mercoledì 1 dicembre 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    IL PAPA: SIAMO SEMPRE NEL CUORE DI DIO, ANCHE QUANDO SEMBRA LONTANO - Messaggio alle esequie della Memor Domini Manuela Camagni
2)    Fonti ebraiche su Pio XII confermano i giudizi di Benedetto XVI nel suo ultimo libro-intervista - © Copyright Radio Vaticana
3)    30/11/2010 - BHUTAN - Diritti umani violati di continuo nel Bhutan, finto regno della felicità - Due cristiani protestanti ricercati dalla polizia per legami con Prem Singh Gurung, cristiano condannato a tre anni per aver proiettato un film sulla vita di Gesù. Dissidente in esilio denunciano le violenze contro dissidenti politici, minoranze etniche e religiose: “ Il regime ha cercato di bendare la comunità internazionale utilizzando il nome democrazia”.
4)    La posizione dei Cattolici a proposito di immigrazione di Emanuele Pozzolo – intervista a Massimo Introvigne – dal sito http://www.pontifex.roma.it
5)    Martiri giapponesi dal sito http://www.pontifex.roma.it
6)    Nichilismo americano Lorenzo Albacete - mercoledì 1 dicembre 2010 – il sussidiario.net
7)    CARRON/ 1. Campiglio: conservare l'entusiasmo dell'inizio per un nuovo sviluppo Luigi Campiglio - mercoledì 1 dicembre 2010 – il sussidiario.net
8)    LETTURE/ Che cosa vuole il nostro animo? Ce lo dicono Lucrezio e il "caso B"... Laura Cioni - mercoledì 1 dicembre 2010 – ilsussidiario.net
9)    Avvenire.it, 1 dicembre 2010 - Il cambiamento, la protesta, le ragioni da tener care - Ma la malora no di Davide Rondoni
10)                      Avvenire.it, 1 dicembre 2010, CITTÀ DEL VATICANO - Appello del Papa per la Chiesa in Cina

IL PAPA: SIAMO SEMPRE NEL CUORE DI DIO, ANCHE QUANDO SEMBRA LONTANO - Messaggio alle esequie della Memor Domini Manuela Camagni

CITTA' DEL VATICANO, martedì, 30 novembre 2010 (ZENIT.org).- Anche quando sembra che il Signore sia lontano, “in realtà noi siamo sempre presenti a Lui, siamo nel suo cuore”.

Papa Benedetto XVI lo afferma nel messaggio che ha inviato per le esequie della Memor Domini Manuela Camagni, della Famiglia Pontificia, deceduta la settimana scorsa in un incidente a Roma (cfr. ZENIT, 25 novembre 2010).

Il testo è stato letto questo lunedì da monsignor Georg Gänswein, segretario particolare del Pontefice, nel corso della liturgia esequiale celebrata a San Piero in Bagno di Romagna, in provincia di Forlì-Cesena.

Manuela Camagni, di 56 anni, era una delle quattro Memores Domini – donne consacrate nel mondo appartenenti al movimento Comunione e Liberazione – che si occupano dell'appartamento pontificio.

Il Papa ha ricordato di aver potuto “beneficiare della sua presenza e del suo servizio nell’appartamento pontificio, negli ultimi cinque anni, in una dimensione familiare”.

“Desidero ringraziare il Signore per il dono della vita di Manuela, per la sua fede, per la sua generosa risposta alla vocazione”, ha scritto nel messaggio.

“La divina Provvidenza l’ha condotta a un servizio discreto ma prezioso nella casa del Papa. Lei era contenta di questo, e partecipava con gioia ai momenti di famiglia: alla santa Messa del mattino, ai Vespri, ai pasti in comune e alle varie e significative ricorrenze di casa”.

“Il distacco da lei, così improvviso, e anche il modo in cui ci è stata tolta, ci hanno dato un grande dolore, che solo la fede può consolare”, ha riconosciuto il Pontefice, confessando di trovare “molto sostegno” “nel pensare alle parole che sono il nome della sua comunità: Memores Domini”.

“Meditando su queste parole, sul loro significato, trovo un senso di pace, perché esse richiamano ad una relazione profonda che è più forte della morte”.

Memores Domini, infatti, significa “che ricordano il Signore”, cioè “persone che vivono nella memoria di Dio e di Gesù, e in questa memoria quotidiana, piena di fede e d’amore, trovano il senso di ogni cosa, delle piccole azioni come delle grandi scelte, del lavoro, dello studio, della fraternità”.

“Mi dà pace pensare che Manuela è una Memor Domini, una persona che vive nella memoria del Signore. Questa relazione con Lui è più profonda dell’abisso della morte. E’ un legame che nulla e nessuno può spezzare”.

“Se noi ricordiamo il Signore”, ha proseguito Benedetto XVI, “è perché Lui, prima ancora, si ricorda di noi. Noi siamo memores Domini perché Lui è Memor nostri, ci ricorda con l’amore di un Genitore, di un Fratello, di un Amico, anche nel momento della morte”.

“Sebbene a volte possa sembrare che in quel momento Lui sia assente, che si dimentichi di noi, in realtà noi siamo sempre presenti a Lui, siamo nel suo cuore. Ovunque possiamo cadere, cadiamo nelle sue mani”.

“Proprio là, dove nessuno può accompagnarci, ci aspetta Dio: la nostra Vita”, conclude il testo.

La celebrazione esequiale di Manuela Camagni, ha riferito “L'Osservatore Romano”, è stata presieduta dall'Arcivescovo metropolita di Modena-Nonantola e amministratore apostolico di Cesena-Sarsina, monsignor Antonio Lanfranchi.

Hanno concelebrato l'Arcivescovo Luciano Suriani, in rappresentanza della Segreteria di Stato, l'Arcivescovo di Lviv dei Latini, monsignor Mieczysław Mokrzycki, il Vescovo emerito di Cesena-Sarsina, monsignor Lino Garavaglia, e una quarantina di sacerdoti, tra i quali don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione.

“Conoscendo la tenerezza e la sensibilità di Manuela – ha spiegato monsignor Lanfranchi –, credo che non sia stato facile per lei, come per Abramo, lasciare tutto: paese, casa, amici, ma c'era una convinzione profonda, capace di far superare tutte le resistenze, le difficoltà: il Vangelo”.

“Appartenere a Dio la portava ad amare e a vivere la Chiesa, prolungamento dell'umanità di Gesù Cristo, servendola con passione e amore, ultimamente nel delicato compito di familiare del Santo Padre”.

Manuela, ha aggiunto, “è stata una benedizione per le 'Memores', per il Santo Padre e la famiglia pontificia: commuove il ritratto di questa famiglia che il Santo Padre fa nel libro intervista 'Luce del mondo'; la condivisione della fede davvero crea rapporti profondi, a volte più profondi dei legami di sangue. Ricca di questa benedizione, ora è ritornata alla sua terra per attendere la risurrezione finale”.

