Nella rassegna stampa di oggi:
1) Avvenire.it, 22 dicembre 2010 - Il disagio, i giovani, il Paese - È l'incontro che cambia di Davide Rondoni
2) Avvenire.it, 22 dicembre 2010 - Il Papa e la lezione di Newman - Lo sguardo capovolto che scopre l'Invisibile di Marina Corradi
3) Relativismo democratico Lorenzo Albacete - mercoledì 22 dicembre 2010 da il sussidiario.net
4) GLI IGNORANTI DOVREBBERO STARE ZITTI - di Paolo Deotto da http://www.riscossacristiana.it
5) L'INTERVISTA/ Il ministro turco: riformiamo lo Stato per dare più libertà ai cristiani - INT. Egemen Bagis - mercoledì 22 dicembre 2010 da il sussidiario.net
6) CENSIS/ Mastrocola: dalla crisi del desiderio può nascere solo la violenza - INT. Paola Mastrocola - mercoledì 22 dicembre 2010 da il sussidiario.net
7) SCIENZE - DIBATTITI/ Se Galileo avesse conosciuto gli indios Kayapo … Mario Gargantini - mercoledì 22 dicembre 2010 da il sussidiario.net
8) Avvenire.it, 2 dicembre 2010 - L'ODISSEA DEGLI ERITREI - Adam: picchiati con spranghe e tenuti in container sotto terra di Paolo Lambruschi
Avvenire.it, 22 dicembre 2010 - Il disagio, i giovani, il Paese - È l'incontro che cambia di Davide Rondoni
Una cosa è chiara. La nostra voglia di incontrarci è più forte della vostra voglia di scontro. Nonostante le manifestazioni, gli atti vandalici, le violenze (e le minacce, come quella temenda della bomba dimostrativa trovata ieri sulla metro di Roma), nonostante le accensioni violente del dibattito, da parte di studenti, intellettuali (?) e politici; insomma, nonostante l’Italia sia fatta apparire come pervasa da una voglia aspra di scontro, noi sappiamo una cosa che non troverete scritta su tanti giornali e sugli striscioni: è più forte la voglia di incontro.
Ci avvertiva Pavese: la bellezza suprema degli uomini si vede nei loro incontri. In quelli tra padri e figli, tra compagni, tra colleghi, tra amici. Tra innamorati. Tra gente di cultura e di idee diverse. Noi lo sappiamo. Segretamente lo sappiamo. E soffertamente. Perché troppi media sembrano sobillare la voglia di scontro. E troppi politici e troppi intellettuali. Mentre noi sappiamo (e tutti sanno, in fondo) che solo dagli incontri nasce qualcosa di buono ed emerge la vera forza rivoluzionaria, quella che cambia le cose.
Negli scontri si acuisce solo il senso dell’avversario. Lo si dipinge come il male. E da scontro così nasce solo altro scontro. E odio. Mai costruzione. Mai riforma. L’Italia invece è un Paese di incontri. La stessa identità di italiani fu scelta da popoli che decisero di incontrarsi, cessando una logica di solo scontro. E la nostra storia ha trovato momenti di reale progresso solo quando gente diversa ha deciso di incontrarsi.
Fu così per la Costituente. Ed era gente che veniva da esperienze opposte. Che era passata dalla logica dello scontro alla scommessa dell’incontro. Si dice che questi giovani (i manifestanti occasionali, non quelli di professione) stanno indicando un disagio. Se il disagio genera solo scontro, sarà disagio sterile. Un disagio che genera vuoto, il peggio che può accadere. Ma anche il disagio può essere un motivo di incontro. Perché il malessere – va detto a questi giovani – non è un lasciapassare per lo scontro o la violenza. E il loro è anche il nostro disagio. Su questo occorre incontrarsi.
Ma quanti adulti sono disposti a incontrarsi veramente con questi ragazzi? A condividere tempo, energie, risorse? A giocare responsabilità e rischio di costruzione e non solo slogan? Si dice, con uno slogan appunto, che sono ragazzi (una parte non maggioritaria, va detto anche questo) che manifestano e scelgono lo scontro perché non sentono sicurezze sul futuro. Ma il futuro non è un problema solo dei giovani. È un problema dei padri, come dei figli. In modo diverso, ma con uguale intensità. Il futuro per un padre si chiama problema della eredità. Cosa lascio? Cosa ho costruito?
Drammatico come le domande di un giovane circa il suo futuro. Su questo occorre incontrarsi. E non solo nelle aule del Parlamento, dove la prassi degli incontri diviene regola democratica, che o si accetta o ci si pone solo in sterile logica di scontro. Si tratta di incontrarsi anche in tutti i luoghi della vita quotidiana. Tra padri e figli, tra padri e padri, tra amici, tra colleghi, tra compagni. Noi sappiamo e lo diciamo forte: la nostra voglia di incontri è più forte della vostra voglia di scontro. Più forte di voi manifestanti o politici o giornalisti o intellettuali che cercate un triste entusiasmo nel soffiare sullo scontro.
