Nella rassegna stampa di oggi:
1) CATECHESI DI BENEDETTO XVI SULLA MISTICA GIULIANA DI NORWICH - Nell'Udienza generale del mercoledì
2) IL PAPA CHIEDE COMPRENSIONE PER LE PERSONE SOLE, GLI ANZIANI E I MALATI - Intenzioni di preghiera per il mese di dicembre
3) Introvigne su Avvenire sul libro di De Mattei: «Il Concilio? Discutiamone pure ma i suoi documenti vanno accettati» pubblicata da Massimo Introvigne il giorno giovedì 2 dicembre 2010
4) SCUOLA/ I nostri ragazzi sono più vittime della realtà o del mondo virtuale? Luigi Ballerini - giovedì 2 dicembre 2010 – il sussidiario.net
5) OGM/ Sicurezza alimentare e paesi in via di sviluppo: oltre il mito Piero Morandini, Chiara Tonelli - giovedì 2 dicembre 2010 – il sussidiario.net
6) J'ACCUSE/ Binetti: a chi giova il nuovo "film" su Monicelli dei paladini della morte? Paola Binetti - giovedì 2 dicembre 2010 – il sussidiario.net
7) Avvenire.it, 2 dicembre 2010 - La fede ferita e quella messa ai margini - Il tocco alla porta di Marina Corradi
8) Avvenire.it, 2 dicembre 2010 - Se si strumentalizza anche un suicidio - L’uso estremo di un estremo gesto di Francesco D’Agostino
9) DIARIO HAITI/ Chiara (medico): in mezzo al colera, tanti piccoli episodi di "resurrezione" Redazione - giovedì 2 dicembre 2010 – il sussidiario.net
10) Uscire dalla crisi? La bussola c’è - Analisi - L’unità politica dei cattolici può partire solo dai valori non negoziabili DI CARLO CASINI – Avvenire, 2 dicembre 2010
CATECHESI DI BENEDETTO XVI SULLA MISTICA GIULIANA DI NORWICH - Nell'Udienza generale del mercoledì
ROMA, mercoledì, 1° dicembre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo dell'intervento pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI durante l'Udienza generale svoltasi nell’Aula Paolo VI.
Nel suo discorso, il Pontefice si è soffermato sulla figura di Giuliana di Norwich, mistica inglese (1342-1430 c.).
* * *
Cari fratelli e sorelle,
ricordo ancora con grande gioia il Viaggio apostolico compiuto nel Regno Unito nello scorso settembre. L’Inghilterra è una terra che ha dato i natali a tante figure illustri che con la loro testimonianza ed il loro insegnamento abbelliscono la storia della Chiesa. Una di esse, venerata tanto dalla Chiesa Cattolica quanto dalla Comunione anglicana, è la mistica Giuliana di Norwich di cui vorrei parlarvi questa mattina.
Le notizie di cui disponiamo sulla sua vita – non molte – sono desunte principalmente dal libro in cui questa donna gentile e pia ha raccolto il contenuto delle sue visioni, intitolato Rivelazioni dell’Amore divino. Si sa che è vissuta dal 1342 al 1430 circa, anni tormentati sia per la Chiesa, lacerata dallo scisma seguito al ritorno del Papa da Avignone a Roma, sia per la vita della gente che subiva le conseguenze di una lunga guerra tra il regno d’Inghilterra e quello di Francia. Dio, però, anche nei tempi di tribolazione, non cessa di suscitare figure come Giuliana di Norwich, per richiamare gli uomini alla pace, all’amore e alla gioia.
Come ella stessa ci racconta, nel maggio del 1373, probabilmente il 13 di quel mese, fu colpita all’improvviso da una malattia gravissima che in tre giorni sembrò portarla alla morte. Dopo che il sacerdote, accorso al suo capezzale, le mostrò il Crocifisso, Giuliana non solo riacquistò prontamente la salute, ma ricevette quelle sedici rivelazioni che successivamente riportò per iscritto e commentò nel suo libro, le Rivelazioni dell’Amore divino. E fu proprio il Signore che, quindici anni dopo questi avvenimenti straordinari, le svelò il senso di quelle visioni. "Vorresti sapere cosa ha inteso il tuo Signore e conoscere il senso di questa rivelazione? Sappilo bene: amore è ciò che Lui ha inteso. Chi te lo rivela? L’amore. Perché te lo rivela? Per amore ... Così imparai che nostro Signore significa amore" (Giuliana di Norwich, Il libro delle rivelazioni, cap. 86, Milano 1997, p. 320).
Ispirata dall’amore divino, Giuliana operò una scelta radicale. Come un’antica anacoreta, scelse di vivere all’interno di una cella, collocata in prossimità della chiesa intitolata a san Giuliano, dentro la città di Norwich, ai suoi tempi un importante centro urbano, vicino a Londra. Forse, assunse il nome di Giuliana proprio da quello del santo cui era dedicata la chiesa presso cui visse per tanti anni, sino alla morte. Potrebbe sorprenderci e persino lasciarci perplessi questa decisione di vivere "reclusa", come si diceva ai suoi tempi. Ma non era la sola a compiere tale scelta: in quei secoli un numero considerevole di donne optò per questo genere di vita, adottando delle regole appositamente elaborate per esse, come quella composta da sant’Aelredo di Rievaulx. Le anacorete o "recluse", all’interno della loro cella, si dedicavano alla preghiera, alla meditazione e allo studio. In tal modo, maturavano una sensibilità umana e religiosa finissima, che le rendeva venerate dalla gente. Uomini e donne di ogni età e condizione, bisognosi di consigli e di conforto, le ricercavano devotamente. Quindi non era una scelta individualistica; proprio con questa vicinanza al Signore maturava in lei anche la capacità di essere consigliera per tanti, di aiutare quanti vivevano in difficoltà in questa vita.
Sappiamo che anche Giuliana riceveva frequenti visite, come ci è attestato dall’autobiografia di un’altra fervente cristiana del suo tempo, Margery Kempe, che si recò a Norwich nel 1413 per ricevere suggerimenti sulla sua vita spirituale. Ecco perché, quando Giuliana era viva, era chiamata, com’è scritto sul monumento funebre che ne raccoglie le spoglie: "Madre Giuliana". Era divenuta una madre per molti.
Le donne e gli uomini che si ritirano per vivere in compagnia di Dio, proprio grazie a questa loro scelta, acquisiscono un grande senso di compassione per le pene e le debolezze degli altri. Amiche ed amici di Dio, dispongono di una sapienza che il mondo, da cui si allontanano, non possiede e, con amabilità, la condividono con coloro che bussano alla loro porta. Penso, dunque, con ammirazione e riconoscenza, ai monasteri di clausura femminili e maschili che, oggi più che mai, sono oasi di pace e di speranza, prezioso tesoro per tutta la Chiesa, specialmente nel richiamare il primato di Dio e l’importanza di una preghiera costante e intensa per il cammino di fede.
Fu proprio nella solitudine abitata da Dio che Giuliana di Norwich compose le Rivelazioni dell’Amore divino, di cui ci sono giunte due redazioni, una più breve, probabilmente la più antica, ed una più lunga. Questo libro contiene un messaggio di ottimismo fondato sulla certezza di essere amati da Dio e di essere protetti dalla sua Provvidenza. Leggiamo in questo libro le seguenti stupende parole: "Vidi con assoluta sicurezza ... che Dio prima ancora di crearci ci ha amati, di un amore che non è mai venuto meno, né mai svanirà. E in questo amore Egli ha fatto tutte le sue opere, e in questo amore Egli ha fatto in modo che tutte le cose risultino utili per noi, e in questo amore la nostra vita dura per sempre ... In questo amore noi abbiamo il nostro principio, e tutto questo noi lo vedremo in Dio senza fine" (Il libro delle rivelazioni, cap. 86, p. 320).
