sabato 12 gennaio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:

1) IL CATECHISMO DEL PATTUME
2) La Speranza e la deriva individualistica del cristianesimo – Monsignor Lorenzo Leuzzi commenta l’Enciclica di Benedetto XVI
3) Monsignor Sgreccia: il malato terminale ha bisogno di verità e solidarietà
4) La famiglia alla luce del disegno di Dio
5) La spazzatura Bresciana, sarà diversa da quella Napoletana?
6) VIETNAM - Ho Chi Minh City, preghiera e protesta dei cattolici, la prima dal 1975
7) NON È QUESTA L’ORA DI DIVIDERSI - LA MONNEZZA ESIGE SOLIDARIETÀ




IL CATECHISMO DEL PATTUME

La Conferenza episcopale campana ha scritto ai fedeli una lettera di quattro pagine… sulla monnezza.
di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro


La Conferenza episcopale campana ha scritto ai fedeli una lettera di quattro pagine sulla monnezza. E qual è il succo, per così dire, teologico? Il solito «dagli al consumismo», scritto in perfetto ecclesialese: «Quando, come accade in questi giorni, certe emergenze si mostrano in tutta la loro drammaticità non soltanto come effetti di mancate o errate scelte, o di precise responsabilità, ma anche come il frutto dei nostri stili di vita iperconsumistici; quando emerge tragicamente il risultato non soltanto di determinate pratiche sociali inadeguate o di omissioni colpevoli, ma anche di peccati da noi commessi; quando i nostri occhi e i nostri sensi sono costretti a vedere e percepire tutto questo, noi non possiamo, comunque, perdere la speranza e la fiducia».
E che cosa offrono certi pastori al posto della civiltà dell’usa, consuma e getta? Il suo esatto contrario: l’esaltazione della povertà che ha fatto le fortune del cattocomunismo e le sfortune dell’intero Paese. Ci sono montagne di documenti che tuonano contro la ricchezza e che fanno della povertà un mito. Ma nel cristianesimo la povertà è un mezzo per annunciare il Vangelo e non una scelta da imporre al prossimo. Facciamoci una domanda: tolto dall’orizzonte Gesù Cristo, perché una persona sana di mente dovrebbe scegliere la povertà invece della ricchezza?
Scrivono i vescovi della Campania (occhio al linguaggio): «Urge una ri-centratura profonda, da parte dei singoli soggetti, delle famiglie e degli organismi sociali». Si auspica un «modo più idoneo di progettare i consumi e la sostenibilità alimentare, la corretta fruizione dei beni paesaggistici e culturali, la differenziazione, lo smaltimento, il trattamento, il ri-uso, la riqualificazione e le possibili, e più avanzate e sicure, soluzioni tecniche per il ciclo dei rifiuti». La Commissione episcopale campana «Giustizia, pace e salvaguardia del creato» predisporrà, in collaborazione con la Facoltà teologica dell’Italia Meridionale e gli Istituti superiori di scienze religiose campani, «opportuni contenuti e metodi per specifici itinerari formativi e catechetici». Il catechismo della monnezza, insomma.
E se certi vescovi tornassero a parlare di Gesù Cristo?

