coloro al cui servizio siamo mandati?
5.3. è ancora per dire sì alla dignità della persona che la Chiesa denuncia la logica relativistica che domina nei consessi internazionali, per la quale l’“unica garanzia di una umana convivenza pacifica tra i popoli, (è) il negare la cittadinanza alla verità sull’uomo e sulla sua dignità nonché alla possibilità di un agire etico fondato sul riconoscimento della legge morale naturale”: sono parole di Benedetto XVI, pronunciate alle Organizzazioni non governative cattoliche che erano andate a visitarlo il 1° dicembre scorso. Difficile non vedere annidata proprio qui una delle contraddizioni più vistose della politica internazionale: da una parte si dà la giusta priorità, in faccia a qualunque regime politico, al rispetto dei diritti umani fondamentali dell’uomo, dall’altra spregiudicatamente si nega questo o quel diritto in funzione di campagne mirate, e adottate per interessi materiali o imposte per pressioni ideologiche. Quanto all’Unione Europea, non possiamo non apprezzare i risultati del recente vertice di Lisbona nel quale è stato solennemente firmato il nuovo Trattato europeo, che ha come parte integrante la Carta dei diritti dei cittadini. Mentre si attendono le necessarie ratifiche da parte dei singoli Stati, non possiamo non auspicare che di questi documenti vengano date interpretazioni non forzate e non strumentali nella logica di un’esasperazione dei diritti esclusivamente individuali. Resta peraltro attuale l’esigenza, più volte avanzata in passato, di garantire il rispetto delle specifiche identità culturali e delle tradizioni dei Paesi membri, nella piena valorizzazione del principio di sussidiarietà e dei limiti di competenza dell’Unione europea.
C’è da dire che nel Messaggio che Benedetto XVI ha pubblicato in occasione della recente giornata per la Pace del 1° gennaio 2008, incentrato su “Famiglia umana, comunità di pace”, oltre che essere indicate la reale interdipendenza e le profonde connessioni che legano il nucleo primario della società agli effettivi destini del mondo, è individuato anche il vincolo necessario tra la norma giuridica e la legge naturale. Dove la prima, “la norma giuridica che regola i rapporti delle persone tra loro, disciplinando i comportamenti esterni e prevedendo anche sanzioni per i trasgressori, ha come criterio la norma morale, basata sulla natura delle cose”. Il Papa non tace sulla ragione dei troppi arbitrii che si registrano nelle relazioni tra gruppi umani e tra gli stati, osservando che, “sì, le norme esistono, ma per far sì che siano davvero operanti bisogna risalire alla norma morale naturale come base della norma giuridica, altrimenti questa resta in balìa di fragili e provvisori consensi” (n. 12). E subito dopo aggiunge. “La crescita della cultura giuridica nel mondo dipende, tra l’altro, dall’impegno di sostanziare sempre le norme internazionali di contenuto profondamente umano” (n. 13).

6. Una vasta eco ha avuto nel mese di dicembre la moratoria contro la pena di morte votata nell’assemblea dell’Onu da 104 Paesi. Ai quali è vivamente auspicabile che altri Paesi via via si aggiungano, come sta già accadendo, a condividere un fondamentale approdo di civiltà giuridica e di consapevolezza delle insopprimibili ragioni di ogni vita umana. Com’è noto, per raggiungere questo risultato, molto ha lavorato l’Italia, che infatti è stata riconosciuta come la vera artefice dell’importante pronunciamento. Ci piace qui rilevare come questo obiettivo, al nostro interno, sia stato perseguito sia dalla società civile che dai responsabili politici, in una fruttuosa complementarietà che ha procurato all’iniziativa diplomatica il più vasto consenso popolare.
Era in qualche modo inevitabile che, votata la moratoria contro la pena di morte comminata dagli Stati come sanzione ai delitti più gravi, si ponesse l’attenzione ad un’altra gravissima situazione di sofferenza del nostro tempo qual è, con l’aborto, l’uccisione di esseri innocenti e assolutamente indifesi. È vero che concettualmente non c’è perfetta identità tra le due situazioni, ma solo una stringente analogia, che tuttavia non fa certo derivare la condanna dell’aborto da quella della pena di morte, giacché il delitto di aborto è, come avverte il Concilio Vaticano II (GS n. 51), abominevole di per sé, ed è un’ingiustizia totale. Come non valutare benefica la discussione che, nel nostro Paese, si è aperta nel corso delle ultime settimane, e come non essere grati a chi per primo, da parte laica, ha dato evidenza pubblica alla contraddizione tra la moratoria che c’è e quella che fatichiamo tanto a riconoscere?
