venerdì 18 gennaio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:

1) Cardinale Ruini: domenica non sarà un comizio
2) Noi docenti, cercatori onesti domenica in piazza S. Pietro
3) CERTO NON ANNULLATA, QUELL’ASSENZA È STATA RIEMPITA
4) Rubbia: Col Papa un «incidente» che fa male alla salute della scienza italiana
5) I rettori che vogliono il professor Ratzinger
6) Statale, aggrediti studenti di Cl
7) Il successore di Don Benzi rilancia la battaglia per la vita
8) Moratoria sugli embrioni: l’Europa adesso si muove - Interpellanza di un gruppo di deputati: fermate i fondi
9) Benedetto XVI e l’attualità della fede di Sant’Agostino
10) Lo facesti di poco inferiore agli angeli
11) Commento al documento “Famiglia e procreazione umana”


Cardinale Ruini: domenica non sarà un comizio
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 17 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'intervista concessa al quotidiano “L'Osservatore Romano” (18 gennaio 2008) dal Cardinale Vicario di Roma, Camillo Ruini, dopo il suo invito ai fedeli ad accorrere domenica all'Angelus come gesto di solidarietà al Papa, per la sua mancata visita all'Università “La Sapienza”.
* * *

Quale messaggio si può dare in vista di domenica per evitare che una manifestazione di affetto e di preghiera possa essere l'occasione di nuove polemiche o strumentalizzazioni?

Il messaggio è già contenuto nel mio comunicato, dove dico che sarà un gesto d'affetto e di serenità, espressione della gioia che proviamo nell'avere Benedetto XVI come nostro vescovo e nostro Papa. Quindi non è rivolta assolutamente contro nessuno, non è una manifestazione di protesta per la mancata accoglienza alla Sapienza. È un gesto che vuole esprimere l'animo profondo dei romani e anche certamente della grandissima maggioranza della comunità universitaria di Roma, della Sapienza, della altre università, che ben sappiamo essere vicine al Papa ed essere molto aperte alla pastorale universitaria. Tutto il tono dell'incontro con il Santo Padre sarà il tono classico dell'Angelus che è un tono di ascolto della parola del Papa, di preghiera, e anche espressione del desiderio che ha la nostra gente di sentire, di ascoltare il Papa, di vederlo, di essere con lui. Quindi in tal senso è proprio il tipo d'incontro che mette al riparo da questo rischio. Non è un comizio. È la nostra partecipazione alla preghiera dell'Angelus. Se qualcuno vorrà interpretare questo appuntamento in altro modo lo interpreterà in maniera del tutto sbagliata. Ma certamente non avrà appigli per una interpretazione di questo genere che sarebbe completamente fuori dal senso della recita dell'Angelus, della preghiera dell'Angelus e dello spirito con il quale sono stati invitati i romani ad essere particolarmente presenti domenica.

Che notizie ha di domenica, quante persone ci potranno essere, quale sarà in particolare la partecipazione di esponenti della Sapienza?

Non ho notizie precise. Le notizie che ho sono quelle di una grande partecipazione. Ci saranno moltissimi giovani che verranno, credo anche tanti professori, personalità. Non seguo io personalmente gli sviluppi di questa iniziativa. Le notizie che ho vanno tutte quante nel senso di una grande partecipazione. Una partecipazione composta e gioiosa: tutti quelli che vengono sanno che sarà per partecipare all'Angelus. Tutti sanno ovviamente che cos'è: è una preghiera. Ci saranno quindi una riflessione del Papa e una preghiera.

Una manifestazione composta e gioiosa che fa da contrasto a quella minoranza chiassosa di cui ha parlato recentemente riferendosi agli studenti che all'università hanno festeggiato l'annullamento della visita del Papa.

Direi di sì: ci muoviamo secondo una logica completamente diversa.

Ma come mai questa minoranza è, o appare essere, così determinante, così, per usare le sue parole, "chiassosa"?

Non è certo una novità. In questo caso lo abbiamo notato in maniera particolare perché c'era l'invito al Santo Padre ma è una cosa che capita molto spesso, purtroppo nella società, e in tante altre sedi. Basta guardare i giornali e le televisioni. Non è una cosa insolita, non è che si sia creata una "minoranza chiassosa" in questa circostanza. Queste minoranze chiassose ci sono in Italia e ci sono anche in altri Paesi. In Italia direi che sono specialmente chiassose.

E come mai?

Questo dipende anche da chi dà loro visibilità. È una scelta. Si capisce: ciò che esprime protesta, che esprime contrasto viene di solito privilegiato perché si pensa che rispetto alla routine quotidiana possa essere più interessante, mentre in realtà è molto interessante far vedere tutto il positivo che c'è, la gente che spende bene la propria vita, che la spende in modo costruttivo. E pacifico.

Oltre alla "minoranza chiassosa", c'erano però anche sessantasette docenti schierati con chi contesta. Cosa ha portato a questa alleanza?

Questo bisognerebbe chiederlo a loro. Io penso che abbiano equivocato su una questione alla fine non tanto importante: se si trattasse di una prolusione accademica o se invece di un intervento come poi avrebbe dovuto essere, come lo stesso testo del Papa poi mostra bene. Al di là di questo aspetto formale, c'è comunque una concezione chiusa della laicità, la laicità come rifiuto della presenza pubblica del fatto religioso, della dimensione religiosa.

Eppure, proprio a questo proposito il Presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, già nel messaggio di fine anno e poi nelle parole ribadite nelle ultime ore ha ricordato anche i riferimenti costituzionali alla libertà religiosa e i principî del confronto e della collaborazione fra Stato e Chiesa. Come ha accolto la notizia della lettera personale inviata dal Capo dello Stato a Benedetto XVI?

Il gesto è certamente apprezzabile. Molto apprezzabile. E penso che il Santo Padre lo abbia veramente molto gradito. Io, personalmente, l'ho molto apprezzato.


Noi docenti, cercatori onesti domenica in piazza S. Pietro
Avvenire, 18.1.2008
ASSUNTINA MORRESI
Tutti a San Pietro, domenica, all’Angelus di Benedetto XVI.
L’appuntamento ci era venuto in mente subito, appena saputo della sofferta rinuncia del Papa a partecipare alla cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico, all’Università detta «La Sapienza», a Roma. L’invito del cardinale Ruini è dunque caduto su un terreno fertile e ha colpito nel segno: domenica sarò là, spero innanzitutto con i miei colleghi, cioè i docenti universitari, i primi interpellati dai fatti romani. Ci dobbiamo essere, ci saremo, perché ciò che è successo è ancor più grave proprio in quanto accaduto in università, il luogo per eccellenza in cui si intrecciano ragione e libertà, in cui ognuno di noi, che in università lavora e vive, ha potuto e – si spera – ogni giorno può continuare a sperimentare quella «brama di conoscenza che è propria dell’uomo», un uomo che «vuol sapere cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole verità». Così Benedetto XVI, nel discorso che ha potuto solamente inviare, ha definito l’essenza dell’università stessa, la sua anima, quella che ne fa da sempre un luogo privilegiato per chi ci lavora.
Privilegi non tanto economici e sociali – spesso assai più favoleggiati che effettivi – quanto dovuti alla particolarissima condizione per la quale il proprio lavoro equivale a conoscere. Si è disposti a un’interminabile attesa pur di poter lavorare in università, si è capaci di fare enormi sacrifici sul piano personale ed economico, si dedicano i migliori anni della propria vita a estenuanti giornate spese nel lavoro di ricerca perché poche cose sono tanto gratificanti come il poter scoprire ogni giorno di più il significato della realtà, in ogni suo aspetto: dal nostro corpo ai pensieri, alla storia di popoli e nazioni, alla più intima struttura della materia, dagli spazi infiniti alle particelle infinitesime. Siamo fatti così, chi più chi meno consapevolmente, cercatori di verità e, con essa, anche del bene, come ha scritto ancora papa Benedetto nel discorso che non gli è stato consentito di pronunciare. Ma anche la più grande passione per la conoscenza e lo studio nel tempo non dura, per quanto venga incoraggiata da importanti scoperte o travolgenti carriere. Ne facciamo esperienza nel lavoro accademico di ogni giorno. E quando succede, quando la stanchezza, la noia o il cinismo prendono il sopravvento, i nostri studenti sono i primi ad accorgersene. Non dobbiamo mai dimenticarlo: sono i ragazzi lo specchio del nostro modo di stare in università. Per questo i colleghi che per primi hanno contestato l’invito al Papa non possono non riconoscere la loro responsabilità in tutta la vicenda: un atteggiamento di reale disponibilità all’ascolto e al confronto avrebbe generato tutt’altro clima, e non ne staremmo adesso a discutere. È importante quindi per ognuno di noi, come concludeva Benedetto XVI, «mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene», che per qualcuno poi prende il nome di Dio, ma che per tutti rimane la condizione imprescindibile per continuare a vivere nel proprio ateneo.
Questo il Papa considera il compito dell’università, ed era venuto a dircelo proprio 'a casa nostra'. E questo noi, docenti universitari, andremo di nuovo ad ascoltarlo, domenica. Tutti in piazza San Pietro.