Il Giornale 12 gennaio 2008


La Speranza e la deriva individualistica del cristianesimo – Monsignor Lorenzo Leuzzi commenta l’Enciclica di Benedetto XVI
Di Antonio Gaspari
ROMA, venerdì, 11 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Al giorno d'oggi “c’è bisogno di un’autocritica del cristianesimo moderno, ripartendo dalle proprie radici”, sostiene monsignor Lorenzo Leuzzi, Direttore dell’Ufficio per la Pastorale Universitaria del Vicariato di Roma.
Commentando in una intervista a ZENIT alcuni aspetti dell'Enciclica di Benedetto XVI, “Spe salvi”, monsignor Leuzzi ha sottolineato che, in opposizione a una certa deriva individualistica del cristianesimo, “i cristiani devono spiegare il perché della loro speranza e offrirla al mondo”.
La “Spe salvi” critica lo scientismo e propone un'autocritica del cristianesimo vissuto in maniera individualistica, perchè?
Leuzzi: Ambedue le prospettive sono antirealistiche, perché non rispondono al vero desiderio dell’uomo di uscire da sé per arricchirsi ontologicamente.
Mentre è abbastanza comprensibile e diffusa la critica verso la fede nel progresso, il Papa cita la Scuola di Francoforte nel paragrafo 22, non appare ancora all’orizzonte l’autocritica del cristianesimo moderno, il quale ha risposto alle nuove attese della società contemporanea con la proposta soggettiva della fede, propria della Riforma, avviandosi su una strada che lo ha portato, di fatto, fuori dalla storia, anche se molto presente nei circoli culturali d’elite!
La speranza cristiana, e quindi la fede, è una realtà individualistica?
Leuzzi: La risposta a queste domande è il cuore dell’Enciclica! Il Papa risponde di no! Se il cristianesimo ha vissuto questa deriva, sul piano storico, individualistico, pur svolgendo una grande opera di formazione dell’uomo e di cura dei deboli e dei sofferenti, ciò è avvenuto per servire la società che prima della rivoluzione industriale, aveva bisogno di un’animazione etica, prevalentemente di tipo sacrale.
La fede cristiana, se vuole essere fonte di speranza per la società contemporanea, deve tornare a comprendere se stessa, dopo la parentesi storica del servizio alla società statico-sacrale, come esperienza dinamica che raggiunge l’uomo nella sua esistenza e gli dona la vita nuova.
La vita cristiana non è soltanto un’esperienza soggettiva di Dio o “un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmente assenti”: essa è una esistenza nuova che costituisce una “prova” delle cose che non si vedono. Essa attira dentro il presente il futuro, così che quest’ultimo non è più il puro “non ancora”.
I cristiani appartengono ad una nuova società e possono investire per il futuro la propria libertà perché hanno sperimentato e sperimentano l’amore di Dio in Gesù Cristo che sostiene la libertà dell’uomo verso la verità.
La vita nuova in Cristo rende l’uomo capace di uscire da se stesso e diventare costruttore di quella nuova società che è la Chiesa. Senza la speranza l’uomo non potrà essere autentico costruttore della storia perché sarà costretto a ridimensionare le esigenze della libertà e della ragione.
La capacità e il desiderio di essere costruttore della storia potrà svilupparsi nella misura in cui l’uomo possiede in germe la certezza che la sua uscita da sé non si annulli nella dialettica della storia, ma si apra alla costruzione della comunità dove ogni uomo viene accolto per quello che è, nel rispetto delle sue vere esigenze di giustizia.
Perché il cristianesimo nutre la speranza e libera l’uomo?
Leuzzi: La vita “secondo Cristo” non soltanto libera l’uomo dalla signoria degli elementi del cosmo ma anche dalle leggi delle prassi antirealistiche che svuotano l’uomo di ogni consistenza ontologica.
La speranza cristiana non può limitarsi a promuovere la formazione etica dell’uomo, ma deve ritornare ad essere promotrice di quella singolarità che fa del cristianesimo un messaggio non solo “informativo” ma “performativo”.
La nuova situazione storica impone al cristianesimo di annunciare al mondo con le parole e le opere che Dio non è una “lontana causa prima del mondo” e che per mezzo di Cristo l’uomo può essere certo di Dio.
Il semplice annuncio informativo può tutt’al più rendere buono l’uomo, ma non potrà salvarlo dalle prassi antirealistiche della società contemporanea: solo la vita nuova in Cristo può rendere l’uomo protagonista della storia.
La condizione necessaria per realizzare questo passaggio da un annuncio informativo a quello “perfomativo” è la realizzazione di un nuovo rapporto tra il filosofo e il pastore, cioè tra ragione e fede.
Nella prospettiva “informativa”, propria di una realtà statica, fede e ragione possono percorrere vie diverse e, al limite, anche parallele, raggiungendo il medesimo obiettivo, cioè quello della verità.
Nella prospettiva “performativa”, propria di una realtà dinamica, a cui appartiene il cristianesimo, fede e ragione sono destinate a cercarsi vicendevolmente, perché la costruzione della storia impegna la presenza di Dio e la partecipazione dell’uomo in modo più radicale.
Non si può costruire la storia poggiandosi sulle singole speranze, è necessaria la grande speranza, che sorregge il cammino dell’uomo.
Il cristiano, nella sua vita ecclesiale, possiede questa grande speranza ed è chiamato ad offrirla all’umanità.
Qual è il contributo del cristianesimo alla società perché la sua costruzione non annulli l’uomo, ma lo renda protagonista?
Leuzzi: Il primo contributo è aiutare l’uomo ad avere coscienza di sé. Il secondo è aiutare l’uomo ad avere coscienza del limite. Il terzo contributo è aiutare l’uomo ad avere coscienza del male.
Il cristiano che possiede la vita nuova è nelle condizioni per vivere la pienezza dell’umanità: la grande speranza non è fuori di sé, ma nella sua nuova esistenza. Ciò rende il cristiano il vero costruttore della storia. La civiltà dell’amore prima ancora di essere un impegno è dono.
Per costruire la storia non sono sufficienti le singole speranze, ma è necessario possedere la grande speranza che è la forza per progettare. Se il Dio di Gesù Cristo fosse il Dio della legge, non sarebbe possibile costruire. Dio ingannerebbe se stesso.
Se Dio si è manifestato nella storia per dire “chi è in realtà l’uomo e che cosa egli deve fare per essere veramente uomo” è perché è troppo poco per l’uomo essere buono: l’uomo è chiamato ad essere costruttore.
Il cristianesimo non è mai stato un messaggio delle piccole speranze, perché ciò lo riporterebbe nel Vecchio Testamento (tempo dell’attesa). I santi hanno sempre vissuto nella grande speranza. La società contemporanea, nonostante le contraddizioni socio-culturali, attende questo annuncio, quello cioè della grande speranza, senza il quale sarà impossibile costruire la civiltà dell’amore.