Il fatto che, a trent’anni dall’approvazione della legge 194 che rende giuridicamente lecito l’aborto, la coscienza pubblica non abbia “naturalizzato” ciò che naturale non è, è un risultato importante, di cui dobbiamo dare atto a chi − per esempio il Movimento per la vita − mai si è rassegnato. E fin dal primo momento ha cercato di promuovere un’iniziativa amica delle donne che le aiuti nella decisione, talora faticosa, di accettazione dell’esistenza diversa da sé che ormai è accesa in grembo. La Giornata della Vita, che con lungimiranza la nostra Conferenza Episcopale promuove da oltre venticinque anni – è imminente la 30a −, ha certamente contribuito – grazie anche all’apporto dei nostri media − a quell’allerta culturale per la quale la vita umana non può mai, in alcun caso, in alcuna situazione, per alcun motivo, essere disprezzata o negletta. Ha invitato a considerare vita la vita, sempre, fin dall’inizio, e non solo per gli adulti gagliardi ed efficienti.
Da parte della Chiesa non esiste alcuna “intenzionalità bellica”: dobbiamo continuare a dire che la vita è dono, e che non è nella disponibilità di alcuno manometterla o soffocarla. E dobbiamo ad un tempo ricordare che l’amore umano è sempre associato a una responsabilità che si esprime anche quando lo si intende come gioco distratto e leggero. Quella della vita è una grande causa, la causa che ci definisce e ci qualifica, alla quale noi Vescovi vorremmo che, prima o poi, si associassero davvero tutti.
Chiediamo, almeno come cittadini di questo Paese, che si verifichi ciò che la Legge – intitolata alla “tutela della maternità” − ha prodotto e ciò che invece non si è attivato di quanto prevede, soprattutto in termini di prevenzione e di aiuto alle donne, e dunque alle famiglie. Inoltre, come si può, solo per questa legge, deliberatamente ignorare il portato delle nuove conoscenze e i progressi della scienza e della medicina e non tener conto che oltre le 22 settimane di gestazione c’è già qualche possibilità di sopravvivenza? Per questo occorre razionalmente non escludere almeno l’aggiornamento di qualche punto della legge, pur continuando noi Vescovi a dire che non ci può mai essere alcuna legge giusta che “regoli” l’aborto. Ci permettiamo anche di suggerire che i fondi previsti dalla legge 194, all’art. 3, magari accresciuti da apporti delle Regioni, siano dati in dotazione trasparente ai consultori e ai centri – comunque si chiamino – di aiuto alla vita, giacché l’esperienza insegna che già pochi mezzi forniti per un primo intervento sono talora sufficienti per dare ascolto alle donne, aiutarle a riconoscere la propria forza, a non sentirsi così sole in una comunità che non può continuare a considerare la maternità un lusso privato e l’aborto una forma di risposta sociale. Ovvio che una simile provvista non esonera la politica della famiglia a dare finalmente risposte adeguate. Tuttavia, è sempre possibile lavorare insieme perché forme concrete di solidarietà trovino spazio, e anche nel campo della maternità non prevalga definitivamente la solitudine, l’estraneità sociale, il disinteresse.

7. Grande impressione ha suscitato a ridosso delle feste natalizie il rogo che nell’acciaieria torinese della ThyssenKrupp ha procurato la morte – immediata o successiva − di ben sette operai, alcuni dei quali ancora giovani. Il confratello Arcivescovo di Torino, Cardinale Severino Poletto, ha pronunciato nelle omelie delle quattro Messe esequiali parole doverosamente severe, alle quali noi cordialmente ci associamo. Davvero il posto di lavoro non può essere messo in ballottaggio con la vita e il vero progresso non può tollerare condizioni di lavoro tanto rischiose da compromettere ogni anno la salute e la vita di un elevatissimo numero di cittadini. Sono drammi che le nostre comunità parrocchiali conoscono uno ad uno, e a cui i nostri sacerdoti sono vicini. E bisogna dire che anche il cordoglio politico non è mancato e non manca. Ciò a cui forse non si è ancora pervenuti è una sufficiente e corale determinazione a non consentire più eccezioni nei sistemi di messa in sicurezza, nei controlli serrati e inesorabili, nelle politiche delle aziende piccole e grandi. Le organizzazioni imprenditoriali e le singole aziende devono fare un passo avanti in quell’autodisciplina rigorosa e metodica che nel rispetto coscienzioso delle leggi potrà dare risultati importanti. Dal canto suo, la politica non può più limitarsi alle parole o ai provvedimenti che nascono evasivi. Bisogna che ciascuno, per la sua parte di responsabilità, senta che la popolazione è stanca di promesse e misura qui, più che in altri campi, l’affidabilità e credibilità del sistema Paese.
Affidabilità e credibilità sono vistosamente in gioco anche nella vicenda delle immondizie che da troppo tempo sta affliggendo Napoli e la Campania senza che l’opinione pubblica locale e nazionale riesca a capire come stiano effettivamente le cose: fino a dove c’entra la malavita organizzata e le complicità di cui essa gode, e dove comincia la mala-politica, la latitanza amministrativa, il palleggiamento delle responsabilità, l’ignavia delle istituzioni. Il confratello Arcivescovo di Napoli, Cardinale Crescenzo Sepe, insieme ai Vescovi della Campania, hanno preso posizione ferma, e noi non possiamo che essere solidali con loro.
