domenica 13 gennaio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:

1) - Papa: “Sopraffatti dalla gioia” perché Cristo ci dona la vita vera e piena
2) Attenzione, preparano l’agguato al Papa
3) NOI, FERRARA E GLI ALTRI, QUELLA VOGLIA DI SCHIERARCI INSIEME PER LA VITA
4) I cumuli fumanti e velenosi gridano al cielo la nostra rabbia
5) Il Cav della Mangiagalli: potremmo evitare metà degli aborti
6) «È figlio mio». E svanì l’incubo di una malformazione


13/01/2008 12:18
VATICANO - Papa: “Sopraffatti dalla gioia” perché Cristo ci dona la vita vera e piena
All'Angelus, Benedetto XVI sottolinea ancora il mistero del battesimo di Gesù e ricorda la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, dedicata ai giovani migranti. Domanda alle comunità ecclesiali di comprenderli ed accoglierli; ai giovani migranti di non lasciarsi trasportare dalla violenza.

Città del Vaticano (AsiaNews) – Nell’ultimo Angelus del tempo liturgico di Natale, il papa ha ricordato il mistero della festa di oggi, quella del battesimo di Gesù, “la sua prima manifestazione pubblica, dopo trent’anni circa di vita nascosta a Nazaret”. Il senso profondo di questo gesto, ha detto il pontefice, “emergerà solo alla fine della vicenda terrena di Cristo, cioè nella sua morte e risurrezione”.
Davanti alle migliaia di pellegrini, radunati in piazza san Pietro sotto una pioggia battente, il pontefice ha spiegato: “Facendosi battezzare da Giovanni insieme con i peccatori, Gesù ha iniziato a prendere su di sé il peso della colpa dell’intera umanità, come Agnello di Dio che ‘toglie’ il peccato del mondo (cfr Gv 1,29). Opera che Egli portò a compimento sulla croce, quando ricevette anche il suo ‘battesimo’ (cfr Lc 12,50). Morendo infatti si ‘immerse’ nell’amore del Padre ed effuse lo Spirito Santo, affinché i credenti in Lui potessero rinascere da quella sorgente inesauribile di vita nuova ed eterna. Tutta la missione di Cristo si riassume in questo: battezzarci nello Spirito Santo, per liberarci dalla schiavitù della morte e ‘aprirci il cielo’, l’accesso cioè alla vita vera e piena, che sarà "un sempre nuovo immergersi nella vastità dell’essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia" (Spe salvi, 12)”.
Dopo la preghiera mariana, Benedetto XVI ha ricordato che oggi si celebra anche la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, che quest’anno pone al centro dell’attenzione i giovani migranti. “Numerosi – ha detto il papa - sono infatti i giovani che vari motivi spingono a vivere lontani dalle loro famiglie e dai loro Paesi. Particolarmente a rischio sono le ragazze e i minori. Alcuni bambini e adolescenti sono nati e cresciuti in ‘campi-profughi’: anch’essi hanno diritto ad un futuro! Esprimo il mio apprezzamento per quanti si impegnano in favore dei giovani migranti, delle loro famiglie e per la loro integrazione lavorativa e scolastica; invito le comunità ecclesiali ad accogliere con simpatia giovani e giovanissimi con i loro genitori, cercando di comprenderne le storie e di favorirne l’inserimento. Cari giovani migranti! Impegnatevi a costruire insieme ai vostri coetanei una società più giusta e fraterna, adempiendo i vostri doveri, rispettando le leggi e non lasciandovi mai trasportare dalla violenza. Vi affido tutti a Maria, Madre dell’intera umanità”.