Monsignor Sgreccia: il malato terminale ha bisogno di verità e solidarietà
Intervenendo a un Convegno a Roma sul tema “Depressione e Cancro”

Di Mirko Testa
ROMA, venerdì, 11 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Il medico deve sempre preparare il malato inguaribile alla morte, evitando qualsiasi “congiura del silenzio” e annunciando dove è possibile la “vita che non muore”, sostiene il Presidente della Pontificia Accademia per la Vita.
Così ha detto monsignor Elio Sgreccia nell'intervenire il 10 dicembre scorso a Roma, presso il Centro Congressi IFO (Istituti Fisioterapici Ospitalieri), al Convegno sul tema “Depressione e Cancro”, durante il quale sono stati illustrati i risultati positivi derivanti dal trattamento psicologico dei pazienti neoplastici.
Infatti, come ha affermato la professoressa Paola Muti, Direttore Scientifico dell’Istituto Regina Elena (IRE), la depressione è un aspetto abbastanza comune nei pazienti oncologici. Tuttavia, numerosi studi dimostrano che essa viene spesso sottovalutata, non viene diagnosticata correttamente oppure neanche trattata, perché alcuni suoi sintomi vengono attribuiti alla patologia neoplastica e alle terapie mediche in atto.
Quindi, se da una parte si riscontra un dimezzamento nell'ultimo secolo della mortalità per tumore (esclusi i big killer che sono il tumore al polmone e il carcinoma mammario), dall'altra non sempre si assiste alla diffusione di un approccio che riconosca le riprercussioni psicologiche sul paziente oncologico: circa il 40% dei malati oncologici sarebbe depresso ma solo il 2% riceverebbe una cura adeguata.
Dati allarmanti se si pensa, come ha sottolineato il dottor Giuseppe Petrella, Presidente del Comitato di Indirizzo e Verifica IFO, che solo nel 2007 in Italia per ogni 100.000 abitanti sono state effettuate circa 6.500 nuove diagnosi di cancro, mentre complessivamente sono 1.700.000 le persone affette da questa malattia.
Nel suo intervento monsignor Elio Sgreccia ha parlato, in particolare, dell'informazione al malato inguaribile come comunicazione della verità, intesa non solo in senso clinico ma anche esistenziale.
Questo compito, ha esordito il presule, è reso più difficile dal rifiuto della verità della morte e della malattia “che si presenta con il volto dell'inguaribilità”, proprio di una “società improntata alla produttività e al benessere materiale”.
Monsignor Sgreccia ha quindi spiegato come il percorso del vissuto influenzi il modo di approcciare alla morte: un individuo sano che non è riuscito ad accettare, a “fare pace” con il pensiero della morte, può anche sviluppare delle “turbe nella personalità”.
Allo stesso modo, però, anche “un medico o uno psicologo che non hanno compiuto questo passo dentro di sé, non sanno trattare con il morente, perché mettono in atto dei meccanismi di autodifesa che sono il più delle volte la fuga, l'aggressività, quel volerla spuntare a tutti i costi che porta all'accanimento terapeutico”, ha precisato.
Parlando della necessità di un corretto approccio comunicativo da parte dei medici, Sgreccia ha lodato il modello di “apertura individualizzata”, che viene portato avanti come “una dichiarazione di amicizia”, che si fonda sul diritto all'informazione del paziente e impegna molto il medico nell'accompagnamento del malato.
Rimanendo su questo tema, si è quindi detto contrario a qualsiasi “congiura del silenzio” che “impedisce al paziente di prepararsi al distacco e alla morte”, ed ha incoraggiato ad evitare ogni comunicazione drastica, sottolineando il dovere per il medico di “evitare la menzogna” e dare sempre “garanzia di speranza e assistenza”.
“La comunicazione della verità richiede gradualità”, “la scelta del momento adatto”, “l'uso di un linguaggio comprensibile”, e “deve essere accompagnata anche dalla solidarietà”
La professoressa Maria Rita Parsi, psicoterapeuta e scrittrice, ha raccontato che le persone che hanno ricevuto la notizia della loro malattia da un medico in modo brusco e distaccato, ne hanno ricavato quasi un senso di disprezzo; mentre dall'altro lato chi si è trovato di fronte a una informazione blanda o poco definita è spesso sprofondato in un “mare di domande”.
Allo stesso tempo, ha continuato Sgreccia, possono intervenire circostanze che “per rispetto del bene del paziente stesso, potrebbero indurre a tacere la gravità della malattia, quando si possa presumere una fragilità psichica nel soggetto tale da indurlo al suicidio”, oppure “quando il paziente abbia invocato il diritto di non sapere”.
Occorre, comunque, che il medico tenga sempre conto nelle sua strategia di comunicazione della situazione emotiva o delle diverse fasi psicologiche del malato o della persona oncologica, che si presentano con ricorrenza sotto forma di negazione, rabbia, rifiuto, patteggiamento, depressione e infine accettazione della malattia.
Inoltre, ha sottolineato Sgreccia, “è necessario che la verità clinica si componga positivamente con le verità antropologiche, con il senso globale della vita”.
“Lo sforzo maggiore sta nel presentare questa verità in senso salvifico”, nel costruire un percorso con il paziente negli anni o nella brevità della malattia e “proporre, laddove possibile, l'annuncio della vita che non muore e la rivelazione del Cristo morto e risorto, presente e operante in ogni uomo che soffre”.
A questo proposito, il presule ha ribadito il valore salvifico della sofferenza e l'importanza dell'accompagnamento del malato nella fase terminale della vita: “Il morente porta maturità e coraggio anche a coloro che gli stanno accanto”, “diventa un maestro di vita”.
Inoltre, ha detto, “tutti gli atti d'amore che ci sono stati donati li portiamo con noi. La nostra vita spirituale non scompare ma fiorisce, si arricchisce nella eternità”.
Citando alcuni passaggi della Enciclica “Spe salvi”, l'Arcivescovo Sgreccia ha affermato che “la misura dell'umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente”, e “una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com-passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana”.
“Soffrire con l'altro, per gli altri; soffrire per amore della verità e della giustizia; soffrire a causa dell'amore e per diventare una persona che ama veramente – questi sono elementi fondamentali di umanità, l'abbandono dei quali distruggerebbe l'uomo stesso”, scrive infatti il Pontefice.
Di fronte a queste problematiche la “scienza empirica con i suoi mezzi si mantiene esteriore all'atto del morire”, che si presenta come un “momento che sfugge al medico”; mentre “l'uomo sa di morire con una coscienza spirituale”.
“Il senso dell'agonia è questa apertura all'eternità”, ha spiegato l'Arcivescovo. L'agonia diventa “la vittoria sull'immanenza”, in quell'istante dove presente ed eternità si toccano, e dove “il tempo che manca prende senso da questa trascendenza”.
Ecco perché è necessario l' “annuncio della morte in chiave salvifica ed escatologica”, senza tralasciare un dovere alla corretta informazione, imprescindibile dalla “pietas”, ha concluso monsignor Sgreccia.
La dottoressa Patrizia Pugliese, Dirigente responsabile del Servizio di Psicologia dell'IRE, ha sottolineato i benefici di “un intervento integrato medico-psicologo”, che non trascuri anche il bisogno di counseling per i familiari del paziente.
Infatti la presenza di uno psicologo all'interno di una equipe di medici permette “una sensibilizzazione sugli effetti psico-sociali, l'acquisizione di abilità comunicativo-relazionali, il miglioramento della comunicazione e la prevenzione anche del proprio disagio”.
La psicoterapeuta ha quindi sottolineato “il bisogno nella fase terminale del paziente di ripercorrere la propria storia, di riparare ciò che non è stato ancora concluso, di inseguire il senso della vita”.
Per la professoressa Maria Rita Parsi, invece, “la malattia è una rinascita, è un inizio di un percoso di cambiamento e trasformazione nel quale rinascere”, mentre la “depressione può essere un momento di pausa per ritrovare le energie per ripartorirsi con una modalità di ricerca di sé”.
In questo percorso, ha poi concluso, chi ha la fede, chi possiede queste energia spirituale, “è toccato da una grazia formidabile”, che “se si unisce all'aiuto di un medico e al sostengo psicologico diventa veramente un percorso di eccezionale valenza umana”.


