mercoledì 16 gennaio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:


1) Annullamento della visita di Benedetto XVI all’Università “La Sapienza”: a) comunicato della Santa Sede; b) Povera Chiesa, anzi povera Italia di Michele Brambilla; c) Mai accaduto prima: l’Italia tappa la bocca a Benedetto XVI di Andrea Tornielli; d) I 67 rivoluzionari che tengono famiglia
2) «Sacerdoti dell’ideologia laicista che hanno paura di confrontarsi»
3) IL TRIBUNALE DELL’INTOLLERANZA - HANNO ATTACCATO L’UOMO PIÙ INDIFESO
4) Papa Ratzinger amico della scienza
5) l’intervista Antiseri: «Laicisti. E hanno equivocato»
6) PAPA ALLA SAPIENZA. Galli Della Loggia: una sconfitta del Paese
7) I MEDIA E I CATTOLICI Radio Maria, fede in libertà
8) Cristiani ed ebrei uniti nel Nome
9) Ruini: la sfida educativa è aprire il cuore a Dio


COMUNICATO DELLA SALA STAMPA DELLA SANTA SEDE
Nel pomeriggio la Sala Stampa della Santa Sede ha rilasciato il seguente comunicato:
A seguito delle ben note vicende di questi giorni in rapporto alla visita del Santo Padre all’Università degli Studi "La Sapienza" di Roma, che su invito del Rettore Magnifico avrebbe dovuto verificarsi giovedì 17 gennaio, si è ritenuto opportuno soprassedere all’evento. Il Santo Padre invierà, tuttavia, il previsto intervento.
1) Povera Chiesa, anzi povera Italia di Michele Brambilla
2) Mai accaduto prima: l’Italia tappa la bocca a Benedetto XVI di Andrea Tornielli
3) I 67 rivoluzionari che tengono famiglia

1) Povera Chiesa, anzi povera Italia

di Michele Brambilla
Poiché oggi saranno tutti una voce sola nel difendere Benedetto XVI, vediamo di piantare qualche paletto che ci permetta di distinguerci dal coro.
Primo. Attenzione a chi parla di «rinuncia». Il Papa non ha rinunciato: è stato costretto a rinunciare. Lo sanno tutti che il ministero degli Interni non aveva garantito il tranquillo svolgimento della giornata. Ratzinger se ne infischia della propria incolumità, ma non ha voluto mettere a rischio quella degli altri. Per questo lui ha fatto bene a lasciar perdere, ma al Viminale farebbero bene a vergognarsi.
Secondo. Il ministero degli Interni ha già altre figuracce simili nel proprio cursus honorum: non aveva potuto garantire neppure la sicurezza di Bush a Trastevere. Ma è colpevole solo in seconda battuta. In prima, sono colpevoli i 67 docenti della Sapienza che hanno acceso la miccia. Cominciando con il contestare un discorso del Papa su Galileo che evidentemente non hanno mai letto, come documenta il nostro Andrea Tornielli a pagina tre; quindi aizzando le teste calde di tutta Italia; infine ieri, a frittata fatta, facendo pateticamente marcia indietro. Fulgido esempio di hombre vertical, hanno «precisato» che la loro contestazione non era rivolta al Papa ma al rettore. Ha detto bene Casini: «Se questi sono i professori dei nostri figli, c’è da avere paura del futuro».
Terzo. Questi 67 tuttavia non nascono dal nulla. Alla faccia di quel che dicono i Flores d’Arcais e le Bonino («C’è un’egemonia clericale sulla nostra cultura»), in Italia è vietatissimo urtare la sensibilità dei fedeli delle altre religioni, magari anche solo con una fetta di salame nelle mense scolastiche: ma è lecito, lecitissimo sputare addosso alla Chiesa in nome della libertà. Certe volgarità al Gay Pride, le prime pagine sul «pastore tedesco» e le battute grevi dei matematici-scrittori («Ratzinger avrebbe dovuto chiamarsi Adolfo I») sono permesse, anzi applaudite nei salotti bene.
Quarto. Non si invochi la libertà di critica. Quella è fuori discussione. Ma i barricadieri della Sapienza non volevano «criticare», volevano impedire al Papa di parlare. Come i fascisti - lo ha ricordato Galli della Loggia sul Corriere - che nel ’23-24 impedirono a Salvemini e Calamandrei di far lezione.
Quinto. Attenzione anche a chi difende il Papa citando Voltaire. A volte lo scopo ultimo è affermare questo: che se tutti hanno comunque diritto di parola, ce l’ha perfino Ratzinger. Ora, il Papa lo si può condividere o no, ma i «comunque» e i «perfino» si applicano a chi porta idee aberranti. E non è questo il caso.
Insomma quella di ieri è stata una giornata nera. Non per la Chiesa - il cristianesimo anzi è tanto più vincente quanto più è apparentemente perdente - ma per l’Italia. E per la ragione.
Il Giornale 16 gennaio 2008