Nell'omelia della cerimonia, don Carrón ha descritto Manuela Camagni come “radiosa, risplendente” nel testimoniare l'“immagine della sua vocazione”.

“Se viviamo per il Signore, Lui ci porta a una gioia e a una letizia che deborda dalla nostra immaginazione, proprio come abbiamo visto in Manuela – ha sottolineato –. Dare la vita a Cristo significa che Cristo è l'unica ragione per vivere e per morire. Oggi possiamo essere certi che lui la aggiunge alla sua compagnia”.

Questo giovedì, 2 dicembre, il Papa celebrerà privatamente una Messa per Manuela.


Fonti ebraiche su Pio XII confermano i giudizi di Benedetto XVI nel suo ultimo libro-intervista - © Copyright Radio Vaticana

Le rivelazioni storiche più recenti confermano la posizione espressa da Benedetto XVI nel suo ultimo libro-intervista “Luce del mondo” riguardo a Pio XII e il suo sostegno agli ebrei perseguitati.
Il Papa chiarisce che è importante superare le interpretazioni ideologiche su ciò che Pio XII avrebbe potuto fare nella seconda Guerra Mondiale.
“L’importante è ciò che ha fatto e cercato di fare, - dichiara - e credo che bisogna riconoscere che è stato uno dei grandi giusti e che, come nessun altro, ha salvato tanti e tanti ebrei”. Nella sua conversazione con il giornalista Peter Seewald, il Pontefice sostiene di aver ordinato per l'iter di beatificazione di Papa Eugenio Pacelli, un'indagine che potesse confermare “tutto il positivo” e smentire “il negativo” addotto nei suoi confronti. Il 17 novembre scorso, il Papa ha ricevuto il fondatore della “Pave the Way Foundation” (Ptw), Gary Krupp, ebreo, che gli ha consegnato nuove rivelazioni storiche a conferma di questa posizione. In alcune dichiarazioni all’agenzia Zenit, Krupp ha affermato che “il libro e i documenti presentati al Papa derivano dagli sforzi della Fondazione per chiarire, e inserire pubblicamente sul suo sito web (www.ptwf.org), documenti originali e testimonianze oculari per incoraggiare lo studio da parte della comunità storica internazionale”. “Si spera che diffondendo questo materiale sul sito web – ha aggiunto lo studioso ebreo – la controversia che dura da 46 anni sul pontificato di Papa Pio XII possa essere risolta. Finora la Ptwf ha inserito oltre 40 mila pagine di documenti, articoli e interviste a testimoni oculari, materiale originale, relativo a questo periodo storico”.
Krupp ha presentato al Papa il libro della Ptwf intitolato “Papa Pio XII e la II Guerra Mondiale. La Verità Documentata”, che è stato appena pubblicato in ebraico. Il testo, di agevole lettura, contiene numerosi documenti, articoli e interviste notevoli che permettono al lettore di giungere a una conclusione su quel periodo controverso. E' il primo libro scritto in ebraico su Papa Pio XII basato su documenti originali piuttosto che su teorie speculative. Krupp ha anche presentato al Papa una serie di testimonianze autenticate degli sforzi personali di Papa Pacelli per salvare la vita agli ebrei.
E’ stato anche presentato a Benedetto XVI il libro “Hitler, la guerra e il Papa”, scritto dal prof. Ronald Rychlak insieme a Mihai Ion Pacepa, l'agente del Kgb di più alto rango ad aver mai disertato. Il volume descrive le operazioni della rete di disinformazione del Kgb e il piano denominato “Seat 12”, volto ad infangare la reputazione di Papa Pio XII e a scavare un solco tra il mondo cattolico e quello ebraico. Il piano, ordinato da Nikita Kruscev, mirava ad attaccare la Chiesa cattolica e la reputazione di Papa Pio XII. L'operazione voleva inoltre isolare la comunità ebraica dal mondo cattolico. (C.P.)


30/11/2010 - BHUTAN - Diritti umani violati di continuo nel Bhutan, finto regno della felicità - Due cristiani protestanti ricercati dalla polizia per legami con Prem Singh Gurung, cristiano condannato a tre anni per aver proiettato un film sulla vita di Gesù. Dissidente in esilio denunciano le violenze contro dissidenti politici, minoranze etniche e religiose: “ Il regime ha cercato di bendare la comunità internazionale utilizzando il nome democrazia”.

Timphu (AsiaNews) – In Bhutan, dove la felicità dei cittadini è un indice economico, continuano le violazioni dei diritti umani contro minoranze etniche e religiose. Dopo il caso di Prem Singh Gurung, cristiano protestante condannato a tre anni di carcere per aver proiettato un film sulla vita di Gesù, altri due cristiani sono ricercati in questi giorni dalla polizia. Essi sono accusati di aver collaborato insieme a Gurung nel fare proselitismo tra gli abitanti del distretto di Jigmecholin. 

Dal 2006 il governo del Bhutan ha iniziato a promuovere la democrazia, dopo secoli di monarchia assoluta che proibiva la pratica di religioni diverse dal buddismo. La nuova costituzione varata nel 2008 prevede la libertà di fede per tutti i bhutanesi, previa la segnalazione alle autorità competenti. Tuttavia è vietato il proselitismo, la pubblicazione di bibbie, la costruzione di scuole cristiane e l’ingresso ai religiosi. Nonostante la democrazia, il regno riceve continue accuse di violazione dei diritti umani, soprattutto contro dissidenti politici e minoranze etniche.

Lo scorso 27 novembre a New Delhi, rappresentanti del Bhutan, hanno partecipato per prima volta alla conferenza sui diritti umani nell’Asia del Sud organizzata dalla South Asian for Human Rights. Tra questi Tek Nath Rizal leader del Bhutanese People's Party,  ha denunciato la grave situazione nel suo Paese, chiedendo alla comunità internazionale di fare pressioni sul governo per il rilascio dei due cristiani. “Il Bhutan – ha affermato – è uno Stato multietnico e multilinguistico. Nel Paese sono parlate 22 lingue. Purtroppo, il governo ha imposto 'una lingua ufficiale il ‘dzongkha’ e il buddismo Kagyurpa come unica religione. Induismo, cristianesimo e anche la setta buddista Nyingmapa sono state soppresse”.  

Secondo il dissidente nelle regioni meridionali a maggioranza nepalese le scuole sequestrate negli anni '90 dal regime non sono mai state restituite alla comunità e sono ora dei ruderi. I pochi bambini che frequentano gli istituti pubblici sono obbligati a parlare lingua, religione e tradizioni imposte dal governo. Inoltre Rizal sottolinea che i processi sono pronunciati in lingua Dzongkha e spesso nei tribunali non vi sono interpreti, quindi chi non conosce il linguaggio non si può difendere in sede processuale. 

Il dissidente ha denunciato anche la situazione dei dissidenti politici, torturati in carcere e degli oltre 80mila profughi di origine nepalese da oltre 10 anni in esilio nei campi profughi al confine con il Nepal.  