La famiglia alla luce del disegno di Dio
del card. Giacomo Biffi, Arcivescovo emerito di Bologna
Il legame fra i misteri della fede e la famiglia. L’importanza del Battesimo e dell’Eucaristia nella vita matrimoniale. Ogni famiglia può trovare nel modello di Nazaret la forza per superare l’insidia delle ideologie.

[Da «il Timone» n. 65, luglio/agosto 2007]

Un disegno unico


Dio non ha due progetti sull’uomo, uno naturale e uno soprannaturale: ne ha — ne ha sempre
avuto — uno solo, che ha come suo traguardo la nostra misteriosa ma reale partecipazione in Cristo alla vita di conoscenza. di amore, di gioia che è propria della Trinità.
Poiché il Creatore ha un solo progetto, anche ciò che è naturale in una creatura è stato pensato e voluto perché costituisse un’iniziale epifania del nostro destino trascendente e un lontano avvio al suo conseguimento. Perciò una realtà evidentemente naturale nell’uomo — qual è la distinzione dei sessi, la vocazione dell’uomo e della donna all’unione feconda nel matrimonio, la famiglia con tutte le sue relazioni interpersonali — è già in se stessa manifestazione di una ricchezza soprannaturale e non può essere adeguatamente penetrata se non con lo sguardo proprio del credente.

Nella grazia dei principali misteri

I misteri principali della fede — nei quali tutta l’intelligibilità del disegno divino si compendia — saranno dunque la chiave di una lettura esauriente del matrimonio e della famiglia, che ne faccia emergere tutto il fascino e la sublimità. Il primo, come tutti sappiamo, è la Trinità, e concerne la stessa esistenza eterna e assoluta dell’Essere infinito; il secondo è l’incarnazione redentrice del Figlio di Dio, ed è il centro e il compendio dell’intero piano che di fatto il Creatore ha deciso di attuare. Noi, invertendo l’ordine, invocheremo la luce del secondo sulla sponsalità e la luce del primo sulla realtà familiare.

È possibile che il tipo di analisi, che qui viene tentato, appaia troppo arduo. Ma la ragione prevalente di questa innegabile difficoltà sta nel fatto che i misteri principali della fede non sono più molto presenti alla coscienza dei cristiani anche praticanti. Non si può però continuare così: queste verità fondamentali vanno quotidianamente rievocate da parte di tutti, e bisogna abituare i fedeli — che hanno nel loro cuore lo Spirito Santo, maestro di tutta la verità — a considerane e a valutare ogni data importante della loro esistenza alla loro luce e in loro riferimento.

Incarnazione e sponsalità

«Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio» (Mt 22,1).
Il mistero originario di questo universo concretamente esistente è un mistero sponsale: è il mistero del Verbo eterno del Padre che si unisce indissolubilmente alla natura umana nell’evento dell’incarnazione. È l’evento dell’incarnazione — considerato in tutto il suo sviluppo, che contempla l’intera avventura terrena del Figlio di Dio — è la premessa, il fondamento, l’iniziale realizzazione dell’evento ecclesiale, che e anch’esso un mistero sponsale: il mistero di Cristo che ha amato e ama la Chiesa, e ha data e dà se stesso per lei (cf. Ef 5,25).