CERTO NON ANNULLATA, QUELL’ASSENZA È STATA RIEMPITA
Avvenire, 18.1.2008
CARLO CARDIA
Non si poteva dubitarne, eppure quanto ac­caduto a Roma ha riempito il cuore e la mente di uomini e donne di tutto il mondo. Non solo per l’applauso liberatore che ha accolto la lettura del discorso del Papa, che pure è risuo­nato come espressione di un affetto senza con­fini, ma per i contenuti di quel discorso che ha parlato di fede e di ragione, facendoli intreccia­re come in un dialogo che sorvola i secoli e guar­da con amore e dedizione alla fatica dell’uomo per raggiungere la verità.
Ad essere precisi, la giornata del Papa è comin­ciata mercoledì pomeriggio nell’udienza nella Sala Nervi, quando giovani e meno giovani han­no abbracciato il pontefice inneggiando alla li­bertà. Alla libertà che era stata violata, ma che loro e la Chiesa intendono garantire e assicura­re in Italia e ovunque. In quel coro c’era il di­scrimine tra chi è impegnato a favore dei dirit­ti di tutti e chi aveva voluto negare al Papa il di­ritto di parlare liberamente e serenamente, co­me fa sempre.
Alla Sapienza è accaduto qualcosa di più. L’as­senza del Papa ha amareggiato e umiliato Ro­ma e l’Italia intera. Ma alla Sapienza essa è sta­ta riempita dalle parole che gli altri hanno det­to sul Papa, e dalle parole dell’intervento pon­tificio. Attraverso quelle parole, così tipiche del suo magistero, Benedetto XVI si è rivolto alla coscienza di ciascuno di noi, è riuscito a tra­smettere concetti e pensieri, sentimenti e sug­gestioni, che non potranno più essere oscurati. Chi parlava era un papa, e un teologo, ma per tutto il tempo dell’intervento la sua è stata la cattedra della fede e della ragione. Della ragio­ne che dialoga con la fede, e della fede che in­coraggia la ragione ad andare avanti. Per lunghi secoli della storia cristiana, filosofia e teologia si sono sviluppate insieme ponendo i capisaldi della cultura occidentale, e dell’umanesimo cri­stiano che si è poi diffuso in ogni latitudine. Quando c’è stata separazione tra filosofia e teo­logia, ha ricordato il Papa, non si è trattato di u­na separazione totale e definitiva, ma di un pas­saggio necessario per la ricerca di una autono­mia necessaria ad entrambe, per avviare un nuovo dialogo sviluppatosi lungo la modernità. Il Papa non ha smentito la propria capacità cri­tica, e autocritica, quando ha ricordato che mol­te cose dette dai teologi nel corso della storia si sono dimostrate false. E ciò perché il cammino e l’evoluzione dell’uomo è fatto di luci e di om­bre, di traguardi e di sconfitte. Ma ha aggiunto che la storia dell’umanità intera sta lì anche a dimostrare quanto la fede cristiana abbia illu­minato gli uomini, abbia introdotto il principio di eguaglianza, abbia aperto l’orizzonte della solidarietà e della carità per gli uomini e i po­poli, e annunciato la speranza di una salvezza che supera i confini della materia. Tutto ciò è prova della verità della fede cristiana nel suo nucleo essenziale, perché il cristianesimo si è confrontato con la ragione, ha alimentato e vi­vificato la storia umana.
Benedetto XVI non ha chiesto alla ragione di cessare la sua critica, anzi le critiche della ra­gione possono migliorare la fede e la religione. Ma ha invitato gli uomini a mettere la ragione al servizio della verità. La verità non è mai cri­stallizzata in un sistema di pensiero, anche per­ché essa si svela agli uomini in modo progres­sivo, ma ciò che costruisce è solido e non effi­mero. La ragione porta il suo contributo origi­nale quando procede, va avanti, tenendo con­to di ciò che nella storia del pensiero, da Socra­te a Tommaso, ai filosofi della modernità, è sta­to intuito, elaborato e costruito. Ma, ha ricordato il Papa nel punto più alto dell’intervento, la ve­rità non è mai pura teoria, anche perché il sem­plice sapere rende tristi, ma coincide con la ri­cerca e la conoscenza del bene. Quel bene che i popoli della Terra, a cominciare da quanti sof­frono e attendono aiuto e sollievo, chiedono e reclamano con sempre maggior forza. Quando il sapere è finalizzato all’agire per il bene degli altri è un sapere più grande, convince e attira l’uomo. A quel punto non si sente più lontano dalla fede.
Si parlerà e si discuterà a lungo delle parole del Papa pronunciate dalla cattedra sulla quale ra­gione e fede stanno insieme nutrendosi a vi­cenda. Oggi possiamo dire che quella volontà di censura che credeva di offendere e umiliare si è nei fatti rimpicciolita, si è nascosta, ed è scomparsa. Il Papa, che fisicamente ha dovuto essere assente, è stato più presente che mai, per­ché munito soltanto della forza della parola, di una parola che ha proposto e pregato perché ragione e fede dialoghino e si uniscano per il bene dell’uomo.