2) Mai accaduto prima: l’Italia tappa la bocca a Benedetto XVI
Wojtyla annullò soltanto i viaggi in Libano e nell’ex Jugoslavia per motivi di guerra. Il rettore: «Sono rammaricato». Cl: «Che vergogna»
di Andrea Tornielli
Il comunicato della Sala Stampa era atteso per le 17 e a quell’ora è arrivato. Un testo asciutto, per nulla polemico, lapidario, anche se senza precedenti. Per dire che Benedetto XVI domani non andrà alla Sapienza. «A seguito delle ben note vicende di questi giorni in rapporto alla visita del Santo Padre all’Università degli studi La Sapienza, che su invito del rettore magnifico avrebbe dovuto verificarsi giovedì 17 gennaio, si è ritenuto opportuno soprassedere all’evento. Il Santo Padre invierà, tuttavia, il previsto intervento». Motivi di opportunità, dunque, per una scelta di grande responsabilità. Era accaduto due volte, in 27 anni di pontificato itinerante, che Giovanni Paolo II rinunciasse a un viaggio. Papa Wojtyla, per motivi legati alla sicurezza, dovette annullare prima il viaggio a Beirut, previsto per l’11 aprile 1994, poi quello a Sarajevo, annunciato per l’8 settembre di quello stesso anno. In entrambi i casi, a costringere il Pontefice a fare dietrofront erano stati problemi legati non tanto (o non solo) alla sicurezza della sua persona, quanto piuttosto a quella dei fedeli che lo avrebbero accolto. Wojtyla rimediò andando prima a Sarajevo e poi in Libano a poche settimane di distanza, nel 1997.
Il paragone appare incongruo - allora si trattava di zone appena uscite dalla guerra -, qui si tratta di una cerimonia nell’aula magna di un ateneo romano, ma la motivazione che ne sta alla base, alla fine, è la stessa. Evitare i preannunciati incidenti.
Papa Ratzinger non teme e non ha mai temuto per la sua incolumità: «Pregate - disse inaugurando il pontificato - perché non scappi davanti ai lupi». Nel novembre 2006, nonostante gli inviti contrari e il clima non certo sereno, Benedetto XVI ha scelto comunque di recarsi in Turchia, prima ad Ankara e poi a Istanbul, accogliendo l’invito del patriarca ecumenico Bartolomeo e sfruttando l’occasione della visita nella Moschea Blu per lanciare un segnale di dialogo e di amicizia al mondo islamico dopo il fraintendimento di Ratisbona. Questa volta, di fronte alla possibilità concreta di scontri tra studenti e di scontri tra studenti e polizia, ha deciso di rinunciare a un appuntamento - la presenza all’università - che evidentemente né lui né i suoi più stretti collaboratori hanno giudicato indispensabile.
«Apprendo della decisione della Santa Sede e la rispetto, anche se con rammarico - ha dichiarato il rettore della Sapienza, Renato Guarini -. L’incontro con il Pontefice poteva rappresentare un momento importante di riflessione per credenti e non credenti su problemi etici e civili, quale l’impegno per l’abolizione della pena di morte, che sono la linfa vitale del nostro lavoro didattico». «L’ascolto della voce di uno studioso che ha scritto su temi del nostro tempo - ha detto ancora il rettore - sarebbe stato alimento per la libertà delle coscienze e per tutti coloro che si interrogano laicamente. Si conferma il regolare svolgimento della cerimonia di inaugurazione». Il discorso del Papa sarà distribuito ai presenti, in assenza di colui che l’avrebbe dovuto pronunciare.
L’annuncio ufficiale della cancellazione della visita ha provocato una valanga di reazioni. Un gruppo di un centinaio di professori e di ricercatori di vari atenei italiano, «di provenienza disciplinare prevalentemente scientifica e orientamento culturale anche diverso», ha firmato una lettera indirizzata al rettore Guarini, ritenendo «inaccettabile sia il tono, sia la forma, sia la sostanza delle lettere» inviate dai docenti di Fisica romani al rettore per bloccare la visita del Papa, con il «riferimento» a Galileo e la citazione avulsa «dal contesto e amputata di tutto il commento successivo». I firmatari esprimono la loro solidarietà a Guarini. Luigi Alici, presidente dell’Azione Cattolica italiana, ritiene «grave e incomprensibile» motivare un divieto di accesso «a prescindere», come se «un Papa che entra in università commettesse un abuso intollerabile, non per quello che potrebbe dire, ma per quello che rappresenta». Comunione e Liberazione, in un volantino che sarà distribuito nelle città italiane, parla di «un’altra vergogna»: «I Papi hanno potuto parlare ovunque nel mondo (Cuba, Nicaragua, Turchia, etc.). L’unico posto dove il Papa non può parlare è la Sapienza, un’università fondata, tra l’altro, proprio da un Pontefice». Cl attacca la «fatiscenza culturale dell’università italiana» e «l’incapacità del governo a garantire la possibilità di espressione sul territorio italiano».
Il Giornale 16 gennaio 2008

10) I 67 rivoluzionari che tengono famiglia
Già arrivano le prime defezioni nel fronte dei firmatari: criticavamo il rettore, non il Papa
Sessantasette scienziati, in fila per tre col resto di uno. Ultime dalla Sapienza, ce l’hanno fatta. Entusiasmo tra gli studenti, giovedì grasso, urrah tra i docenti, con un paio di lettere hanno rispedito a casa il dottor Ratzinger, come da loro viene chiamato ripetutamente, quasi con disprezzo, forse per il dottorato, forse per il cognome tedesco. Emergenza rifiuti anche all’università romana ma questo è un altro discorso che provocherebbe allergie e reazioni tra gli intolleranti. Sessantasette fisici, che non sono palestrati di gran moda, ma professori di scienze e affini, hanno vinto la loro battaglia, supportati e sopportati dalla solita banlieue studentesca.
In verità ieri pomeriggio, attorno alle cinque, si è capito di che tipo di combattenti si trattasse e si tratti. Fisici ma con scarso fisico. Basta leggere la buffa letterina di scuse, chiarimenti e richiesta di conciliazione, scritta in un attimo di pentimento, magari di nascosto, a luce bassa, nell’angolo del proprio ufficio, da Giancarlo Ruocco, direttore del Dipartimento di Fisica della Sapienza: «Nelle due lettere,la prima scritta il 14 novembre scorso dal fisico Marcello Cini, la seconda il 22 novembre, firmata da oltre 60 docenti che condividevano le posizioni di Cini e hanno deciso di appoggiare questa sua iniziativa chiedendo al rettore di rinunciare all’invito, non c’era alcun intento censorio nei confronti del Papa, bensì il desiderio di una parte della comunità accademica di esprimere la propria opinione in merito alla decisione del rettore. Queste lettere, infatti, erano rivolte al rettore che aveva fatto la scelta di inaugurare l’anno accademico, momento simbolico per l’inizio di un percorso formativo, proponendo come docente Benedetto XVI, ossia il maggior rappresentante culturale di una confessione religiosa».
Dunque la colpa è del rettore, Renato Guarini, lui è da crocifiggere, lui è il responsabile del pastrocchio, il Papa non c’entra, o meglio c’entra per colpa di Galileo da lui riprocessato a distanza di quasi mezzo millennio, giù le mani dal pendolo, fuori dalla Sapienza le tonache e i turiboli. Per la cronaca e il pettegolezzo, l’estensore della prima epistola, Cini Marcello, si era già fatto conoscere e riconoscere negli anni Settanta, scrivendo, sulle colonne del Manifesto (mensile), graziosi e postmoderni pensieri sulla scienza, cercando di limitarne ricerca e sviluppo per non avvantaggiare il capitale, anzi la prima e più importante scienza da sviluppare per il proletariato è «la critica dell’economia politica» e, rimpolpando la tesi «... nel regime capitalistico la scienza diventa mezzo di produzione e dunque di capitale, e in quanto tale si contrappone come potenza esterna all’operaio e lo schiaccia, rendendolo strumento di fini a lui estranei». Pensieri e parole del Cini rivolte non ai borghesi maiali ma al Pci colpevole di aver organizzato un convegno sulla ricerca scientifica, meglio il panino con la salamella.
Non contento dell’elaborato, il professore aggiungeva che «un esempio dell’uso alternativo della scienza andava da ritrovarsi in Cuba, nella Cina e nel Vietnam dove la scienza stessa era compagna di un impegno collettivo che scuote l’intera società, di una dura lotta contro l’imperialismo e i suoi valori, di uno slancio ideale per costruire il socialismo».
Trascurerei l’eliminazione fisica, non soltanto politica, di chi non la pensava e non la pensi ancora con lo slancio e l’impegno collettivo di cui sopra, questo, nella lettera novembrina del professor Cini, non appare. Ma Ruocco e i suoi fratelli, tra questi Carlo Bernardini (da mandare a memoria il passaggio finale di una sua intemerata contro la Moratti Letizia, dal titolo La straordinaria potenza delle ovvietà...«voglio essere privato di libertà cui ormai aspirano tutti... »), Giorgio Parisi, Carlo Costelli, Carlo Maiani, fresco di nomina alla presidenza del Cnr, Andrea Frova, tutti illustri professori, docenti, intellettuali, scienziati ma, in fondo in fondo, alla fine, proprio alla fine, non timorati di Dio ma timorosi degli eventi, perché tengono famiglia e, pur avendo tutte quelle medaglie sul petto e sotto il tocco, non riescono ad andare in guerra sul serio, preferendo sparare al bersaglio facile, il rettore Guarini e facendo la finta riverenza al dottor Ratzinger. Scrivono, infatti, Rocco e i suoi fratelli: «Nessuno, tanto meno i docenti della Sapienza, vuole esercitare un arrogante diritto censorio sulla libertà di espressione del pensiero religioso, o politico che sia». Balle, don Abbondio aveva più attributi. Ma il finale è strepitoso, perché, come accade con i calciatori, la colpa è dei giornalisti, Ruocco si rammarica che la stampa «abbia dato più rilievo a quella che si intendeva essere una lettera privata di un gruppo di docenti al loro rettore, ignorando invece la lettera aperta, pubblica di Marcello Cini, incoraggiando schieramenti estremisti che nulla hanno a che vedere con la discussione avvenuta due mesi fa tra docenti e rettore».
Dovrebbero ringraziare, se ci fossero anche le intercettazioni telefoniche, sai che Sapienzopoli. Comunque siamo tutti fratelli, i docenti, nelle righe finali del loro ultimo scritto «incoraggiano un confronto sulla libertà del pensiero laico, non confessionale né politico, nelle istituzioni di formazione dei giovani, per arrivare nel caso a un confronto sui luoghi della fede e i luoghi della conoscenza e su come e quando e dove sia lecito intrecciare fede e ragione». Come, quando, dove. Manca perché. I sessantasette, in fila per tre col resto di uno, non ce lo dicono. Peccato. Ho detto peccato?
di Tony Damascelli
Il Giornale 16 gennaio 2008