A questa festa nuziale siamo tutti invitati: l’invito si identifica con la stessa nostra chiamata all’esistenza. Il nostro essere uomo o il nostro essere donna è per se stesso una vocazione a entrare in questo gioco ineffabile e a partecipare con tutto il nostro essere a questa realtà primordiale.

Due forme per vivere la «sponsalità»

La nostra partecipazione al mistero sponsale originario può avvenire in due forme. O, per così dire, in presa diretta, anticipando già nella vita terrena la condizione escatologica; e questo avviene nella donazione verginale e nel celibato ministeriale. Oppure attraverso la mediazione dell’unione matrimoniale, che nei battezzati diventa la mediazione di un sacramento, del quale l’uomo e la donna che fondono le loro esistenze sono essi stessi i ministri.

Le due forme, come si vede, non solo non si oppongono, ma, nascendo dalla condivisione intima e personale allo stesso mistero del «Christus totus» (Cristo totale), si richiamano reciprocamente e reciprocamente si sorreggono. La santità del matrimonio e la famiglia credente costituiscono il contesto più normale e adatto al fiorire delle vocazioni di speciale consacrazione; e quanto più sarà presente e affermato nella cristianità il carisma della vita verginale tanto più il matrimonio sarà richiamato alla sua vera natura e sarà aiutato nel conformarsi al suo ideale.

La caratteristiche dell’unione tra l’uomo e la donna


Con la consapevolezza di questa radice trascendente della loro unità, i coniugi cristiani vivono la loro sponsalità alla luce della sponsalità di cui sono l’immagine, riproducendone le essenziali caratteristiche di fedeltà totale ed esclusiva, di irrevocabilità, di fecondità al servizio della espansione nel creato della vita umana e nelle creature umane della vita divina.

Essi conoscono bene la loro debolezza e la loro inadeguatezza di fronte a cosi alto modello. Però sanno anche che il mistero sponsale di Cristo — «salvatore del suo corpo» (Ef 5,23) — non è soltanto un’indicazione normativa, ma anche, all’interno del loro matrimonio, una fonte inesauribile di luce, di energia, di perdono, di consolazione, di gioia.

Il battesimo nel sacramento del matrimonio

Ciò che fa passare l’unione di un uomo e di una donna dall’essere solo un’allusione e una figura del mistero di Cristo sposo all’esserne una partecipazione soprannaturalmente efficace, è il sacramento del battesimo, che non è soltanto un atto compiuto una volta per tutte agli albori dell’esistenza ma è anche una permanente ricchezza della loro stessa profonda intimità. Appunto il battesimo, inserendo vitalmente nel corpo del Redentore, trasferisce il matrimonio dall’Alleanza Antica all’Alleanza Nuova ed eterna, dall’ambito dei puri segni a quello dei segni operativi. Il battesimo dissigilla, per così dire, nei contraenti la fontana di grazie che continuerà a zampillare per tutta l’estensione della loro vita a due.

La memoria assiduamente rinnovata del proprio battesimo e la venerazione piena di gratitudine della sua impronta indelebile nei cuori saranno dunque un elemento importante di una giusta spiritualità coniugale; e, col battesimo, anche il senso della propria appartenenza alla Chiesa — aggregazione santa di uomini peccatori, splendida sposa di Cristo e madre nostra amatissima — nella quale appunto il battesimo irrevocabilmente ci immette. L’appartenenza ecclesiale non sarà perciò avvertita come un’insidia e una concorrenza, ma come un più profondo inveramento della loro reciproca appartenenza personale.

Eucaristia e famiglia

Per una piena presa di coscienza della realtà nuziale come partecipazione al mistero sponsale originario, occorre riscoprire e ravvivare il rapporto che lega la famiglia all’Eucaristia, «fonte stessa del matrimonio cristiano»! Infatti è proprio «in questo sacrificio della nuova ed eterna alleanza che i coniugi cristiani trovano la radice dalla quale scaturisce, e interiormente plasmata e continuamente vivificata la loro alleanza coniugale» (Giovanni Paolo II, Familiaris consortio n. 57 - Enchiridion vaticanum, 7/17/03). Le famiglie che colgono e assaporano vitalmente le ricchezze intrinseche all’Eucaristia — proprio perché nel mistero dell’Eucaristia è già in sintesi tutto il mistero della Chiesa e la famiglia e, come si è detto, una realtà costitutivamente ecclesiale — arrivano a comprendere la loro caratteristica identità nella Chiesa e ritrovano la sorgente inesauribile di ogni loro operosità esercitata nella comunità dei credenti.

Trinità e realtà familiare

In Cristo, Dio si è sorprendentemente rivelato come Trinità, cioè come vita ineffabile di relazione, come realtà trascendente di donazioni interiori, come sinfonia di comunione e di amore. Insomma, in Cristo abbiamo saputo che c’è in Dio, per così dire, una famiglia; o, più correttamente, abbiamo appreso che la famiglia umana ha una radice eterna ed è chiamata a cercare i princìpi ispiratori del suo comportamento nella stessa vita divina.

Rivelandosi come Trinità, Dio ci ha detto che egli non è solo imperturbabile infinità d’essere: è anche e soprattutto vita, cioè interiore fecondità e comunanza di gioia. Questo è stupendo, e non può mai essere lasciato ai margini dei nostri pensieri.