FEDE E RAGIONE
Rubbia
Col Papa un «incidente» che fa male alla salute della scienza italiana
Avvenire, 18.1.2008
DI PAOLO VIANA
H a studiato la fisica ovun­que e ovunque l’ha inse­gnata, dalla Normale al­la Columbia, dal Cern ad Har­vard, passando per innumere­voli centri di ricerca e accade­mie scientifi­che di ogni la­titudine.
Non facendosi mancare nep­pure una tap­pa alla Sa­pienza. Mal­grado il pre­mio Nobel, ri­cevuto nel 1984 per gli studi sulle particelle ele­mentari, ab­bia fatto di lui stesso un pa­trimonio del mondo, anco­ra oggi Carlo Rubbia non na­sconde il disappunto di fronte allo sciupio nazionale della ri­cerca italiana – che lo ha visto protagonista di una clamorosa rottura con il governo Berlu­sconi – e al decadimento cul- turale dell’università. E il di­sappunto si trasforma in rab­bia quando qualche collega gli chiede conto di quelle notizie che raccontano, all’altro capo del mondo, di un’Italia univer­sitaria intollerante e anticleri­cale.
Certi suoi col­leghi, alla Sa­pienza, sono saliti sulle barricate per difendere la 'laicità' della scienza dal Papa: secon­do lei, scienza e Chiesa sono nemici?
Faccio parte di molte acca­demie in tutto il mondo e tra le tante anche dell’Accade­mia pontifi­cia. Ne faccio parte da oltre vent’anni: siamo un’ottantina di scienziati, scelti non in base al nostro credo religioso ma al­le nostre competenze. Ne fan­no parte, per capirci, la Levi Montalcini, Cavalli Sforza e Stephen Hawking. Non credo che siano stati scelti perché sia­no dei difensori della fede cri­stiana, anzi, ne sono certo. Ne­gli ultimi anni, prima di diven­tare Pontefice, ha fatto parte di quest’istituzione anche il car­dinale Ratzinger, nostro 'colle­ga', con rispetto parlando. Eb­bene, io posso testimoniare che quest’uomo è un personaggio di grande cultura, straordina­riamente aperto e quello che ha detto in questi consessi le sue posizioni sono state sem­pre di estrema chiarezza e di grande rilievo nel campo del­le scienze storiche e umanisti­che . Ma la stessa Accademia, che è parte della Chiesa catto­lica, come ho detto, funziona da sempre come un’istituzione laica e tollerante, che lavora nel segno del dialogo. A proposito, il presidente è Cabibbo, un fisico della Sa­pienza , che non è tra i fir­matari della lettera che ha scatenato la protesta.
E allora come spiega que­st’incattivi­mento anti­papale?
I cervelloni del diparti­mento di Fisi­ca della Sa­pienza hanno attaccato il Papa sulla base di ricostruzioni non del tutto cor­rette, come ha dimostrato il matematico Israel, trascuran­do la realtà storica, cioè che la posizione di Ratzinger sui rap­porti tra la chiesa e Galileo è sempre stata una posizione di estrema chiarezza. Accusare il Papa per il processo a Galileo sarebbe, se mi permette un pa­radosso, come attaccare Vel­troni in quanto sindaco di Ro­ma perché Pilato si è lavato le mani per Gesù. Poiché però questi miei il­lustri colleghi non hanno di­ritto all’igno­ranza, dob­biamo consi­derare i loro 'errori' alla stregua di provocazioni.
Questa provo­cazione può interrompere il dialogo tra università e Chiesa?
Relativizzerei il caso, altri­menti lo so­pravvalutiamo. Il numero dei fisici che hanno sostenuto que­sta posizione è inquietante, ma gli studenti che hanno dato corpo alla gazzarra goliardica di questi giorni sono poche centinaia su molte migliaia di iscritti. Il pasticcio lo hanno fatto i media amplificandola: le immagini del dileggio del San­to Padre hanno fatto il giro del mondo, le trovate su tutti i gior­nali del pianeta. Non si e´dato invece altrettanto spazio alla voce della maggioranza che non ha protestato.
Non possiamo dimenticare che il Pontefice gode del rispetto di un miliardo di persone, ed e´ stimato anche da molti non cattolici che hanno a cuore la libertà di pensiero di tutti. Al Cern, per capirci, il suo prede­cessore, Giovanni Paolo II è sta­to ricevuto con estremo rispet­to e interesse. Esattamente co­me il Dalai Lama. La grande maggioranza di chi lavora nel mondo scientifico non è catto­lica ma non per questo non a­scolta quel che dice il Papa.
Quanto fa male alla scienza i­taliana questo 'incidente'?
Tanto. Oggi la scienza italiana è in condizioni difficili. Ha grandi difficoltà a sostenere il confronto con il resto del mon­do: scienza vuole dire dialogo, cultura, tecnologia e noi anno per anno subiamo tagli finan­ziari e insuccessi nella ricerca e nella didattica. Questi sono i veri problemi su cui dovrebbe­ro applicarsi i miei colleghi del­la Sapienza. Ma lo sa che nel te­st Pisa, con cui l’Unesco ogni anno misura la preparazione di tutti gli studenti del mondo, l’I­talia è fanalino di coda? Se uno studente è somaro è colpa sua, la stessa cosa vale per due o tre studenti, ma se lo sono tutti è colpa dell’insegnante.
Scienza e fede possono convi­vere?
La scienza deve fare la sua stra­da liberamente – ma nessuno lo nega e men che meno il Pa­pa – e produrre dei risultati , che spesso trovano un riflesso nelle religioni. Pensiamo al­l’assonanza tra la ricostruzio­ne del Big Bang e il linguaggio poetico e suggestivo della Ge­nesi. La religione non impedi­sce allo scienziato di andare a guardare come sono fatte le stelle. Gli scienziati studiano il cancro e cercano di miglio­rare la vita delle persone sen­za il bisogno di 'scontrarsi' con la religione. Del resto, que­sto episodio ha poco a che fa­re con la scienza. Il vero ricer­catore non va in giro a star­nazzare con pupazzetti che di­leggiano il Papa.


I rettori che vogliono il professor Ratzinger
Si sono già mossi gli atenei di Roma Tor Vergata, Firenze, Padova, Udine e quello di Modena-Reggio Emilia Critiche al laicismo che ha mosso i «sessantasette» della Sapienza

Avvenire, 18.1.2008
Se il Papa non può andare alla Sapienza, si moltiplicano gli atenei italiani che lo vogliono invitare a parlare. Tor Vergata a Roma, Padova, Firenze, Modena-Reggio Emilia, Udine. E altri ci stanno pensando. Alla faccia del 'non gradimento' espresso dai sessantasette che hanno innescato la miccia con la loro lettera al rettore Guarini. E in omaggio alla vera laicità, oltre che a un uomo (quasi) unanimemente stimato per la sua levatura intellettuale e per la sua caratura spirituale.
Dall’università dove insegnò un certo Galileo Galilei arrivano le parole del ret­tore Vincenzo Milanesi: «Benedetto XVI venga pure a Padova, lo aspettiamo. Lo inviterei volentieri a maggior ragione do­po quanto è accaduto». Non all’inaugu­razione dell’anno accaemico, precisa, ma comunque nel quadro di un even­to «di particolare rilevanza scientifica e culturale». E a proposito dei docenti del­la Sapienza che avevano eccepito sul­l’invito indirizzato a Ratzinger dal loro rettore, dice che «hanno contraddetto il principio stesso di quella laicità che han­no sbandierato. La laicità è saper ascol­tare per poi, eventualmente, dar vita al contraddittorio. Sostenere che far par­lare il Papa è inaccettabile, è il segno di una preoccupante deriva laicista».
Da parte sua Augusto Marinelli, rettore dell’ateneo fiorentino, fa sapere che la presenza di Benedetto XVI sarebbe «un grande evento. Parlerò con l’arcivesco­vo cardinale Ennio Antonelli per verifi­care questa possibilità e per avviare i passi necessari a formulare un invito». L’occasione potrebbe venire dalle cele­brazioni per l’anno galileiano in pro­gramma l’anno prossimo in tutta Italia, e in particolare in Toscana.
Si fa avanti anche il rettore del secondo ateneo romano, Tor Vergata. Non c’è nul­la di definito, «ma potrebbe accadere nel corso dell’anno», dice Alessandro Fi­nazzi Agrò. È convinto che alla Sapien­za abbia prevalso l’intolleranza e che «abbiamo perduto un’occasione di dia­logo e di riflessione cultu­rale. Penso che il sistema universitario dovrà pre­sentare delle scuse».
Il Papa, atteso ad Aquileia per il sedicesimo centena­rio della morte di San Cro­mazio, antico vescovo del­la città, è stato invitato da­gli studenti dell’università di Udine per il trentennale della fonda­zione, in autunno. «Nei prossimi giorni formalizzeremo l’invito a tenere una lec­tio magistralis – conferma il rettore Fu­rio Honsell –. Ritengo che il nostro pos­sa essere un atto positivo e concreto, in una situazione che rischia di trasfor­marsi nell’antitesi di ciò che l’università è: il luogo del dibattito pluralista». Hon­sell si dice «colpito e rammaricato» per il fatto che si preferisca «far tacere una voce che non si condivide».
Il senato accademico dell’università di Modena e Regio Emilia, in un docu­mento approvato all’unanimità, giu­dica la vicenda della Sapienza «una sconfitta per tutto il mondo accade­mico. Saremmo felici se il sommo Pon­tefice volesse onorare la nostra uni­versità con una sua visita». I docenti sono convinti che quanto è accaduto «compromette e indebolisce il nostro ruolo di maestri e l’intero mondo uni­versitario, che si dimostra sede di in­tegralismi e faziosità estranei ai valori di cui dobbiamo essere interpreti coe­renti e sinceri». Chissà se i «sessanta­sette » si aspettavano un simile effett­o­boomerang.
Giorgio Paolucci