Il tema dell’amore divino ritorna spesso nelle visioni di Giuliana di Norwich che, con una certa audacia, non esita a paragonarlo anche all’amore materno. È questo uno dei messaggi più caratteristici della sua teologia mistica. La tenerezza, la sollecitudine e la dolcezza della bontà di Dio verso di noi sono così grandi che, a noi pellegrini sulla terra, evocano l’amore di una madre per i propri figli. In realtà, anche i profeti biblici a volte hanno usato questo linguaggio che richiama la tenerezza, l’intensità e la totalità dell’amore di Dio, che si manifesta nella creazione e in tutta la storia della salvezza e ha il culmine nell’Incarnazione del Figlio. Dio, però, supera sempre ogni amore umano, come dice il profeta Isaia: "Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai" (Is 49, 15). Giuliana di Norwich ha compreso il messaggio centrale per la vita spirituale: Dio è amore e solo quando ci si apre, totalmente e con fiducia totale, a questo amore e si lascia che esso diventi l’unica guida dell’esistenza, tutto viene trasfigurato, si trovano la vera pace e la vera gioia e si è capaci di diffonderle intorno a sé.
Vorrei sottolineare un altro punto. Il Catechismo della Chiesa Cattolica riporta le parole di Giuliana di Norwich quando espone il punto di vista della fede cattolica su un argomento che non cessa di costituire una provocazione per tutti i credenti (cfr nn. 304-314). Se Dio è sommamente buono e sapiente, perché esistono il male e la sofferenza degli innocenti? Anche i santi, proprio i santi, si sono posti questa domanda. Illuminati dalla fede, essi ci danno una risposta che apre il nostro cuore alla fiducia e alla speranza: nei misteriosi disegni della Provvidenza, anche dal male Dio sa trarre un bene più grande come scrisse Giuliana di Norwich: "Imparai dalla grazia di Dio che dovevo rimanere fermamente nella fede, e quindi dovevo saldamente e perfettamente credere che tutto sarebbe finito in bene…" (Il libro delle rivelazioni, cap. 32, p. 173).
Sì, cari fratelli e sorelle, le promesse di Dio sono sempre più grandi delle nostre attese. Se consegniamo a Dio, al suo immenso amore, i desideri più puri e più profondi del nostro cuore, non saremo mai delusi. "E tutto sarà bene", "ogni cosa sarà per il bene": questo il messaggio finale che Giuliana di Norwich ci trasmette e che anch’io vi propongo quest’oggi. Grazie.
E adesso rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. Grazie per il vostro affetto. In particolare, saluto le Suore Figlie di Santa Maria della Provvidenza, impegnate per il Capitolo Generale: invoco per loro la celeste Protezione del Beato Fondatore Don Luigi Guanella e le incoraggio a proseguire con fedeltà e gioia il loro servizio al Vangelo della carità. Saluto la Delegazione dell’Aeroporto Internazionale di Roma-Fiumicino, accompagnata dal Vescovo di Porto-Santa Rufina, Mons. Gino Reali: la Madonna di Loreto vegli sul loro quotidiano lavoro in terra e in cielo. Saluto la Delegazione del Comune di Sant’Oreste, custodi della memoria dell’Abate San Nonnoso, che terminò la sua vita terrena a Freising, nella mia diocesi di origine.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Saluto, infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. Il Tempo di Avvento, da poco iniziato, ci presenta in questi giorni l’esempio fulgido della Vergine Immacolata. Sia Lei a spronarvi, cari giovani, nel vostro cammino di costante adesione a Cristo; per voi, cari malati, Maria sia il sostegno per una rinnovata speranza; e per voi, cari sposi novelli, la Madre di Gesù sia guida nella costruzione della vostra famiglia sulla salda roccia della fede.
[APPELLO DEL SANTO PADRE]
Raccomando alle preghiere vostre e dei cattolici di tutto il mondo la Chiesa in Cina, che, come sapete, sta vivendo momenti particolarmente difficili. Chiediamo alla Beata Vergine Maria, Aiuto dei Cristiani, di sostenere tutti i Vescovi cinesi, a me tanto cari, affinché testimonino la loro fede con coraggio, riponendo ogni speranza nel Salvatore che attendiamo. Affidiamo inoltre alla Vergine tutti i cattolici di quell’amato Paese, perché, con la sua intercessione, possano realizzare un’autentica esistenza cristiana in comunione con la Chiesa universale, contribuendo così anche all’armonia e al bene comune del loro nobile Popolo.
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]
IL PAPA CHIEDE COMPRENSIONE PER LE PERSONE SOLE, GLI ANZIANI E I MALATI - Intenzioni di preghiera per il mese di dicembre
CITTA' DEL VATICANO, martedì, 30 novembre 2010 (ZENIT.org).- Benedetto XVI chiede preghiere per comprendere le situazioni difficili che attraversano gli anziani, i malati e le persone sole.
E' la proposta che fa nelle intenzioni di preghiera per il mese di dicembre, contenute nella lettera pontificia che ha affidato all'Apostolato della Preghiera, iniziativa seguita da circa 50 milioni di persone nei cinque continenti.
Il Vescovo di Roma presenta due intenzioni, una generale e l'altra missionaria.
L'intenzione generale per il mese di dicembre è: “Perché l'esperienza della sofferenza sia occasione per comprendere le situazioni di disagio e di dolore in cui versano le persone sole, gli ammalati e gli anziani, e stimoli tutti ad andare loro incontro con generosità”.
L'intenzione missionaria recita invece: “Perché i popoli della terra aprano le porte a Cristo e al suo Vangelo di pace, fraternità e giustizia”.