Altro versante problematico, nel quale la Chiesa sa di dover dire il suo sì agli italiani, è quello della moralità sociale e della legalità pubblica che sono dimensioni proprie della cittadinanza rispetto ai vincoli collettivi. Situazioni specificatamente delicate si presentano – com’è noto − in alcuni territori del Paese, quelli più interessati dalla malavita organizzata, dalla ‘ndrangheta e dalla mafia, fenomeni che da tempo tendono peraltro a ramificarsi all’esterno, in regioni un tempi immuni e anche – come s’è visto l’estate scorsa − all’estero. Non possiamo, a questo riguardo, non apprezzare ciò che sta avvenendo per iniziativa delle associazioni di volontariato, chiamate Addiopizzo o in altro modo, e anche di importanti associazioni di categoria, grazie alle quali è in atto – secondo un comunicato della Conferenza episcopale siciliana – “un’efficace ribellione della società civile” nei confronti di schiavitù antiche e nuove abusivamente imposte dal racket e dall’usura. Un analogo appello accorato era prima venuto dai confratelli della Calabria, a loro volta impegnati a sostenere le forze buone del riscatto e della rinascita che anche lì sono presenti. A questi Vescovi e alle loro Chiese va la solidarietà convinta della nostra Conferenza, insieme all’impegno per una accorta vigilanza in ogni regione d’Italia.
8. Nel 60° anniversario della Carta Costituzionale che, specialmente nella sua prima parte, è così antropologicamente significativa – e dunque vera nel senso di non superata – e in un momento della vita sociale così delicato e con varie sfide aperte, non possiamo come Vescovi non rivolgerci all’intera classe politica per esprimerle la nostra considerazione e il nostro incoraggiamento.
Nessuno si stupisca se in questo quadro diciamo una parola ai politici di ispirazione cristiana, a coloro che tali sono e così si sono presentati al corpo elettorale, al quale devono rispondere. Vogliamo ricordare la parola rivolta da Benedetto XVI all’Internazionale Democratica di Centro e Democratico-cristiana, il 21 settembre 2007. “La dottrina sociale della Chiesa offre, al riguardo, elementi di riflessione per promuovere la sicurezza e la giustizia, sia a livello nazionale che internazionale, a partire dalla ragione, dal diritto naturale ed anche dal Vangelo, a partire cioè da quanto è conforme alla natura di ogni essere umano e la trascende”. Ebbene, si trova qui il motivo per cui, sui temi moralmente più impegnativi, assecondare nelle decisioni una logica meramente politica, ossequiente cioè le strategie o le convenienze dei singoli partiti, è chiaramente inadeguato. Lo è per una coscienza schiettamente morale, ma lo è ad un tempo per una coscienza anche religiosamente motivata. È vero che il Magistero cattolico prevede il voto positivo a provvedimenti, anche su materie critiche, volti “a limitare i danni di una legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica” (Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n. 73), ma questo non è il caso invocabile allorché un provvedimento legislativo è ancora tutto da allestire o viene presentato al Parlamento. In un simile contesto, quando cioè si tratta di avviare proposte legislative che vanno in senso contrario all’antropologia razionale cristiana, i cattolici non possono in coscienza concorrervi. Non c’è chi non veda infatti che una cosa è operare perché un male si riduca, altra cosa è acconsentire, in partenza, che leggi intrinsecamente inique vengano iscritte in un ordinamento. E non si tratta, qui, di un’imposizione esterna, ma di una scelta da operare liberamente in una coscienza “già convenientemente formata” (GS n. 43). Rispetto alla quale non possono esistere vincoli esterni di mandato, in quanto la coscienza è ambito interno, anzi intrinseco, alla persona, e dunque obiettivamente non sindacabile. Il voto di coscienza, in realtà, è una risorsa a esclusivo servizio della politica buona, e dunque – all’occorrenza – può e deve diventare una scelta trasversale rispetto agli schieramenti, e invocabile in ogni legislatura.
Nessuno pensi che dietro a queste parole ci sia un disegno egemonico che si vuol perseguire. Vale infatti quello che il nostro Papa diceva nella occasione sopra ricordata: “La Chiesa sa che non è suo compito far essa stessa valere politicamente questa sua dottrina: del resto suo obiettivo è servire la formazione della coscienza nella politica e contribuire affinché cresca la percezione delle vere esigenze della giustizia e, insieme, la disponibilità ad agire in base ad esse, anche quando ciò contrastasse con situazioni di interesse personale” (Ib.). Ed è esattamente questo, non altro, ciò che preme alla nostra Conferenza.