Statale, aggrediti studenti di Cl
Distribuivano il discorso del Papa, attaccati con un idrante
Tensione all’università con i gruppi antagonisti Volantini e scritte sui muri contro Benedetto XVI Indagini affidate alla Digos
Avvenire, 18.1.2008
DI CESARE GIUZZI
A ggrediti, presi a male parole, insultati. Arrivano anche a Milano le tensioni scatena­te dalla mancata visita del Papa alla Sapienza di Roma. Ieri mattina un gruppo di circa 200 studenti di Co­munione e Liberazione sono stati oggetto di un’aggressione nell’atrio della Statale, in via Festa del Perdo­no. I ragazzi stavano volantinando il discorso che Benedetto XVI avrebbe dovuto pronunciare nell’Ateneo ro­mano, quando un gruppetto di gio­vani dei Collettivi di estrema sinistra e del mondo antagonista li hanno co­stretti a interrompere l’iniziativa a colpi di idrante.
Tutto è accaduto intorno alle 10. I giovani di Cl si trovavano nel corri­doio centrale dell’Ateneo davanti al­la Cusl quando una decina di ragaz­zi dei Collettivi, al primo piano di Scienze Politiche, li hanno sbeffeg­giati, urlando frasi contro Benedet­to XVI, poi li hanno bagnati con un idrante antincendio costringendoli ad abbandonare l’Università. Quan­do i ragazzi hanno dato l’allarme al­la polizia gli aggressori erano già spa­riti. «Ci hanno urlato 'ciellini', poi si sono avventati sui fogli con il di­scorso del Papa – racconta Matteo Forte –. Dopo i ragazzi sono aumen­tati e sono entrati nel cortile centra­le armati di vernice. Sui muri ester­ni sono comparse scritte contro Be­nedetto XVI. Infine hanno fato una breve sfilata con megafono insul­tando il Santo Padre».
Un’aggressione in piena regola, in­somma, sulla quale indaga la Digos. «Ci sono stati momenti di tensione, ma gli studenti non sono mai venu­ti alle mani – spiega la polizia –. Stia­mo lavorando per identificare i ra­gazzi presenti, ma quasi certamente si tratta di giovani dei Col­lettivi di estrema sinistra». Al momento dell’aggres­sione il rettore dell’Ateneo di via Festa del Perdono non era presente. Il perso­nale dell’Università è in­tervenuto poi insieme ai giovani di Cl per asciugare e rimettere in sicurezza il corridoio completamente allagato dal blitz antagonista.
A mezzogiorno gli studenti di Cl han­no ripreso il volantinaggio. «Già nei giorni scorsi un sito vicino a questi centri sociali, il globalproject.info, a­veva annunciato azioni di questo ti­po », ha spiegato uno studente. Sui muri dell’Università sono però com­parse diverse scritte a vernice spray contro il Papa e il Vaticano, mentre altre sono state tracciate nei bagni dell’Ateneo. Gli studenti di sinistra hanno anche affisso volantini con il volto del Santo Padre sfregiato con le scritte: «Non credere al lato oscu­ro della forza. Le università stanno con la Sapienza, fuori il Papa inqui­sitore ».



Il successore di Don Benzi rilancia la battaglia per la vita
“La moratoria contro l’aborto è più urgente di quella contro la pena di morte”


Di Antonio Gaspari
ROMA, giovedì, 17 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Con centocinquantotto voti su duecento il 13 di gennaio, Giovanni Paolo Ramonda, 47 anni, piemontese, è stato eletto come successore di don Oreste Benzi alla guida dell’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII per i prossimi sei anni.
I 200 delegati chiamati a votare sono arrivati al Palacongressi di Rimini con famiglie e assistiti al seguito, per un totale di 2000 persone.
Fin dagli interventi era emerso che il nuovo responsabile della Comunità – un’associazione internazionale di fedeli di diritto pontificio presente in 25 Paesi del mondo – non sarebbe stato un sacerdote ma un laico.
Due i nomi più citati dai votanti: Mara Rossi, medico riminese, consacrata laica, da molti anni missionaria in Africa; e Giovanni Paolo Ramonda, sposato con Tiziana Mariani, 3 figli naturali e nove accolti nella sua casa famiglia di Sant’Albano Stura, in provincia di Cuneo.
Tra le motivazioni che hanno spinto ad indicare Ramonda, oltre che la sua intensa vita spirituale e di condivisione con gli ultimi, anche la sua lunga esperienza a fianco di don Benzi: dal 1981 è stato infatti responsabile della Comunità per il Piemonte e dal 1998 vice responsabile generale.
Nato a Fossano (CN), il 3 maggio 1960, Ramonda ha conseguito il titolo di Magistero in scienze religiose presso la facoltà teologica di Torino, la laurea il Pedagogia con indirizzo psicologico presso la facoltà di Magistero di Torino ed è Consulente sessuologo assieme alla moglie.
In una intervista pubblicata da “Il Resto del Carlino”, il 14 gennaio, Ramonda ha affermato: “La mia elezione è sicuramente un riconoscimento a quello che ho fatto in questi anni, ma è soprattutto un dono. Sento una grande responsabilità, e una grandissima gioia nella missione a cui sono stato chiamato”
“Certo, don Oreste è insostituibile, ma sono sicuro che più che mai, ora che non c’è più, i suoi insegnamenti devono essere di stimolo e di esempio per tutti noi”, ha aggiunto.
In merito alle attività che l’associazione svolgerà, il nuovo responsabile della Giovanni XXIII ha spiegato: “Continueremo a condurre tutte le battaglie che don Oreste ha intrapreso in questi anni, ma ce n’è una che gli stava particolarmente a cuore, e sulla quale credo dobbiamo concentrarci: l’aborto”.
“Un’umanità che permette la repressione di una vita umana – ha sottolineato Ramonda - è un’umanità che deve fermarsi a riflettere”.
“Noi combatteremo per il riconoscimento del valore della vita – ha affermato –. La moratoria contro l’aborto è, probabilmente, ancora più necessaria e urgente di quella contro la pena di morte”.