Introvigne su Avvenire sul libro di De Mattei: «Il Concilio? Discutiamone pure ma i suoi documenti vanno accettati» pubblicata da Massimo Introvigne il giorno giovedì 2 dicembre 2010
Premessa Questa recensione critica, apparsa su Avvenire - un quotidiano, come si può immaginare, non casuale - del 1° dicembre, di un testo di Roberto de Mattei sul Concilio Ecumenico Vaticano II s’inserisce in un più ampio dibattito recente, cui sarà dedicato in buona parte il prossimo numero della rivista di Alleanza Cattolica, Cristianità. Rimandando a tale numero (attendete con pazienza) per una più ampia trattazione – e premesso che non esiste una «opinione di Alleanza Cattolica» sul Concilio (al massimo, Alleanza Cattolica spera di avere capito bene e d’illustrare fedelmente l’opinione del Magistero) – riassumo i termini della questione. (1) Non c’è dubbio che gli anni del postconcilio siano stati anni di crisi per la Chiesa Cattolica. Nella storica intervista Rapporto sulla fede del 1985 il cardinale Joseph Ratzinger, dichiarava: «È incontestabile che gli ultimi vent’anni sono stati decisamente sfavorevoli per la Chiesa Cattolica. I risultati che hanno seguito il Concilio sembrano crudelmente opposti alle attese di tutti […] Ci si aspettava un balzo in avanti e ci si è invece trovati di fronte a un processo progressivo di decadenza. […] Vie sbagliate […] hanno portato a conseguenze indiscutibilmente negative». (2) Non c’è dissenso sul fatto che del Concilio Ecumenico Vaticano II sia a lungo prevalsa un’interpretazione nei termini di quella che Benedetto XVI chiama una sciagurata «ermeneutica della discontinuità e della rottura» che interpreta i testi conciliari non alla luce della Tradizione precedente, ma contro quella stessa Tradizione. Non si è trattato di posizioni estemporanee di qualche teologo, ma di una vera e soffocante egemonia. (3) Non solo dopo ma già durante il Concilio, dai principali media i documenti sono stati presentati quasi sempre secondo l’ermeneutica della rottura. come immancabili sconfitte dei «conservatori» e vittorie dei «progressisti», qualunque fosse effettivamente il loro contenuto. (4) Una volta però che si sono rigorosamente distinti i documenti dalla loro interpretazione e dalla presentazione mediatica, il Magistero insegna che i documenti devono essere anzitutto letti (molti che ne parlano, in effetti, non li hanno mai letti), quindi fedelmente seguiti nei loro insegnamenti essenziali. È vero che il Concilio si è voluto pastorale e non dogmatico, ma – come insegnava il servo di Dio Paolo VI già da subito, nel 1966 – «dato il carattere pastorale del Concilio, esso ha evitato di pronunciare in modo straordinario dogmi dotati della nota di infallibilità; ma esso ha tuttavia munito i suoi insegnamenti dell’autorità del supremo magistero ordinario il quale magistero ordinario e così palesemente autentico deve essere accolto docilmente e sinceramente da tutti i fedeli». Nella lettera del 10 marzo 2009, relativa ai vescovi della Fraternità Sacerdotale San Pio X consacrati da mons. Lefebvre, Benedetto XVI ribadisce che anche dopo la remissione della scomunica del 2009 essi non possono esercitare «in modo legittimo alcun ministero nella Chiesa» fino a quando non sia chiara la loro «accettazione del Concilio Vaticano II e del magistero post-conciliare dei Papi». La posizione non di Alleanza Cattolica ma del Magistero della Chiesa è dunque che, mentre l’interpretazione dei testi del Concilio secondo l’ermeneutica della rottura che tanto male ha fatto alla Chiesa va rifiutata, gli stessi testi letti alla luce della Tradizione – il che talora a causa di formulazioni, che risentono del linguaggio degli anni 1960, non sempre felici richiede uno sforzo non facile, ma che il Papa ci assicura non essere impossibile – devono essere «accolti docilmente e sinceramente da tutti i fedeli».
«De Mattei e il Concilio, un metodo critico che svaluta i testi»
Massimo Introvigne (Avvenire, 1° dicembre 2010)
Il 22 dicembre 2005, in un discorso ormai famoso alla Curia Romana, Benedetto XVI ha distinto a proposito del Vaticano II un’errata «ermeneutica della discontinuità e della rottura» rispetto al Magistero precedente, e una giusta «ermeneutica del rinnovamento nella continuità». Il 24 luglio 2007, ad Auronzo di Cadore, il Papa ha aggiunto che l’ermeneutica della rottura è praticata sia dal «progressismo sbagliato» sia dall’«anticonciliarismo». Entrambi affermano che il Vaticano II ha rotto con la Tradizione, i progressisti per applaudire questa presunta rottura e gli anticonciliaristi per deplorarla. Ma in verità, per Benedetto XVI, non c’è nessuna rottura.
Per decenni, l’ermeneutica della rottura è stata proposta principalmente dal fronte del «progressismo sbagliato». Di recente sono apparse diverse opere che ripropongono l’ermeneutica della rottura in chiave anticonciliarista e talora cercano di rivalutare la figura, emblematica per questa lettura del Concilio, di mons. Marcel Lefebvre.
Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta dello storico Roberto de Mattei (Lindau, Torino 2010) si presenta, già dal titolo e dalla mole (632 pagine), come un libro molto ambizioso e una vera summa delle tesi anticonciliariste. A differenza di altri autori, che condividono con lui l’accusa al Concilio di avere rotto con la Tradizione, de Mattei manifesta un maggiore distacco nei confronti di mons. Lefebvre, rilevando che del cosiddetto «tradizionalismo» che rifiutava il Concilio il vescovo francese non fu mai «il capo», ma solo «l’espressione più visibile e alimentata dai mass-media».
De Mattei condivide però con i «lefebvriani» la tesi secondo cui l’ermeneutica della continuità auspicata da Benedetto XVI è ultimamente impraticabile. Infatti, per interpretarli alla luce della Tradizione, i documenti conciliari dovrebbero essere separati dall’evento-Concilio, che consta della sua preparazione, delle discussioni in aula – ricostruite da de Mattei in modo minuzioso, usando però molto meno le relazioni delle commissioni –, delle presentazioni contemporanee dei media e delle applicazioni successive.
Questa «artificiale dicotomia fra i testi e l’evento», secondo de Mattei, dal punto di vista dello storico e del sociologo non ha senso. Lo storico romano cita fra i sociologi che hanno applicato al Concilio le teorie dell’evento globale Melissa Wilde e il sottoscritto. Da queste teorie pensa di poter concludere che i documenti fanno parte dell’evento, fuori del quale perdono il loro significato.
Ma la teoria sociologica dell’evento non afferma che sia impossibile la distinzione fra un testo e il suo contesto. Se il testo fosse fagocitato dal contesto, il che applicando il metodo del libro potrebbe essere affermato di qualunque documento che si presenta come autorevole, saremmo di fronte a una sorta di strutturalismo, o a un’applicazione al Magistero di quelle teorie – pure criticate da de Mattei con riferimento alla Bibbia – che riducono la sacra Scrittura alla sua sola redazione e forma, dove ogni brano è smontato e decostruito in un gioco di riferimenti perpetuo in cui nulla ha più autorità.
La buona scienza dovrebbe servire a spiegare i documenti, non a farli a pezzi. De Mattei nega la continuità dei documenti del Concilio con la Tradizione, ribadita dal Papa anche nella recente esortazione Verbum Domini. Ripropone così purtroppo, ancora una volta, quell’ermeneutica della rottura che Benedetto XVI denuncia come dannosa.
SCUOLA/ I nostri ragazzi sono più vittime della realtà o del mondo virtuale? Luigi Ballerini - giovedì 2 dicembre 2010 – il sussidiario.net
In un recente articolo sul Corriere, Vittorino Andreoli ha di nuovo posto la questione degli adolescenti di oggi in quanto digital generation. Lo ha fatto cercando di analizzare quale conoscenza sia per loro accessibile e in quale forma possa avvenire dentro la relazione adolescente-mondo digitale. Sono tre i fattori indotti dal mondo digitale che lui ha individuato fra i più rilevanti: la modifica dell’attenzione degli adolescenti che risponde molto selettivamente ai sensi della vista e dell’udito, e non più al tatto e al dolore; l’impoverimento della memoria verbale e numerica per un arricchimento di quella visiva e uditiva; la variazione nel modo di pensare sempre più influenzato dagli stili sensoriali, un pensiero sempre meno razionale e sempre meno scandito seguendo la consecutio temporum.
Andreoli afferma che per i giovani scompare la realtà, vivendo quasi esclusivamente in un mondo virtuale di video e digitalizzato. Tanto che “quando se ne staccano e lo spengono toccano l’altro mondo ma sono presi da angoscia e da uno stato confusionale”.