Attenzione, preparano l’agguato al Papa
L’ignoranza domina tra i presunti scienziati dell’Università La Sapienza di Roma. In 67 cattedratici vogliono impedire al Papa di parlare, anzi persino di entrare in aula magna giovedì prossimo, per l’inaugurazione dell’anno accademico…
di Renato Farina


L’ignoranza domina tra i presunti scienziati dell’Università La Sapienza di Roma. In 67 cattedratici vogliono impedire al Papa di parlare, anzi persino di entrare in aula magna giovedì prossimo, per l’inaugurazione dell’anno accademico. Hanno firmato un appello, sono quasi tutti fisici. Dicono: è uno straniero, un oscurantista, ha parlato male di Galileo difendendone la condanna diciassette anni fa. Una bugia, lo vedremo. Ma procediamo. Era stato il rettore a volere la presenza di Benedetto XVI. Nei piani originari sarebbe dovuta toccare al Santo Padre la lectio magistralis, la prolusione che dà il tono dell’anno universitario. Poi però pareva di dare troppo onore a un Ratzinger qualunque. E il rettore ha ripiegato, cedendo alle pressioni, mettendolo al terzo o quarto posto tra i relatori, preceduto da quel fenomeno di laureato della Scuola Normale di Pisa, Fabio Mussi, oggi ministro della Ricerca, e dal sindaco Walter Veltroni. Il Papa, che è umile, non ha fatto una piega, ha detto va bene. Era abituato a dibattere con gente tipo Habermas, è stato professore nelle massime università tedesche, da Monaco a Tubinga, ma si accontentava anche di mettersi in coda al noto perito della scuola cinematografica Veltroni. Mussi e Veltroni, questi due scienziatoni da Nobel, hanno il plauso dei docenti protestatari. I quali non si sono accontentati di un malcontento sommesso. Hanno chiamato a corte le truppe. Così a costoro hanno assicurato di garantire una presenza fattivamente contestatrice di gruppi no global, che già stanno battendo su internet il loro tamburo da richiamo della foresta, per montare casini antipapali. C’è allarme ordine pubblico. Il Papa non demorde però. Il cardinal Ruini lo sostiene, assicura che sarà accolto bene: sono migliaia i docenti felici di incontrarlo, e gli studenti pure. Dunque Ratzinger ci va lo stesso. Non vuole blindature. Il suo pensiero è che siamo come nei primi secoli della Chiesa: Saulo di Tarso parlava all’Areopago di Atena, suscitando il riso dei presunti sapienti. Lui non si sente migliore del vecchio apostolo. I primi secoli sono profezia degli ultimi. Qui faremmo alcune osservazioni. Anzitutto a Repubblica, che è il quotidiano che si fa eco di questa volontà di pulizia etnica del Papa dall’università e dunque dall’ambito culturale. Ieri ha ospitato senza repliche incredibili discorsi da repulisti razziale. La morale è tirata da tale Carlo Cosmelli, forse un Nobel, che spiega il fuoco di sbarramento: «Le accuse anti-scienza che il Papa ha lanciato da cardinale le ha ribadite anche nell’ultima enciclica. Lui è convinto che, quando la verità scientifica entra in contrasto con quella rivelata, la prima deve fermarsi. In una comunità scientifica ciò non può essere accettato». È evidente la panzana. Questo Papa non fa altro che domandare di «allargare la ragione» (Regensburg, 14 settembre 2006). Pone la questione dell’uso della scienza non della necessità della scienza. Ma - a leggere bene - questi scienziati de noantri imputano al Papa un discorso del 1990. Gli attribuiscono questo pensiero preso da Feyerabend: «Il processo della Chiesa contro Galileo fu ragionevole e giusto». Questa frase è tratta da internet, voce Ratzinger in Wikipedia, e questi hanno copiato senza leggere il discorso integrale dove l’allora cardinale spiegava come anche Ernst Block e tanti altri filosofi stessero rivalutando l’attitudine della Chiesa verso la scienza. L’esatto contrario di quanto sostenuto dai 67 piuttosto somari. Ma non vale la pena discutere con chi cerca pretesti per l’intolleranza. In realtà a noi basterebbe si applicasse la par condicio. C’è una specie di cristofobia dominante in certi ambiti intellettuali italiani: un odio quasi neroniano, che si trasforma in amore sollecito e pastorale verso gli islamici purché siano estremisti. L’Università La Sapienza di Roma ha siglato il 15 giugno del 2006 un accordo per la creazione di un Comitato accademico italo-egiziano di «studi comparati per il progresso delle scienze umane nel Mediterraneo» (Oscum), tra la celebre università islamica di Al Azhar, considerata una sorta di Vaticano sunnita, e un cartello di cinque università italiane tra cui primeggia appunto La Sapienza di Roma. L’accordo è stato firmato alla presenza dello sheikh di Al Azhar, Mohamed Sayed Tantawi, ritenuto la massima autorità teologica dell’islam sunnita. Tantawi è uno che ha scritto fatwe per giustificare i kamikaze palestinesi, per santificare la condanna a morte di islamici che si convertano al cristianesimo e lo dicano ad alta voce. Ma per i professori della Sapienza di Roma va bene così, nessun appello avverso. Al Tantawi sì, Ratzinger no. A questo siamo ridotti nelle Università italiane. Se ci fosse un criterio serio per la selezione dei docenti, questa gente dovrebbe essere sospesa dall’insegnamento. Figuriamoci, hanno già avuto mezza partita vinta: hanno retrocesso il Papa a figurante tra Mussi e Veltroni, ma non si accontentano. Repubblica di Ezio Mauro è dalla loro parte. Queste cose si vedevano al tempo del nazismo contro gli uomini diversamente pensanti. Ora accadono a Roma, Italia. LIBERO 13 gennaio 2008