Ci auguriamo intensamente che, mettendo sempre meglio a fuoco i compiti propri a ciascuno, possa crescere nel nostro Paese una interpretazione più ricca e sempre meno unidirezionale della laicità. Segnali nuovi peraltro, anche solo in Europa, non mancano. Possiamo aspettarci un rapido contagio delle idee nuove che stanno emergendo alla luce anche di condizioni ideali e culturali sempre più problematiche. Studiosi di fama internazionale hanno nei mesi scorsi ripetuto che c’è un posto, nella democrazia, per le religioni, come crogiuolo di senso e di felice appartenenza ad una storia e ad una tradizione. Il che dà identità e serena sicurezza. Non c’è scritto da nessuna parte che un vivace pluralismo culturale debba coincidere con un secolarismo aggressivo e intollerante, come è accaduto nei giorni scorsi. Dire, come pure qualcuno ha detto, che la Chiesa Cattolica ha un’irresistibile vocazione al fondamentalismo significa fare della gratuita polemica, senza la disponibilità a mettere sul tavolo argomenti costruttivi e utili ad un confronto magari vivace, ma non caricaturale.

9. Sul fronte sociale, le testimonianze che direttamente raccogliamo nei nostri contatti con la gente ci avvertono che nell’anno appena trascorso si sono aggravate le condizioni economiche di molte famiglie. Avevamo già posto in evidenza – nella nostra assemblea del maggio scorso − il fenomeno dell’accresciuto ricorso ai centri di ascolto Caritas e all’aiuto dei “pacchi viveri” da parte di anziani soli e soprattutto di famiglie con figli. Le segnalazioni delle strutture sono proseguite e l’ultimo rapporto della Caritas italiana e della Fondazione Zancan sulla povertà e l’esclusione sociale in Italia ha fornito una fotografia assai precisa, e per molti versi preoccupante, dello stato di bisogno nel quale sono caduti molti nuclei familiari. “Avere tre figli da crescere comporta un rischio di povertà pari al 27,8%, valore che nel Sud sale al 42,7%”, si legge nel rapporto pubblicato nell’ottobre scorso. “E il passaggio da tre a quattro componenti, espone 4 famiglie su 10 alla possibilità di essere povere, mentre 5 o più componenti aumentano il rischio di povertà del 135%”. Insomma, ogni nuovo figlio, oltre che una speranza di vita, rappresenta purtroppo un rischio in più di impoverimento. “Di fatto – sottolineava in conclusione la stessa Caritas – l’Italia incoraggia le famiglie a non fare figli”.
Rispetto a questo contesto, l’azione di governo attraverso la legge finanziaria ha dato risposte assai parziali come il bonus – pure importante − per gli incapienti. A fronte di misure positive volte alla generalità dei contribuenti, quali gli sconti per i proprietari di abitazione e per gli affittuari a basso reddito, è urgente una strategia incisiva d’intervento strutturale volta al sostegno della famiglia nei suoi compiti di allevamento e cura dei figli. Solo all’ultimo è stata introdotta una detrazione aggiuntiva, rivolta esclusivamente ai nuclei con 4 o più figli a carico. Segnale di attenzione alle famiglie numerose che va colto, ma certo limitato quanto a consistenza e platea di beneficiari. Le cifre relative alla povertà sopra evidenziate, invece, segnalano come sia necessario porre mano con urgenza – anche in riferimento alla continua, allarmante crescita dei prezzi − a una politica di rinforzo degli stipendi più bassi e delle pensioni minime, e in questo contesto esprimere un sostegno alle famiglie non limitato ai soli redditi, ma mirata ai carichi familiari.
Il comparto sicurezza è uno di quelli che hanno procurato negli ultimi mesi tensioni e preoccupazioni. Se si vuole realmente incidere, bisogna dare certezza al diritto e mettere anche economicamente le forze dell’ordine nella condizione di agire.
10. A livello ecclesiale non ci è certo sfuggita una singolare convergenza di sollecitazioni. Da una parte la “Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione”, emessa dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, dall’altra il lungo passaggio che il Santo Padre ha dedicato sempre all’evangelizzazione nel Discorso alla Curia Romana del 21 dicembre 2007; infine l’intervento all’Angelus di domenica 23 dicembre. Diceva in quella occasione il Papa: “Nulla è più bello, urgente ed importante che ridonare gratuitamente agli uomini quanto gratuitamente abbiamo ricevuto da Dio. Nulla ci può esimere o sollevare da questo oneroso ed affascinante impegno”. Per una Chiesa tradizionalmente molto impegnata sul fronte della missione, com’è quella radicata in Italia, riconoscersi in questo rinnovato imperativo evangelizzatore non è certo difficile. Ma è utile ricordarlo per ciò che esso significa sia nei termini di quell’auto-evangelizzazione che non è mai veramente compiuta, sia nei riguardi degli immigrati che arrivano sul suolo italiano, sia nell’impegno “ad gentes”, attraverso l’opera di missionari e missionarie.
Diceva il Santo Padre nel citato Discorso alla Curia Romana del 21 dicembre 2007 che “diventare discepoli di Cristo è dunque un cammino di educazione verso il nostro vero essere, verso il giusto essere uomini”: è la ragione per cui noi stiamo guardando con crescente interesse e vera fiducia al compito educativo, non perché esso risulti facile quando non si è più sicuri delle norme da trasmettere e non si sa più quale sia il giusto uso della libertà, ma proprio perché è particolarmente arduo.