“Considerando il grado di oppressione sulle persone innocenti – ha affermato - finora il Bhutan è non è mai stato una vera democrazia, perché ha omesso di affrontare il problema dei prigionieri politici, molti dei quali hanno subito torture. In sostanza, il regime ha cercato di bendare la comunità internazionale utilizzando il nome democrazia.”


La posizione dei Cattolici a proposito di immigrazione di Emanuele Pozzolo – intervista a Massimo Introvigne – dal sito http://www.pontifex.roma.it

PROFESSOR INTROVIGNE IN QUESTI GIORNI SI È FATTO UN GRAN PARLARE DELLA POSIZIONE DEI CATTOLICI A PROPOSITO DELL’IMMIGRAZIONE: CI AIUTI A FARE UN PO’ DI CHIAREZZA, QUAL È LA POSIZIONE UFFICIALE DELLA CHIESA CATTOLICA SU QUESTO PUNTO? Nell’enciclica Caritas in veritate, Benedetto XVI fissa tre principi fondamentali relativi alla questione dell’immigrazione, che – sottolinea – è «di gestione complessa», comporta «sfide drammatiche» e non tollera soluzioni sbrigative. PUÒ ILLUSTRARCI IN SINTESI QUESTI TRE PRINCIPI? Il primo principio è l’affermazione dei «diritti delle persone e delle famiglie emigrate». Una volta che è arrivato nel Paese di destinazione, il migrante deve vedersi riconosciuti i «diritti fondamentali inalienabili» e dev’essere sempre trattato come una persona, mai «come una merce». Il secondo principio è che si devono ugualmente salvaguardare i diritti  ...

... «delle società di approdo degli stessi emigrati»: diritti non solo alla sicurezza ma anche alla difesa della propria integrità nazionale e della propria identità. Il terzo principio riguarda i diritti delle società di partenza degli emigrati, che si deve porre attenzione a non svuotare di risorse e di energie, sottraendo loro con l’emigrazione persone che sarebbero utili e necessarie nel Paese di origine. Va sempre posta attenzione al «miglioramento delle situazioni di vita delle persone concrete di una certa regione, affinché possano assolvere a quei doveri che attualmente l’indigenza non consente loro di onorare»: anzitutto dove sono nate, e senza essere costrette o indotte all’emigrazione.

QUALI SONO GLI ATTEGGIAMENTI CHE MAGGIORMENTE CONTRASTANO CON QUESTO ORIENTAMENTO?

Questi principi sono violati da due distinti atteggiamenti e ideologie. Il primo principio è negato dalla xenofobia cioè dalla convinzione  che l’altro, lo straniero è per definizione inferiore a chi abita da sempre  il Paese di approdo dell’emigrazione e può essere quindi discriminato in quanto straniero. Il secondo e il terzo principio sono violati dall’immigrazionismo – l’espressione è stata coniata dal politologo francese Pierre-André  Taguieff e ripresa dal giornalista statunitense Christopher Caldwell – cioè dall’ideologia secondo cui l’immigrazione è sempre e comunque un fenomeno eticamente e culturalmente buono ed economicamente vantaggioso, e negare che lo sia è di per sé manifestazione di xenofobia e di razzismo.

PARE CHE QUEST’IDEOLOGIA IMMIGRAZIONISTA STIA FACENDO PROSELITI, NON CREDE?

Senza dubbio. A differenza della xenofobia, l’immigrazionismo è sostenuto da argomenti di notevole impegno intellettuale. Non sarebbe dunque giustificata nell’esame del problema una par condicio nel criticare le due deviazioni – xenofobia e immigrazionismo – dai principi  che la dottrina sociale fissa in tema d’immigrazione. Dal punto di vista intellettuale l’immigrazionismo è più insidioso, rischia di essere più persuasivo e dunque richiede una confutazione più articolata.

Raramente la xenofobia è sostenuta da una elaborazione culturale, se non si vuole considerare tale il ritorno a vecchie teorie della razza da parte di qualche gruppuscolo neo-nazista. La xenofobia si combatte, come notava Papa Giovanni Paolo II nel Messaggio per la 89a Giornata mondiale del migrante e del rifugiato del 2003 - e come ha ribadito recentemente Benedetto XVI, di cui peraltro consiglio di leggere sempre i testi integrali sul sito della Santa Sede e non i riassunti tendenziosi su certi quotidiani – con il richiamo alla figura naturale e cristiana della persona creata, voluta e amata da Dio qualunque siano la sua etnia, la sua lingua e la sua nazionalità. Ci sono però dei «professionisti dell’anti-razzismo» che manipolano pericolosamente la lotta alla xenofobia sfruttandola per diffondere il relativismo culturale, cioè l’idea che tutte le culture sono uguali e che non esistono culture migliori o peggiori di altre. Questo «eclettismo culturale», che rischia di diffondersi anche a causa della globalizzazione che fa incontrare più spesso e più rapidamente le culture tra loro, sostiene – spiega la Caritas in veritate – che le culture sono «sostanzialmente equivalenti». Questa è un’opinione molto diffusa, ma è pure il cuore stesso del relativismo, che la Chiesa non può accettare.

QUINDI È CRISTIANAMENTE LECITO SOSTENERE CHE NON TUTTE LE CULTURE HANNO LO STESSO VALORE?

Le culture non sono affatto tutte dello stesso valore. Vanno giudicate alla luce della loro capacità di servire il bene comune e i veri diritti della persona, che non tutte le culture rispettano nello stesso modo. Una cultura fondata sulla poligamia e una fondata sul matrimonio monogamico non sono «equivalenti». Alla luce non solo della religione ma anzitutto del diritto naturale, che s’impone a tutti sulla base della ragione, la poligamia è sbagliata e la monogamia è giusta. Sono affermazioni poco «politicamente corrette», ma che vanno assolutamente mantenute se si vogliono difendere i diritti della verità ed evitare di promuovere il relativismo.

OGGI STIAMO APRENDO LE PORTE DELLE NOSTRE PATRIE EUROPEE A MILIONI DI PERSONE CHE APPARTENGONO A CULTURE RADICALMENTE DIVERSE DALLA NOSTRA E TALUNI POLITICI PARLANO ADDIRITTURA DI CONCESSIONE VELOCE DELLA CITTADINANZA A QUESTI MIGRANTI. LEI CHE NE PENSA?

