domenica 5 dicembre 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    domenica 5 dicembre 2010 - All'Angelus appello di Benedetto XVI affinchè nel mondo cessino situazioni di violenza e intolleranza. Il Papa ricorda gli attentati in Iraq, gli scontri in Egitto e il dramma dei profughi eritrei tenuti in ostaggio nel deserto del Sinai
2)    La crisi della Chiesa: è tempo di riconoscerla? Di Francesco Agnoli del 04/12/2010, in Storia del Cristianesimo, dal sito http://www.libertaepersona.org/
3)    NATALE, LA CRISI, UN’INQUIETUDINE - SIAMO FATTI PER DONARE di DAVIDE RONDONI – Avvenire, 5 dicembre 2010
4)    IL 9 FEBBRAIO DEDICATO AGLI STATI VEGETATIVI - Un giorno di tutti per ascoltare e capire di FRANCESCO OGNIBENE – Avvenire, 5 dicembre 2010
5)    Emergenza Sla, un’alleanza per combatterla in rete - Dal congresso della Società di cure palliative una piattaforma per rendere più efficace l’assistenza dei malati Eletta la nuova presidente È Adriana Turriziani di Roma di FRANCESCA LOZITO – Avvenire, 5 dicembre 2010

Domenica 5 dicembre 2010 - All'Angelus appello di Benedetto XVI affinchè nel mondo cessino situazioni di violenza e intolleranza. Il Papa ricorda gli attentati in Iraq, gli scontri in Egitto e il dramma dei profughi eritrei tenuti in ostaggio nel deserto del Sinai

All'Angelus appello di Benedetto XVI affinchè nel mondo cessino situazioni di violenza e intolleranza. Il Papa ricorda gli attentati in Iraq, gli scontri in Egitto e il dramma dei profughi eritrei tenuti in ostaggio nel deserto del Sinai

All’Angelus Benedetto XVI ha ricordato che nella Messa della seconda Domenica d’Avvento “veniamo esortati alla conversione dei cuori, rivoltaci da Giovanni Battista, il profeta della riva del Giordano”. “Egli ricorda a tutti – ha aggiunto il Papa - che “il Regno dei cieli è vicino!”.
Il Papa ha auspicato che l’Avvento sia “occasione per preparare nel cuore la via al Signore”. Dopo l’Angelus, il Santo Padre ha lanciato un accorato appello affinché cessino situazioni di violenza, intolleranza e sofferenza presenti nel mondo. Il servizio di Amedeo Lomonaco:

In questo tempo di Avvento, in cui i cristiani sono chiamati ad alimentare l’attesa del Signore e ad accoglierlo, il Papa esorta a pregare per quanti soffrono a causa di attentati, violenze e drammatiche forme di sfruttamento:

“Vi invito a pregare per tutte le situazioni di violenza, di intolleranza, di sofferenza che ci sono nel mondo, affinché la venuta di Gesù porti consolazione, riconciliazione e pace. Penso alle tante situazioni difficili, come i continui attentati che si verificano in Iraq contro cristiani e musulmani, agli scontri in Egitto in cui vi sono stati morti e feriti, alle vittime di trafficanti e di criminali, come il dramma degli ostaggi eritrei e di altre nazionalità, nel deserto del Sinai. Il rispetto dei diritti di tutti è il presupposto per la civile convivenza. La nostra preghiera al Signore e la nostra solidarietà possano portare speranza a coloro che si trovano nella sofferenza”.

Nel Tempo dell’Avvento – aggiunge Benedetto XVI – siamo chiamati “ad ascoltare la voce di Dio, che risuona nel deserto del mondo attraverso le Sacre Scritture, specialmente quando sono predicate con la forza dello Spirito Santo”:

“La fede, infatti, si fortifica quanto più si lascia illuminare dalla Parola divina, da “tutto ciò che – come ci ricorda l’apostolo Paolo – è stato scritto prima di noi… per nostra istruzione, perché, in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza” (Rm 15,4).