NOI, FERRARA E GLI ALTRI, QUELLA VOGLIA DI SCHIERARCI INSIEME PER LA VITA

MARCO TARQUINIO
Avvenire, 13.1.2008
C’è un evento culturale, politico e massmediatico che a noi di Avvenire piace consi­derare un inatteso regalo per i 40 anni del nostro giornale, traguardo posto sul finire – il 4 dicembre – dell’anno che è appena cominciato. È un re­galo che, come tutti i regali autentici, ha una sua libera capacità di interpretare un desiderio e un sentimento profondo di chi lo riceve. E che in­duce a riflettere. In particolare, sul tempo e sul luogo – questa strana Italia, tesa ad arco tra la sua vivissima storia secolare e i suoi rampanti seco­larismi – nei quali da cattolici prima ancora che da giornalisti ci tocca di scrivere, ragionare e ci­vilmente battagliare. Questo regalo è la proposta per una 'moratoria dell’aborto' lanciata da Giu­liano Ferrara e dal suo Foglio nel momento stes­so in cui nella sede dell’Onu si concludeva con successo, anche per merito del nostro Paese, la lunga battaglia per la proclamazione della 'mo­ratoria della pena di morte'.
Quale dono più bello per Avvenire, che fa da sem­pre dell’impegno sereno e costante per l’affer­mazione della cultura della vita una ragione fon­dante del suo stare in campo, di ritrovarsi affian­cato e quasi sopravanzato su questo fronte cru­ciale da un altro foglio e dal suo 'non credente' direttore? E il mio direttore Dino Boffo – che, per una volta, dovrà rassegnarsi a essere tirato in bal­lo sul suo stesso giornale – quale eco più auto­noma eppure assonante avrebbe potuto imma­ginare all’incitamento programmatico «Per amare quelli che non credono» col quale fa accompa­gnare ogni giorno l’uscita in edicola del quoti­diano dei cattolici italiani? E infatti noi – che alla luce delle promettenti scoperte e degli altrettanto promet­tenti 'pentimenti' di alcu­ni famosi scienziati aveva­mo appena chiesto una 'moratoria della ricerca su­gli embrioni' – non abbia­mo esitato un momento a condividere e sostenere la proposta di 'moratoria del­l’aborto' avanzata da Fer­rara e dal Foglio. Sappiamo bene, ovviamente, che mo­ratoria non significa una magica cancellazione, e che – proprio come nel caso della forca e della sedia elettrica – saremmo poco oltre la proclamazione solenne di un prin­cipio. Ma ci deve pur essere un principio. E quel­lo capace di generare un processo teso a 'svuo­tare' di senso e d’attualità l’aborto vale certa­mente la pena di essere affermato.
Il fatto, insomma, che oggi sia Ferrara a chiedere con forza – battendosi laicamente da par suo con chi vorrebbe vestirlo di rosso-chierichetto o ros­so- porpora – un grande dibattito culturale sul­l’aborto ci sta benissimo. Di più: ci inorgoglisce che ottenga risposte finalmente non banali. La stessa storia repubblicana insegna che nella no­stra Italia ci sono temi così intimamente cattoli­ci che per essere affrontati e definiti hanno biso­gno dell’iniziativa di intellettuali (e politici) laici. Tutto ciò – e i lettori lo sanno bene – non ci ha mai indotto a tacere. I suoi quarant’anni di vita in e­dicola – e, dunque, più dei trenta che sono tra­scorsi dall’entrata in vigore della legge 194 – Av­venire li ha investiti anche a spiegare e rispiegare le ragioni che rendono umanamente, prima an­cora che cristianamente, intollerabile il ricorso a pratiche abortive. Lo ha fatto facendosi puntual­mente specchio di quel grande laboratorio spiri­tuale e culturale che sono le Giornate per la Vita promosse dalla Cei e delle splendide e concretis­sime esperienze del Movimento per la Vita. Lo ha fatto prima e dopo la legge che in questo Paese ha disciplinato i casi di ricorso all’aborto. Prima e dopo il referendum che quella legge ha mante­nuto. Perché ci sono mali che non si possono i­gnorare e ai quali non ci si può rassegnare. Per­ché ci sono solitudini che non si possono lascia­re ulteriormente sole, e disperazioni che non tol­lerano altri abbandoni. In questi anni, poi, quan­ta sperimentazione spavalda e rischiosa sulla vi­ta umana s’è fatta senza che troppi se ne dessero pensiero.