LA SFIDA BIOETICA
Entro sei settimane la risposta dell’esecutivo.
Mauro: «Quando perfino il «padre» della pecora Dolly abbandona la distruzione delle cellule sarebbe puramente ideologico continuare»
Moratoria sugli embrioni: l’Europa adesso si muove - Interpellanza di un gruppo di deputati: fermate i fondi
Avvenire, 18.1.2008
DAL NOSTRO INVIATO A STRASBURGO
MARINA CORRADI
L o scienziato giapponese Shinya Yama­naka, che recentemente ha ottenuto staminali pluripotenti da cellule adul­te, potrebbe essere ascoltato dalla Commis­sione europea nell’ambito dell’iniziativa di un gruppo di eurodeputati che presenterà un’interrogazione tendente a ottenere una moratoria sulla ricerca che usa linee stami­nali embrionali, prevista e finanziata dal Set­timo programma quadro della Ue. Dopo la pubblicazione dello studio che ha convinto Ian Wilmut, creatore della pecora Dolly, ad abbandonare la ricerca sulle staminali em­brionali, in seno al Parlamento di Strasbur­go si lavora per far adottare la sostanza di quella moratoria proposta da Eugenia Roc­cella su Avvenire due mesi fa. «Ora che si sa che la ricerca più avanzata lavora sui tessuti adulti – ha detto Mario Mauro, vicepresidente del Parlamento, aprendo ieri l’Intergruppo di Bioetica – cerchiamo di convogliare i fon­di dell’Europa su questi studi. Insistere sulle staminali embrionali quando perfino Wil­mut le abbandona sarebbe puramente ideo­logico ». L’interrogazione porta la firma della Verde tedesca Hiltrud Breyer, di Mauro, di Carlo Ca­sini e al momento di un’altra dozzina di de­putati: fra gli italiani, Patrizia Toia, Iles Bra­ghetto, Vittorio Prodi. Il gruppo che si riunisce nella sala S2.2 del Parlamento è composto di Popolari – molti dell’Est – e Verdi tedeschi, ovvero quella cert’anima che mette insieme cat­tolici e ambientalisti nordici nel tentativo di difendere l’embrione dalla ricerca, dopo che il venir me­no della minoranza di blocco a causa della decisione dal ministro della Ricerca Mussi ha aperto que­sta possibilità.
La Commissione dovrà dare una risposta entro sei settimane, e la Breyer si dice ottimista: «L’inter­rogazione non deve sottoporsi al voto dell’aula: semplicemente la Commissione, preso atto dell’e­voluzione della ricerca interna­zionale, potrebbe privilegiare nei finanziamenti gli studi su stami­nali da tessuti adulti. La Commis­sione peraltro ha già ammesso che non esiste in Europa una ricerca su stami­nali embrionali finanziata da privati. E se i fondi privati mancano è un’ulteriore confer­ma del fallimento di questa ricerca, e non si vede perchè i fondi Ue debbano essere ero­gati a un’ipotesi superata».
Un invito a un contrordine, dunque. Se il pro­fessor Yamanaka verrà in audizione sarà dif­ficile non tenerne conto. Non tutti però con­dividono l’ottimismo della Breyer. Kathy Sin­nott, deputato irlandese, teme che possa non essere facile contraddire quella che per lei è una questione fondamentalmente ideologi­ca. Peter Liese, Verde tedesco, dice che co­munque è necessario «provare, e provare an­cora ». Vittorio Prodi, fratello del premier, leg­ge e firma: «Viste le nuove prospettive della ricerca, non vedo perché non si debba pen­sare a un ridirezionamento dei fondi Ue».
Fra i firmatari dell’interrogazione pro-mo­ratoria c’è anche un Verde italiano, che però ha un cognome tedesco in quanto vive vici­no a Chiusa, sul confine con l’Austria. Ono­revole, un Verde che firma un documento
pro-life? «I Verdi italiani risentono fortemente dell’influenza dei Radicali – risponde Sepp Kusstacher –, quelli tedeschi ritengono inve­ce che anche la vita umana, e non solo l’am­biente, meriti tutela. In effetti non capisco perché la protezione che chiediamo per gli animali non debba riguardare anche l’uo­mo ».
Purtroppo, sono dubbi che agli ambientali­sti vengono solo dal Brennero in su. E della moratoria sull’aborto proposta da Giuliano Ferrara, onorevole, che pensa? «Sono asso­lutamente d’accordo su una riflessione cul­turale, ma non a interventi legislativi». La stessa Breyer, pure personalmente contraria all’aborto, è perplessa. «Non vorrei che si fi­nisse col criminalizzare le donne. La strada contro l’aborto è l’aiuto concreto alle donne. In Germania lavoriamo a punti di ascolto in cui la donna possa restare anonima».
Gli italiani come Mauro e Casini vorrebbero portare la questione della moratoria sull’a­borto a conoscenza del Parlamento europeo con una petizione. Mauro ricorda tra l’altro che la Ue «finanzia organizzazioni come l’Unfpa, che promuovoo l’aborto, e che anzi nel 2002 sotto la presidenza Prodi venne de­cisa un’erogazione extra di 32 milioni di eu­ro per compensare la chiusura dei finanzia­menti decisa da Bush quando l’Unfpa ap­poggiò la politica di riduzione delle nascite in Cina». In Europa, afferma una ricerca del­l’Instituto de Politica familiar spagnolo, si praticano 141 aborti all’ora, 3385 al giorno. Ma una riflessione su questo non è all’ordi­ne del giorno.


Benedetto XVI e l’attualità della fede di Sant’Agostino
Intervento all'Udienza generale del mercoledì

CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 16 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale nell'Aula Paolo VI, dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nella sua riflessione, continuando il ciclo di catechesi sui Padri della Chiesa, si è soffermato ancora sulla figura di Sant’Agostino.