Il modello dell’ascolto è la Vergine Maria:

“Contemplando nella Madre di Dio un’esistenza totalmente modellata dalla Parola, ci scopriamo anche noi chiamati ad entrare nel mistero della fede, mediante la quale Cristo viene a dimorare nella nostra vita. Ogni cristiano che crede, ci ricorda sant’Ambrogio, in un certo senso concepisce e genera il Verbo di Dio”.

“La nostra salvezza – sottolinea il Santo Padre ricordando le parole del teologo Romano Guardini – poggia su una venuta”. Il Vangelo di oggi – osserva il Papa - ci presenta la figura di San Giovanni Battista che “chiamò il popolo a convertirsi per essere pronto all’imminente venuta del Signore”.

“Il Precursore di Gesù, posto tra l’Antica e la Nuova Alleanza, è come una stella che precede il sorgere del Sole, di Cristo, di Colui, cioè, sul quale – secondo un’altra profezia di Isaia – si poserà lo Spirito del Signore, spirito di sapienza e d’intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore”.
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La crisi della Chiesa: è tempo di riconoscerla? Di Francesco Agnoli del 04/12/2010, in Storia del Cristianesimo, dal sito http://www.libertaepersona.org/

Da alcuni anni uno spettro si aggira nel mondo cattolico. Uno spettro che inquieta molti, benché assuma la forma di una semplice e inevitabile domanda: e se la cristianizzazione incalzante dell’Occidente fosse anche il frutto di una crisi della Chiesa?

E se la crisi della Chiesa avesse a che fare con il Concilio Vaticano II, con alcuni suoi documenti un po’ ambigui, oppure, quantomeno, con la sua estesa interpretazione? La domanda, a ben guardare, dovrebbe essere spontanea: non è più possibile infatti non accorgersi del gelo, del buio, della disumanizzazione che ci circonda. Nello stesso tempo non è più lecito non rendersi conto di quanto il sale sia divenuto insipido. Di quanto sia divenuto arduo, anche per chi si sforza di rimanere cattolico, trovare un vescovo del livello di Mons. Caffarra, o di mons. Negri, o di mons. Crepaldi; oppure, un sacerdote vivace e appassionato come padre Livio Fanzaga, direttore di radio Maria; oppure, un semplice parroco di paese che ami la liturgia, il decoro della casa di Dio e il confessionale.

Giustamente mons. Nicola Bux ha appena dato alle stampe un bel testo intitolato “Come andare a messa e non perdere la fede” (Piemme). Perché il problema non è solo che la Fede, fuori, nel mondo, non c’è più, e neppure il fatto che i credenti vengano derisi dagli atei di professione e dai nichilisti di ogni tipo: il problema vero è che questi stessi nemici della Fede, come coloro che invece la conservano ancora gelosamente, non trovano nessuno con cui veramente confrontarsi, a cui lanciare in volto i loro dubbi, le loro fatiche, o persino la loro luciferina ribellione. Non è colpa solo dei media il fatto che a rappresentare un pensiero cattolico sul più importante quotidiano italiano sia chiamato un “non più cattolico” come il cardinal Martini.

Non è per il Corriere, che legioni di cristiani educati in parrocchia, corrono a lui, e non al Magistero, per avere una parola, quantomeno ambigua, sulla vita, la morte, Dio e la bioetica. Il problema è la scarsità, nella Chiesa di oggi, di uomini di Dio, di uomini di fede intelligenti, appassionati; dirò più, dopo tante esperienze personali: di uomini, punto e basta! Ma questa realtà, questo tradimento piuttosto generalizzato, che confonde e avvilisce anche chi vorrebbe stare, con la sua miseria, accanto al Maestro, anche nell’ora del Getsemani, non può non avere una radice, una causa.

All’epoca della Controriforma, gli uomini di Chiesa più santi capirono che vi erano da fare due cose: condannare fermamente le eresie di Lutero; riformare la Chiesa stessa, ammettendo errori, vizi, tradimenti, viltà di molti… Oggi penso debba accadere la stessa cosa: non si può continuare con il mantra del Concilio Vaticano II “primavera della Chiesa”, “profezia” o altre amenità. Se c’è l’inverno, bisogna finalmente accorgersene, e mettersi il cappotto.