Eppure io credo che i termini dell’analisi del professore, pur lucida e realistica, siano erroneamente invertiti. L’angoscia non nasce quando si passa dal mondo virtuale a quello reale, piuttosto si passa dal mondo reale a quello virtuale proprio perché c’è angoscia. Stare ancorati alla realtà digitale è infatti un potente sedativo di quell’angoscia che nasce dal disorientamento del proprio moto nel mondo reale.
Si crea poi effettivamente - ma solo in seconda battuta - un circolo vizioso in cui il soggetto apprende la necessità dell’immediatezza, il dover accadere tutto all’istante. Smarrita la concezione del tempo come risorsa, come tempo del rapporto, resta l’esaltazione di un istante fine a se stesso.
Botta-risposta, azione-reazione: tutto accade in tempo reale, on line. All’inoltro di un messaggio ci si aspetta corrisponda una risposta istantanea, per sua natura essenzialmente emozionale e poco meditata.
La scrittura di messaggi o lettere su carta viveva di un tempo specifico, un tempo fertile di pensiero, caratterizzato da elaborazione e attesa. La messaggistica istantanea invece richiede risposte immediate, poco elaborate e semplicistiche; risposte che sono a scapito di forma, sintassi e contenuto. Spesso si tratta di messaggi che hanno valore in sé, in quanto messaggi, indipendentemente dal contenuto che veicolano, spesso infatti assente. I famosi squilli o trilli del cellulare hanno questa funzione rassicurante, si fanno garanti dell’esistenza di una qualche forma di rapporto, reale o presupposto fa poca differenza.
A seguito di questa immediatezza, divenuta forma del rapporto, apparentemente niente dura, niente soddisfa. Possiamo dire che è proprio la perdita dell’esperienza della soddisfazione, anzi della sua stessa pensabilità, che spinge verso il bisogno di pura accelerazione, come i video e i film dedicati ai ragazzi bene documentano. Un’accelerazione che brucia il tempo, fatto ormai di attimi istantanei non più in nesso con ciò che li precede e li segue. Non più storia, ma sequenza di coriandoli temporali in una difficile frammentazione esistenziale. Ne fa poi da contraltare il paradosso del tenersi occupati in attività ripetitive e fisse per scacciare la noia del non-tempo, quali appunto i videogiochi sempre uguali a loro stessi, nonostante l’incremento di difficoltà dei diversi livelli e l’apparente velocità e finezza di esecuzione e movimento richiesta.
L’istante pertanto se da una parte viene mitizzato, dall’altra non viene mai vissuto; resta piuttosto frammentato, parcellizzato, perché escluso da un continuum di rapporto. Viene meno quindi la possibilità di esperienza tout court.
Ma cosa angoscia davvero i ragazzi, tanto da consegnarli poi tra le braccia di un mondo irreale?
E’ non avere più il loro pensiero come risorsa-guida nella realtà, non sperimentarlo più come una potente bussola per non perdersi e smarrirsi. Quel pensiero orientato alla riuscita che permette di trafficare con gli altri di carne, fare affari con loro, trasformare col lavoro comune la materia in qualcosa di più che non esisteva prima. Solo tornare a sperimentare i rapporti come benefici li invoglierà a permanere nella realtà, a trovare soluzioni, a elaborare compromessi vantaggiosi.
Il primato verrà allora sottratto alla pura vista per essere restituito al pensiero, capace di comporre tutti i sensi e orientare il moto del soggetto verso l’altro di carne finalmente tornato collaborante per il raggiungimento di una meta personale, ma non per questo non condivisibile. Agli adulti è chiesto questo: difendere il pensiero dei ragazzi dentro la certezza che proprio ciò che appare meno concreto e più immateriale è invece il fattore determinante per il permanere con successo nella realtà. Ma dobbiamo farne esperienza in primis noi.
OGM/ Sicurezza alimentare e paesi in via di sviluppo: oltre il mito Piero Morandini, Chiara Tonelli - giovedì 2 dicembre 2010 – il sussidiario.net
Gli organismi geneticamente modificati, i cosiddetti OGM, rappresentano probabilmente l’innovazione dove il divario tra il consenso scientifico e lo scetticismo del grande pubblico è più profondo. Contrariamente a quanto avviene in altri ambiti, questa distanza è legata non tanto a visioni del mondo diverse, ma piuttosto all’esistenza di una mitologia attorno a queste piante che ne alimenta la cattiva fama. A riprova di ciò va osservato che più ricerca si svolge su di essi e più l’ostilità aumenta.
Poco importa dunque che ad oggi si disponga di 9.500 pubblicazioni scientifiche, ottenute in oltre quindici anni di coltivazione e venticinque di sperimentazione. Poco importa che queste ci dicano che gli OGM comportano pochi rischi, gli stessi delle piante “normali”, e offrano numerosi benefici, per gli agricoltori, per l’ambiente, ma anche talvolta direttamente per i consumatori. L’idea della loro intrinseca pericolosità è così radicata nell’immaginario collettivo che non saranno certo i fatti a scalfirla.
Nell’accettazione di questo mito gioca senza dubbio un ruolo non trascurabile la scarsa cultura scientifica del nostro paese, terreno fertile su cui si inseriscono spesso spericolate campagne pubblicitarie e di marketing politico. Non stupisce che sia molto diffusa la credenza che solo negli OGM avvengano delle modifiche genetiche, mentre nelle piante “naturali”, frutto di incroci e selezione, il DNA resterebbe immutato. Eppure è noto che l’incrocio o la mutagenesi modificano l’assetto e la sequenza del DNA degli organismi in centinaia o migliaia di punti diversi, peraltro in modo non controllabile.
L’ostilità agli OGM non può però essere spiegata solo come mancanza culturale. Vi è un altro fattore che è legato ai temi dell’equità sociale. Molti detrattori, alcuni anche nel mondo scientifico, li osteggiano additandoli come mezzo di conquista dei mercati del cibo ad opera delle multinazionali, il tutto a danno delle popolazioni indigenti.
Di sicuro il monopolio delle innovazioni è un tema caldo e da valutare attentamente, andrebbe però rilevato che la tecnologia alla base degli OGM è stata sviluppata dalle università e solo una regolamentazione insostenibile per tempi e costi (una decina di anni e milioni di euro per l’approvazione di un solo evento OGM) ha di fatto consegnato il settore nelle mani dei grandi gruppi multinazionali.
Andrebbe poi ricordato che, su 14 milioni di contadini che usano gli OGM, ben 13 sono contadini poveri che, di anno in anno, aumentano i loro raccolti e scelgono di riseminare OGM sulla loro terra. Il caso del cotone in India, che ha visto raddoppiare le rese in pochi anni, è emblematico.
Per mettere un punto fermo su questi temi, un gruppo di lavoro della Pontificia Accademia delle Scienze (PAS) si era riunito per una “Settimana di studio” nel Maggio 2009. In questa riunione, oltre quaranta esperti, in gran parte scienziati ma anche economisti, teologi, sociologi si sono confrontati per quattro giorni sul tema “Le piante transgeniche per la sicurezza alimentare nel contesto dello sviluppo”. Oggi esce un documento di sintesi di quanto emerso in quella sede.
Il messaggio è chiaro: il maggior ostacolo che impedisce ai poveri di godere dei benefici di questa tecnologia non è la mancanza di conoscenze scientifiche o di fondi, non sono i brevetti, non sono le incertezze sui rischi, ma è la mitologia che noi ci siamo creati su queste piante. Una mitologia che ha creato una regolamentazione che di fatto esclude la ricerca pubblica e che impedisce l’accesso ai risultati della ricerca proprio a coloro che potrebbero trarne il maggior beneficio. La storia del Golden Rice insegna: pubblicato nel 1999, otterrà il via libera probabilmente nel 2012. Solo perché GM.