Accogliere grandi quantità d’immigrati, si dice, è un imperativo morale. Lo affermano politici di sinistra e talora di destra, e anche ecclesiastici. Si afferma che questo è il contributo moralmente obbligatorio dell’Unione Europea – anche come penitenza per i peccati del colonialismo – per risolvere i problemi della fame del mondo e del sottosviluppo. Ma, a prescindere dal fatto che presentare il colonialismo come soltanto dannoso e malvagio è piuttosto unilaterale e storicamente discutibile, non c’è nessuna prova convincente che sia meno costoso per l’Europa e più proficuo per il Terzo Mondo trasferire da noi milioni d’immigrati extra-comunitari piuttosto che destinare le stesse risorse ad aiutarli nei loro Paesi d’origine. Ci sono anzi fondati indizi del contrario. Chi afferma che molti immigrati sono ottimi candidati alla cittadinanza ci racconta spesso quanti geni dell’informatica, ottime infermiere e bravi medici vengono dai Paesi del Terzo Mondo. Ma non riflette sul costo etico costituito dal fatto che così facendo si sottraggono ai Paesi d’origine proprio quelle élite che sarebbero loro indispensabili per uscire dal sottosviluppo. L’infermiera ugandese che viene in Italia è sottratta all’Uganda, dove servirebbe come il pane per combattere le epidemie.

UN ALTRO ARGOMENTO MOLTO UTILIZZATO DAGLI “IMMIGRAZIONISTI” È IL DIRITTO D’ASILO …

Sì, è un argomento etico molto usato anche in Italia quello che si riferisce al diritto d’asilo. Tuttavia questo diritto è di rado definito in modo rigoroso, e talora è ridotto a una semplice farsa.  Chiunque non si trovi bene in un Paese non democratico o sia vittima di gravi sperequazioni economiche avrebbe diritto a chiedere asilo politico: insomma, la stragrande maggioranza degli abitanti del Terzo Mondo avrebbe questo diritto.

OLTRE ALL’ARGOMENTAZIONE SUL DIRITTO D’ASILO ORAMI È LUOGO COMUNE RITENERE L’IMMIGRAZIONE ASSOLUTAMENTE DOVEROSA PERCHÉ SI DICE CHE GLI IMMIGRATI FANNO QUEI LAVORI CHE GLI ITALIANI NON FANNO PIÙ. E’ VERO?

I «lavori che nessun europeo vuole» sono spesso «lavori che nessun europeo vuole se il salario non è attraente». Esistono pochissimi lavori che gli europei si rifiutano di fare «qualunque sia il salario». La verità è un’altra: ci sono datori di lavoro che preferiscono impiegare per certi lavori gli immigrati, i quali costano meno. Questo altera e distorce il mercato del lavoro, e viola i diritti dei cittadini disoccupati che si vedono passare davanti immigrati disposti a lavorare a basso costo. Si assiste al paradosso per cui in alcuni Paesi, mentre aumenta la disoccupazione, aumenta contemporaneamente anche l’immigrazione.

Per amore di equità, si deve peraltro riconoscere che non tutto in questo argomento degli immigrazionisti è falso. Ci sono settori dove effettivamente senza gli immigrati i problemi almeno a breve termine sembrano di difficile soluzione: il caso delle badanti in Italia sembra, qui, pertinente. Ma l’esempio può essere occasione di distinguere fra immigrati extra-comunitari e intra-comunitari. Su cinquecento milioni di residenti nell’Unione Europea, come accennato, cinquanta milioni sono immigrati. Ma di questi circa venti milioni sono abitanti di un Paese dell’Unione che si sono spostati in un altro. Benché, come sanno gli italiani, questi spostamenti non siano privi di problemi, l’immigrazione intra-comunitaria è di norma più facile da assorbire di quella extra-comunitaria per ragioni giuridiche e anche culturali. Dopo tutto, ci sono molte badanti romene e poche marocchine, cinesi o tunisine.

MOLTI SOSTENGONO CHE SONO GLI IMMIGRATI CHE OGGI STANNO PAGANDO, CON I LORO CONTRIBUTI, LE PENSIONI DEGLI ITALIANI. E’ UNA TESI SOLIDA?

Le cose non stanno proprio così. Ancora una volta ci si propone una fotografia, mentre per capire abbiamo bisogno di un film.  Sarà forse una novità per qualche immigrazionista, ma dovrà farsene una ragione: anche gli immigrati invecchiano e un giorno diventeranno pensionati. In Italia l’immigrazione è un fenomeno relativamente recente e gli emigrati pensionati sono pochi. Ma sono destinati fatalmente ad aumentare. Gli immigrati inoltre di solito hanno lavori poco remunerati, dunque pagano contributi relativamente bassi. Inoltre, fin da subito, sia loro sia i loro figli hanno come chiunque problemi di salute di cui la previdenza sociale si deve fare carico.

Una soluzione a tal proposito, per la verità, ci sarebbe, e qualcuno – non in Italia – l’ha anche seriamente sostenuta, senza neppure farsi dare del nazista: considerare gli immigrati «lavoratori ospiti» e rimandarli a casa quando hanno finito di lavorare, far pagare i contributi oggi ma non versare alcuna pensione domani. La soluzione provocherebbe tensioni tali da non potere essere presa davvero in considerazione da nessuno. E manderebbe anche alla rovina qualunque argomento etico degli immigrazionisti.

UNO DEI PROBLEMI PIÙ DELICATI RIGUARDA L’IMMIGRAZIONE ISLAMICA: È DAVVERO PENSABILE UNA CONVIVENZA PACIFICA, NELL’EUROPA DI DOMANI, TRA GLI OCCIDENTALI E GLI ISLAMICI?

Ogni tanto qualcuno lo dice esplicitamente: siamo laici, e dobbiamo affrontare il problema immigrazione senza tenere conto della religione, di cui potrà occuparsi al massimo la Chiesa. Ma si tratta di una sciocchezza. Anche il più ateo degli osservatori non può non riconoscere che la religione esiste e ha delle conseguenze sociali. Se a Torino, come avviene periodicamente, migliaia di peruviani portano in processione le loro statue della Madonna la gente applaude e i giornalisti manifestano una benevola curiosità. Se migliaia di musulmani occupano il suolo pubblico con le loro stuoie e magari mescolano alla preghiera invettive contro gli Stati Uniti e l’Occidente la gente e i media si spaventano. Denunciare queste reazioni come xenofobe non risolve il problema. Certamente – anche tra gli immigrati – ci sono molti islam, e alcuni sono meno lontani dai valori prevalenti in Europa di altri. Ma se da questa premessa – corretta – si arriva alla conclusione che non esistono caratteristiche specifiche dell’islam si cade nel più completo relativismo, forse di moda in un contesto culturale postmoderno, ma privo di senso. Esistono gli islam ma esiste anche l’islam. Che è difficile assimilare alla cultura europea su punti fondamentali che riguardano i rapporti fra fede e ragione, fra religione e violenza, fra maggioranze e minoranze religiose, fra uomini e donne.