Ecco perché ritengo una benedizione di Dio, un segno dei tempi, l’opera di stimate personalità della Chiesa che si interrogano sul Vaticano II e sulla sua attuazione: penso a “Iota unum” di Romano Amerio, ristampato recentemente; agli scritti di mons. Mario Oliveri, vescovo di Albenga; a “Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare”, di un insigne teologo come mons. Brunero Gherardini (con prefazione del neo cardinale Albert Malcolm Ranjith, uomo di fiducia di Benedetto XVI).

Penso, soprattutto, allo straordinario lavoro del Prof. Roberto de Mattei, “Il Concilio Vaticano II, una storia mai scritta”, appena edito da Lindau. Si tratta di un volume di oltre 600 pagine densissime, straordinarie, puntuali, in cui finalmente si analizza un grande evento della Chiesa, insieme a ciò che lo ha determinato, alle attese, alle delusioni e alla ricezione che l’evento stesso ha avuto. Un quadro completo, non ideologico, che senza dubbio mancava e che contribuisce a parer mio a riportare il discorso Vaticano II nel giusto alveo, confutando il mito di un Concilio “superdogma”, sempre e immancabilmente “profetico”. Il Vaticano II, ricorda de Mattei, si auto-qualificò come “pastorale” e “fu privo di un carattere dottrinale definitorio”: proprio questa sua caratteristica lo rende soggetto, almeno per alcuni documenti, chè non tutti hanno lo stesso valore, a differenti interpretazioni, che non sarebbero invece possibili per definizioni dogmatiche, di per sé infallibili e irreformabili.

Non essendoci qui lo spazio per illustrare un testo così ricco, basti un assaggio: l’autore parte dal pre Concilio, da una crisi che i più avveduti vedevano già in azione. Nota però come la gran maggioranza dei vescovi, invitata ad esprimere i propri “vota” in vista del Concilio, avesse chiesto riforme moderate e la chiara comprensione e condanna degli errori del proprio tempo: comunismo e marxismo in primis (e poi esistenzialismo ateo e relativismo morale). Ma i vota dei vescovi, anticipa de Mattei, sarebbero stati ostacolati dalle “rivendicazioni di una minoranza”, che in nome dell’ “aggiornamento” dimenticò, talora, che l’ aspetto pastorale non può finire per soffocare quello dottrinale; che la carità nell’annuncio non significa il silenzio sui mali del presente (vedi, appunto, il silenzio sul comunismo); che sminuire la Verità, “scandalo e follia”, a causa della sua sapidità, del suo gusto talora amaro e inquietante, non la rende più digeribile e appetibile, ma al contrario, finisce per nasconderne la lucentezza, la bellezza e la forza intrinseca. Il Foglio, 2 dicembre 2010


NATALE, LA CRISI, UN’INQUIETUDINE - SIAMO FATTI PER DONARE di DAVIDE RONDONI – Avvenire, 5 dicembre 2010

C’è qualcosa di nuovo nell’aria, anzi di antico. Un fenomeno consueto ma che ha connotati nuovi, a cui bisogna trovare un nome nuovo. Intendo quella u suale eccitazione che sale piano in questi giorni e riguarda: i regali di Natale. Ma for se bisognerà trovare dei nomi nuovi. Per ché le cose cambiano. E se pur occhieg giano da vetrine e spot i soliti inviti, le 'cla morose' offerte, i 'mai visti' sconti e le 'sensazionali' proposte, c’è qualcosa di nuovo nell’aria. La solita bella eccitazio ne si sta forse venando di una pondera tezza nuova. Insomma, è come se la nor male, abituale eccitazione di pensare a co sa regalare a figli amici parenti, fosse abi tata da una nuova inquietudine, da un so spetto, o meglio da una domanda.