J'ACCUSE/ Binetti: a chi giova il nuovo "film" su Monicelli dei paladini della morte? Paola Binetti - giovedì 2 dicembre 2010 – il sussidiario.net
In queste ultime settimane il dibattito sull’eutanasia è tornato a impennarsi per una serie di ragioni che sembrano molto distanti tra di loro, ma che finiscono col convergere in una cultura della morte, che pretende di scalzare la cultura della vita: vero asse portante dell’intera civiltà occidentale.
Ha cominciato una piccola emittente televisiva della Lombardia, che voleva riproporre uno spot in cui un anziano reclama il diritto a porre fine alla sua vita; hanno continuato Saviano e Fazio nella loro trasmissione ipocritamente etichettata come un servizio alla vita, nonostante le storie di morte mandate in scena. E ieri in aula i radicali hanno strumentalizzato la morte di Mario Monicelli, sostenendo che se ci fosse stata una legge che legittimava l’eutanasia, Mario Monicelli non sarebbe morto così. Forse: ma sarebbe comunque morto, perché nessuno ha saputo stargli accanto nel modo giusto per attenuare la sua paura di un buio, che si andava facendo sempre più scuro e tenebroso.
Una vita che sembrava diventata senza senso, perché nessuno gli raccontava e gli permetteva di raccontare tutte le cose belle che aveva fatto; i sorrisi che aveva suscitato in milioni di italiani; l’intelligenza critica con cui aveva messo a fuoco le nostre debolezze e i nostri difetti nazionali. Chissà cosa avrebbe pensato se avesse potuto leggere i giornali di oggi: ognuno ha fatto a gara per mettere in evidenza quella che potremmo chiamare la lezione Monicelli. Se avesse saputo quanto era ancora vivo il suo insegnamento nei suoi collaboratori e nei suoi allievi, come un insegnamento di vita che poteva continuare a dare, dando senso alla sua vita nonostante le indubbie difficoltà in cui si trovava.
Mario Monicelli è stato uno dei testimoni più straordinari di questo nostro tempo che ha saputo raccontare senza nascondere vizi e virtù degli italiani. Li ha raccontati però con quella partecipazione ironica che sapeva comprendere senza giudicare, ma senza neppure avere la pretesa di trasformare le nostre piccole meschinità in modelli di riferimento per i più giovani o per le generazioni successive. Nella creazione dei suoi affreschi sociali del nostro dopoguerra ha potuto contare sulle performance di grandi attori come Alberto Sordi, Totò, Vittorio Gassman… Per citare solo alcuni tra coloro che, mentre ci facevano ridere, ci obbligavano a guardarci allo specchio per prendere atto che i nostri difetti non permettevano nessuna forma di saccenteria petulante, nessun moralismo a buon mercato, ma solo una apertura verso gli altri, fatta di magnanimità e di buon umore.
Straordinaria la sinergia tra il regista e l’attore, come se ci fosse una continuità di prospettive e di punti di vista che anche sul piano metodologico permettono di comprendere meglio cosa ha rappresentato per gli italiani, e non solo per loro, la commedia all’italiana. Un modo di fare cinema in cui i confini tra chi dirige e chi recita si stemperano in una narrazione da cui emerge la nostra italianità non ostentata, spesso sofferta, sempre ironica e garbata.
Monicelli era uno di noi, proprio perché ci raccontava come siamo, oggi come ieri, gente comune, con le nostre ansie e le nostre preoccupazioni, con le nostre velleità e la nostra presunzione, con gli alti e bassi di uno stato d’animo altalenante, perché trascinato da eventi e circostanze che troppo spesso sembrano ostili e duri da accettare. Italiani di ieri e italiani di oggi appaiono facilmente legati da un lungo filo conduttore che descrive una umanità che fa fatica a esprimere una tensione morale forte, che non sembra trovare uno slancio di trascendenza che dischiude nuove e insperate prospettive di cambiamento. Gli italiani son fatti così, sembrava che ci dicesse in ogni scena, in ogni sceneggiatura. Forse oggi appare con chiarezza il limite della narrazione di Monicelli: un lungo presente di chiaroscuri, racchiuso in un orizzonte in cui non c’era spazio per la speranza. Potevamo sorridere di noi, ma era difficile pensare che avremmo potuto essere diversi, per esempio migliori.
Oggi Monicelli non c’è più, il grande vecchio del cinema italiano che scherzando metteva in dubbio la sua stessa morte, ha fatto una scelta dolorosa, graffiante per le coscienze di tutti noi, ha aspettato che scendesse il buio, che nell’ospedale in cui era ricoverato si riducesse il ritmo intenso del lavoro di assistenza, ha aperto una finestra ed è saltato giù. Non c’era nessuno accanto a lui, perché da tempo aveva reso la sua solitudine ispida e faticosa da attraversare. In un convegno organizzato dalla Fondazione Sordi e dedicato agli anziani, Pupi Avati, un regista che sa raccontare il valore della vita anche in condizioni che ai più sembrano drammatiche, ha raccontato dei loro colloqui serali, spesso notturni, avvenuti mentre entrambi erano ricoverati al Gemelli. Monicelli per un incidente in cui aveva riportato gravi fratture e in un’altra stanza Pupi Avati, ricoverato per un infarto.
Monicelli aveva paura del buio, si disorientava durante la notte e temeva di non poter recuperare la sua autonomia, temeva soprattutto di non poter tornare al suo lavoro, che già allora era la sua “droga” e la sua terapia. Pupi Avati ha raccontato di una sorta di patto stretto tra di loro, per sostenersi proprio sul piano professionale, per tornare entrambi al loro ruolo di cantastorie. Ma poi Monicelli, nonostante fosse riuscito a riprendere il suo ritmo intenso di lavoro come regista impegnato a mettere il dito nella piaga nelle nostre distonie sociali e nelle nostre contraddizioni personali, si era andato chiudendo in se stesso, sempre più solo e sempre meno capace di guardare oltre il confine sottile che separa solitudine e depressione.
La sua morte è per tutti noi il segno di un’incapacità a comprendere la solitudine dell’anziano, le sue paure, e quella perdita di senso che corrode la prospettiva del futuro, svuotandola di significato e consegnando un uomo al buio della sua notte. Non è stato un gesto di libertà il suo, né un gesto di coraggio, ma solo un gesto di ordinaria disperata solitudine, in cui nessuno l’ha preso per mano, nessuno gli ha ricordato quel meraviglioso dialogo con la Signora della morte che lui stesso aveva inventato nell’Armata Brancaleone. Avremmo voluto mantenere il silenzio sulla sua fine, per rispettare il suo dolore e la sua sofferenza, per fare tutti noi un silenzioso esame di coscienza, pensando alla nostra fretta, alla nostra ingratitudine e alla nostra sbadata distrazione, piena di noi e delle nostre velleità di grandi uomini, mentre in fondo non siamo altro che borghesi piccoli piccoli.
Avremmo voluto, ma non è stato possibile, davanti alla provocazione che è venuta dal fronte radicale, in cui si è approfittato di questa vicenda umana per reclamare a gran voce la legittimazione dell’eutanasia. L’assioma da cui sono partiti i radicali è del tutto coerente con le loro costanti e ripetute affermazioni, con i disegni di legge da loro proposti, con i gesti clamorosi da loro compiuti in numerosi occasioni. Se in Italia l’eutanasia non fosse reato, Monicelli sarebbe morto ugualmente, ma in modo diverso: con un’iniezione compiacente. Non una dolce morte, ma una morte somministrata da qualcuno, complice di un dolore e di una sofferenza a cui non avrebbe saputo dare una risposta diversa.