Certo, processi di assimilazione d’immigrati islamici, singoli e gruppi, non sono impossibili. Ma in verità nessuna civiltà nella storia è riuscita a fronteggiare senza esserne distrutta l’arrivo in così poco tempo di così tante persone portatrici di una cultura e di una religione sia radicalmente diverse sia forti. Diverso era il caso dei barbari, che portavano in Europa una cultura debole; o degli irlandesi emigrati nel XIX secolo negli Stati Uniti il cui cattolicesimo era diverso dal protestantesimo maggioritario in America: ma non così radicalmente diverso com’è l’islam rispetto all’ethos europeo contemporaneo. [Fonte La Padania]


Martiri giapponesi dal sito http://www.pontifex.roma.it 

Un articolo su Giuliano Nakaura, sacerdote gesuita giapponese martirizzato a Nishizaka il 21 ottobre 1633. Sul cattolicesimo giapponese consigliamo la lettura del libro: Il crocifisso del samurai, di Rino Cammilleri (Rizzoli, 2009, 275 pag.) - Giuliano Nakaura, di p. Marcello Montanari - La straordinaria visita in Europa dei primi giapponesi - Grande risonanza ebbe in Italia e in Europa la visita di alcuni principi giapponesi a Roma, a Loreto e in altre città, avvenuta nel 1585. Erano i primi giapponesi a visitare il nostro continente. Grande era l’attesa e la curiosità. In quell’epoca si trattava di un evento eccezionale: del Giappone si conosceva ancora pochissimo (era stato scoperto da appena 40 anni!) e la visita di alcuni suoi rappresentanti era come l’incontro con degli extraterrestri. Nel luglio 1579 era giunto in Giappone il gesuita padre Alessandro Valignani, di Chieti, quale visitatore delle Missioni cattoliche orientali. Vi trovò centocinquantamila cristiani, serviti però da soli 59 missionari, dei quali 23 sacerdoti. Il padre Valignani, che era riuscito a convertire al cristianesimo diversi membri della nobiltà e delle case regnanti, promosse l’invio di un’ambasciata di principi cristiani giapponesi a Roma per un atto di ossequio al Papa e per far conoscere la cultura europea e la Chiesa cattolica.

I sovrani cristiani di Bungo, Arima e Omura accettarono la proposta del Valignani. Come inviati scelsero parenti stretti e figli dell’alta aristocrazia, tutti battezzati e giovanissimi per essere capaci di sopportare i disagi e le incertezze del lunghissimo viaggio (impiegarono tre anni per raggiungere Roma e altri cinque anni per far ritorno a Nagasaki). Furono designati Mantio Ito, Michele Chijwa, Martino Hara e Giuliano Nakaura. Giuliano, che era il più anziano della delegazione, aveva solo 15 anni, e gli altri ne avevano 13.

Gli inviati giapponesi, accompagnati da alcuni Gesuiti, si imbarcarono da Nagasaki su una nave portoghese il 20 febbraio 1582. Durante il lungo viaggio, durato più di due anni, approfittarono per imparare la lingua latina e la scrittura dell’Occidente europeo. Solo il 10 agosto 1584 raggiunsero il porto di Lisbona. Dopo una sosta a Madrid si imbarcarono alla volta di Genova e di Livorno, e giunsero a Roma il 22 marzo 1585, accolti con grandi onori prima da Gregorio XIII e poi, alla sua morte, da Sisto V. A Ponte S. Angelo le artiglierie del Castello iniziarono a tuonare in segno di saluto mentre le campane di San Pietro e di tutte le altre chiese suonavano a distesa. Sulla Piazza di San Pietro l’intera popolazione di Roma era presente e tributò incredibili manifestazioni di affetto agli ospiti stranieri.

La visita alla Santa Casa di Loreto

Dopo la sosta romana i principi visitarono varie città italiane. Nell’elenco figurava in primo piano il santuario di Loreto, dove tra l’altro Gesuiti prestavano il servizio religioso. Vi giunsero con il seguito di circa venti persone l’11 giugno 1585, percorrendo la Via Lauretana, dopo aver toccato Tolentino, Macerata e Recanati. Per la loro visita a Loreto ci si può avvalere della relazione data alle stampe da Guido Gualtieri nel 1586, l’anno successivo alla visita. Gli illustri ospiti furono accolti a un miglio da Loreto dallo stesso governatore del santuario, che a quel tempo era mons. Vitale Leonori di Bologna (1583-1587), il quale era accompagnato dai notabili della città mariana. Poco dopo erano ad attenderli duecento archibugieri e, vicino a Porta Romana, il resto della popolazione.

Ricevuti con «trombe e tamburini e molte bombarde», entrarono nella basilica, attesi da tutti i canonici e da tutto il clero. Fu subito intonato il Te Deum con una «soavissima musica». I principi, accompagnati da quel nobile canto, andarono alla cappella del Santissimo Sacramento, che a quel tempo si trovava nell’attuale cappella polacca, e di lì si portarono nella Santa Casa. Dopo la preghiera, elevata con singolare devozione, salirono all’appartamento riservato per il loro alloggio, «ricchissimamente preparato nel palazzo del governatore», cioè nel braccio ovest del Palazzo Apostolico. La mattina fu cantata la messa solenne, durante la quale i principi giapponesi furono fatti accomodare «sotto un baldacchino regio», nel coro, che a quel tempo corrispondeva alla attuale cappella spagnola, abbellita allora dalle splendide tele di Lorenzo Lotto. Il governatore offrì agli ospiti il pranzo «con grande splendore». Il giorno seguente ricevettero l’eucaristia in Santa Casa e salutarono la Madonna. Quindi, «ripieni tutti di consolazione per la vista di sì sacro e santo luogo, si partirono per Ancona».

Il ritorno in Giappone e il martirio

I principi giapponesi lasciarono ricchi doni al santuario, tra cui un prezioso leggio di arte tipica giapponese che si conserva nell’Archivio Storico della Santa Casa. Proseguirono il viaggio per Ferrara, Milano, Venezia, sempre accolti con grandi onori e molta curiosità. Infine si imbarcarono il 9 agosto 1585 a Genova per far ritorno in patria. Giunsero a Nagasaki solo cinque anni dopo, il 21 luglio 1590. Purtroppo durante la loro assenza l’atteggiamento delle autorità giapponesi verso la religione cristiana era molto cambiato, fino all’ostilità e alla persecuzione. Fu in questo clima che il beato Giuliano maturò la sua vocazione religiosa e sacerdotale, tanto che entrò a far parte dell’ordine dei Gesuiti e fu ordinato sacerdote. La situazione persecutoria verso il cristianesimo peggiorò negli anni seguenti, al punto che nel 1633 Giuliano Nakaura fu condannato a morte e giustiziato il 13 ottobre di quell’anno, insieme a molti altri cristiani. [Fonte Centro Studi Federici]


Nichilismo americano Lorenzo Albacete - mercoledì 1 dicembre 2010 – il sussidiario.net

Non so quanto il neo-senatore Marco Rubio sia conosciuto al di fuori della Florida e dell’establishment politico degli Stati Uniti, ma sono sicuro che si sentirà presto parlare molto di lui. Rubio è uno dei vincitori delle recenti elezioni di metà legislatura, un giovane (39 anni), attraente Repubblicano conservatore, apparentemente molto abile, appoggiato dal movimento del Tea Party, ispanico di discendenza cubana, cattolico praticante e praticante cristiano evangelico in una Chiesa affiliata ai Southern Baptists.