Mentre si comincia a dare un’occhiata, ancora senza troppo impegno, a vetrine e promozioni, mentre si fanno i primi sva gati sondaggi su desideri e gusti, un pen­siero rintocca nel profondo: ma cosa ha davvero senso regalare? Certo, la crisi ci ha insegnato a misurare con altra attenzio ne il denaro, a valutare con più senso cri­tico il valore vero di oggetti, di beni che a volte beni veri e propri non sono, ma sfi zi, lussi piccoli o grandi, e a riconoscere come superfluo quel che ieri ci pareva ne­cessario. Ma non è solo una sorta di 'com plesso morale' determinato dalle notizie sulla crisi e dalla realtà di minori risorse a muovere questa strana cosa nuova e an tica che chiamerei 'eccitazione pensosa' al regalo. Credo che ci sia qualcosa di più profondo. Come se la circostanza della crisi avesse almeno in parte aiutato a met tere a fuoco meglio anche il valore del far si regali. Da un lato, infatti, il gesto del donare qual cosa sfugge a qualsiasi calcolo. È bello fa re doni anche se si ha poco. Anche se le ri sorse diminuiscono. Donare è un atto non superfluo. Si può rinunciare a parecchie cose, ma non a donare. Perché fa parte della nostra natura umana. Un uomo che non dona è diventato meno uomo. Nella gratuità 'assurda' di fare un regalo anche quando sono aumentati i nostri bisogni, nella gratuità che va contro ogni logica di tornaconto pur in un momento in cui si devono più attentamente fare i conti, ri siede un barlume di vero intorno alla no stra natura: l’uomo è fatto per donare, per donarsi. C’è un impeto positivo che fa par te della nostra natura, prima e sopra ogni altro. Questo barlume di verità – così pic colo ma evidente e tenace – può illumi nare non solo il piccolo e breve episodio del periodo dei regali di Natale, ma po trebbe indicare qualcosa di importante a riguardo della vita sociale.

Occorre scommettere su questo indirizzo positivo della nostra natura. Lo stesso su cui si fondano tante iniziative di valore so ciale pubblico per tutti, nei campi del­l’assistenza e dell’educazione e in altri set tori. Sul fatto che l’uomo è un essere che dona, si può fondare una visione della so cietà e della sua organizzazione non più improntata al sospetto e alla mortifica zione burocratica e impositiva della so cietà. Dall’altro lato, questa eccitazione pensosa che ci prende nel periodo di Na tale è una sottolineatura del bene che so no i legami, le relazioni che compongono concretamente ed esistenzialmente la vi ta di una persona. L’uomo è un essere che dona e ha legami. Il fatto che tali legami siano oggetto di at tenzione particolare, di scambio di doni, ci fa vedere come la risorsa principale del la nostra vita (anche in un’epoca di crisi) non stia nella chiusura egoistica, pauro sa e calcolatrice in termini di diritti e do veri. Si ha vera società intorno non al l’uomo che come una monade isolata pensa a se stesso, misurando o inventan do bisogni e diritti in astratto, ma alla per sona come nodo di relazioni viventi, nel le quali si evidenziano non solo potenti indicazioni della natura, ma anche limiti e rispetto.

L’uomo che dona e non è fatto per la solitudine è il regalo di Natale che tutti pos siamo ricevere mentre iniziamo a pensa re quali regali belli fare, ma belli davvero, siano essi piccole cose graziose o beni che vogliamo restino come nostra eredità.