Che cosa è la vita in Dio? È essenzialmente conoscenza e amore. Allo stesso modo la famiglia umana è viva quando trova nella verità e nella carità la sua vera ricchezza.
La contraffazione della verità è l’ideologia. Mentre la verità è accoglienza in noi e contemplazione dell’essere che si fa trasparente all’umiltà del nostro sguardo, l’ideologia e imposizione all’essere di schemi mentali precostituiti. Per esempio, la verità ci rivela l’uomo e la donna nella loro inconfondibile originalità, nel loro rispettivo valore, nella loro vocazione alla reciproca complementarità; l’ideologia corrente invece li omologa e li somma come due identità.

Le contraffazioni dell’amore sono tante: per esempio, il piacere fine a se stesso, il possesso dell’altro in vista della propria autorealizzazione, la socializzazione estrinseca senza attenzione personale e senza misericordia.

Diversità e comunione
Nella Trinità c’è una legge di esistenza e di vita che, almeno come ideale, deve risplendere in ogni sua icona creata, cioè in ogni famiglia umana. È la legge dell’assoluta diversità nella pienezza della comunione.

Il Padre è totalmente altro, nella sua paternità, dal Figlio; il Figlio, nel suoo essere Figlio, è totalmente altro dallo Spirito. Ma la loro comunione è tanto assoluta e perfetta da essere — Padre e Figlio e Spirito Santo — la stessa unica infinita realtà.

Analogamente, nella famiglia umana come è stata pensata da Dio, lo sposo è totalmente diverso dalla sposa ed essere genitori è totalmente diverso dall’essere figli; ma sposo e sposa, genitori e figli devono essere un’unica cosa nell’unità della casa. Il rispetto della singolarità e dell’irripetibilità delle persone non deve insidiare l’unità, e la ricerca quotidiana dell’unità non deve soffocare I’originalità inedita di ciascuno dei componenti. Ciascuno ha un volto, un cuore, un’anima sua, e dall’unità dei volti, dei cuori, delle anime nasce e sussiste il miracolo della famiglia.

La alterazioni del progetto

Dio dunque vive cosi: nella diversità delle persone e nell’assoluta unità dell’essere, della potenza, dell’azione. E alla divina realtà si ispira il disegno che Dio ha pensato per noi.

Ma noi siamo sempre tentati di sovrapporre al disegno del grande Artista i nostri scarabocchi, che spesso sono rovesciamenti integrali della prospettiva originaria. Invece di avvalorare i pregi della singolarità personale ci proponiamo il livellamento; invece di mirare a fonderci nell’unità, esasperiamo l’individualismo.

Così, mentre dovremmo sforzarci di capire o apprezzare la diversità nella comunione, arriviamo a enfatizzane l’uguaglianza nell’estraneità.

L’uomo, si dice, è uguale alla donna: devono avere le stesse funzioni, gli stessi compiti, lo stesso tipo di vita, in modo da essere interscambiabili. I padri e i figli devono essere messi sullo stesso piano: tutti devono giudicare, decidere, comportarsi esattamente nello stesso modo.

In questa maniera il progetto divino è capovolto, e la famiglia, uscita dai binari che sono stati predisposti per lei, procede nella storia tra crescenti disagi. La sua salvezza starà nel ritrovare il disegno nativo, che ha la sua fonte nella Trinità eterna e la sua esemplare attuazione creata nella famiglia di Nazaret.

La famiglia di Nazaret

Il Figlio di Dio, facendosi uomo, ci ha rivelato il segreto della vita intima di Dio come vita interpersonale per far entrare incredibilmente anche noi nel concerto ineffabile delle divine relazioni. Ma, proprio in vista di questo scopo, si è abbassato a partecipare della nostra povertà, immettendosi personalmente nell’umile realtà della famiglia umana. Così l’ha manifestata a se stessa e le ha dato una significazione più trasparente.

Nella contemplazione della famiglia di Nazaret la lettura di tutti i valori soprannaturali delle nostre compagini familiari diventa più agevole e si fanno più facilmente imitabili le prerogative (che non dovrebbero mancare mai nelle case) dell’amore vicendevole, della pace, della ricerca affettuosa di Dio e della sua volontà, dell’attenzione ai fratelli.

Lo sguardo orante alla Santa Famiglia non sarà dunque per le nostre famiglie una delle tante devozioni: offrirà un mezzo efficacissimo di pensarsi e di vivere secondo la propria soprannaturale identità.