Sì, avete letto bene: il nuovo senatore della Florida sembra essere contemporaneamente cattolico e protestante e trovarsi a suo agio da entrambe le parti. In un articolo del 26 novembre su The New York Times, Mark Oppenheimer (Marco Rubio: Cattolico o Protestante?) osserva che «se (Rubio) si presenta sul suo sito Florida Statehouse Web e nelle interviste come cattolico romano, blogger e giornalisti hanno notato che dalla sua elezione ha regolarmente preso parte alle funzioni di una Chiesa evangelica la cui teologia è del tutto conflittuale con la dottrina cattolica».

Per buona parte dell’ultimo decennio, continua, «Rubio ha frequentato Christ Fellowship (Compagnia di Cristo) con sua moglie e i figli. “Viene con regolarità alle nostre funzioni” alla chiesa del campus di Palmetto Bay, ha detto il pastore Eric Geiger. Secondo il sito della campagna elettorale di Rubio, il senatore ha dato contributi alla Christ Fellowship per 50.000 dollari, dal 2005 al 2008».

Secondo l’articolo, Rubio «mantiene legami anche con la Chiesa Cattolica. “Nell’ultima domenica della campagna elettorale, per esempio, ha ascoltato la Messa nella chiesa cattolica di Cristo Re a Tampa” si legge in una email di Alex Burgos, il suo portavoce, e “La mattina delle elezioni è andato a Messa a Coral Gables”».

I Southern Baptists sono una comunità ecclesiale riconosciuta dalla Chiesa Cattolica e come tale partecipa agli incontri ecumenici ufficiali. Le loro convinzioni dottrinali sono all’opposto della dottrina cattolica su punti cruciali della fede. Per esempio, come osserva Oppenheimer, i Southern Baptists rifiutano il battesimo dei bambini, pratica assolutamente essenziale per la posizione cattolica sui sacramenti, la natura della Chiesa e la dottrina della salvezza. Ovviamente non riconoscono il carisma unico del Papa, né la concezione cattolica del sacerdozio. Inoltre, pane e vino nell’Eucarestia sono solo simbolici e non divengono corpo e sangue reali di Cristo, come credono i cattolici.

Secondo il giornalista, Rubio è l’esempio di un nuovo tipo di cattolico ispanico che sta emergendo negli Stati Uniti: «Sebbene la maggior parte degli ispanici sia di origine cattolica, la comunità si sta differenziando in termini religiosi, con molti immigrati e loro discendenti che si avvicinano ai protestanti evangelici». E prosegue: «Fernand Amandi, la cui società in Florida, la Bendixen & Amandi, è specializzata in sondaggi di opinione tra gli ispanici, dice che “tra la gente pochi sembrano curarsi del fatto che Rubio si divida tra due identità religiose. Credo che non vi sia una reale coscienza di tutto questo… la comunità ispanica rispetta la diversità e penso che non dia importanza alla cosa”».
Oppenheimer fornisce anche dei dati: dal 1990 al 2008, la percentuale di ispano-americani che si dichiarano cattolici è scesa dal 66% al 60%. Si è anche verificato che più lunga è la permanenza negli Stati Uniti e minore è la probabilità che un ispanico, o un’ispanica, si dichiarino cattolici. Inoltre, i non cattolici tendono maggiormente a dichiararsi Repubblicani. Secondo questi dati, l’identità dualistica sta diventando sempre più comune.

Dall’altro lato, Oppenheimer cita Padre Virgilio P. Elizondo, un prete che insegna all’Università di Notre Dame, il quale afferma che Rubio è tuttavia una novità: “Non credo che questo sia molto comune. So di cattolici che cambiano per un certo periodo, ma poi ritornano, e di altri che non tornano più alla Chiesa cattolica, ma non conosco nessuno che dichiari di essere cattolico e frequenti un’altra Chiesa”. Oppenheimer conclude: «Ciò che può risultare chiaro da questa storia, chiamiamola il “Caso del Primo Senatore Cattolico Protestante”, è che in America le distinzioni religiose contano sempre di meno».

La mia esperienza personale di prete cattolico ispanico mi porta a concordare con Padre Elizondo, la cui vasta esperienza “sul campo”, per così dire, è straordinaria. La sua opinione coincide anche con quanto ho appreso come consigliere del Comitato dei Vescovi per gli Affari ispanici. D’altra parte, la perdita della consapevolezza di ciò che significa un’identità cattolica sta realmente minacciando la comunità cattolica ispanica negli Stati Uniti. Il caso del senatore Rubio può essere un’indicazione di dove stanno andando i cattolici ispanici in America.

Questa tendenza a ridurre il senso dell’identità cattolica a folklore, a tradizioni culturali e a una spiritualità senza contenuti minaccia anche i cattolici americani in generale. Mi torna in mente l’osservazione di Curtis White in Harper’s Magazine (dicembre 2007), già citata in un precedente articolo. Si tratta della forma americana del nichilismo. Per Nietzsche, il nichilismo europeo era la caduta di ogni forma di credo: «Il nichilismo americano è qualcosa di diverso. Il nostro nichilismo è la nostra capacità di credere in qualsiasi cosa e credere in niente contemporaneamente. Tutto va bene!».


CARRON/ 1. Campiglio: conservare l'entusiasmo dell'inizio per un nuovo sviluppo Luigi Campiglio - mercoledì 1 dicembre 2010 – il sussidiario.net

La relazione di Carrón all’assemblea della Compagnia delle Opere colpisce per la sua profondità umana, ma anche per il coraggio con cui intende colmare il divario fra parole e azioni, fra intenzioni e difficoltà dell’agire economico: infatti il vero banco di prova di un’autentica responsabilità d’impresa è il momento della crisi, che in tempi normali è fisiologica, ma in tempi eccezionali, come quelli che stiamo attraversando, richiede una consapevolezza dell’agire e del bene comune, che trascende la singola impresa.

Nell’atto costitutivo di qualunque impresa è prevista l’indicazione dell’oggetto sociale, ma non delle motivazioni e dei modi con cui realizzarlo: se si stabilisce un nesso fra questi diversi momenti, il che di regola non avviene, il tipo d’impresa che ne emerge ha una natura differente da quella tradizionale, perché del suo atto costitutivo fanno idealmente parte anche le motivazioni delle origini.

Non è ciò che di regola accade nel mondo delle imprese, perché anche qualora rimanga invariato l’oggetto sociale, cioè il motivo d’esistenza dell’impresa, possono cambiare sostanzialmente le motivazioni originarie, oltre che gli strumenti per realizzare gli obiettivi. L’entusiasmo dell’imprenditore che si tuffa nel suo lavoro con la convinzione di conquistare il mondo intero, o almeno una sua parte, non è una qualità umana che possa essere facilmente trasmessa ed è per questo motivo che la transizione generazionale delle piccole e medie imprese italiane, da padre in figlio o figlia, sono più complesse rispetto all’avvicendamento manageriale delle public companies.