* * *
Cari fratelli e sorelle!
Oggi, come mercoledì scorso, vorrei parlare del grande Vescovo di Ippona, sant’Agostino. Quattro anni prima di morire, egli volle nominare il successore. Per questo, il 26 settembre 426, radunò il popolo nella Basilica della Pace, ad Ippona, per presentare ai fedeli colui che aveva designato per tale compito. Disse: "In questa vita siamo tutti mortali, ma l’ultimo giorno di questa vita è per ogni individuo sempre incerto. Tuttavia nell’infanzia si spera di giungere all’adolescenza; nell’adolescenza alla giovinezza; nella giovinezza all’età adulta; nell’età adulta all’età matura; nell’età matura alla vecchiaia. Non si è sicuri di giungervi, ma si spera. La vecchiaia, al contrario, non ha davanti a sé alcun altro periodo da poter sperare; la sua stessa durata è incerta… Io per volontà di Dio giunsi in questa città nel vigore della mia vita; ma ora la mia giovinezza è passata e io sono ormai vecchio" (Ep 213,1). A questo punto Agostino fece il nome del successore designato, il prete Eraclio. L’assemblea scoppiò in un applauso di approvazione ripetendo per ventitré volte: "Sia ringraziato Dio! Sia lodato Cristo!". Con altre acclamazioni i fedeli approvarono, inoltre, quanto Agostino disse poi circa i propositi per il suo futuro: voleva dedicare gli anni che gli restavano a un più intenso studio delle Sacre Scritture (cfr Ep 213, 6).
Di fatto, quelli che seguirono furono quattro anni di straordinaria attività intellettuale: portò a termine opere importanti, ne intraprese altre non meno impegnative, intrattenne pubblici dibattiti con gli eretici – cercava sempre il dialogo – intervenne per promuovere la pace nelle province africane insidiate dalle tribù barbare del sud. In questo senso scrisse al conte Dario, venuto in Africa per comporre il dissidio tra il conte Bonifacio e la corte imperiale, di cui stavano profittando le tribù dei Mauri per le loro scorrerie: "Titolo più grande di gloria – affermava nella lettera - è proprio quello di uccidere la guerra con la parola, anziché uccidere gli uomini con la spada, e procurare o mantenere la pace con la pace e non già con la guerra. Certo, anche quelli che combattono, se sono buoni, cercano senza dubbio la pace, ma a costo di spargere il sangue. Tu, al contrario, sei stato inviato proprio per impedire che si cerchi di spargere il sangue di alcuno" (Ep 229, 2). Purtroppo, la speranza di una pacificazione dei territori africani andò delusa: nel maggio del 429 i Vandali, invitati in Africa per ripicca dallo stesso Bonifacio, passarono lo stretto di Gibilterra e si riversarono nella Mauritania. L’invasione raggiunse rapidamente le altre ricche province africane. Nel maggio o nel giugno del 430 "i distruttori dell’impero romano", come Possidio qualifica quei barbari (Vita, 30,1), erano attorno ad Ippona, che strinsero d’assedio.
In città aveva cercato rifugio anche Bonifacio, il quale, riconciliatosi troppo tardi con la corte, tentava ora invano di sbarrare il passo agli invasori. Il biografo Possidio descrive il dolore di Agostino: "Le lacrime erano, più del consueto, il suo pane notte e giorno e, giunto ormai all’estremo della sua vita, più degli altri trascinava nell’amarezza e nel lutto la sua vecchiaia" (Vita, 28,6). E spiega: "Vedeva infatti, quell’uomo di Dio, gli eccidi e le distruzioni delle città; abbattute le case nelle campagne e gli abitanti uccisi dai nemici o messi in fuga e sbandati; le chiese private dei sacerdoti e dei ministri, le vergini sacre e i religiosi dispersi da ogni parte; tra essi, altri venuti meno sotto le torture, altri uccisi di spada, altri fatti prigionieri, perduta l’integrità dell’anima e del corpo e anche la fede, ridotti in dolorosa e lunga schiavitù dai nemici" (ibid., 28,8).
Anche se vecchio e stanco, Agostino restò tuttavia sulla breccia, confortando se stesso e gli altri con la preghiera e con la meditazione sui misteriosi disegni della Provvidenza. Parlava, al riguardo, della "vecchiaia del mondo" – e davvero era vecchio questo mondo romano –, parlava di questa vecchiaia come già aveva fatto anni prima per consolare i profughi provenienti dall’Italia, quando nel 410 i Goti di Alarico avevano invaso la città di Roma. Nella vecchiaia, diceva, i malanni abbondano: tosse, catarro, cisposità, ansietà, sfinimento. Ma se il mondo invecchia, Cristo è perpetuamente giovane. E allora l’invito: "Non rifiutare di ringiovanire unito a Cristo, anche nel mondo vecchio. Egli ti dice: Non temere, la tua gioventù si rinnoverà come quella dell’aquila" (cfr Serm. 81,8). Il cristiano quindi non deve abbattersi anche in situazioni difficili, ma adoperarsi per aiutare chi è nel bisogno. È quanto il grande Dottore suggerisce rispondendo al Vescovo di Tiabe, Onorato, che gli aveva chiesto se, sotto l’incalzare delle invasioni barbariche, un Vescovo o un prete o un qualsiasi uomo di Chiesa potesse fuggire per salvare la vita: "Quando il pericolo è comune per tutti, cioè per vescovi, chierici e laici, quelli che hanno bisogno degli altri non siano abbandonati da quelli di cui hanno bisogno. In questo caso si trasferiscano pure tutti in luoghi sicuri; ma se alcuni hanno bisogno di rimanere, non siano abbandonati da quelli che hanno il dovere di assisterli col sacro ministero, di modo che o si salvino insieme o insieme sopportino le calamità che il Padre di famiglia vorrà che soffrano" (Ep 228, 2). E concludeva: "Questa è la prova suprema della carità" (ibid., 3). Come non riconoscere, in queste parole, l’eroico messaggio che tanti sacerdoti, nel corso dei secoli, hanno accolto e fatto proprio?
Intanto la città di Ippona resisteva. La casa-monastero di Agostino aveva aperto le sue porte ad accogliere i colleghi nell’episcopato che chiedevano ospitalità. Tra questi vi era anche Possidio, già suo discepolo, il quale poté così lasciarci la testimonianza diretta di quegli ultimi, drammatici giorni. "Nel terzo mese di quell’assedio – egli racconta – si pose a letto con la febbre: era l’ultima sua malattia" (Vita, 29,3). Il santo Vegliardo profittò di quel tempo finalmente libero per dedicarsi con più intensità alla preghiera. Era solito affermare che nessuno, Vescovo, religioso o laico, per quanto irreprensibile possa sembrare la sua condotta, può affrontare la morte senza un’adeguata penitenza. Per questo egli continuamente ripeteva tra le lacrime i salmi penitenziali, che tante volte aveva recitato col popolo (cfr ibid., 31,2).
Più il male si aggravava, più il Vescovo morente sentiva il bisogno di solitudine e di preghiera: "Per non essere disturbato da nessuno nel suo raccoglimento, circa dieci giorni prima d’uscire dal corpo pregò noi presenti di non lasciar entrare nessuno nella sua camera fuori delle ore in cui i medici venivano a visitarlo o quando gli si portavano i pasti. Il suo volere fu adempiuto esattamente e in tutto quel tempo egli attendeva all’orazione" (ibid.,31,3). Cessò di vivere il 28 agosto del 430: il suo grande cuore finalmente si era placato in Dio.
"Per la deposizione del suo corpo – informa Possidio – fu offerto a Dio il sacrificio, al quale noi assistemmo, e poi fu sepolto" (Vita, 31,5). Il suo corpo, in data incerta, fu trasferito in Sardegna e da qui, verso il 725, a Pavia, nella Basilica di San Pietro in Ciel d’oro, dove anche oggi riposa. Il suo primo biografo ha su di lui questo giudizio conclusivo: "Lasciò alla Chiesa un clero molto numeroso, come pure monasteri d’uomini e di donne pieni di persone votate alla continenza sotto l’obbedienza dei loro superiori, insieme con le biblioteche contenenti libri e discorsi suoi e di altri santi, da cui si conosce quale sia stato per grazia di Dio il suo merito e la sua grandezza nella Chiesa, e nei quali i fedeli sempre lo ritrovano vivo" (Possidio, Vita, 31, 8). È un giudizio a cui possiamo associarci: nei suoi scritti anche noi lo "ritroviamo vivo". Quando leggo gli scritti di sant’Agostino non ho l’impressione che sia un uomo morto più o meno milleseicento anni fa, ma lo sento come un uomo di oggi: un amico, un contemporaneo che parla a me, parla a noi con la sua fede fresca e attuale. In sant’Agostino che parla a noi, parla a me nei suoi scritti, vediamo l’attualità permanente della sua fede; della fede che viene da Cristo, Verbo Eterno Incarnato, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo. E possiamo vedere che questa fede non è di ieri, anche se predicata ieri; è sempre di oggi, perché realmente Cristo è ieri oggi e per sempre. Egli è la Via, la Verità e la Vita. Così sant’Agostino ci incoraggia ad affidarci a questo Cristo sempre vivo e a trovare così la strada della vita.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Mi rivolgo ora con affetto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto voi, rappresentanti dell’Associazione Italiana Allevatori, realtà importante per l’economia del Paese, e vi esorto ad operare sempre più nel rispetto dell’ambiente e in favore della sicurezza alimentare dei cittadini. La festa liturgica del vostro patrono sant’Antonio Abate, che celebreremo domani, susciti in voi il desiderio di aderire con crescente generosità a Cristo e testimoniare con gioia il suo Vangelo. Saluto poi gli esponenti della Biblioteca Roncioniana, di Prato e le Piccole Sorelle dei Poveri. Vi ringrazio tutti per la vostra presenza ed invoco su ciascuno la continua assistenza divina.
Saluto, infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. L’esempio di Sant'Antonio Abate, insigne padre del monachesimo che molto lavorò per la Chiesa, sostenendo i martiri nella persecuzione, incoraggi voi, cari giovani, a ricercare costantemente e a seguire fedelmente Cristo; conforti voi, cari malati, nel sopportare con pazienza le vostre sofferenze e ad offrirle affinché il Regno di Dio si diffonda in tutto il mondo; ed aiuti voi, cari sposi novelli, ad essere testimoni dell'amore di Cristo nella vostra vita familiare.
[APPELLO DEL SANTO PADRE]
Dopodomani, venerdì 18 gennaio, inizia la consueta Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, che quest’anno riveste un valore singolare poichè sono trascorsi cento anni dal suo avvio. Il tema è l’invito di San Paolo ai Tessalonicesi: "Pregate continuamente" (1 Tes 5,17); invito che ben volentieri faccio mio e rivolgo a tutta la Chiesa. Sì, è necessario pregare senza sosta chiedendo con insistenza a Dio il grande dono dell’unità tra tutti i discepoli del Signore. La forza inesauribile dello Spirito Santo ci stimoli ad un impegno sincero di ricerca dell’unità, perché possiamo professare tutti insieme che Gesù è l’unico Salvatore del mondo.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]