Ernesto Galli della Loggia
«Sacerdoti dell’ideologia laicista che hanno paura di confrontarsi»
Avvenire, 16.1.2008
DI PAOLO VIANA
Ha iniziato la giornata sca­gliandosi, dalle colonne del Corriere della Sera, contro il «laicismo obbligatorio» di Asor Rosa e sostenendo che la protesta contro la visita del Papa alla Sapienza non è poi tanto di­versa dalle «gazzarre organizza­te nel 1923-24 dagli studenti fa­scisti fiorentini per impedire a Salvemini e Calamandrei di te­nere lezione». L’ha conclusa prendendo atto che Benedetto XVI «ha deciso di non recitare la parte dell’ospite sgradito» e che, di questo passo, il laicismo rischia veramente di entrare nel cursus studiorum dell’università pubblica. Insomma, è stata pro­prio una pessima giornata, quel­la di ieri, per uno storico liberale come Ernesto Galli della Loggia, il quale commenta così l’offesa a Be­nedetto XVI: «Il pontefice non ha voluto recitare la parte dell’ospite sgradito e questa scelta, oltre a ri­flettersi sui rap­porti tra la Santa Sede e il nostro Paese, mette sotto gli occhi di tutti un problema reale». Quello di una in­tellighenzia che cerca di imporre «l’idea che in una democrazia la re­ligione debba es­sere esclusa da qualsiasi spazio pubblico». Idea «inquietante» che porta dritto a un «obbligatorio lai­cismo di Stato».
Chi vuole emargi­nare la religione dalle università i­taliane?
Siamo di fronte alla drammatizzazione di una tendenza che è incarnata da una minoranza, certo molto pugnace e con un grande ascolto nei mass media, ma che resta una mino­ranza, convinta del fatto che il punto di vista religioso non deb­ba essere rappresentato negli spazi pubblici e che la sua pre­senza violi il pluralismo, quasi che la declinazione del medesi­mo non fosse la presenza di tut­te le voci ma la cancellazione di quelle che questa minoranza considera incompatibili con i ca­noni dell’ortodossia democrati­ca. Quindi, fuori la religione e dentro sindacati e partiti, ma dentro anche l’ideologia della scienza, che questa minoranza considera voce della verità e non, invece, portatrice anch’essa di una sua ideologia.
Si direbbe la difesa conservatrice di chi si sente assediato.
In effetti, in questa visione quella scientifica è l’unica ideologia 'autorizzata'. Naturalmente chi lo sostiene spesso non si rende conto di difendere un’ideologia e pensa di essere portatore della verità sperimentale. Ma gli stori­ci sanno che la scienza ha sem­pre dietro di sé un’ideologia. Non saremmo arrivati, ad esempio, al­l’eliocentrismo senza il neopla­tonismo, che immaginò, prima di averne una dimostrazione scientifica, che il Sole fosse fermo e la Terra gli girasse intorno. Una scienza spoglia di ogni declina­zione ideologica rappresenta un sogno impossibile. O una bugia.
Ma perché scegliere proprio Benedetto XVI come nemico?
Caratteristica dello scientismo è considerarsi portatore della verità in lotta contro le tenebre e considerare che le tenebre per antonomasia sono le religioni e quella cattolica in particolare. Questo porta a travisare i pronunciamenti del Papa, dipinto come un arcangelo delle tenebre: molti dei suoi discorsi, a cominciare da quello in cui citò Feyerabend, sono stati fraintesi. Sviste che rivelano uno sfondo di faziosità, una propensione naturale a giocare senza fair- play.
Il caso Sapienza può essere il pri­mo gradino di una contestazio­ne più ampia?
Non vedo rigurgi­ti modello ’68. Ve­do piuttosto una novità: il crescente rilievo pubblico della religione, an­che in campo scientifico. I con­testatori della Sa­pienza sostengo­no, naturalmente, che questo è il prodotto dell’in­tromissione della religione nella po­­litica, mentre sono le nuove scoperte scientifiche a por­re problemi di ca­rattere morale e politico sui quali la Chiesa trova ne­cessario interveni­re, provocando la reazione dell’ideo­logia scientista. Lo scenario, franca­mente, mi pare molto diverso dal­le vecchie dispute universitarie tra destra e sinistra.
Nelle università lo scientismo è l’erede dell’ideologia comuni­sta?
La fine del comunismo ha lasciato molti orfani, particolarmente in quest’ambiente, dove parecchi, pur essendo uomini di scienza e quindi culturalmente molto attrezzati, sono vissuti per decenni nella sincera convinzione che Stalin realizzasse il comunismo. Con la stessa credulità fanciullesca hanno pensato di avere un rapporto privilegiato con la verità e quando il comunismo è finito si è imposta un’ideologia sostitutiva. Non mi stupisce che attecchisca tra studiosi che vivono come in un acquario, dove sono sempre tutti d’accordo, elaborano posizioni sempre più radicali, hanno consumato un sostanziale divorzio dalla sinistra parlamentare, considerano il Pd una massa di traditori, si sentono i sacerdoti della coerenza e elettori (eventuali) di Flores d’Arcais.
Quadretto inquietante: parliamo di gente che ogni giorno forma intere generazioni di italiani.
Effettivamente c’è un problema di regole da ridefinire: l’università deve elevare il proprio standard di attenzione per la verità, che impone anche di non travisare i fatti, e per la tolleranza, che esclude simili atteggiamenti censori.
Il Pontefice non ha voluto recitare la parte dell’ospite sgradito. Emerge sotto gli occhi di tutti l’idea che la religione debba essere esclusa dallo spazio pubblico