Nella vita delle nostre comunità sono arrivati, all’inizio dell’Avvento, i tre volumi del nuovo Lezionario, domenicale e festivo, per l’intero ciclo triennale. Un fatto significativo che corona una lunga attesa e un intenso lavoro. Come è già stato doverosamente comunicato agli Uffici Liturgici diocesani, c’è rammarico per la decina di errori sfuggiti ad una revisione dei testi ritenuta affidabile, e sui quali naturalmente si interverrà al più presto.
Nel Messaggio che Benedetto XVI ha inviato alla 45a Settimana Sociale dei cattolici italiani (Pistoia, 23 settembre 2007), chiedeva che gli stessi cattolici “sappiano cogliere con consapevolezza la grande opportunità che offrono queste sfide e reagiscano non con un rinunciatario ripiegamento su se stessi, ma – al contrario – con un rinnovato dinamismo, aprendosi con fiducia a nuovi rapporti e non trascurando nessuna delle energie capaci di contribuire alla crescita culturale e morale dell’Italia”. È questa consegna che mi induce oggi a rinnovare tutta la mia considerazione per il “Progetto culturale cristianamente ispirato” che, lanciato dal Cardinale Camillo Ruini nel 1994, ha avuto un primo varo nel Convegno ecclesiale di Palermo del 1995, e il definitivo avvio nel biennio 1996-98. Esso ha aiutato nell’ultimo decennio la Chiesa che è in Italia a individuare una “nuova svolta antropologica come il passaggio obbligato nel rapporto fede-cultura-società”, diventando “un punto di riferimento” per altre Conferenze e “un fattore dinamico di paragone e di confronto, talora dialettico, con tutti i soggetti pubblici che agiscono nella società civile italiana e non solo” (Patriarca Angelo Scola, Intervento all’Università Cattolica, 5 novembre 2007). Sono intimamente convinto che questo Progetto abbia prodotto molto di più di quanto esteriormente talora non appaia, in termini di una maggior consapevolezza ai diversi livelli: quello della pastorale ordinaria, giacché è attraverso tutta la sua attività che la Chiesa vuol fare anzitutto cultura; quindi mediante la presenza e l’azione dei cristiani nel mondo, i quali incidono nella misura in cui la fede diventa per loro vita vissuta; infine attraverso la valorizzazione della dimensione intellettuale e l’esercizio delle attitudini proprie di chi fa vocazionalmente cultura. In particolare, il Progetto è stato una felice occasione per far emergere competenze e professionalità, porle in rete, e convocarle a convergente riflessione su temi nevralgici. È il momento, a me pare, per dare un ulteriore sviluppo al Progetto, rafforzando un poco la struttura centrale e suggerendo a questa di promuovere periodicamente dei momenti pubblici di elaborazione e di proposta ad alto livello, dando la priorità − se questo sarà condiviso − ai temi della coscienza nel suo nesso con la libertà e la responsabilità.

Cari Confratelli, il tempo intercorso dall’ultima nostra riunione e i fatti in esso accaduti, mi hanno indotto ad una riflessione più articolata del consueto. Per questo mi scuso, appellandomi alla vostra indulgenza. L’entità dei problemi che attendono la nostra valutazione ci sollecita anzitutto ad appellarci a quella preghiera che “si appoggia” sulla preghiera di Cristo (cfr. Gv 17,20). Ci corrobora il pensiero del nostro popolo, a cui il Santo Padre nella Festa del 1° novembre ha indicato la “schiera innumerevole di Santi e Sante che sono nati ed hanno vissuto in questa terra”, per incoraggiarci “a seguire sempre i loro esempi, conservando i valori evangelici per tenere alto il profilo morale della convivenza civile” (Saluto all’Angelus).
Interceda per noi la Vergine Maria, la Grande Madre di Dio.

Angelo Card. Bagnasco


Il Papa: la scuola cattolica non deve perdere la sua identità - Deve mantenere la “prospettiva educativa, umana e cristiana”

CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 21 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Nel contesto dell'attuale “crisi educativa”, la scuola cattolica non può perdere la sua identità, cioè la sua prospettiva umana e cristiana, afferma il Papa.
Benedetto XVI ha lasciato questa consegna ai partecipanti all’Assemblea Plenaria della Congregazione per l’Educazione Cattolica (dei Seminari e degli Istituti di Studi), riuniti in Vaticano.
“La scuola cattolica, che ha come missione primaria di formare l’alunno secondo una visione antropologica integrale, pur essendo aperta a tutti e rispettando l’identità di ciascuno, non può non proporre una sua propria prospettiva educativa, umana e cristiana”, ha affermato il Papa.
Il Papa ha presentato la “sfida nuova che la globalizzazione ed il pluralismo crescente rendono ancor più acuta: quella cioè dell’incontro delle religioni e delle culture nella ricerca comune della verità”.