Lo facesti di poco inferiore agli angeli
di Francesco Agnoli
Si dice che Teresa d’Avila, meditando il padre nostro, si fermasse alle prime due parole, padre
nostro, appunto, come un piccolo bimbo che dice solo “babbo, o mamma”, e non ha bisogno di dire
altro, perché ha già espresso tutto; perché in quel dolci suoni vi è tutto il suo universo, tutta la sua
fiducia, il suo totale abbandono.
Ciò di cui il bambino ha bisogno, il padre lo sa, e il bimbo, che invece non lo comprende appieno, si
affida. Era sufficiente, per Teresa, pensare alla sua dignità di figlia di Dio, all’idea di avere un Padre
che la amava, per lei, solo per lei, e per tutti, per sentirsi felice, serena, gioiosa, anche di fronte al
dolore. Secoli più tardi Teresa del Bambin Gesù avrebbe fondato la sua spiritualità sull’abbandono,
sulla fiducia in Dio, convinta che “tutto è grazia”, che anche nelle vicende più tristi della vita vi è
un significato, che alla fine risplende, o che magari agli occhi degli uomini rimane occulto, ma si
svelerà poi, alla fine di tutto, quando saranno resi noti i pensieri dei cuori e tutto si chiarirà, alla luce
di Dio. Con queste convinzioni vivevano anche i contadini del medioevo, anche gli uomini di un
tempo, quelli che videro carestie, pestilenze, quelli che assistettero a invasioni, e congiure, quelli
per i quali la morte prematura, di un figlio, di una moglie, di un marito in guerra, non erano cose
così rare…
Eppure costoro ritenevano per vere le parole del salmista: “ Che è l’uomo perché te ne ricordi?...Lo
facesti di poco inferiore agli Angeli”. Che ci credessero ce lo dicono le poesie, le lapidi, le chiese
grandiose, i canti della cristianità del passato: Rorate caeli desuper et nubae pluant Iustum… Dio
era piovuto dal cielo e aveva preso dimora tra gli uomini, cioè gli uomini erano divenuti degni di
Dio, a causa di una colpa, ma di una felix culpa. La colpa, insomma, rimaneva, il senso della
propria miseria pure, ma accanto ad essa l’idea di una dignità, dell’uomo, veramente grandiosa. Non
si chiamava, questa concezione, umanesimo, ma era sicuramente qualcosa di più, una visione
dell’uomo ben più alta di quella degli stessi umanisti. Oggi, dopo i secoli della miscredenza e del
dubbio, quest’idea sembra sempre più impossibile: siamo tutti orfani, vuoi perché siamo nati dopo i
gulag e i lager, vuoi perché ci consideriamo, come J. Monod, “zingari al margine dell’universo”,
cancri del pianeta, nient’altro che animali, “evoluti per caso”.
Per questo la speranza è una virtù che non ci appartiene più: crediamo di sapere, di aver indagato i
misteri, le vie del Signore, di aver visto che non portano da nessuna parte, e, chiusi nel nostro
bozzolo, come se la storia fosse finita, chiudiamo tutte le porte alla speranza, ridotta, come in
Baudelaire, ad un pipistrello che non riesce ad alzarsi in volo, bloccato da un soffitto basso e
marcito. Nella vita di tutti i giorni, l’assenza di speranza significa chiusura alla famiglia, ai figli, alla
provvidenza; significa ansia per la carriera, necessità di avere tutto sotto controllo, calcolo e misura
in ogni cosa, anche nell’amore. Siamo tanti personaggi ingessati, che non si fidano di nessuno che
non hanno un padre celeste, e che avanzano “contando” sulle proprie misere forze. Per questo il
papa nella sua enciclica ha voluto ribadire che “il cielo non è vuoto . La vita non è un semplice
prodotto delle leggi e della casualità della materia, ma in tutto e contemporaneamente al di sopra di
tutto c’è una volontà personale, c’è uno spirito che in Gesù si è rivelato come Amore”. In questo sta
la nostra speranza, cioè la nostra certezza.
Questa posizione non è solo dei semplici e degli ignoranti. E’, ad esempio, anche quella di un
famoso scienziato, Owen Gingerich, professore di astronomia e di storia della scienza all’Università
di Havard, autore di un libro affascinante: “Cercando Dio nell’universo” (Lindau). Gingerich parte
nelle sue riflessioni da Keplero, quando alla fine del suo “Harmonices mundi”, riecheggiando un
salmo di lode, scriveva: “grande è il Signore nostro, grande è la sua sapienza, non ha confini;
lodatelo voi, o cieli, lodatelo voi, o Sole, o Luna, o Pianeti, qualunque senso per percepire e
qualunque lingua adoperiate per manifestare il vostro Creatore; lodatelo voi, o armonie dei cieli,
lodatelo voi che osservate le armonie manifeste; loda anche tu, anima mia, il Signore creatore tuo
finché vivrò…”.
Con la stesso entusiasmo di Keplero, secoli dopo, l’astronomo Gingerich fa le sue professioni di
fede: afferma di credere “nel disegno intelligente” (ma non nell’ Intelligent Design), negli attributi
di “origine divina”, “creatività, coscienza e consapevolezza, che è poi autoconsapevolezza: tutti
caratteri essenzialmente umani”, e scrive: “sono persuaso della presenza, al di sopra e all’interno del
cosmo, di un Creatore dotato di una intelligenza superiore. Credo inoltre che il contesto offertoci
dal nostro universo, così ricco di elementi confacenti al genere umano e tale da permettere e da
incoraggiare l’esistenza di forme di vita consapevoli, faccia parte del disegno e dello scopo di un
Creatore”. E ancora: “può darsi che l’universo sia come una grande pianta il cui fine ultimo è dare
vita a un piccolo bellissimo fiore. E può darsi che quel piccolo, bellissimo fiore sia proprio l’uomo”,
mentre “gli evoluzionisti che rifiutano qualsiasi teleologia e che, nel dichiarare il loro credo in una
sorte di roulette cosmica, parlano di un universo assolutamente privo di scopo, non stanno
presentando un fatto scientifico dimostrato; essi, piuttosto, stanno difendendo le loro personali prese
di posizione in ambito metafisico”.


Commento al documento “Famiglia e procreazione umana”