IL TRIBUNALE DELL’INTOLLERANZA - HANNO ATTACCATO L’UOMO PIÙ INDIFESO
Avvenire, 16.1.2008
CARLO CARDIA
Si può fare oggi il bilancio di un fatto gra­ve, che non fa onore all’Italia e al mondo della cultura, e che soltanto la scelta del Pa­pa di non andare alla Sapienza è riuscito a tra­sfigurare in una vittoria della tolleranza con­tro l’intolleranza.
Negare al Papa, come si è cercato di fare, il di­ritto di parola nel tempio della ricerca, e nel­l’epoca dei diritti umani, può sembrare un at­to grossolano. In parte lo è, ma è stato anche espressione di una sottile astuzia del male. C’è chi credeva di essere il detentore e il pa­drone dei diritti umani, di poterli dispensa­re o negare a chi voleva, a suo piacimento. Quasi un tribunale speciale ristrettissimo, che si era auto-investito del potere di giudi­care frasi e pensieri, scritti e parole, con lo stesso animo con cui i vari inquisitori giudi­cavano coloro che capitavano nel loro raggio di azione.
La sottile astuzia stava nel cambiare i ruoli dei protagonisti. Il tribunale, che minaccia e con­danna, diceva di farlo in nome della libertà di parola e di ricerca. Il Papa, che rappresen­ta e parla a nome dei più deboli e degli ulti­mi della Terra, veniva indicato ed esposto co­me persecutore. Fedor Dostoevskij non a­vrebbe saputo far meglio, di sicuro si sareb­be complimentato per la rinnovata capacità camaleontica del grande inquisitore.
Nei suoi giochi sottili il male pensa sempre di segnare almeno qualche punto a suo van­taggio. Però, quando si esagera in malizia l’in­ganno è presto scoperto. Perché l’accusato è conosciuto in tutto il mondo, parla e scrive della fede cristiana, in nome dei diseredati e a favore della speranza per i più deboli. Egli è il Papa più impegnato nel dialogo tra scien­za e fede. Non ha potere, né difese proprie, confida solo nel giudizio dei giusti.
Questo è il punto. La vita di Benedetto XVI si svolge di fronte a tutto il mondo, con gli scrit­ti, le parole, le preghiere, le scelte pastorali e quelle internazionali. Non ha pagine nasco­ste, né sconosciute, ma ogni gesto e ogni pa­rola del Pontefice incontrano i riflettori del mondo e lo sguardo dei popoli. Per questa ra­gione, il tribunale dell’intolleranza si sareb­be comunque scoperto incompetente a giu­dicare, perché idonei al giudizio sono gli uo­mini di tutto il mondo, i quali conoscono il Papa meglio dei suoi detrattori.
Questo le astuzie del male non l’avevano previsto. Nell’età dell’esposizione mediati­ca i processi segreti non si possono più fare, perché le prove sono sotto gli occhi di tutti, le sentenze prefabbricate non convincono più perché ciascuno vuole essere giudice imparziale. Il Papa non appartiene né ai nuo­vi inquisitori né ai suoi accusatori. Bene­detto XVI è a servizio dell’umanità, soprat­tutto di quella più bisognosa di conforto e di giustizia, e il diritto di parlare e insegna­re i contenuti della fede non gli potrà esse­re tolto da nessuno.
Dopo la rinuncia del Papa possiamo dire che l’unico risultato della brutta pagina scritta alla Sapienza di Roma è stato quello di ave­re umiliato la libertà e la cultura, di avere pri­vato il mondo universitario di una voce di pace e di tolleranza che ha sempre un respi­ro universale. La rinuncia del Papa è la scel­ta dei forti e dei miti, che non vogliono che la propria voce sia confusa, neanche indi­rettamente, con quella dell’intolleranza. Ma la voce del Papa resta la stessa di prima, ri­volta a tutti, anche a quanti volevano negar­gli il diritto di parlare. Nell’aula piena di ac­cademici giovedì prossimo ci sarà una as­senza che parlerà alla coscienza dei presen­ti molto più forte di qualsiasi discorso. La sag­gezza e l’umiltà hanno vinto due volte. I fau­tori dell’intolleranza sono rimasti nudi, po­tranno gridare solo contro se stessi.
Resta una riflessione sull’Italia. Dove il con­fronto civile e ideale corre il rischio di regre­dire, non perché c’è chi critica il Papa ma per­ché si è giunti alla censura preventiva, nel tentativo di innescare contrasti sempre più aspri che con il dibattito culturale non han­no parentela. Se si adottasse questo metodo di attacco in altri settori della vita civile, an­dremmo verso l’imbarbarimento della con­vivenza. Questo il vero problema che resta aperto e che richiederà una riflessione e un impegno molto seri. Un impegno perché pre­valga la virtù della tolleranza, la conoscenza vera e il rispetto delle idee degli altri. Bisogna ancora lavorare per conseguire questo tra­guardo di civiltà.