“L’accoglienza della pluralità culturale degli alunni e dei genitori si trova necessariamente a confrontarsi con due esigenze: da un lato, non escludere qualcuno in nome della sua appartenenza culturale o religiosa; dall’altro canto, una volta riconosciuta e accolta questa diversità culturale e religiosa, non fermarsi alla pura constatazione”, ha affermato.
Secondo il Papa, “ciò equivarrebbe in effetti a negare che le culture si rispettano veramente quando si incontrano, perché tutte le culture autentiche sono orientate alla verità dell’uomo e al suo bene”.
“Gli uomini provenienti da culture diverse – ha affermato il Pontefice – possono parlarsi, comprendersi al di là delle distanze spaziali e temporali, perché nel cuore di ogni persona abitano le stesse grandi aspirazioni al bene, alla giustizia, alla verità, alla vita e all’amore”.


UNA BENEFICA VENTATA D’ARIA FRESCA
Avvenire, 22.1.2008
FRANCESCO D’AGOSTINO
Mitezza e fermezza: sono queste le due cate­gorie interpretative che si impongono per chi voglia accostarsi senza pregiudizi alla prolu­sione al Consiglio permanente della Cei pro­nunciata ieri dal cardinal Bagnasco. Mitezza e fermezza sono probabilmente i dati caratteriali più qualificanti dell’'uomo Bagnasco'; tuttavia sono nello stesso tempo due paradigmi essenziali per la comprensione del cristianesimo, di una religione che fa della mitezza lo stile di vita ordi­nario da privilegiare per il cristiano, ma che nel contempo non cessa mai di rammentare ai pro­pri membri il fermissimo ammonimento di Ge­sù: le vostre parole siano sì, sì, no, no (cfr Mat­teo, 5.37).
Attraverso le parole del cardinale, la Chiesa ita­liana è invitata 'a guardare avanti, ad avere fi­ducia' (§ 2), a non accettare di ripiegarsi 'nel so­lo ambito educativo e caritativo' (§ 3), a scuotersi dall’inerzia profonda che sembra da tempo per­vaderla (§ 4), a far coincidere il sì a Dio con il sì all’uomo concreto (§ 5). E soprattutto - ribadisce il cardinale - essa non ha alcun disegno egemo­nico (§ 8) e 'non vuole e non cerca il potere': la sua presenza nella società italiana è orientata so­lo ad alimentare una speranza più grande di qual­siasi altra, in grado più di ogni altra di 'dare la di­rezione al cammino futuro' di tutti (§ 5).
A queste indicazioni pastorali di ampio respiro si unisce tutta una serie di riflessioni lucide e puntuali sulla società italiana di oggi. Mi limito a citarne solo alcune, partendo dalla famiglia, 'fondata sul matrimonio tra uomo e donna'. Se è fuori questione il no della Chiesa a qualsiasi di­scriminazione basata sull’orientamento sessua­le, è ancor più fuori questione – afferma il cardi­nale – il doveroso riconoscimento della famiglia come struttura antropologica fondamentale, o­rientata al bene umano e non dipendente nella sua essenza dal variare della storia o dal diverso conformarsi delle culture. Nella famiglia – insi­ste il cardinale, ricordando parole del Papa – ne va 'del destino e della felicità' stessa degli uo­mini; ogni attacco alla sua struttura, ogni prete­sa di attenuare il rilievo pubblico del matrimo­nio, ogni iniziativa volta a indebolirlo (e qui il cardinale cita espressamente il 'divorzio breve') sono forme di oggettivo autolesionismo (§ 5.2). Allargando il discorso ai dibattiti in tema di a­borto, vivacissimi in queste ultime settimane, Bagnasco ribadisce che per la Chiesa nessuna legge che regoli l’aborto può essere ritenuta 'giu­sta': la vita umana infatti è un dono, di cui nes­suno può disporre. Ma questo non implica da parte dei cattolici alcuna 'intenzionalità belli­ca', bensì rende doveroso il loro impegno per ri­durre almeno in parte l’ingiustizia della legge i­taliana in materia, chiedendo la puntuale appli­cazione di quelle sue norme, vistosamente di­sattese, che parlano di prevenzione dell’aborto e di aiuto alle donne in difficoltà. Bisogna trova­re nuovo spazio a concrete forme di solidarietà, per sconfiggere solitudine, estraneità sociale, di­sinteresse (§ 6).