Presentato dal Cardinal Alfonzo López Trujillo all’Università Urbaniana
Di Luca Marcolivio
ROMA, giovedì, 17 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Il 15 gennaio è stato presentato presso la Pontificia Università Urbaniana, alla presenza di illustri personalità laiche ed ecclesiastiche, il volume dal titolo “Famiglia e procreazione umana. Commenti sul documento” (Libreria Editrice Vaticana).
L'opera si pone come testo di approfondimento e riflessione al documento “Famiglia e procreazione umana”, che è stato pubblicato dal Pontificio Consiglio per la Famiglia nel giugno 2006, in occasione del venticinquesimo anniversario di questa istituzione vaticana.
La conferenza è stata moderata da padre Gianfranco Grieco, OFM, capoufficio del Pontificio Consiglio per la Famiglia, e introdotto dal Rettore dell’Urbaniana, monsignor Ambrogio Spreafico, che ha sottolineato in modo particolare il carattere di “universalità” del concetto di famiglia, travalicante le epoche e le culture, e il fondamento biblico (Genesi) dell’istituto familiare.
È seguita la prolusione più lunga e più attesa: quella del Cardinal Alfonzo López Trujillo, Presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia. Esaurito il preambolo riguardante l’origine del documento, il porporato ha esordito richiamandosi al rapporto tra famiglia e demografia.
“È curioso – ha affermato López Trujillo – che taluni, senza alcuno studio approfondito, abbiano osato presentare come ideale demografico, la proposta di un solo figlio per famiglia, analogamente alla Sacra Famiglia di Nazareth”.
Prendendo ad esame i dati demografici dell’ultimo secolo, il Cardinale ha rilevato come le prospettive di un boom devastante della natalità, a livello mondiale, siano state smentite dalla realtà dell’ “inverno demografico” che coinvolge soprattutto l’Europa.
Citando il saggio La Peste Blanche dei francesi Pierre Chaunu e Georges Suffret, pubblicato nel 1976, il porporato colombiano ha parlato di “peste bianca”, intesa come “generalizzata mancanza di speranza, l’indifferenza per la vita, il rifiuto di tutto il sistema dei valori, l’egoismo presentato come la più raffinata delle arti”. Un nichilismo che ha come conseguenza un “suicidio collettivo”, anche demografico.
Il Cardinale ha quindi sottolineato il “legame strettissimo tra vita e procreazione umana” ed ha ricordato, citando l’enciclica Humanae Vitae, l’esistenza di un “significato di amore coniugale e di apertura alla vita umana, che non può essere seppellito da un atteggiamento di difesa della coscienza individuale e da una libertà incapace di aprirsi agli altri”.
Altro documento citato è stato la Familiaris Consortio per il quale “la procreazione umana non è riducibile a ciò che è meramente biologico”. “In questo senso – ha aggiunto Trujillo – l’essere umano non è un prodotto ma il luogo di una vera promozione umana che esige dai genitori, e anche dalla società, un amore tenero, un impegno insostituibile, cioè di coloro che sono alleati di Dio, nel dono miracoloso della vita umana”.
L’illiceità dell’aborto, in questo senso, è favorita dalla confusione tra legge e morale, “l’atteggiamento per il quale i delitti diventano diritti” e che conduce all’inganno dell’ “aborto sicuro” che, non meno di qualsiasi altra pratica abortiva, procura sempre e comunque la “crudele e inumana eliminazione della persona umana, del bambino, di colui che ha diritto a nascere”.
Altro ‘mito’, stigmatizzato dal Pontificio Consiglio per la Famiglia, è quello del cosiddetto “aborto raro”, l’aspirazione alla riduzione numerica delle interruzioni di gravidanza, che, comunque, ha “scatenato il più grande massacro mondiale conosciuto dalla storia dell’umanità, che porta a cancellare ogni anno una nazione pari alla popolazione dell’Italia”.
In conclusione del suo intervento, il Cardinale ha invitato a prendere ancor più sul serio il diritto alla vita del nascituro e anche la proposta di una moratoria sull’aborto, avanzata lo scorso mese dal Direttore de Il Foglio, Giuliano Ferrara.
Sono seguiti gli interventi di monsignor Angelo Amato, Segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, che ha illustrato struttura e contenuti di Famiglia e procreazione umana e del professor Michael Waldstein, Presidente dell’Istituto Teologico internazionale per gli Studi su Matrimonio e Famiglia (Austria) e membro laico del Pontificio Consiglio per la Famiglia.
“Un bene comune – ha esordito Waldstein – è un bene che molte persone possono condividere senza doverlo ridurre o dividere”. In quest’ottica la pace, anche nell’ambito di una famiglia è “un vero bene comune”.
Al tempo stesso “il bene comune della famiglia viene prima di quello della comunità politica”, ha aggiunto il teologo che, richiamandosi a Famiglia e procreazione umana, ha indicato una “circolarità tra famiglia e società”. “La famiglia viene ordinata alla società e questa si ordina al servizio della famiglia”, si legge nel testo.
C’è però un ulteriore passaggio in quanto “la famiglia è anche ordinata al bene comune della Chiesa”. Citando il teologo “M.J.Scheeben (1835-1888), Waldstein ha affermato: “Quando si uniscono l’uno all’altra (uomo e donna) possono farlo in giustizia solo per lo stesso scopo che Cristo persegue nel suo legame con la Chiesa per estendere il corpo mistico”.
I rischi di una deriva eugenetica sono stati illustrati, attraverso numerosi esempi pratici, da Eugenia Roccella, giornalista e portavoce del Family Day. Analizzando il termine ‘tecnoscienza’, Roccella, ha subito evidenziato l’odierna concezione di una “scienza fondata sulla tecnica, più che sull’acquisizione della conoscenza”.
“L’irruzione della tecnoscienza sulla procreazione – ha proseguito Roccella – sta modificando in modo radicale le relazioni tra uomo e donna” ma soprattutto “la genitorialità e l’autopercezione del figlio”. Cresce, nel contempo, il ricorso alla fecondazione in vitro che, oltre a impedire a molti bambini nati la conoscenza del proprio padre naturale, condanna i nati con questa tecnica ad una molto probabile sterilità.
Inoltre gli esseri umani concepiti in vitro “sono spesso prematuri e sottopeso”, “con un più alto tasso di disabilità alla nascita”. Da questa tecnica, ha ricordato la Roccella, scaturiscono anche frequenti gravidanze multiple che spesso si risolvono nella “riduzione fetale”, ovvero “l’aborto di alcuni feti per permettere ad altri di svilupparsi”.
La “postmodernità tecnoscientifica” ha avuto come conseguenza “una frattura che non abbiamo mai sperimentato nel corso del tempo in modo così drastico ed assoluto”, che “ci allontana dal passato, dalla tradizione, dall’esperienza, in un certo senso da noi stessi”.
Tra le altre conseguenze della tecnoscienza c’è una concezione del corpo ridotto a mero “composto biochimico, materia che si può manipolare in laboratorio” o, al più, a “linguaggio, pura attività simbolica”. E il figlio, “sganciato dalle relazioni d’amore tra uomo e donna”, diventa “oggetto di consumo” e “realizzazione di un desiderio personale”.
Quest’ultimo atteggiamento “inquina il significato primario di maternità”, la quale si esprime naturalmente come “non scelta”, ovvero “accoglienza a prescindere da ogni condizione”. “È un amore non meritato, che tocca a ciascuno di noi come figlio, e non ci viene dato perché siamo buoni, belli o intelligenti” ma anche se “siamo brutti, disgraziati e con difetti fisici”.
Siamo dunque, secondo Roccella, sull’orlo di una “società postumana”, nell’ambito della quale i vecchi concetti pro-life, a difesa della vita, non sono più adeguati: anche l’embrione creato in laboratorio è vita, anche gli ibridi e le chimere sono vita”.
Si palesa, quindi, il paradosso di una “società totalitaria in nome dei diritti individuali”. Una sorta di “totalitarismo genetico” che passa “attraverso l’utopia scientista” e che pretende di “dividere l’umanità tra chi ha diritto di nascere e chi no”.
Uno scenario dittatoriale nell’ambito del quale l’istituzione familiare è presa di mira, in quanto la famiglia, per dirla con G.K.Chesterton è “una cellula anarchica”, perché è “una zona cuscinetto tra l’individuo e la società, l’individuo e i poteri esterni, in primo luogo quelli dello Stato”.
“In essa – ha proseguito Roccella – non esistono criteri di efficienza economica e i primi sono gli ultimi. Si privilegia il debole, il malato e il piccolo; è il luogo dello scambio affettivo, del dono, dell’amore gratuito, dell’affidamento reciproco: si dà secondo i bisogni, si cura, si accoglie”. La famiglia è quindi “il luogo di resistenza naturale alla utopie di perfettibilità, all’esercizio dell’ingegneria sociale”, alla cui seduzione “l’individuo da solo non può resistere”.
La relazione conclusiva è stata affidata a monsignor Klaus Kung, consultore del Pontificio Consiglio per la Famiglia, il quale ha denunciato la “mentalità contraccettiva” come uno dei “fattori determinanti della denatalità”, affermando che “specie nell’ambito delle convivenze more uxorio la contraccezione diventa in un certo senso una pratica ‘obbligata’”.
“Matrimonio e famiglia possono avere esito felice – ha concluso – se i problemi ad essi inerenti sono affrontati con la fede. Sul piano pratico è giusto che le decisioni delle famiglie, in specie modo la nascita dei figli, non debbano essere condizionate dagli svantaggi economici”.