La situazione diviene ancora più difficile quando si tratti di conservare l’entusiasmo di motivazioni fondate su valori cristiani, che pongono al centro il valore dell’uomo, della sua vita e dignità, con un entusiasmo da difendere nel confronto quotidiano, spesso logorante, della competizione di mercato, con imprese e comportamenti motivati esclusivamente dall’accumulazione del capitale. La complessità del compito appare evidente quando si considerino imprese con obiettivi socialmente rilevanti, ma ugualmente da condurre con spirito imprenditoriale, come nel caso del Banco Alimentare, ed è altrettanto complessa quando una più vasta moltitudine d’imprese si trova a competere su mercati tradizionali, nazionali e internazionali.

La questione va al cuore del processo dello sviluppo economico, se appena si considera il ruolo di ciò che tradizionalmente viene chiamato capitale umano, e che invece riteniamo più ricco e qualificante denominare “ricchezza umana”, per distinguerla in modo chiaro dal capitale materiale e finanziario: la “ricchezza umana” si compone di abilità cognitive, come la capacità di risolvere problemi, e abilità non cognitive, costituite da valori, motivazioni e qualità umane. Si riconosce oggi con chiarezza come la “ricchezza umana” sia davvero il fondamento della “ricchezza delle nazioni”, soprattutto per paesi come l’Italia in cui le risorse umane sono il principale motore dello sviluppo.
Si argomenta spesso, e con ragione, la necessità di differenziare la produzione di beni e servizi a elevato contenuto di valore aggiunto, trascurando l’elementare considerazione del fatto che la qualità dell’output dipende in modo essenziale dalla qualità dell’input, un po’ come la qualità del pane dipende dalla qualità della farina, oltre che dalla capacità di cuocerlo. La differenziazione dei prodotti e dei servizi richiede perciò un’analoga differenziazione della qualità del lavoro, che diventa sempre più specifico all’attività dell’impresa, presupponendo con ciò una condivisione di motivazioni fra imprenditori e lavoratori e di conseguenza una continuità di rapporto tale da consentire la creazione di “ricchezza umana” specifica, come conseguenza di una piena adesione ai valori fondanti dell’impresa.

A ciò si deve aggiungere che se tali valori fondano davvero tutte le imprese associate, ciò che si crea non è solo una rete di imprese, ma una comunità di lavoratori. Si tratta, bisogna riconoscere, di un disegno ambizioso: troppo bello per essere vero? Certamente è molto impegnativo, perché richiede un grande sforzo comune, una verifica quotidiana sulla base dei comportamenti effettivi e non solo delle intenzioni dichiarate, disponibilità a un dialogo aperto all’interno e all’esterno, correttezza di rapporti, rispetto delle persone, disponibilità a riconoscere i propri errori, umani e inevitabili, per poter poi migliorare, adesione ai valori fondanti e soprattutto una continua capacità rigenerativa dell’entusiasmo originario. Certamente impegnativo quindi, ma anche l’esempio tangibile di un modo nuovo di fare impresa e promuovere lo sviluppo.


LETTURE/ Che cosa vuole il nostro animo? Ce lo dicono Lucrezio e il "caso B"... Laura Cioni - mercoledì 1 dicembre 2010 – ilsussidiario.net

Timor mortis conturbat me. Risale all’alto medioevo questo antico adagio liturgico, ripreso infinite volte dal poeti. Il timore della morte genera turbamento, quando non angoscia nella maggior parte degli uomini, sebbene tanti antichi lo considerino irrazionale. Lucrezio paragona la paura della morte al vano spavento che assale i bambini quando si trovano al buio: “Simili ai bambini che tremano nelle tenebre cieche, noi in piena luce spesso temiamo pericoli non più terribili di quelli che la loro immaginazione crede di vedere avvicinarsi nella notte”.

La consapevolezza dell’uomo che sa di dover finire genera una serie di comportamenti che i classici osservavano al loro tempo, ma che non sono di molto mutati nei secoli: l’instabilitas loci e la conseguente smania di cambiamenti esteriori, di dimora, di ambiente, la fretta che impedisce il riposo da una parte, dall’altra il taedium vitae, la noia e il facile rifugiarsi nel sonno. “Ognuno cerca di fuggire da se stesso ma, per lo più incapace di farlo, resta suo malgrado attaccato a quell’io che detesta, perché, malato, non afferra la causa del proprio male”. Il male per Lucrezio è l’ignoranza di come stiano veramente le cose, mentre la conoscenza è tanto più di capitale importanza, in quanto nella vita dell’uomo “è l’eternità in causa e non un’ora sola”.

Molto prima di Freud gli antichi hanno indicato il nesso tra la paura di finire e l’attaccamento al potere, tra il timore della morte e la licenza nelle abitudini sessuali. Ciò è particolarmente evidente nelle descrizioni dei tiranni, che amplificano dinamiche che sono comuni a tutti gli uomini, ma che in essi sono ingigantite, ossessive e perciò più facilmente osservabili. Diceva un vecchio monaco che chi riveste un ruolo che lo pone al di sopra degli altri è come una scimmia sull’albero: chi la guarda dal basso ne vede più facilmente le vergogne.

E’ famoso il ritratto che Tacito fa di Nerone, che non indugia a disfarsi di chiunque - fosse anche sua madre - possa offuscare il suo potere e che si abbandona a ogni sfrenatezza sessuale con liberte, concubine e prostitute. Lo storico segue con orrore la discesa di un principe che aveva suscitato qualche giustificata speranza verso le tenebre del dispotismo.



E’ pur vero che molti tra i potenti, affetti dalle brame più sfrenate, risultano poi di fatto impotenti, non generano figli, non lasciano eredi che ne proseguano l’opera. Perciò, più passano gli anni, più cresce attorno a loro il vuoto, più si ingigantisce il terrore della morte, più si aggrappano a ciò che possono e vogliono ancora controllare, il potere e la dissolutezza.

Conoscere e saper leggere queste dinamiche costanti dell’uomo e in particolare dell’uomo di potere può essere utile per evitare il moralismo nel giudizio sulla sua condotta privata. Non si tratta di giustificare i vizi, riducendoli a meccanismi, piuttosto si tratta di lealtà nel considerare che cosa l’uomo sia. Dopo venti secoli di cristianesimo bisognerebbe essere proprio stolti a non concepire la libertà umana come fattore privilegiato della moralità di una azione. Quella libertà alla quale è stata posta una domanda fondamentale, alla quale ciascuno è tenuto a dare la sua personale risposta: quid animo satis? che cosa basta all’animo?

Quando Seneca afferma che “il bene dell’animo deve trovarlo l’animo”, senza lasciarsi irretire dall’opinione della maggioranza o dalle convinzioni della folla, ognuno intende  che quel monito tocca la libertà personale di ciascuno. Nella presa d’atto dell’insaziabilità del desiderio umano e nelle decisioni che ne derivano, l’uomo comune come l’uomo di potere rivela di che pasta è fatto. Lucrezio indica con espressione icastica l’effetto di questa dolorosa e liberante conquista.
“Eripitur persona, manet res”: si strappa la maschera, rimane la realtà.