La provocazione radicale ha sferzato l’aula perché è apparsa a tutti una vera e propria strumentalizzazione del dolore umano, della solitudine dell’anziano, della paura del buio che c’è in ognuno di noi. Con molto pudore e con grande delicatezza i colleghi Carra e Veltroni avevano reso omaggio alla sensibilità narrativa di Monicelli, lasciando nella penombra il suo gesto, non per ipocrisia, ma per rispetto a quella lacerante tristezza che l’ha spinto a un gesto drammatico. Eppure la cultura radicale ha cercato di farsi nuovamente presente per insidiare il valore della solidarietà, che definisce l’humanum che c’è in ognuno di noi, risolvendolo in una generica affermazione del principio di autodeterminazione. Nessuno pensa che psicologicamente ci si possa autodeterminare al suicidio, solo la paura del buio, una passione triste come quella che può invadere un anziano solo e malato, permette di immaginare cosa possa essere passato per la mente e per il cuore di Mario Monicelli.
Ben diversa quindi è la nostra proposta che si fonda su di una visione solidale della vita umana, che parte dalla consapevolezza che la migliore espressione della nostra umanità è tutta nella relazione di aiuto, nell’etica della cura che dà ragione della dignità della nostra vita. Le storie di quotidiana sofferenza dei malati e degli anziani ci obbligano a creare e ricreare continuamente il tessuto di solidarietà e di accompagnamento che dissolve il nostro individualismo e il nostro egoismo. Monicelli ci dà quest’ultima lezione con il suo suicidio: non lasciateci soli! Ed è questo il testimone che vogliamo raccogliere per sollecitare la politica a liberare risorse da mettere a disposizione degli anziani, dei malati, dei non autosufficienti.
Vogliamo alleggerire il loro senso di colpa, non vogliamo che si sentano di peso, non vogliamo che le loro famiglie cedano alla fatica dell’assistenza e si sottraggano alla responsabilità della cura. Non di eutanasia ha bisogno il nostro Paese, ma di politiche sociali solide, non di una sterile affermazione del principio di autosufficienza in chi autosufficiente non è, ma di una positiva affermazione del principio di solidarietà. Per questo serve ritrovare una nuova energia morale, che ci faccia sentire tutti più responsabili gli uni degli altri, superando l’impasse di una sterile affermazione di un individualismo privo di calore umano.
L’aula ha condiviso la denuncia della mistificazione radicale, ne ha percepito i limiti, ma anche i rischi che drammaticamente stanno cercando ogni volta di più di capovolgere le prospettive antiche della relazione medico-paziente, ma anche quella uomo-uomo! Dalla campagna di Avvenire, alla manifestazione dell’Udc sotto la sede Rai, dagli appelli rivolti dai cattolici di tutti i partiti è stato confermato un si corale alla vita. E da qui intendiamo ripartire già da domani…
Avvenire.it, 2 dicembre 2010 - La fede ferita e quella messa ai margini - Il tocco alla porta di Marina Corradi
Dal vertice dell’Osce in Kazakhstan il segretario di Stato della Santa Sede ricorda che 200 milioni di cristiani sono perseguitati nel mondo, e che dovere della comunità internazionale è difenderli con la stessa determinazione con cui si lotta contro altre discriminazioni religiose. Appello forte, mentre sembra che in alcune aree del pianeta l’odio anticristiano si allarghi come un incendio incontrollato. Ma il cardinale Bertone parla anche di una ostilità diversa, che si avverte nel nostro civile Occidente: la vita religiosa qui è minacciata «dal relativismo e da un falso secolarismo, che esclude la religione dalla vita pubblica».
Marginalizzazione ormai palpabile, se l’arcivescovo emerito di Canterbury, l’anglicano Lord Carey, ha proposto ai cristiani un not ashamed day: una giornata della non-vergogna, o, se si vuole, della fierezza cristiana. Davanti alla House of Lords, cuore della democrazia in Occidente, un sit-in di cristiani: sarà uno strano vedere, in questa Europa che al cristianesimo deve buona parte delle sue radici. Carey, figlio di un portinaio, a quindici anni elettricista, insomma un "figlio del popolo", sostiene che in una mescolanza di politically correct, multiculturalismo e aperta avversione alla Chiesa la grande eredità cristiana del Paese è sotto attacco. «Perfino il Natale – aggiunge – sembra qualcosa di cui ormai ci vergogniamo».
E noi in Italia, che guardiamo alle persecuzioni in Iraq o in Pakistan con angoscia, ma come a un incubo che non può toccarci, capiamo invece di cosa parlano i vertici anglicani e cattolici nei medesimi giorni. È la stessa denuncia di Benedetto XVI alla Westminster Hall a Londra, in settembre, di una crescente «marginalizzazione del cristianesimo» in un Occidente che vorrebbe relegarlo a una sfera unicamente privata. (Quel suggerire che il crocifisso venga tolto dalle scuole, o che i segni del Natale siano annacquati in vaghi simboli di una indeterminata "festa" per non offendere chi cristiano non è; quel pretendere che il credente metta da parte, nella vita pubblica, la sua identità religiosa).
Paradossale, all’apparenza; numericamente, i cristiani nel mondo e in Occidente non sono certo piccola minoranza. Eppure quell’appello da Canterbury non ci appare incomprensibile. Tra tanti orgogli e rivendicazioni di diversità e minoranze ogni giorno portati in piazza, nell’Europa di inizio Terzo Millennio il possibile sit-in davanti al Parlamento britannico dice di un cristianesimo che si avverte come garbatamente (e, a volte, sgarbatamente) messo ai margini del dibattito pubblico.
Nel libro-intervista a Benedetto XVI, Peter Seewald ricorda come un quotidiano tedesco abbia apertamente rimproverato al Papa di essere «contro la religione che vige oggi in Germania», e cioè «la religione della società civile». E il Papa replica a Seewald indicando la pretesa di una sorta di "tolleranza negativa", secondo la quale alcuni sistemi di pensiero che si pretende "razionale" devono essere imposti a tutti. «La vera minaccia è che la tolleranza venga abolita in nome della tolleranza stessa», sintetizza Benedetto XVI (e vien da pensare, anche, all’Italia di questi ultimi giorni).
Il democratico, corretto fantasma dell’antireligione obbligatoria si aggira per l’Europa, e a Canterbury un vecchio fiero anglicano vorrebbe risvegliare nei suoi l’orgoglio della loro identità. Già, identità: è la questione che il Papa solleva con Seewald che gli chiede perché ampie maggioranze di battezzati in Occidente restino così subalterne e mute. L’essere cristiano non deve ridursi, dice Benedetto, a una sorta di vecchio tessuto sottocutaneo che vive parallelamente alla modernità. Occorre invece un cristianesimo vivo «che si allontani e si distingua da quella che sta diventando una controreligione». Nella pressione della cultura dominante, così lontana da persecuzioni lontane, comunque una provocazione bussa alle porte di noi tranquilli cristiani d’Occidente. È il «non conformatevi» di Paolo, così vero e attuale, duemila anni dopo.