Esattamente questo ha significato e significa, per tutti noi, porre la vita tra i «valori non negoziabi­li ». E questa prospettiva tengono aperta il dialo­go e la possibile consonanza tra laici e cattolici per smuovere le coscienze e, attraverso l’idea forte di una moratoria, orientare alla vita una legge che consente l’insopportabile: l’uccisione di un bam­bino in grembo. In questo sforzo, chi – come noi – sa che ogni singola vita è inestimabile nulla ha da mercanteggiare. Tutto, e di più, ancora una volta ha da fare.


L’AMORE PER LA CAMPANIA CI FA SCENDERE IN CAMPO

I cumuli fumanti e velenosi gridano al cielo la nostra rabbia
Avvenire, 13.1.2008
DON MAURIZIO PATRICIELLO
Stavolta l’abbiamo combinata grossa!
Avvertiamo sul nostro volto le conseguenze di quel sentimento tutto positivo che è la vergogna. No, non quella parola gridata con rabbia che pure comprendiamo, ma quel rossore, quel calore che sale per il corpo, ti avvampa, ti mette disagio. Prendiamo atto: il mondo intero parla dell’incapacità di noi napoletani nel gestire un aspetto importante della vita organizzata e opulenta degli occidentali.
Quanta contraddizione in ciò che sta accadendo: l’immondizia dice benessere di un popolo, eppure Napoli di immondizia muore. In Campania trovare lavoro è un’impresa, benché i napoletani siano persone ricche di fantasia, di capacità, di adattamento. La camorra strangola iniziative e futuro. I morti lasciati sull’asfalto ogni anno, sono centinaia. Sono talmente tanti che ognuno si difende come può, magari non leggendo i giornali locali che ne danno notizia in prima pagina con tanto di foto impietose, come un pugno nello stomaco. Ci difendiamo parlando di altro, guardando altrove. Chiudiamo gli occhi per poter sopravvivere. Si fa finta di niente. Ci si adatta a logiche assurde. Ci si abitua a discorsi che senti fare anche da gente semplice, buona. In un paese c’è un tizio che strozza tutto: commercio, affari, vita sociale; che comanda, del quale si ha paura, che prende quello che vuole, quando vuole. Ebbene, succede che questo tizio venga fatto fuori da altri tizi che vogliono i suoi spazi, le sue piazze, per poter comandare di più, strozzarci di più, annientarci di più. Succede che nei commenti all’angolo della strada tu debba sentire che 'in fondo la vittima era sì uno che viveva in certo modo, ma non era cattivo. Spesso promuoveva iniziative per il quartiere e quando uccisero Sciusciello, quattro mesi fa, si addossò le spese e provvide alla famiglia'. Alla fine del funerale di tizio, uno scrosciante applauso mette fine ad ogni illusione. Ecco la trappola maledetta nella quale siamo caduti e da cui bisogna tirarsi fuori. Ecco la cosiddetta cultura mafiosa. Un pensiero, una visione della vita, rassegnati, vecchi come la befana. L’omicidio, l’usura, i rifiuti tossici che riempiono il ventre delle nostre antiche, care campagne, sono il frutto marcio di un albero marcio che affonda le radici marce in quel terreno marcio che è il pensare camorristico. Non ho detto il comportamento, l’agire, ho detto il pensare. La questione, signori, è una questione culturale. Oggi dobbiamo arrossire, e non c’è dubbio. Lo facciamo con dignità, con la dignità di chi non può che prendere atto di un fallimento che è sotto gli occhi di tutti.
No, non è un’emergenza, anche se dobbiamo affrontarla come tale. Non è esploso, all’improvviso, il Vesuvio. Questo disastro era prevedibile, era nell’aria da tempo e non è giusto mettere tutti sullo stesso banco degli imputati. C’è gente che va gridando da anni contro ecomafie e rifiuti tossici, ma chi la prendeva in considerazione? E poi, non sappiamo tutti che quando un problema non ti afferra personalmente, non ti prende alla gola, parlarne troppo diventa antipatico? Un conto, quindi, è denunciare un modo di pensare insano, altro conto sono le responsabilità per fatti accaduti. Le colpe sono di chi le ha commesse. La domanda che occorre porsi e che sento poche volte rivolgere ai diretti responsabili è: «Va bene, signori, siete stati incapaci, ma dove è finito quel fiume di soldi che ha bagnato la Campania in questi anni di straordinarie follie?».