IL 9 FEBBRAIO DEDICATO AGLI STATI VEGETATIVI - Un giorno di tutti per ascoltare e capire di FRANCESCO OGNIBENE – Avvenire, 5 dicembre 2010

Ci sono date che per le vicende, gli interrogativi o i valori evocati fanno inevitabilmente parte della coscienza e della memoria del nostro Paese. Di tutti, e non di una sola parte. Si può essere tentati di farle oggetto di rimozione, se non di oblìo, per il timore di riaprire ferite e diatribe che le attraversarono. Ma una comunità non cresce accantonando quel che la può dividere e comunque la interroga: deve sapersi confrontare sul proprio calendario e su quanto le date più fortemente simboliche rendono attuale a ogni loro ricorrere. Deve imparare a farlo con raziocinio e con libertà, senza elusioni e senza censure, nel rispetto per gli altri e per ciò che realmente accadde e accade. Per questo va considerato con attenzione il coraggio mostrato da chi, nel governo, ascoltando richieste 'dal basso', ha saputo decidere che ogni anno il 9 febbraio – quando nel 2009 morì Eluana Englaro – si celebri la Giornata degli stati vegetativi. C’è invece una nuova e più vasta consapevolezza della testimonianza civile resa da alcune migliaia di famiglie italiane alle quali è doveroso guardare con interesse affettuoso e grato, perché interamente dedite a un loro caro imprigionato nella condizione che la medicina ufficiale definisce ancora sbrigativamente «vegetativa». E c’è da far conoscere una scienza appassionata dell’uomo che sta esplorando con successo quella condizione, spingendosi a parlare di stati «di minima coscienza».

Detto altrimenti, dietro quella porta solo apparentemente chiusa spesso c’è una presenza, una voce, uno stato di vita diverso da quelli che conosciamo.

È spesa bene una Giornata che invita tutti a chinarsi su questo solo se gira al largo da riti senz’anima come anche da silenzi imbarazzati ed evasivi. Non ha senso mettere una pietra sopra il 9 febbraio allo scopo di evitare polemiche e comizi, come se fosse una data (e un fatto) che è meglio dimenticare per amor di pace, quasi non fossimo abbastanza maturi. Un Paese eternamente bambino, che di tutto può parlare tranne che delle frontiere della vita, perché lì si rischia di litigare, e perché a parlare ci pensano i pochi che sanno e decidono, i nuovi oligarchi della verità coi loro gruppi di pressione e i loro media (e mediatori) amici.

E allora diciamolo con chiarezza: le intenzioni possono anche essere le migliori del mondo, ma invitare a cancellare proprio 'quel' giorno dal calendario di tutti per consegnarlo, magari, al calendario di qualcuno significherebbe lasciare l’opinione pubblica in balìa della retorica, di ben noti teoremi liquidatori, di una neutralità sull’etica pubblica che è solo di facciata e che, in realtà, lascia campo aperto ai fautori della cosiddetta «libertà di scelta». Ovvero gli stessi che in questi giorni gridano alla profanazione del 9 febbraio a opera, manco a dirlo, di presunti «pasdaran clericali».

Non è accettabile l’equiparazione un po’ furbetta delle ragioni di costoro agli argomenti di chi propone di ascoltare storie di persone e di famiglie e di saperne di più dai medici. Gente che di tutto ha voglia tranne che di polemiche, e che desidera solo una giornata emblematica – capace di dire tanto a tutti – in cui gli italiani ascoltino, capiscano e riflettano, ma soprattutto facciano sentire importanti e come abbracciate voci e ricerche altrimenti dimenticate.

Chi ha chiesto e pensato il nuovo appuntamento nazionale sugli stati vegetativi – anzitutto alcune associazioni di famiglie con pazienti gravemente disabili, dalle quali è partita l’iniziativa – l’ha immaginato possibile e sensato in una sola collocazione, l’unica realmente significativa. Fissarla in un qualsiasi altro giorno l’avrebbe relegata ancor prima dell’esordio alla retorica dell’atto dovuto. Così, invece, il 9 di febbraio non resterà solo l’anniversario della morte di Eluana: per tutto il Paese sarà l’invito a tornare alle grandi domande e alle questioni nevralgiche sulle quali fu spinto a interrogarsi poco meno di due anni fa, quando la vicenda della giovane di Lecco volse inesorabilmente verso il suo drammatico epilogo. Sarà un tempo per ascoltare davvero il dolore, la fatica e la speranza. Oltre ogni individualismo.