© il Timone


Dal sito CulturaCattolica.it
sabato 12 gennaio 2008
La spazzatura Bresciana, sarà diversa da quella Napoletana?
Ok, Napoli, i rifiuti, la gente incavolata, i "bruciarusco" che inquinano, il casino, la camorra...
Ma forse è utile sapere che ad esempio a Brescia, cioè non fuori dal mondo, da dieci anni esiste un termovalorizzatore che brucia 800 mila tonnellate di rifiuti, risparmia 150 mila tonnellate di petrolio, riscalda 50 mila appartamenti, accende le lampadine di 190 mila famiglie e tiene l'aria, contrariamente alla vulgata, molto pulita. Comunque più che se si bruciasse il citato petrolio. La Columbia University ha premiato il Termoutilizzatore di Brescia come il migliore al mondo. Meglio di Malmö, Amsterdam, Vienna, Rochester. Visto da fuori l'impianto bresciano sembra il monolite di Odissea nello spazio o - come scrive il Velino - una scatolona di spaghetti disegnata da un cuoco bizzarro. Ce lo copiano. Ad esempio a Mosca. Per farlo ci sono voluti circa 300 milioni di euro, un anno per il progetto, due per edificarlo.
A Napoli per l'emergenza rifiuti negli ultimi anni hanno speso 2 miliardi. Potevano farci 7 termovalorizzatori. Naturalmente c'è chi sostiene che questi impianti inquinano. Allora cosa facciamo? Ci teniamo tonnellate di rifiuti ovviamente igienicissimi che fanno tanto "bio-nature", in attesa di rifilarli ad altre regioni o ad altri stati, pagando? Stessa logica che col nucleare. Siamo campioni della sindrome "Nimby", "not in my backyard". Sì, ma non nel mio cortile.
Comodo, no? Ah, quest’Italia, che potrebbe fare e rifare il mondo e si avvoltola invece nelle pozzanghere, nella demagogia, nelle intercettazioni piccanti e nel lamento manicheo.




12/01/2008 10:57
VIETNAM - Ho Chi Minh City, preghiera e protesta dei cattolici, la prima dal 1975
di J.B. An Dang
Nell’ex Saigon, migliaia di cattolici si sono riuniti ieri sera in una veglia di preghiera presso il convento dei Redentoristi per chiedere al governo di restituire alla Chiesa 60mila metri di terreno sequestrati per motivi commerciali. Il Superiore dell’ordine chiede a tutti i fedeli del Paese di essere solidali con i redentoristi, che hanno già manifestato ad Hanoi.

Ho Chi Minh City (AsiaNews) – Migliaia di cattolici si sono riuniti ieri sera in una veglia di preghiera presso il convento dei Redentoristi per chiedere al governo di restituire alla Chiesa 60mila metri di terreno, appartenenti all’ordine religioso, ora occupati da edifici governativi. E’ stata la protesta anti-governativa più vasta, e probabilmente la prima, che si sia mai svolta nella città dalla presa di potere dei comunisti, avvenuta nel 1975.
Un sacerdote redentorista dice: “La protesta vuole dimostrare la nostra solidarietà ai nostri fratelli di Hanoi. Essa serve inoltre per chiedere al governo di non mandare i militari a difendere terreni requisit in modo ingiusto, ed infine per chiedere di mettere in pratica la giustizia”.
In un messaggio inviato lo scorso 7 gennaio a tutti i redentoristi del Paese, il Superiore provinciale p. Giuseppe Cao Dinh Tri denuncia: “Il governo locale ha confiscato in maniera illegale il terreno appartenente al nostro convento di Thai Ha, ad Hanoi, e sostiene un progetto che vuole edificare nella zona”. Il giorno prima, il governo aveva inviato sul posto delle guardie, per permettere alla Chien Thang Sewing Company di costruire sul terreno in questione.
I redentoristi di Hanoi, scrive ancora p. Cao, “hanno risposto radunando molti fedeli per pregare nel luogo in cui si vuole costruire, ed hanno chiesto al governo di rispettare la correttezza e mettere in pratica i principi di giustizia. Imploro tutti voi, l’intera provincia del Vietnam, affinché siate solidali con i nostri fratelli, pregando per il nostro apostolato comune”.
I sacerdoti hanno avuto diversi problemi nell’organizzare la protesta: il loro sito Internet, che conteneva le informazioni utili per partecipare, è stato attaccato da pirati informatici ed è ripartito soltanto lo scorso 10 gennaio.
I redentoristi sono arrivati in Vietnam nel 1925. Da allora, l’ordine ha veangelizzato molte province del nord: nel 1928, hanno comprato 6 ettari di terreno a Thai Ha per costruire un convento ed una chiesa. La messa di inaugurazione del monastero è stata celebrata il 7 maggio del 1929, mentre la chiesa è stata inaugurata nel 1935.
Nel 1941 vivevano a Thai Ha 17 sacerdoti, 12 fratelli, 26 seminaristi ed 11 novizi: il numero è aumentato sino al 1954, quando il Vietnam venne diviso in 2 parti distinte. Proprio in quell’anno, infatti, molti redentoristi furono costretti a fuggire nel Vietnam del Sud. Ad Hanoi rimasero i padri Joseph Vu Ngoc Bich, Denis Paquette e Thomas Côté, insieme ai fratelli Clement Pham Van Dat e Marcel Nguyen Tan Van.
Il governo comunista, ateo, li sottopose ad un trattamento molto duro che presto divenne persecuzione. Il 7 maggio del 1955 fr. Marcel Nguyen venne arrestato, e morì in carcere 4 anni dopo. Il p. Denis Paquette venne deportato nel 1958; un anno dopo toccò a p. Thomas Côté. Il 9 ottobre del 1962, la polizia arrestò fr. Clement Pham, che morì in carcere dopo 8 anni di prigionia.
Da allora, p. Joseph Vu ha retto da solo la chiesa, cui il governo ha confiscato un totale di 59mila metri quadrati. I funzionari comunisti vi hanno costruito sopra un ospedale ed hanno venduto il resto del terreno a compagnie statali o a membri del governo.
I sacerdoti, i religiosi ed i fedeli di Thai Han hanno chiesto più volta la restituzione dei terreni. A sostegno della loro richiesta, ricordano che non hanno mai firmato alcun accordo per cedere la terra al governo, neanche in condizioni di coercizione.
I cattolici ricordano la Costituzione, che salvaguardia la libertà religiosa ed i luoghi di culto, ed in particolare sottolineano la direttiva 379/TTG, che impone alle autorità di ridare ai proprietari i beni ed i terreni confiscati nel tempo, se questi non sono più necessari al governo per scopi prioritari. Inoltre, ricordano l’ordinanza PL-UBTVQH11 del 2004, che dice: “La proprietà legale dei siti di interesse religioso è protetta dalla legge: ogni violazione è proibita”.
Nonostante tutto questo, però, le autorità del distretto di Dong Da insistono nel voler rubare altra terra alla parrocchia. Tuttavia, la protesta del 6 gennaio li ha costretti a ritirare i soldati, che proteggevano con le armi le nuove costruzioni in corso.