Quando si commette un reato non basta allungare la faccia dicendo: «Ho sbagliato, scusami». Si riparano i danni, si rimettono almeno insieme i cocci. Insieme alla salute che va a farsi benedire e alla figuraccia fatta davanti al mondo, dobbiamo umilmente ammettere che il danno più grave lo hanno subito i nostri giovani, ai quali diventa più difficile continuare a credere agli adulti ed alle istituzioni. Anche di questo si alimenta certa sottocultura. Non si tratta di mandare alla gogna nessuno, ma facciamo di tutto – tutti –, per far toccar con mano ai giovani che lo Stato c’è, ci è accanto, lotta con e per noi. Chesterton scriveva che la Chiesa non condanna se non quello che noi stessi saremmo infine giunti, ma forse troppo tardi, a condannare. Credo che questa verità oggi diventi lucente. L’immondizia che ci soffoca ci dice che di egoismo si muore, che alla fine esso non paga. I cumuli fumanti e velenosi gridano la loro rabbia verso chi pensa che la vita sociale sia da appaltare a pochi rappresentanti e che una volta dato il proprio voto, te ne puoi stare sereno a casa perché c’è chi pensa a te. La Napoli di questi giorni ci riempie il cuore di tristezza e di tenerezza. Ma l’amore per la nostra Campania ci mette le ali ai piedi e ci fa scendere in campo con rinnovata energia, non per raccogliere sacchetti, ma per ridare speranza a chi ha tutte le ragioni per averla smarrita.
* parroco di San Paolo Apostolo - Parco Verde - Caivano (Napoli, diocesi di Aversa)



STORIE DI SPERANZA
«Per la vita ascolto e aiuto: così ho salvato 9mila bimbi»
Il Cav della Mangiagalli: potremmo evitare metà degli aborti
Paola Bonzi dal 1984 anima la struttura milanese da lei fondata: solo nel 2006, 833 nati, «sottratti» alla Igv
DA MILANO
MARINA CORRADI
Avvenire, 13.1.2008
Nel soggiorno della sua casa mila­nese la stanza è quasi buia, ma Paola non se ne accorge: è cieca da quando aspettava il suo secondo figlio. Il Centro di aiuto alla vita della Mangia­galli lo ha voluto e fondato lei. Paola Bon­zi, 64 anni, ex insegnante, consulente fa­miliare, dal 1984 dirige il Cav all’interno della più grande maternità di Milano. «È stata quella malattia piombatami addos­so durante la gravidanza che mi ha spin­to a occuparmi di maternità. Mio padre u­na mattina mi prese da parte: 'Ricordati, a questo bambino io vo­glio già bene'. Io non ho mai pensato di abortire, ma mi sentivo così fragi­le: come lo avrei cresciu­to quel figlio?».
Per questo ha scelto di 'lavorare gomito a gomi­to' con le donne. In que­sti 24 anni sono 9000 i bambini messi al mondo da madri aiutate da Pao­la Bonzi, fra mille diffi­coltà: fino a poco tempo fa il Cav era una sorta di ospite dimenticato nell’ospeda­le. Poi il recentemente scomparso prima­rio Giorgio Pardi, che pure era abortista, si accorse che il 53% degli aborti riguar­dava extracomunitarie. E si adoperò per­ché le donne che arrivano per una Ivg ve­nissero a conoscenza del centro. Nel 2006 i nati grazie al Cav sono stati ben 833, un aumento dell’83%. Perciò, mentre si di­scute di moratoria, abbiamo voluto chie­dere a Paola Bonzi che cosa concreta­mente aiuta una donna a tenersi un bam­bino; visto che tante volte lei ci è riuscita.
Molte delle donne che abortiscono sono straniere e povere, e spesso basta un so­stegno umano e economico perché cam­bino idea. Ma parliamo invece di quel­­l’altra metà, che abortisce perché un fi­glio non lo vuole. Lei a queste donne che cosa dice?