Francesco Paolo Casavola
«Si sperava che fossero passati i tempi bui del pensiero unico» Avvenire, 16.1.2008
DA ROMA
GIOVANNI GRASSO
«Un brutto precedente, figlio dei tempi, non belli, che stiamo vivendo».
Francesco Paolo Casavola, presidente emerito della Corte Costituzionale, non esita a esprimere tutto il suo «sconcerto» per l’esito della contestazione a Benedetto XVI, che ha portato alla cancellazione della sua partecipazione all’inaugurazione dell’anno accademico alla Sapienza.
«Stiamo assistendo da qualche anno a questa parte – spiega il giurista cattolico – a una sorta di imbarbarimento nei rapporti politici, sociali e civili, che producono spesso un linguaggio e delle manifestazioni inaccettabili.
Basta vedere quello che si sente e si vede nelle nostre televisioni. Però si poteva sperare che almeno il mondo dell’università rimanesse immune da queste forme di intolleranza: prendiamo atto che, almeno per quanto riguarda questa vicenda, così non è stato.
Con grande rammarico».
Professor Casavola, insomma, non le è piaciuta l’iniziativa degli scienziati dell’u­niversità roma­na...
No e soprattutto perché proveniente da illustri 'cervelli' accademici. L’università è da sempre il luogo deputato della cultura, del pluralismo, dove si può e si deve ascoltare di tutto da tutti, argomentando criticamente, stimolando la riflessione, il di­battito e il confronto. Mi illu­devo che l’intolleranza, le af­fermazioni unilaterali e, in fondo, autoritarie fossero state bandite per sempre dalle aule universitarie. Non abbiamo a­vuto nella nostra storia esempi positivi del pensiero unico nelle università; quando ci so­no stati è perché c’era priva­zione di libertà in tutto il Pae­se: si sperava che quei tempi bui fossero tramontati.
Le motivazioni addotte dai contestatori si muovono su due piani: il primo è la pretesa condanna che il Papa avrebbe fatto a Galileo Galilei...
Questa è una motivazione pretestuosa, che in altre circostanze farebbe persino sorridere per la sua inconsistenza.
Il secondo è che anche loro, dicono, difenderebbero la propria libertà di pensiero...
La loro libertà di espressione nessuno l’ha toccata o messa in discussione. Qua nessuno sta dicendo: ascoltate il Papa e conformatevi al suo pensiero.
Il problema è che per loro il Pontefice non dovrebbe parlare e basta. Viene la voglia di citare loro Voltaire: «Non sono d’accordo con le tue idee, ma mi batterò sino alla morte perché tu possa esprimerle». I rischi storicamente vengono dai pensieri unici, non dal dialogo o dal confronto. Ma c’è anche un’altra questione...
Quale?
Mi hanno colpito anche i modi della protesta: ultimativa, pre­potente. Una volta si poteva dire che questo modo di com­portarsi apparteneva alle fasce emarginate o poco istruite.
Oggi sembra che abbia conta­giato anche gli strati intellet­tuali. Il Papa è il capo della Chiesa cattolica, era stato invi­tato per parlare di diritti uma­ni, in particolare dell’impegno per l’abolizione della pena di morte. Si può anche essere in disaccordo con lui, ma non si ha il diritto di farlo tacere.
Rimane comunque il fatto che una minoranza, per quanto chiassosa, ha impedito a tutti gli altri di ascoltare le parole del Papa...
Questo è un nervo scoperto delle moderne democrazie. Le minoranze hanno il diritto di esistere, di parlare, di esprimere liberamente il loro pensiero.
Ma se pretendono di ergersi a interpreti dell’intera comunità, impedendo fisicamente alla maggioranza di esprimere le proprie scelte, compiono un atto profondamente antidemocratico.
Dopo tanti anni, tornano gli antichi steccati tra laici e credenti?
Intanto bisogna intendersi sul significato della parola laicità, che viene troppo spesso fraintesa. Ho l’impressione che se fosse usata come fanno gli scienziati firmatari del documento, si verificherebbe l’equazione «laicità uguale difesa dello Stato contro la religione». Così arriveremmo a una scienza dello Stato laico: e mi piacerebbe proprio vedere di quale libertà essa vivrebbe.
Credo che qui ci sia per certi aspetti ancora un nodo irrisolto, che affonda le radici nei secoli scorsi e che riguarda ancora il tema delle due culture. Senza contare, inoltre, che fenomeni di questo genere rischiano di alimentare da parte cattolica fenomeni di reazione. E una nuova guerra tra clericali e anticlericali è esattamente quello di cui non solo la comunità scientifica, ma tutto il Paese ha in questo momento meno bisogno.
La libertà di espressione dei «contestatori» nessuno l’ha toccata o messa in discussione. Il problema è che per loro il Papa non dovrebbe parlare


FEDE E RAGIONE
Papa Ratzinger amico della scienza
Avvenire, 16.1.2008
DI ANDREA GALLI

«Alla fine del 2004 ho incontrato privatamente il cardinale Ratzinger. C’era stato il famoso dibattito con Paolo Flores d’Arcais e, approfittando del contesto confidenziale, gli dissi: 'Ma eminenza cosa ci è andato a fare con Flores...?'. Mi rimproverò, mi ricordò che bisogna dialogare con tutti, citandomi la prima lettera di Pietro, dove si dice che dobbiamo rendere ragione della nostra fede, quindi dobbiamo essere accoglienti, disponibili a confrontarci». Elio Guerriero, vicedirettore editoriale della San Paolo libri, nonché amico e collaboratore di Joseph Ratzinger, delle cui opere ha curato numerose edizioni italiane, reagisce così, di primo acchito, al baillamme creatosi dalla sfumata visita di Benedetto XVI alla Sapienza di Roma. Dove il Pontefice è stato nuovamente dipinto come un «nemico della scienza», un esempio di «regresso» del rapporto fra Chiesa e libertà di ricerca... «Il che – sobbalza Guerriero – è assurdo. La problematica della libertà di ricerca è sempre stata centrale nella riflessione di Ratzinger, essendo lui stato professore nelle principali università tedesche e avendo avuto oltretutto una brillante carriera (a Tubinga è stato decano di facoltà, a Ratisbona vicerettore). Il problema che si è sempre posto è questo: all’inizio dello statuto della università, che nasce in ambito cristiano, è fondante il rapporto fra filosofia e teologia. La teologia afferma che 'c’è un Dio', c’è un Dio rivelato, ma questo non toglie alcuno stimolo alla domanda e alla ricerca filosofica, anzi, semmai invita la ricerca a procedere e ad andare oltre. A partire da Bacone, però, dice Ratzinger, si pone il problema dell’emergere della filosofia della natura, e dunque della 'verificabilità', del tentativo di far diventare quest’ultima il parametro dominante. La razionalità viene intesa come mera verificabilità. Questo spinge lentamente la ragione nei soli limiti della 'natura'. Andando avanti, a questa prima limitazione della razionalità se ne aggiunge un’altra: la ricerca della razionalità viene condizionata ulteriormente dal 'fattibile'. Marx dice: la ricerca deve essere funzionale a quello che si può fare, a ciò che è utile, a quello che permette di trasformare la società». E il marxismo ha tragicamente fallito...
«Infatti, proprio nell’ambito del materialismo, nel campo della sua applicazione prima, si è rivelato incapace di dare risposte. È necessario allora – diceva Ratzinger negli anni ’90, dopo la caduta del Muro – riproporre la vera 'razionalità', cioè la ricerca della verità in senso forte. Ora la ricerca della verità in senso forte significa che la verità è un primum che non può essere assoggettato a nulla: uno ricerca la verità per il desiderio della verità, e questo desiderio – qui ritorniamo un po’ a Sant’Agostino – ha come fondamento Dio, necessariamente.
Ma questo, ricorda Ratzinger, sempre a partire da un fondamento razionale, non come tentativo di inficiare la razionalità!