NON È QUESTA L’ORA DI DIVIDERSI - LA MONNEZZA ESIGE SOLIDARIETÀ
Avvenire, 12.1.2008
DAVIDE RONDONI
È giusto essere uniti davanti alla ban­diera. O alla costituzione. O, ancor di più, davanti alla memoria di coloro che sono morti per la patria. Insomma, è giu­sto, è necessario ritrovare unità davanti alle istituzioni autorevoli e ai sacrifici che hanno fatto l’Italia.
Più difficile essere uniti davanti all’im­mondizia. In queste ore convulse dove la classe politica discute a momenti dei massimi sistemi (sistemi elettorali, coa­lizioni, riforme) e a momenti dei sacchi di pattume, l’Italia è chiamata ad una prova dura. E però determinante. Più che davanti alla bandiera, sarà davanti ai sac­chi di immondizia che si vedrà se qual­cuno in questo secolo e mezzo, oltre a far l’Italia, ha fatto anche gli italiani. Per­ché le proteste, il non voler dare una ma­no nel momento dell’emergenza, sono il segno di un Paese che forse non c’è più. O forse non c’è mai stato. Al contrario, so­no questi i momenti in cui si possono, si devono alzare le voci, le azioni, le dispo­sizioni che diano un segno di compatta­mento.
Gli abitanti che amano la propria casa, quando scoppia un incendio corrono ai ripari, ognuno facendo il possibile. Non si perdono in accuse reciproche. Non si fermano a fare considerazioni intelli­genti ma ora inutili. Di fronte all’incen­dio di vergogna, allo scempio a cui anni di incuria hanno ridotto la meravigliosa e tremenda Napoli, è inutile ora divider­si nelle accuse, o sostare nelle analisi. Anche perché se Napoli affonda, a Mila­no non possono certo rallegrarsi. Se Na­poli viene sepolta dai propri liquami e dalla vergogna, a Torino, a Trento, a Ro­ma non possono non tremare.
Gli italiani nelle loro lingue hanno di­versi nomi per lo stesso fenomeno: spaz­zatura, pattume, rusco, monnezza... Ma devono ora parlare una sola lingua, quel­la dell’emergenza. Se un governo è mes­so in crisi dalla spazzatura, non sarà la spazzatura a render grande l’opposizio­ne. Perché è l’Italia intera a perdere, a es­sere vilipesa agli occhi del mondo, e a perdere dignità dinanzi ai nostri occhi. Un Paese che lascia affondare nello schifo una delle sue città più belle e rap­presentative, che rispetto, che dedizione può chiedere ai propri cittadini, ai gio­vani e a coloro che fanno già tanti sacri­fici per campare?
Occorre essere a disposizione per il bi­sogno che c’è. Alcune regioni l’han fatto prontamente, altre no. E certi gruppi in­vece han pensato che era giusto prote­stare, sottrarsi. Ma dividersi ora non ser­ve a niente. Sarebbe di certo più facile fare uno sforzo solidale se dalla classe politica venissero segni chiari di assun­zione di responsabilità. Di ammissioni, di atteggiamenti conseguenti. Sarebbe più facile chiedere unità e disponibilità ai cittadini, se dai responsabili politici venisse un segnale chiaro di sincera am­missione. Ma se non ora, verrà il mo­mento del giudizio politico e delle con­seguenze. Verrà la correzione e se ne­cessario l’intervento chirurgico.
Ora, occorre la solidarietà nazionale. Non comprendere la gravità della prova, e soffiare sul fuoco delle divisioni rischia ora di essere altrettanto colpevole di chi ha lasciato che l’incendio di vergogna di­vampasse. L’unità davanti alle prove non è un segno di debolezza. Di cedevole 'vo­lemose bene'. La forza di una nazione si ha quando il popolo non ha come legge suprema quell’adagio secondo il quale sui grandi principi si è d’accordo ma non si tollerano disturbi alla quiete del pro­prio giardino.
In questa montagna di spazzatura sta un avvertimento, forse uno degli ultimi al­l’Italia. Se non ci si abitua a guardare più in alto del proprio tornaconto, cresce qualcosa dal basso che finirà per soffo­care tutti. E a quel punto sarà patetica, oltre che inutile, la distinzione tra colo­ro che avevano ragione e quelli che han­no avuto torto. Se di fronte alla emer­genza di tale vergogna che ci cresce ad­dosso ci si divide invece di unirsi, il de­stino sarà di non distinguere più l’Italia dalla sua spazzatura