Io non 'dico' proprio niente. È questo l’er­rore di fondo, pensare che si debba pre­dicare, quando occorre prima di tutto a­scoltare. Se io dicessi alle donne cosa 'de­vono' fare, abortirebbero il giorno dopo. Invece, occorre lasciarle parlare, anche per ore, del loro 'no': di tutte le ragioni per cui di quel figlio non ne vogliono sapere. Con assoluta libertà. Perché – parlando di quante non hanno problemi economici o concreti – ci sono due obiezioni fonda­mentali alla maternità. La prima è una 'i­nadeguatezza' che la donna avverte di fronte all’idea di un figlio, la sensazione di 'non essere capace'. La seconda è una sorta di ambivalenza: un desiderare il bambino e nello stesso tempo negarlo, ma a un livello nemmeno cosciente. Ho conosciuto donne che hanno abortito fi­gli lungamente desiderati. Esempio straordinario di questa ambivalenza è la Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallaci: che con suo figlio nel ventre parlava, e già lo amava, e però diceva: vedi, io ho tante cose da fare, non posso solo stare qui e pensare a te. E alla fine la Fallaci, cui i medici avevano ordinato il riposo, accetta un’inchiesta impegnativa all’estero, e finisce con il perdere il bambino. Ricordo una signora in visone che venne da me, incinta di due gemelli. Per averli si era sottoposta a una stimolazio­ne ovarica. Mi disse: «Voglio abortire». A che mese è, chiesi. «Alla 22esima setti­mana », rispose. Sa che potrebbero na­scere vivi, domandai? «Non importa, non li voglio». Il marito accanto disse con dolcezza che lui, invece, li voleva tantissimo. La signora prese a parlare. Quei figli li aveva cercati perché sua madre ci tene­va tanto, a essere nonna. Ma ecco, la madre era morta pochi giorni prima. E ora la figlia di quei bam­bini non se ne faceva più niente. Li aveva fatti solo per compiacere la mam­ma. Parlò per due ore, io la ascoltai quasi senza una parola, se non per dire al­la fine: «Se ha bisogno di aiuto, io qui ci sono sempre». I due se ne andarono, non ne seppi più niente per qualche mese. I due gemelli nacquero. La madre mi telefonò anni dopo, nel giorno del loro settimo compleanno, per dire: «Grazie, siamo felici».
Ambivalenza, un sì e un no insieme alla maternità. Perché?
Spesso dietro c’è una cattiva relazione con la madre – l’ombra della madre è presen­te dietro a moltissimi aborti. Ma direi che questa ambivalenza è in realtà insita nel­la stessa femminilità. Alla straordinaria capacità di dare vita della donna, che può volgersi in distruttività, se la sua ansia non viene contenuta. In questo senso, io dico che cerco di essere un 'utero' accoglien­te per queste madri, perché lo diventino anche loro. Perché, mi creda, si aiuta so­lo dentro una relazione. Da bambina quando andavo a scuola a Milano, in piaz­za Baracca, passavano due tram. Uno an­dava dritto e uno doveva girare, e il tram­viere scendeva con una leva a azionare lo scambio a mano. È un’immagine che ho sempre in mente, quel 'clac' dello scam­bio che faceva andare il tram in un’altra direzione. Un pezzo di binario di pochi centimetri cambiava tutto. È quell’istan­te, che cerco ogni volta con una donna. E che può accadere quando capisce se stes­sa e illumina le sue risorse, che spesso non conosce.
Succede che una donna rinunci all’aborto all’ultimo momento?
Succede. Mi è capitato di essere chiama­ta alle sei e trenta del mattino, l’ora in cui le pazienti in reparto vengono avviate in sala operatoria. Mi trovai davanti una ra­gazza che piangeva, piangeva e non riu­sciva a parlare: diceva solo «Non posso» e riprendeva a piangere. Le altre già erano andate, e lei no. Alla fine una infermiera le disse su, andiamo, e lei andò. È una sce­na che non dimenticherò mai. È molto frequente che le donne in attesa dell’in­tervento piangano. Ed è un pianto che non trova ascolto, e questo è terribile. È terribile che non ci sia nessuno a ascol­tarle, a dire: aspetta, pensaci ancora.
Che cosa cambierebbe della 194?
Premesso che ritengo l’aborto un male che produce nella donna un male deva­stante – negli Usa questi danni (depres­sione, autolesionismo, rottura col part­ner) sono studiati e documentati –, io de­vo dire che ho letto esegeticamente il te­sto della legge, e trovo che il legislatore a­vesse l’intenzione di scoraggiare l’aborto aiutando la donna a rimuoverne le cau­se, e di consentirlo solo per gravi proble­mi fisici o psichici della madre. La 194 però non è mai stata applicata nella sua inte­rezza, in quelle parti che potrebbero aiu­tare la donna e diminuire gli aborti. Mai applicata: nei consultori spesso il lavoro preventivo non si fa, e quindi non si ri­muovono le cause della scelta. Trovo i­noltre molto grave che si voglia introdur­re la Ru486, che da un lato banalizzereb­be l’aborto, e dall’altro lo riporterebbe in un ambito privato e nascosto.