Avvenire.it, 2 dicembre 2010 - Se si strumentalizza anche un suicidio - L’uso estremo di un estremo gesto di Francesco D’Agostino
È stato un «estremo scatto di volontà» quello che ha portato Mario Monicelli a uccidersi? Chi può dirlo? Il suicidio è un gesto troppo tragico, troppo solitario, troppo estremo per poter essere decifrato e definito in modo perentorio e univoco. A questo si aggiunga che anche gli stati d’animo più frequenti nella vecchiaia, nella vecchiaia avanzata, come quella cui era giunto Monicelli, possono essere decifrati nelle loro molteplici valenze solo con estrema difficoltà. Di una cosa sola possiamo essere certi: tutti gli uomini sentono il bisogno di non essere lasciati soli, di non essere abbandonati; gli anziani e i malati più di tutti gli altri. Per questo il suicidio è un gesto sconvolgente, perché di norma chi si uccide lo fa in una situazione di totale e spesso disperata solitudine, attivando nei familiari, negli amici e in genere nei suoi "prossimi" la domanda angosciosa: si sarebbe ucciso se io gli fossi stato vicino?
Ecco perché utilizzare il suicidio di Monicelli come argomento per perorare l’approvazione di una legge eutanasica è scorretto e fuorviante. È scorretto, perché la legge, qualsiasi legge, per sua natura non è chiamata a regolare situazioni estreme, ma standard, ordinarie, normalmente ripetibili, valutabili con fredda pacatezza: non è questa la condizione in cui si trova un suicida, così come non sono queste le condizioni in cui si trovano i malati terminali, gli anziani colpiti da grave disabilità e più in generale i soggetti afflitti da forme depressive gravi, che alterano la volontà e possono attivare desideri patologici di morte, che è doveroso che i medici combattano.
Ma soprattutto è fuorviante pensare che possa davvero essere giusta una legge sull’eutanasia, anche la più severa possibile e immaginabile, quella cioè che legalizzi l’eutanasia solo quando questa fosse espressione dell’autonomia della persona, solo quando fosse richiesta con piena coscienza e adeguata informazione dal malato terminale. Nei Paesi in cui sono state approvate leggi del genere si è ottenuto un solo autentico effetto: quello di burocratizzare il processo del morire, incrinando profondamente la deontologia ippocratica, favorendo l’abbandono dei malati e inducendoli a proiettare sul medico l’immagine inquietante di chi è disposto, e non solo in linea di principio, a porre intenzionalmente termine alla loro vita.
Non è corretto continuare a ripetere, come si fa da parte di tanti, che il medico che pratica l’eutanasia altro non fa che rispettare la volontà del paziente, perché l’esperienza ci dimostra che questo non è vero: a parte il fatto che accertare rigorosamente la volontà dei pazienti terminali è pressoché impossibile, è un dato di fatto che, dovunque si pratica legalmente l’eutanasia, si assiste all’inevitabile e arbitraria dilatazione burocratica di questa prassi, che viene posta in essere anche quando il consenso del malato non può esserci (come nel caso dell’eutanasia neonatale a carico di bimbi malformati) o non può avere alcun valore giuridico e morale (come nel caso dell’uccisione eutanasica di malati di mente o di malati di Alzheimer).
Non è attraverso l’esaltazione di inquietanti legislazioni eutanasiche che va espresso il rispetto che tutti dobbiamo alla memoria di Monicelli. L’impegno per la vita, per la salute, per la cura di tutti i pazienti, anche e soprattutto di quelli inguaribili e di quelli terminali deve esprimersi in ben altro modo: moltiplicando l’impegno sociale, giuridico, finanziario e morale nei confronti di quegli esseri umani che sono i più fragili di tutti: i malati e gli anziani. È indubbio che la malattia e la vecchiaia costituiscano i problemi cruciali non solo del nostro tempo, ma soprattutto degli anni a venire, ma è altrettanto indubbio che a questi problemi le spinte per la legalizzazione dell’eutanasia offrono non una risposta, ma una scorciatoia intellettualmente disonesta.
DIARIO HAITI/ Chiara (medico): in mezzo al colera, tanti piccoli episodi di "resurrezione" Redazione - giovedì 2 dicembre 2010 – il sussidiario.net
Carissimi tutti,
siamo stati qualche giorno senza internet, ma sopratutto senza il tempo materiale di aprire il computer quindi non mi sono fatta viva. È arrivato Omero Grava, amico dai tempi dell'università, a darci una mano, quindi un grande sollievo anche perché si può scambiare un'idea e un conforto.
Forse il numero dei malati sta un po’ diminuendo, ma arrivano ancora gravi. L'altro giorno mi sono commossa pensando a Madre Teresa, quando mi hanno chiamato per andare a prendere un uomo per la strada. L'infermiera di MSF con il loro autista sono stati molto bravi, subito non si capiva se era vivo o morto, poi lo abbiamo portato in ospedale, mentre sedevo vicino a lui prendendo il polso pensavo se sarei stata capace come Madre Teresa di lavarlo e pulirlo. Messo a letto e in flebo, si è un po’ ripreso e ha detto: Mesì. Che in creolo significa “grazie”.
Si fa quello che si può. Le infermiere haitiane vanno formate, c’è anche chi si sente di imparare e di accudire i malati (vomiti e diarree continue) che non è la cosa più facile. Dopo ogni vomito si sente chiamare: depusson!, non so come si scrive, all'inizio pensavo fosse il nome di una persona, invece è il disinfettatore che arriva con la pompa come quella per le piante, per decontaminare il secchio. Dovreste vedere i poveri ragazzi che lo fanno, fortunatamente hanno un certo humour!
Ieri ho fatto la mia prima notte, perché non c'era nessuno, così tra i malati mi sono goduta anche la luna e il fresco del mare. Chiaramente non ho dormito, ma durante la notte c'è sempre un rapporto diverso con la gente, sia malati che pazienti. Sono riuscita verso mezzogiorno ad andare a casa; ho lasciato Omero che se la cava bene, io con un gran mal di testa; ma stare un po’ a casa fa bene.
Siccome Worf Jeremie è uno dei pochi posti dove a Port-au-Prince c'e il colera, c'e un gran via vai di giornalisti, fotografi, Ong che vengono e vanno. Suor Marcella era andata a dormire, ieri pomeriggio, e mi ha lasciato il suo telefono per rispondere, così è capitata a me l'intervista di un quotidiano che volevano fare a lei. Noi sul lavoro però seguiamo i malati, lasciamo Marcella alle prese con i "curiosi" , sono molti quelli che aiutano, come una signora americana che ci ha portato un po’ di casse di acqua con le bottigliette piccole che diamo ad ogni paziente e non bastano mai.
(lettera successiva)
I malati stanno un po’ diminuendo, quindi stiamo disinfettando una alla volta le stanze e i letti, ma arrivano ancora dei ragazzotti molto gravi che sembrano morti e il giorno dopo risorti e anche bambini piccoli con cui si lotta per trovare le vene.
Ieri, approfittando di una certa calma e della presenza di Omero, sono andata a fare un giro a piedi a vedere i bambini mangiare nella mensa e tra le nuove case. Bello, ma quanto ancora da fare, soprattutto nel ricostruire l'umano, bimbi di pochi mesi abbandonati alle nonne che danno loro omogeneizzati invece di favorire l’allattamento al seno, anche per sottolineare quel gesto materno e di affetto che genera l’uomo fin dalla nascita, o altri che invece di dormire nudi sulla terra sono sul cemento del piccolo porticato di ogni casa.