l’intervista Antiseri: «Laicisti. E hanno equivocato» Avvenire, 16.1.2008
L’epistemologo della Luiss: gli estensori della protesta si sono attaccati a un testo che significava l’esatto contrario
« L aicisti fondamentalisti, illiberali, antidemocratici, lontani dall’i­dea di società aperta». Dario An­tiseri ricorre a tutti gli aggettivi che connota­no l’esatto contrario delle teorie dell’amato Karl Popper per riferirsi agli estensori della lettera che ha innescato la contestazione a Benedetto XVI. E poi portato alla cancella­zione della visita. «Sono sgomento di fronte a intellettuali che alimentano l’intolleranza – afferma il docente alla Luiss, studioso di storia della scienza – e distorcono i fatti». Il riferimento è alla cita­zione nella lettera dei 67 docenti della Sa­pienza, in cui si riporta un breve stralcio di una conferenza tenuta dal cardinale Ratzin­ger proprio nella maggiore università roma­na il 15 febbraio del 1990. La frase dell’epi­stemologo anarchico Paul Feyerabend sem­brerebbe giustificare il processo che la Chie­sa intentò a Galileo.
«In realtà Feyerabend, nel suo libro Contro il metodo, evidenzia alcune ragioni dei tole­maici, cioè di coloro che sostenevano il mo­dello geocentrico contro i copernicani, che poi ebbero ragione – spiega Antiseri –, ma lo fa per evidenziare come tutte le regole nella ricerca scientifica vengano prima o poi vio­late o contraddette. Galileo, in altre parole, sfidò credenze consolidate: questa fu la sua grandezza». Non negata dal futuro Papa, da­to che nelle righe successive, ignorate dagli e­stensori della protesta, si dice che «sarebbe as­surdo costruire sulla base di queste afferma­zioni una frettolosa apologetica. La fede non cresce a partire dal risentimento e dal rifiuto della razionalità, ma dalla sua fondamentale affermazione e dalla sua inscrizione in una ra­gionevolezza più grande».
«Ratzinger ha sempre difeso la ragione e la scienza – dice lo studioso che rivendica la compatibilità di cristianesimo e ricerca in campo naturale e filosofico –, conosco bene i suoi scritti. La critiche si appuntano so­prattutto sull’uso distorto delle applicazio­ni tecnologiche, dalla bomba atomica alla clonazione umana. Non tutto ciò che è pos­sibile è lecito». D’altra parte è impossibile negare il ruolo fon­damentale che ha avuto il cristianesimo per la nascita della scienza moderna occidenta­le. «Scrive Max Scheler – sottolinea Antiseri – che la fede cattolica ha desacralizzato il mon­do permettendo l’investigazione e la mani­polazione della natura. Ma oggi è un errore capitale negare la presenza decisiva della re­ligione. Un laico come Croce sosteneva che il cristianesimo è la più grande rivoluzione che abbia avuto l’umanità. Ha creato il con­cetto di persona, sacra e inviolabile. Lo stes­so Popper esaltava il valore della tradizione cristiana quale fonte dei valori dell’umanesi­mo, della libertà e dell’uguaglianza».
«Giusta la possibilità di manifestare il dis­senso, in un confronto con i non credenti al quale Ratzinger non si è mai sottratto, anzi, ha incentivato – conclude Antiseri – ma è dav­vero segno di miseria umana e intellettuale negare la parola. Che avrebbero replicato a Norberto Bobbio che disse no all’aborto? Ep­pure, non era il Papa. La cosa che più dispia­ce è l’esempio che questi professori intolle­ranti hanno dato ai loro studenti».
Andrea Lavazza