Secondo lei, che cosa si può fare concre­tamente oggi in Italia contro l’aborto?
Io credo che se i consultori lavorassero davvero, se i colloqui con le donne fossero fatti da operatori preparati, se alle don­ne indigenti venissero dati aiuti come fac­ciamo noi al Cav, metà dei 130mila abor­ti annui non ci sarebbero. Si salverebbe­ro 60mila bambini. Il problema vero è il pregiudizio che accompagna un lavoro come il nostro, il fanatismo ideologico che da vent’anni ci osteggia accusandoci di terrorismo psicologico. Nel dicembre 2006 ci fu un presidio dei Radicali contro di noi in Mangiagalli, e tra i manifestanti ce n’e­ra uno che alzava un cartello: «Grazie Pao­la, per Omar». Era l’amico di una donna che aveva partorito con il nostro aiuto. Però, quel ragazzo era ancora lì a manife­stare contro di noi. L’ideologia, il credere di sapere già tutto delle ragioni degli altri, è la bestia più grama che ci sia. Ma, oltre alla attività nei consultori, io credo nel­l’educazione. Mostrare ai ragazzi le im­magini di un embrione che si sviluppa, e come già a poche settimane ha la forma di un uomo. Educare a riconoscere la realtà, contro la cecità della ideologia».


«È figlio mio». E svanì l’incubo di una malformazione
Avvenire, 13.1.2008
DA MILANO - Dall’ecografia la dolorosa diagnosi: sarà cerebroleso. La paura, i dubbi. E la scelta Ma risultò poi perfettamente sano Quelle che sei mesi prima hanno cambiato idea vengono giù dal Reparto maternità in vestaglia, il bambino fra le braccia. Sono contente. Al figlio di tre giorni addormentato dicono: «Sorridi a questa signora, è grazie a lei se sei nato ». Paola Bonzi non vede i bambini né le madri, nell’oscurità in cui è caduta da 40 anni. Ma le donne, le riconosce dalla voce. Questa è la filippina che voleva abortire per poter mandare i soldi a­gli altri figli, a Manila. Questa è la laureata in matematica che non voleva un bambino, e tuttavia, forse senza capire perché, ha continuato per un mese a cercare Paola, e a parlare, parlare di tutte le buone ragioni di quel no. Poi, sul letto della sala operatoria, l’ha chiamata ancora, e ha deciso che suo figlio sarebbe nato.
In molte, e non solo delle extracomunitarie, raccontano nelle stanze del Cav di uno stipendio che non basta, di uno sfratto imminente. Ma se anche garantisci aiuti economici, e aiuto per trovare una casa, continuano a dire di no. Qualcuna sbotta: «Ma non lo capisce che questo figlio non lo voglio proprio?». Tuttavia, qualcuna dopo essersi sfogate con quella donna che non le giudica, torna. Oppure le si rivede sei o sette mesi dopo, con il bambino.
Le giovanissime spesso vogliono, nonostante tutto, quel figlio arrivato troppo presto; è più facile che sia la loro madre a opporsi a una gravidanza a sedici anni. Poi, c’è l’angoscia di quelle che arrivano con la diagnosi di una malformazione. Come la ragazza che venne col marito, era un figlio molto desiderato, ma il responso dell’ecografia era terribile: sarebbe nato con una gravissima malformazione al cervello, se fosse sopravvissuto, era il verdetto, «avrebbe vissuto come un vegetale».
Paola Bonzi ricorda quel lungo colloquio doloroso, la donna che parlava, lei che ascoltava zitta, infine quella che domanda, di­sperata: «Ma, se fosse figlio suo, lei, signora, cosa farebbe?». E la Bonzi di risposta: «Non lo so. Ma si ricordi che se avrà bisogno di aiuto io ci sarò sempre». I due se ne vanno, non se ne sa più niente, pare ovvio pensare che abbiano scelto l’aborto. «Un mat­tino sono arrivata come sempre in ritardo, affannata – ricorda Paola – c’è una signora che ti aspetta, mi dicono, io rispondo che proprio non ho tempo, non ce la faccio. Guarda che è in vesta­glia, insiste la mia collaboratrice. Allora vuol dire che è una ri­coverata. La faccio entrare. 'Signora – mi dice – io sono quella…'. La riconosco subito dalla voce. È la donna che aspettava un bam­bino cerebroleso. Come sta? Domando con il cuore in gola. 'So­no venuta a portarle mio figlio. Sta benissimo. La malattia se­gnalata dall’ecografia non c’era'». La Bonzi ascolta con un tuffo al cuore. A volte gli esami sba­gliano. Ma quella donna che stava per abortire ha deciso di te­nere il figlio senza sapere affatto che era sano, anzi, credendo­lo molto malato.