Il posto, come dice Omero, potrebbe essere bellissimo, fresco sul mare (siamo ai Caraibi), ma tutto intorno discariche invece che spiaggia.
Sempre approfittando di Omero sono andata ad accompagnare con uno dei ragazzi di Marcella, a casa col taptap (famoso taxi camioncino tutto colorato), il nostro vecchietto preso sulla strada l’altro giorno, che dopo una settimana stava meglio, per essere sicura che vi arrivasse e che ci fosse qualcuno. Abita in una casa discreta e c'erano due signore (forse le figlie) che lo tenevano sulla porta, ho persino dovuto dire che non era colera, per paura che non lo facessero entrare, forse si sono spaventate di me bianca, ma poi sono state cordiali, lui ha ringraziato ancora moltissimo.
Aspettiamo i medici infettivologi dell’ospedale Sacco di Milano, poi vediamo come organizzare turni e passare le consegne e come metterci a dormire. Prevediamo 3 brandine in più nel soggiorno. Penso che Omero ed io ci trasferiremo negli appartamenti di AVSI, che purtroppo sono lontani da questo quartiere. Speriamo si adattino, anche loro come abbiamo fatto tutti noi. Omero lava i pazienti, insegna alle infermiere un po’ di "nursing" cioè di cura del malato. Sono cose semplici, ma solo la carità cristiana di un san Camillo o san Giuseppe Moscati sono capaci di fare senza essere sindacalisti. Mi commuovo quando qualcuna delle infermiere ci segue e fa insieme a noi.
Spesso ci chiediamo cosa serva tutto questo, ma la nostra coscienza che Lui viene, attraverso la nostra misera pelle, ci fa stare qui con umiltà e letizia.
(Chiara Mezzalira)
Uscire dalla crisi? La bussola c’è - Analisi - L’unità politica dei cattolici può partire solo dai valori non negoziabili DI CARLO CASINI – Avvenire, 2 dicembre 2010
D ue affermazioni del cardina le Bagnasco, formulate sia al l’apertura della Settimana sociale dei cattolici italiani (14 otto bre 2010) sia nella introduzione del la Conferenza Episcopale (8 no vembre 2010), meritano di essere tradotte in azione pratica.
La prima è che i valori non negozia bili (vita-famiglia) sono quelli su cui «si gioca il confine dell’umano», sic ché «l’intero bene comune – il lavo ro, la casa, la salute, l’inclusione so ciale, la sicurezza, le diverse provvi denze, la pace, l’ambiente - germo glia e prende linfa da questi. Stacca ti dall’accoglienza radicale della vi ta si inaridiscono». La seconda affermazione è che «i va lori non negoziabili non sono divi sivi, ma unitivi ed è precisamente questo il terreno della unità politica dei cattolici».
Nella crisi politica che stiamo attra versando sarebbe opportuno che i politici meditassero su questi due pensieri. Il primo esprime, in modo tanto sintetico quanto efficace, la te si della «centralità politica del dirit to alla vita». Nel continuo oscillare tra prospettive di fine legislatura e di scioglimento anticipato delle ca mere, tra ammiccamenti verso nuo ve alleanze e ipotesi di sostegno di quelle esistenti, tra bipolarismo e suo affossamento; tra la parola d’or dine della libertà e quella della soli darietà, tra le critiche ai modelli di vi ta dei leader politici e la pretesa del la loro irrilevanza politica, nessuno si domanda mai: «qual’è la soluzio ne migliore in vista della difesa e del la promozione dei valori non nego ziabili, in particolare della vita u mana? » Se da qui germogliano tutti gli altri valori sopra elencati, cioè, prende anima tutta la politica rivol ta al bene comune, perché tanto si lenzio nell’attuale dibattito politico? Mi si può replicare che non c’è si lenzio, perché oggi come non mai si parla tanto di famiglia. È vero, ma ri spondo che il silenzio è politico. Non sento parlare della famiglia come criterio decisivo per scegliere tra le ambivalenze in cui ogni giorno ci immergono i mezzi di informazio ne. Altre sono le bussole consulta te: la legge elettorale, la riforma giu diziaria, le vicende processuali del premier, i sondaggi demoscopici, l’anti-berlusconismo.
Per certi aspetti, poi, deve essere de nunciato il carattere evasivo e de viante di tante promesse relative al la famiglia. Non mi si può certo ac cusare di indifferenza verso le poli tiche famigliari. Mi inquieta, però, la dimenticanza di quel primordia le ed essenziale rapporto famigliare che è quello tra madre e figlio. È in corso una tragedia immane. Centi naia di migliaia di figli, nell’età più giovane della loro esistenza, vengo no uccisi nella forma di un servizio sociale pubblico. Alludo – è eviden te – al tema dell’aborto e alla deriva in materia di procreazione artificia le, specialmente dopo la breccia a perta dalla Corte Costituzionale nel la Legge 40. È facile parlare di famiglia, tanto più che le provvidenze i potizzabili riguardano il futuro e la loro realizzazione è gravata da un al to margine di opinabilità e di di screzionalità. Viceversa il problema indiscutibilmente famigliare riguar dante la protezione della vita dei bambini è attuale, drammatico e po trebbe essere avviato a soluzioni gra duali con immediati provvedimen ti non equivoci. La riflessione pluri decennale del Movimento per la vi ta ha già indicato in ogni sede il pun to di partenza: la modifica dell’art. 1 c.c. per riconoscere il principio di e guaglianza tra tutti gli esseri umani fin dal concepimento in modo che la legge sia una guida per l’azione dei singoli anche in un sistema di permissività riguardo all’aborto e la riforma dei consultori familiari in modo da renderli univoco stru mento di protezione della vita at traverso il consiglio e l’aiuto in fa vore della maternità. Non sembra che questi due obiettivi entrino fi nora nelle discussioni politiche di questi giorni. La nostra insistita ri chiesta è laicamente coerente con la prima indicazione del cardinale Bagnasco.
La seconda riflessione riguarda l’in vocata unità politica dei cattolici. Es sa non può partire che dai valori non negoziabili. Dunque, in primo luo go, dal diritto alla vita. È doloroso constatare, però, la timidezza dei po litici cattolici, quale che sia lo schie ramento in cui si trovano. L’espe rienza della Legge 40 ha dimostrato l’efficacia di un lavoro trasversa le, che superi i confini dei partiti e che ottenga alleanze su punti speci fici riguardanti i valori non negozia bili. Ma senza un partito che faccia di questi ultimi, in particolare del di ritto alla vita, la sua bandiera, il tra sversalismo da solo non basta. Non viene neppure messo all’ordine del giorno un provvedimento legislati vo se nessun partito lo chiede. Nel l’attuale sistema elettorale la forza del consenso popolare non è in gra do di manifestarsi nel voto a favore di singole persone, ma dimostra sol tanto un orientamento generale nel voto di partito o di schieramento. C’è materia abbondante di medita zione nella crisi attuale. A volte le difficoltà sono benefiche se costrin gono a perseguire un livello più al to e più chiaro di impegno. C’è bi sogno di un rinnovamento morale, civile e politico. Avvenne all’inizio del secolo scorso il coagularsi della ispirazione cristiana a partire dal l’urgenza di risolvere la questione sociale della classe operaia. Non mi pare assurdo accogliere l’auspicio formulato da Giovanni Paolo II nel l’ Evangelium
vitae che un nuovo ri cominciamento parta da mettere al centro della politica l’uomo nelle condizioni più emblematiche della sua esistenza quali sono il nascere e il morire (E.V. n. 5 e 18).