16 Gennaio 2008 - Corriere della sera, PAPA ALLA SAPIENZA. Galli Della Loggia: una sconfitta del Paese


I MEDIA E I CATTOLICI Radio Maria, fede in libertà
Di Andrea Tornielli
Il Giornale
16 Gennaio 2008
La sua voce è inconfondibile e sono davvero in pochi coloro che, cambiando canale radio, non si sono mai imbattuti, almeno una volta, nelle sue trasmissioni. A padre Livio Fanzaga, l’instancabile animatore di Radio Maria che ha portato l’emittente ad avere ben due milioni di utenti quotidiani con una media - altissima - di due ore di ascolto al giorno, il Giornale ha chiesto di intervenire nel dibattito sui media cattolici e la moratoria sull’aborto.
L’iniziativa lanciata da Giuliano Ferrara sta facendo discutere il mondo politico, sociale e intellettuale italiano. Come la giudica?
«Si tratta di una battaglia sul diritto a nascere, una battaglia tipicamente laica, non confessionale. Mi sembra che Ferrara si sia posto un obiettivo partendo da considerazioni scientifiche: oggi sappiamo che nel concepito c’è già tutto il programma del futuro uomo. C’è già tutto l’uomo. Per questo chiede che nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo si aggiunga che la vita va difesa dal concepimento alla sua fine naturale. È una battaglia che va al di là delle religioni, delle diversità politiche o ideologiche. Il merito di Ferrara è averla sottratta agli ambiti ristretti del mondo cattolico».
I media cattolici si sono impegnati abbastanza su questi temi?
«Su questo tema credo che i media cattolici si siano sempre impegnati. Il problema forse è stato «cattolicizzare» troppo la battaglia in difesa della vita che, lo ripeto, non è una battaglia cattolica, ma laica, per i diritti umani».
Crede che talvolta ci sia il rischio che i media cattolici appaiano irrilevanti?
«C’è una situazione a mio parere anormale, soprattutto in Italia. Si crede che da una parte ci sia la società, dall’altra ci sia la Chiesa. Allo stesso modo, si pensa che da una parte vi siano i mass media cattolici, dall’altra quelli laici. Ora, stampa e tv cattoliche devono avere la loro chiara identità, ma ritengo necessario, soprattutto, che all’interno dei media laici operino giornalisti cattolici. Se così fosse, non avremmo dovuto aggrapparci a Ferrara per uscire dallo steccato».
Il successo di Radio Maria sta a indicare che c’è un popolo cattolico che non si sente rappresentato? «Bisogna dire che alcuni importanti media cattolici sono di proprietà della Chiesa, e dunque esprimono un’ufficialità che si traduce spesso in prudenza. Talvolta questo può andare a scapito della profezia e della forte testimonianza. Radio Maria, grazie a Dio, è un’associazione civile: siamo tutti cristiani e cattolici, ma abbiamo forse più libertà nell’impostare le nostre battaglie culturali. È vero che esiste una frattura tra media cattolici e popolo cristiano. La gente è in attesa, ha profonde convinzioni e non sempre trova nei mass media sbocchi adeguati. Temo che in qualche caso subentri una sorta di aurea mediocritas e si finisca per non essere più nel cuore della gente».
Radio Maria viene accusata di fare politica. Vi siete impegnati molto per l’astensione nel referendum sulla legge 40...
«Certamente facciamo meno politica di Avvenire, Famiglia Cristiana e dell’Osservatore Romano, i quali si occupano anche di notizie relative alla vita politica nazionale e internazionale. Tra l’altro, se volessimo, potremmo occuparci di politica più di loro, essendo Radio Maria un’associazione civile, come ho già ricordato. Se fossimo più schierati politicamente, però, perderemmo la possibilità di parlare a tutti. Ma la scelta di non schierarci politicamente non significa tirarsi indietro quando ci sono grandi battaglie etiche. Noi scendiamo in campo, in sintonia con la Chiesa, e nel caso della legge 40 ci siamo impegnati con vigore».
C’è chi vi addita come una radio fondamentalista. Come risponde?
«Dico che c’è una bella differenza tra fondamentalismo e testimonianza vigorosa, tra fanatismo e impegno generoso. La gente ci vuole testimoni generosi e vigorosi, il pubblico ci premia per questo. A volte nei media cattolici manca questa decisione, anche se riconosco che sul tema della difesa della vita tutti hanno le carte in regola e hanno portato avanti la battaglia per anni. Ma Ferrara è Ferrara, ce n’è uno solo, è una persona eccezionale. Ne servirebbe uno anche nel mondo cattolico».
Non crede vi sia il rischio per i cattolici di farsi arruolare sotto l’egida di visioni che selezionano alcuni temi che stanno a cuore alla Chiesa dimenticandone altri?
«Bisogna prestare attenzione a tutte le tematiche della dottrina sociale della Chiesa, e dunque anche alla pace, alla giustizia sociale, alla difesa dell’ambiente. Il cattolico deve averle presenti tutte quante e mi sembra che Benedetto XVI parli chiaro in proposito. Su ambiente e pace è però più facile trovarsi d’accordo con tutti, mentre la vita e la famiglia vengono attaccate dalla mentalità comune. Proprio per questo già Giovanni Paolo II diceva che questi temi rappresentano le frontiere della nuova evangelizzazione. Vita, famiglia e pace - il mondo rischia l’autodistruzione - sono tre gravi emergenze».


Cristiani ed ebrei uniti nel Nome
Avvenire, 16.1.2008
DA ROMA
SALVATORE MAZZA
Bisogna «condannare» senza mezzi termini ogni «esercizio terribile di violenza e sofferenza » portato in nome di Dio. Ma anche l’uso banale che, in mille modi diversi, di quel nome si fa nella società moderna.
È dedicata alla terza delle «Dieci Parole» del Sinai, «rivelate dall’Eterno a Israele e dense di valori perenni per le Chiese e per l’umanità», l’edizione 2008 della Giornata di amicizia ebraico­cristiana, che domani tornerà per la diciannovesima volta a sottolineare quanto sia importante sviluppare e approfondire il dialogo tra cattolici e i loro 'fratelli maggiori' ebrei.
Dedicata quest’anno al tema Non pronunziare il nome del Signore Dio tuo invano, la Giornata è ormai divenuta un appuntamento fisso, che ha visto negli anni «lo svilupparsi di un interesse crescente», come sottolinea in questa intervista il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni. Interesse, aggiunge, che «è un bene», per non rischiare da un lato «di dimenticare quello che è stato» e, dall’altro, di non impegnarsi «per quello che dovrebbe essere».
A chi vorrebbe dedicare questa edizione della Giornata?
«In primissimo luogo a tutte le persone che stanno soffrendo a causa di un improprio uso del nome».
In che senso?
«Questo comandamento, che tradotto in italiano suona Non pronunciare il nome di Dio invano, ha nella tradizionale esegesi rabbinica due significati. Il primo è, per così dire, quello più 'tecnico', di non dire cose false durante il giuramento; e poi c’è quello più generale, di non banalizzare il nome divino. Per quanto riguarda la seconda accezione, credo che questo discorso sia diventato sempre più evidente negli ultimi tempi, nelle ultime generazioni, nel senso che non bisogna usare del nome divino, abusarne, accostarlo all’utilizzo di strumenti terribili e, quindi, in qualche modo farlo in nome suo, bestemmiandolo. Esiste quindi un esercizio terribile di violenza e sofferenza fatta impropriamente in nome di Dio, che dev’essere sempre condannata».
Il suo discorso fa riferimento a un certo modello di terrorismo fanatico. Ma non è anche lo specchio di una società dove questa banalizzazione è ormai piuttosto evidente? Lei stesso in più occasioni lo ha rilevato, tirandosi addosso anche molte polemiche..
«È vero. Viviamo una realtà del genere. La riflessione di cui stiamo parlando, a proposito della Giornata, è sulla cautela che ciascuno deve esercitare soprattutto in nome dei comandi che abbiamo ricevuto. Ma la cautela non significa tuttavia rinunciare al dovere della testimonianza».
Quest’appuntamento è nato 19 anni fa, in un contesto e in un momento particolare. Ne avverte ancora l’utilità e l’attualità?
«Io credo assolutamente di sì. È bene che ci sia un momento fisso, codificato, un appuntamento in qualche modo 'certo', perché altrimenti si dimentica quello che c’è stato prima e quello che ci dovrebbe essere. Per cui queste cose servono, e anche il 'senso' delle celebrazioni è utile; ovviamente non devono essere fatte con autorità pompose assordanti o noiose, ma – insisto – è un bene che ci siano. Poi sicuramente possono esserci dei momenti in cui questo l’appuntamento è più attraente, come altri in cui magari è invece accompagnato da polemiche roventi, e allora ci sono i riflettori puntati. Ma in ogni caso è necessario».
Perché? Avverte la presenza di un antisemitismo strisciante, o magari palese, che ancora attraversa l’Italia?
«L’ho detto prima: il rischio, se non ci fosse un appuntamento del genere, sarebbe quello di dimenticare. Quanto a quello che mi chiedeva in particolare, direi che ci sono tante forme differenti con cui l’ostilità antiebraica si può manifestare, e per fortuna tutta la gamma possibile delle manifestazioni più gravi e odiose non le abbiamo qui da noi. Il pregiudizio tuttavia è diffuso, l’ostilità attraversa fronti, correnti e opinioni differenti: nel momento in cui noi stiamo adesso parlando adesso c’è una situazione abbastanza tranquilla, ma in qualunque momento è possibile che se ne determinino altre che facciano riemergere i rischi che sappiamo».
Quanto spesso questi rischi sono legati alle vicende del conflitto arabo israeliano? Quanto influisce quella situazione sulle realtà locali?
«Veramente il conflitto in Terra Santa può essere soltanto una scusa e una provocazione. Non è il conflitto che genera reazioni antisemite, ma il modo in cui gli antisemiti utilizzano quello che succede. È una cosa ben differente.
Per 19 secoli non c’è stato bisogno del conflitto in Terra Santa per scatenare l’antisemitismo».
Come vivrà lei, domani, la sua Giornata?
«C’è un appuntamento importante alla Lateranense, nel quale insieme a monsignor Ambrogio Spreafico, il rettore dell’Università Urbaniana che è anche un amico, commenterò questo comandamento, in una tavola rotonda presieduta da monsignor Rino Fisichella che ci ospita. Di solito è un appuntamento molto seguito, l’altr’anno c’erano centinaia di persone, mi auguro che ci sia pari interesse per quanto in questo momento non si stia discutendo molto di questi problemi. E devo dire che, io che sono ormai un ospite abbastanza fisso di questo appuntamento, in questi 19 anni ho notato un interesse e un coinvolgimento sempre crescente. È salita l’attenzione, e mi sembra che si tratti di una cosa molto positiva».