La massima fermezza che può riscontrarsi in questa prolusione la si percepisce però nel § 8, nella parte in cui il cardinale si rivolge ai 'politi­ci di ispirazione cristiana'. Su questioni di 'giu­stizia', sui temi 'moralmente più impegnativi', sostiene il cardinale, non è lecito orientarsi se­condo una logica 'meramente politica', attenta cioè a estrinseche strategie parlamentari o a me­re convenienze partitiche. Il 'voto di coscienza' del parlamentare non può soggiacere a 'vincoli esterni di mandato': deve essere libero di orien­tarsi e non può essere sindacato in alcun modo. In tal modo il presidente della Cei non intende affatto, ovviamente, sostenere una sorta di in­giustificabile autoreferenzialità del politico (qua­si che costui non debba rendere conto a nessu­no delle sue scelte); egli piuttosto insiste nell’in­dicare come il riferirsi alla coscienza sia 'una ri­sorsa a esclusivo servizio della politica buona'. E che di buona politica si tratti può divenire evi­dente, quando si avverte come sulle questioni e­ticamente sensibili sia ben possibile il formarsi di maggioranze trasversali rispetto agli schiera­menti politici parlamentari. Non minimizziamo queste riflessioni del cardinale: è come se una ventata d’aria fresca entri, attraverso queste pa­role, nei soffocanti dibattiti politici di questi ul­timi mesi. La 'politica buona' è quella che bada non ai successi elettorali, ma al bene degli uomini e di tutta la comunità. La fermezza del richiamo del cardinal Bagnasco è un dono offerto allo stes­so tempo alla comunità cristiana e all’intera clas­se politica italiana: è da auspicare che soprat­tutto quest’ultima ne comprenda il senso, pri­ma di reagire, come a volte è accaduto, senza a­verlo prima adeguatamente meditato.



PADRE GIANCARLO BOSSI IN VOLO PER LE FILIPPINE - «Torno dai miei amici sono loro il mio destino»
Avvenire, 22.1.2008
LUCIA BELLASPIGA
L o aveva detto un minuto dopo essere stato liberato, prima ancora di prendere l’aereo per l’Italia: «Appena possibile, spero dopo Natale, tornerò nelle Filippine tra la mia gente: qui c’è ancora troppo da fare per me». E padre Giancarlo Bossi, che è uomo di parola, oggi è a bordo dell’aereo che lo sta riportando laggiù, in quella che da trent’anni è diventata la sua terra. Il missionario del Pime, rapito il 10 giugno scorso da guerriglieri islamici e rimasto tra le loro mani 39 giorni, non ha provato un solo istante di rancore né la tentazione di abbandonare un popolo che avrebbe potuto considerare ingrato: «Oggi io sono felice perché il mio desiderio si è realizzato. Mi hanno consegnato il biglietto dell’aereo, l’ho qui in tasca...», ha invece detto ridendo a una folla di cittadini accorsi a salutarlo una settimana fa, in una serata milanese intitolata 'Buon viaggio, padre Bossi!'. Lo sa bene che proprio quel giorno a Mindanao, nella sua regione, moriva un missionario, padre Roda, assassinato per aver opposto resistenza ad altri rapitori, compagni dei suoi, ma neanche questo ha incrinato la vocazione a un obiettivo che aveva scelto trent’anni fa, appena diventato prete: «Far sì che il Padre Nostro diventi una realtà. Se così lo chiamiamo significa che siamo tutti fratelli e figli suoi, ma poi ci sono ancora ricchi e poveri, guerre tra popoli, terre flagellate dalla fame e allora i conti non tornano più...».
Ecco, è per far 'tornare i conti' che i missionari come padre Bossi sono attirati dalla povertà come le api dal miele, anche dalla povertà interiore, quella che ti porta a essere un meschino sequestratore, forte delle armi ma schiavo di un destino ben misero: «Non è passato giorno che io non abbia pregato per i miei rapitori – ha detto –, persone che in quei 39 giorni e in altrettante notti ho imparato a conoscere bene.
Provavo a farli ragionare, a liberarli dalla loro prigionia, ma non sapevano reagire, dovevano obbedire ai loro capi. Oggi io sono libero, loro invece sono ancora prigionieri». Poi li ha chiamati amici: «Che cosa auguro a questi sfortunati amici? Semplicemente che anche loro, un giorno, possano sedere la sera a un tavolo con una moglie e dei bambini, abbiano una cena da dividere, una vita normale, degli affetti...». Nessuna ideologia politica, nessun perdonismo, solo la logica del Vangelo nelle parole di padre Giancarlo. Come lui, tanti altri missionari oggi sono nei luoghi dove 'i conti non tornano' per dare una mano al Padreterno: anche dove chiunque altro è dovuto fuggire, come in Somalia, dove non resta più un Medico senza Frontiere o la più coraggiosa delle onlus ha sbaraccato, trovi sempre un ultimo manipolo di suore o preti, estremo avamposto di Dio. Non fanno rumore, nessuno li conosce se non quando il fuoco fatuo della cronaca li scopre all’improvviso e su di loro accende accecanti quanto effimeri riflettori: «Non credevo che il mio rapimento provocasse tutto questo baccano – ha riso l’altra sera sopportando per l’ultima volta flash e telecamere con la stessa pazienza con cui aveva sopportato «quei poveri diavoli» dei suoi rapitori –.
Ora non vedo l’ora di tornare al mio silenzio, alla missione, a chi non ha una ciotola di riso o di acqua pulita, ai bambini che muoiono di malattie curabili con meno di un euro».