Emergenza Sla, un’alleanza per combatterla in rete - Dal congresso della Società di cure palliative una piattaforma per rendere più efficace l’assistenza dei malati Eletta la nuova presidente È Adriana Turriziani di Roma di FRANCESCA LOZITO – Avvenire, 5 dicembre 2010

C urare la Sla è possibile. Con una Ram. Non stiamo parlando della memoria del computer, la random access me mory, ma di una rete assistenziale multidi­sciplinare.

È questa la proposta emersa da un semi nario interdisciplinare sulla Sla che si è te nuto durante il congresso della Società ita liana di cure palliative, conclusosi ieri a Ro ma. «Sla: accanto al malato e alla famiglia, con quale percorso di cura», il titolo, vi han no preso parte otto società scientifiche che sono a vario modo impegnate nella diagnosi e la cura della malattia del motoneurone. Per questo, hanno elaborato un documen to di consenso che servirà da piattaforma per trovare assieme una strada comune in tutta Italia. Una delle difficoltà nella cura di questa malattia, infatti, è che ci sono alcu ne regioni in cui malati e famiglie sono sup portati anche a livello istituzionale, come la Lombardia, dove è previsto un assegno di cura di 500 euro. Altre, come la Sardegna, dove l’assistenza è stata merito della società ci vile e della Chiesa, che si sono mobilitate molto.

Ma altre ancora in cui non c’é nulla. Capofila, dunque, di questo do cumento di consenso la Società italiana di cure palliative e la Aisla, l’As sociazione dei malati di Sla, che sono ormai ufficialmente impe gnate a costruire assieme un percorso di cura che possa dare dignità a questi mala ti. Accanto a loro neurologi, ma anche me dici di medicina generale e infermieri.

«La Sla è una malattia che richiede un ap proccio medico ma anche sociale per tutti i problemi di gestione e necessità di sup porti - spiega Fabrizio Limonta, dirigente medico alla Asl di Lecco, tra i coordinatori del seminario della Sicp - Per questo è ne cessario che ci sia uno scambio di contri buti tra vari professionisti». Obiettivo: «As sicurare il migior percorso di cura, evitare il più possibile i ricoveri inutili, curare il malato a casa, che è il luogo in cui vuole vivere di più». Non solo un vantaggio per chi è colpito dalla malattia e per la sua fa miglia: «Vuol dire anche diminuire i costi della spesa sanitaria, garan tendo nello stesso tem po la migliore assistenza di qualità».

Due le figure fondamentali perché la rete assistenziale funzioni: il care manager ed il case manager. I nomi potrebbero sembra re complicati, ma la realtà è molto più sem plice: «Il primo è il medico, generalmente il neurologo, che diagnostica questa malat tia e che ha il compito di dire quali sono i bisogni e le soluzioni da attuare. Il secondo può essere l’infermiere dei servizi territo riali, quello che deve seguire in concreto il piano di cura. Quello che va a casa del ma lato e fa da coordinatore del domicilio». Queste due figure devono restare in con tatto tra loro naturalmente, assieme a tut te le figure che entrano in gioco in questo percorso: «Perché - riprende Limonta - è sul territorio che deve essere presente la rete di servizi per affrontare tutta la molteplicità di bisogni che il malato esprime». Soprattut to in una situazione come la Sla, in cui «la malattia ha un’evoluzione progressiva e quindi occorre accompagnare il malato nel l’evoluzione del percorso di cura per fare assieme, medico, malato e famiglia, le scel te che volta per volta si presenteranno».

Ieri il congresso ha anche eletto la nuova presidente. È Adriana Turriziani direttore dell’hospice Villa Speranza di Roma, strut tura collegata all’Università Cattolica del Sacro Cuore, che succede a Giovanni Zani netta. «La Società italiana cure palliative – ha dichiarato la nuova presidente – si im pegnerà per contribuire ad implementare la legge 38 e la sua applicazione nelle sin gole Regioni. È una nostra priorità, anche per l’impegno che abbiamo messo nello sti molare i decreti attuativi in via di approva zione ».