Ruini: la sfida educativa è aprire il cuore a Dio
Avvenire, 16.1.2008
Sulla dichiarazione conciliare «Gravissimum educationis» l’intervento del cardinale alla tre giorni del clero di Novara: la cultura prevalente tende a mettere ai margini l’uomo
DA ARMENO (NOVARA)
ANDREA GILARDONI
In una realtà sociale che sta perdendo di vista la centralità dell’uomo e dove il di­vario di scienza e tecnica da un saldo fon­damento valoriale si fa sempre più ampio, la sfida educativa più urgente è quella di sa­per aiutare ad «aprire il proprio cuore a Dio», per superare quel nichilismo che oggi sem­bra essere uno dei tratti culturali prevalen­ti.
Così il cardinale Camillo Ruini nel suo in­tervento alla tre giorni del clero della dioce­si di Novara, ha commentato la dichiarazio­ne conciliare Gravissimum educazionis. U­na scelta, quella del Vaticano II, che la dio­cesi piemontese fa ormai da anni per la for­mazione dei suoi sacerdoti, analizzando di volta in volta un documento differente. «Ab­biamo voluto raccogliere – ha detto il ve­scovo Renato Corti –l’invito di Giovanni Pao­lo II nella 'Novo Millennio Ineunte' di fare del Concilio la bussola per il XXI secolo».
Bussola che quest’anno ha puntato l’ago sul­le tematiche dell’educazione e su un docu­mento apparentemente «minore» del Con­cilio, che però affronta problemi che non possono essere delegati ai soli esperti della formazione, ma che interessano tutta la co­munità cristiana, proprio per la loro enorme portata culturale. «In realtà la 'Gravissimum educationis' oggi è un po’ datata – ha spie­gato Ruini –. Arriva prima della svolta an­tiautoritaristica del ’68 che parecchio, spe­cie in Italia, ha influito sul mondo della for­mazione e sui suoi presupposti pedagogi­ci ».
Un terremoto che di fatto ha spostato il cen­tro dell’azione educativa sulla mera tra­smissione di competenze, senza affrontare le domande di senso più profonde che arri­vano dai giovani. Dinamica innescata dall’«assurgere a dogma del relativismo, per il quale è 'autoritario' il semplice proporre una verità forte». Se lo sforzo di tutto il Con­cilio – ha proseguito il cardinale – è stato quello di riannodare i contatti tra Chiesa e società, superando un antropocentrismo che mette da parte Dio e trovando proprio nel rapporto tra Dio e l’uomo la radice del pensiero cristiano; il nuovo orientamento culturale rende marginale l’uomo stesso, «trasformandolo da soggetto, a semplice og­getto ».
Questa nuova posizione, figlia dei progressi scientifici e tecnologici, non è però inevita­bile. «Il progresso non può e non deve esse­re arrestato. Ma può essere orientato. Qui sta lo spazio della libertà morale e qui sta la sfida degli educatori: trasmettere alle nuo­ve generazioni quel bagaglio valoriale che sappia fare da guida nel discernimento. Nel­la consapevolezza che un cristiano in que­sto spazio della libertà non è mai solo, ma è accompagnato dl Signore».
Ma qual è il campo più importante in cui si gioca questa sfida? «Quello dell’educazione all’amore. È qui che il rischio che prevalga il nichilismo è più forte. Del resto l’esperien­za che sta alla base dell’educazione è il sen­tirsi amati. Come i bambini dai loro genito­ri. Per questo la Chiesa, se vuole saper esse­re vera educatrice, deve saper proporsi co­me una famiglia».
Altra responsabilità della comunità eccle­siale è quella di avere una voce sui temi più importanti per i più giovani. «Penso ad e­sempio alla sessualità, sulla quale troppo spesso tacciamo rapportandoci con gli a­dolescenti. Forse una reazione ai tempi in cui il tema della purezza era troppo ossessivo. Eppure non si può aspettare i corsi per fi­danzati per affrontare le tematiche di un’e­ducazione all’affettività o rischiamo di es­sere assenti in un capitolo fondamentale per la vita dei ragazzi».
Educazione all’amore e alla sessualità cui non può mancare un’educazione alla soffe­renza. «Oggi la pedagogia preserva ad ogni costo il bambino dalle esperienze dolorose. Tanto che c’è chi non porta i più piccoli ai funerali dei nonni. Ma la capacità di amare è inscindibile dalla capacità di soffrire. Non di una sofferenza fine a se stessa, ma che sia fondamento alla capacità di donarsi gene­rosamente all’altro». In ogni sua declinazione della vita quoti­diana, dunque, il cristiano che ha responsa­bilità educative non può sottrarsi dall’offri­re spunti per le risposte alle domande di fon­do dell’uomo. «È davvero troppo povera – ha concluso Ruini – quell’idea di educazio­ne che lascia da parte le verità che possono guidare la nostra vita».