Anche ai suoi rapitori, i più malati dentro. Non va a fare proselitismo né a convertire la gente, anche se convertirebbe anche i sassi, padre Bossi. Come ogni missionario il Vangelo lo va a vivere nei fatti, non a raccontare. Così ha fatto l’altra sera, affascinando la gente di Milano. Tra loro, in platea, la comunità islamica di Abbiategrasso, il suo paese natale: nei 39 giorni del rapimento avevano pregato per la sua liberazione.


Il patriarca Scola agli sposi: «La fedeltà è il cuore dell’amore»
Venezia
Domenica la Basilica di San Marco ha accolto la 28ª festa delle famiglie Accompagnate dai loro parroci, cinquecento coppie hanno rinnovato le promesse matrimoniali
Avvenire, 22.1.2008
DA VENEZIA
FRANCESCO DAL MAS
Testimoniare il «bell’amore ». Ovvero, la fedeltà coniugale. Un mandato, quello del patriarca Angelo Scola, che è anche una sfida, in tempi, come questi, problematici per la famiglia. Un invito che le 500 coppie di sposi presenti do­menica scorsa nella Basilica di San Marco, quasi tutte con i propri figli, hanno raccolto con gioia, seppur nella mestizia per la tragedia delle «morti bianche», delle vitti­me del lavoro che recentemente ha colpito Porto Mar­ghera.
Organizzata dal Servizio pa- storale per gli sposi e la fa­miglia, si è svolta anche que­st’anno la tradizionale festa (alla 28ª edizione) che ha riempito di piena fiducia nel matrimonio la Cattedrale veneziana. Le famiglie, ac­compagnate dai loro parro­ci, hanno rinnovato le pro­messe matrimoniali e hanno ricevuto in consegna la Bib­bia. «Vi affido anche un compito che mi sta partico­larmente a cuore – ha an­nunciato Scola –. All’interno della comunità cristiana voi avete una responsabilità enorme e non delegabile a nessun altro: rendere visibile e credibile il bell’amore, l’amore autentico, in un clima culturale che invece tende a non riconoscerlo più, perché tende a considerare la fedeltà neanche più come una proprietà aggiunta dell’amore, ma quasi come un non-valore rispetto all’amore ».
Il porporato ha evidenziato che «lo smarrimento è giunto a tal punto da pensare che il vero amore sarebbe quel­la passione che rinasce tutte le volte sulle ceneri dell’a­more precedente, che esclu­de la fedeltà per principio». Come viene concepita oggi la fedeltà? «La fedeltà con la sua inevitabile componente di fatica, di rinuncia, di com­pito, di dovere – ha risposto Scola – sarebbe qualcosa che ammazza l’amore». Invece «è il cuore dell’amore, svela l’oggettiva partecipazione all’eredità preziosa che Cri­sto ci ha lasciato: essere figli nel Figlio». Il sacramento del matrimonio e la famiglia so­no infatti «il talento prezio­so donatoci dal Padre e che noi dobbiamo “trafficare” nel quotidiano». E ancora: «L’amore è bello perché chiede un lavoro su di sé – a­scesi –, per sé e per tutti. Per questo Benedetto XVI ha po­sto in stretta relazione la fa­miglia con la pace».
Testimoniare la fedeltà im­plica poi «una comunione effettiva che si spezza in una compagnia che, condivi­dendo la vita dell’altro a par­tire dai bisogni e dalle sue vi­cende più dolorose, arriva fi­no ad esplicitare le ragioni e­sistenziali della fede e la convenienza umana del vi­vere nella comunità cristia­na secondo la pluriformità delle sue manifestazioni (“carità medicinale”)».
Nel corso dell’omelia Scola ha poi sottolineato che il do­no di sé pone di fronte all’«e­lemento essenziale di quel mistero nuziale fatto di dif­ferenza sessuale, dono di sé e fecondità di cui voi, chia­mati a vivere il matrimonio cristiano, siete resi parteci­pi » e puntualizzando che in forza del Battesimo «siamo figli nel Figlio», ha osservato che «questo ci abilita ad es­sere padri e madri in senso pieno. Lo vediamo nell’e­sperienza umana elementa­re: uno non è veramente pa­dre se non è a sua volta figlio. Non genera se non è gene­rato nel presente». Quindi Scola ha ancora una volta raccomandato la santità. «Già gli anni scorsi ci siamo ricordati che la santità non è altro che la piena “riuscita” della nostra vita, non in mo­do astratto, ma dentro le concrete circostanze voca­zionali in cui la misericordia del Padre ci ha posto».
Nel corso della celebrazio­ne, gli sposi hanno rinnova­to le promesse matrimonia­li. Scola le ha poste sotto la protezione della Vergine, «Madre del bell’amore»: «Il vostro reciproco sì, che oggi prende il peso della fedeltà per gli anni condivisi e per quelli che vi attendono – ha detto il cardinale – risplenda anzitutto ai vostri occhi e poi agli occhi di tutti coloro che il Padre vi farà incontrare come il tesoro più prezioso, la “convenienza” più grande per la vostra vita».
«Portate nel quotidiano il talento che avete ricevuto». In Cattedrale anche il dolente ricordo dei morti sul lavoro e delle loro famiglie