«Cosa è stato? – domanda allora – che cosa l’ha fatta decidere?». «Io so solo – risponde la donna – che quando sono uscita da qui, dentro di me mi sono detta: qualunque cosa abbia, è figlio mio. E ho deciso che l’avrei tenuto. Da allora non ho nemmeno più pensato alla malattia. Ho avuto una gravidanza serena. Solo quando è nato, ho saputo che era perfetto». «È figlio mio». Nei vecchi corridoi della Mangiagalli, una porta aperta, e novemila storie sconosciute di amicizia e femminile coraggio.
Marina Corradi


PIENEZZA DELL’ESSERE IN UN SOLO BATTITO DI CIGLIA
Avvenire, 13.1.2008
di Mario Melazzini
«Anche l’immobilità è fonte di gioia». È forse questa l’affermazione più significativa di Jean­ Dominique Bauby contenuta nel film Lo scafandro e la farfalla, in uscita nelle sale italiane.
L’esperienza autobiografica che lo stesso Bauby ci ha lasciato in eredità può leggersi come una piena conferma delle potenzialità e delle possibilità conservabili da parte di una persona a cui la malattia abbia minato gravemente il corpo, ma non la mente e l’anima. A volte può succedere che una malattia che mortifica e limita il corpo, anche in maniera molto evidente, possa rappresentare una vera e propria medicina per chi deve forzatamente convivere con essa senza la possibilità di alternative.
Avendo la fortuna di mantenere la propria mente lucida e consapevole, la persona si rende perfettamente conto di quanto possa ancora dare e ricevere a chi vive accanto a lui, alla famiglia agli amici, ai colleghi di lavoro, al mondo esterno. La malattia, l’evento traumatico, non porta via le emozioni, i sentimenti, la possibilità di comprendere che l’«essere» conta di più del «fare».
Per rendere concretizzabile tutto ciò, però, ogni persona che versa in condizioni simili a quelle di Bauby ha bisogno della sua Claude Mendibil: di qualcuno cioè, che proprio come ha fatto la redattrice della rivista francese Elle annotando pazientemente quanto lo stesso Bauby ha dettato tramite il battito delle proprie ciglia, poi confluito nel romanzo Lo scafandro e la farfalla, si faccia carico dei suoi bisogni. Su tutti, quello di essere ascoltato. Sì, l’ascolto una delle principali forme di presa in carico. Attraverso un’adeguata assistenza si può evitare che lo scafandro in cui si trasforma il corpo di chi ha perso le proprie funzioni motorie imprigioni un’anima che nonostante tutto può e vuole continuare a volare.
È questo il messaggio che una società che ambisca realmente ad essere a misura d’uomo deve raccogliere e recepire. Un corpo malato, disabile, non può diventare in nessun caso un fattore di isolamento, esclusione ed emarginazione dal mondo. È inaccettabile avallare l’idea che alcune condizioni di salute,di disabilità, rendano indegna la vita e trasformino il malato o la persona con disabilità in un peso sociale. Purtroppo, oggi, una certa corrente di pensiero ritiene che la vita in certe condizioni si trasformi in un accanimento ed in un calvario inutile, dimenticando che un’efficace presa in carico e il continuo sviluppo della tecnologia consentono anche a chi è stato colpito da patologie altamente invalidanti di continuare a guardare alla vita come ad un dono ricco di opportunità e di percorsi inesplorati prima della malattia.
La domanda di senso di un’esistenza è strettamente correlata alla possibilità di esprimersi e, soprattutto, al fatto che ci sia o meno qualcuno a raccogliere i messaggi inviati. Non bisogna lasciare che siano la trascuratezza, l’abbandono e la solitudine a decretare una vita indegna di essere vissuta.
Può sembrare paradossale, ma un corpo nudo, spogliato della sua esuberanza, mortificato nella sua esteriorità fa brillare maggiormente l’anima, ovvero il luogo in cui sono presenti le chiavi che possono aprire, in qualunque momento, la via per completare nel modo migliore il proprio percorso di vita.
Un battito di ciglia, lieve e talvolta impercettibile come quello delle ali di una farfalla, può davvero divenire testimonianza della pienezza dell’essere, del sentire e allo stesso tempo un ponte che permette a pieno titolo di sentirsi vivi.