Avvenire.it, 1 dicembre 2010 - Il cambiamento, la protesta, le ragioni da tener care - Ma la malora no di Davide Rondoni

E adesso? Dopo i cortei, le manifestazioni, le vetrine rotte, i binari interrotti, i disagi per centinaia di migliaia di persone, l’indifferenza o la distanza della maggioranza degli studenti dalle proteste, insomma dopo questo circo un po’ tetro con gente sui tetti e scontri per strada e, insopportabilmente, fin dentro il Senato della Repubblica, cosa resta? Resta una democrazia più ferita e una serie di problemi sul tappeto.

Una riforma per l’università era necessaria. Per ridurre costi, per raddrizzare procedure, per evitare nepotismi. E le riforme si fanno in Parlamento, se si crede nella democrazia. Accettare la logica delle barricate, degli assalti, delle proteste che generano disagio a chi non c’entra e infine violenza, significa non credere più nella democrazia. Possono essere i primi passi di un precipizio da cui poi non si torna facilmente. Noi italiani lo sappiamo bene. Sembrano non saperlo quegli intellettuali che hanno sempre compiaciuto i rivoluzionari in servizio permanente (basta che non diano fastidio al loro orticello). Non si accorgono (o peggio figono di non accorgersi) del grave valore che hanno gli assalti al Parlamento, l’appropriazione dei luoghi pubblici simbolici per attirare attenzione. Cosa si farà d’ora in poi? una gara a chi occupa per primo la torre di Pisa? Non manca quasi a nessuno qualche buona ragione per protestare. Ma la protesta in democrazia diventa voto e assemblea legislativa e, prima o poi, governo. Se no, diventa inevitabilmente qualcosa d’altro.

La riforma certamente accanto a pregi ha dei difetti. La questione essenziale dei ricercatori, addirittura le attese e benedette norme antinepotismo che rischiano di diventare un po’ grottesche, i tagli o gli incentivi che potrebbero esser meglio indirizzati in settori del diritto allo studio. E c’è un innegabile disagio dei giovani – all’inizio di una carriera o studenti – che ha motivi ben più vasti e profondi, pronto (in parte) a incanalarsi sull’immediatezza dello scontro politico. L’Italia come tutte le maggiori democrazie mondiali deve far fronte alla crisi. Pensare di difendere l’esistente non è solo utopico, ma colpevole rispetto al futuro. Specie in settori come istruzione e università. È inevitabile che su questo genere di cose ci sia confronto, anche aspro, tra le forze politiche e interno alla società.

Ma se perdiamo la pazienza, lo spirito pacifico, la tenerezza – sì, permettete questo termine che tra i lacrimogeni e slogan sembra non abbia senso – la tenerezza di costruire, di faticare insieme, di accettare la democrazia senza considerare l’avversario politico necessariamente uno che vuole il male dell’Università o del mondo, ecco, se perdiamo questa tenerezza che è la vera forza di un Paese, ci resta solo un altro genere di forza: quella di farci male. Di distruggere. Di mandare in malora.

Oggi dopo i cortei di una parte di studenti, di una parte di Italia, di una parte di noi, cosa ci resta in mezzo ai vetri rotti? La maggiore fatica procurata a cittadini già provati da tante altre fatiche? Resta solo più acre il fumo di una democrazia a cui si continua a togliere acqua? Chi governa ha il dovere di fare di tutto perché il dibattito democratico sia largo, attento, inclusivo. E chi si oppone ha il dovere altrettanto forte di portare le ragioni del dissenso dentro le misure della democrazia. Che contempla la protesta, non la barbarie.

Oppure ci resterà solo l’alternativa di consecutive prove di forza. Ma non più di quella forza politica che è fondata su una specie di tenerezza per tutti (o carità, come la si deve chiamare) bensì la forza che diviene cieca e che azzanna senza più rimedio. Gli eventuali errori delle riforme, infatti, si possono sempre eventualmente rimediare. Le violenze no.


Avvenire.it, 1 dicembre 2010, CITTÀ DEL VATICANO - Appello del Papa per la Chiesa in Cina

Un appello a “sostenere” la Chiesa cattolica in Cina. A rivolgerlo è stato oggi il Papa, al termine dell’udienza generale, prima dei tradizionali saluti ai fedeli italiani che come di consueto concludono l’appuntamento del mercoledì, svoltosi in Aula Paolo VI di fronte a circa 3.500 fedeli. “Raccomando alle preghiere vostre e dei cattolici di tutto il mondo la Chiesa in Cina, che come sapete, sta vivendo momenti particolarmente difficili”, ha esordito Benedetto XVI. Di qui la richiesta del Santo Padre di “sostenere tutti i vescovi cinesi, a me tanto cari, affinché testimonino la loro fede con coraggio riponendo ogni speranza nel Salvatore che attendiamo”. Il Papa ha affidato inoltre a Maria “tutti i cattolici di quell’amato Paese, perché, con la sua intercessione, possano realizzare un’autentica esistenza cristiana in comunione con la Chiesa universale, contribuendo così anche all’armonia e al bene comune del loro nobile popolo”.

Pochi giorni fa in Cina è stato ordinato un vescovo, Giuseppe Guo Jincai, senza l'approvazione del Papa, atto che è stato giudicato dal Vaticano una "grave violazione della libertà di religione e di coscienza".

APPELLO DEL CARDINALE BERTONE
“La comunità internazionale deve combattere l’intolleranza e la discriminazione contro i cristiani con la stessa determinazione con cui lotta contro l’odio nei confronti di membri di altre comunità religiose. E gli Stati partecipanti all’Osce si sono impegnati a farlo”. È l’appello lanciato questa mattina dal cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, nel suo intervento all’Incontro al Vertice dei Capi di Stato o di governo dei 56 Stati dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce), di cui la Santa Sede fa parte, in corso fino a domani ad Astana (Kazakhstan). Quest’anno ricorrono i 35 anni dell’Atto Finale di Helsinki (1973), il cui “Documento Finale è uno degli strumenti più significativi del dialogo internazionale” ha rammentato il card. Bertone rilanciando l’attualità dei suoi “famosi «dieci principi»” che “costituiscono la base sulla quale i popoli d’Europa”, per anni vittime di guerre e divisioni, “hanno voluto consolidare e preservare la pace, in modo tale da permettere alle generazioni future di vivere nell’armonia e nella sicurezza”. Tra questi principi, ha osservato, la “difesa delle libertà fondamentali e dei diritti umani” all’interno dei quali spicca “il diritto alla libertà religiosa”, oggi in diversi Paesi spesso negato da “leggi intolleranti e discriminatorie” o da “azioni e omissioni che negano questa libertà”.