Tra il fumo e i titoloni e in mezzo a segni inquietanti noi vediamo che l’Italia ha forte voglia di incontri: imprevedibili, faticosi, anche, ma segnati da desiderio di costruzione. Gli incontri che fanno la bellezza dell’Italia e dell’esser uomini. Tutti, ragazzi e no, devono decidere se stare dalla parte della bellezza o della sterilità.
Avvenire.it, 22 dicembre 2010 - Il Papa e la lezione di Newman - Lo sguardo capovolto che scopre l'Invisibile di Marina Corradi
C’era una volta un uomo che non escludeva l’esistenza di Dio, ma la considerava come qualcosa di incerto, di non essenziale nella propria vita. Veramente reale, per quell’uomo era solo ciò che è materialmente tangibile. Le cose che si possono prendere e afferrare con la mano: questa soltanto la “realtà”, quella vera. Dio, l’anima, a quell’uomo apparivano idee in cui voleva credere, ma sostanzialmente estranee alla sola categoria del reale: ciò che si può toccare, e misurare.
Quell’uomo era Henry Newman, il teologo inglese convertito al cattolicesimo, da poco beato. In questi termini ha parlato di lui Benedetto XVI, lunedì, concentrandosi sul momento della sua prima conversione. Strano, ti dici leggendo il discorso alla Curia romana, come una questione riguardante un uomo morto 120 anni fa possa essere straordinariamente attuale.
Dunque Newman, prima di convertirsi, era uno che credeva ciò in cui crede “la media degli uomini”, dice il Papa. Dio? Sì, può darsi. Il Dio di molti, credenti e perfino praticanti: ipotesi immateriale, disincarnata. Come un dubbio sospeso, inerte, sulla nostra vita. Dio? Forse, speriamo. Intanto, la realtà autentica è ciò che si tocca: per primo il nostro corpo, impellente nei bisogni. E poi tutto ciò che può essere desiderabile: amore, denaro, sesso, potere e perfino il sapere intellettuale, che forse non si tocca, ma comunque si misura e si usa. Questa è “la” realtà. Poi, parallela ma come separata, c’è la fede. Che è domanda, speranza, magari rifugio nella malattia o nella vecchiaia; ma, insomma, non ha quella consistenza sonante delle cose, quella sovrana indiscutibile evidenza ai sensi.
Cosa succede un giorno a Newman? Improvvisamente, dice il Papa, «riconosce che le cose stanno proprio al contrario: che Dio e l’anima, l’essere se stesso dell’uomo a livello spirituale, costituiscono ciò che è veramente reale, ciò che conta. Sono molto più reali degli oggetti afferrabili».
Immaginiamoci: un giorno un uomo, fino ad allora simile a tutti, vede che la realtà autentica è un’altra. Le cose, forse ora gli sembrano apparenze. Scorge, dietro di loro, mai viste prima, altre colonne originarie, portanti: il Creatore e la creatura - l’uomo, fatto a sua immagine e somiglianza. In un istante un’altra realtà gli si palesa, «più reale degli oggetti afferrabili».
Come un’epifania: l’istante in cui Dio si mostra, sovrano, e dice: Io sono. Una grazia (a lungo domandata). «Svolta copernicana, che cambia la forma fondamentale della vita». Ma perché Benedetto XVI parla in questo Natale della conversione di un uomo di 120 anni fa? Crediamo, perché la cosa ci riguarda. Profondamente. Non siamo anche noi, o almeno tanti di noi, divisi come un giorno Newman? Dio da una parte, e la realtà dall’altra; e il faticoso tentativo di integrare due dimensioni incompatibili. Forse non è così per i più anziani, per quelli cresciuti in una fede semplice, quotidianamente declinata fino dalle preghiere del mattino. Ma in quanti, più giovani, avvertono come sottopelle quella che Benedetto XVI in “Luce del mondo” indica quasi come una “schizofrenia”: la fede come un substrato remoto, che non contagia la vita di ogni giorno. Un Dio che non riusciamo a credere presente, vivo, oggi: sui metrò affollati al mattino, e negli uffici dove si lavora e basta, e dietro le finestre delle nostre case che si illuminano, la sera, nelle città. Ci guardiamo, e ci sembriamo reciprocamente così soli. Questo Newman, invece, che un giorno capovolge lo sguardo, e diventa certo. Prima, era quasi un uomo come gli altri. Potrebbe, dunque, accadere anche a noi?
La “svolta copernicana”, che rende certo ciò che noi riusciamo solo a sperare. Possibile che sia successo a un uomo come noi? Ma perché il Papa ne parla, in questi giorni di vigilia? Forse per suscitare un desiderio. Per indicare il dono – per chi ne ha troppi, e per chi non ne ha nessuno – da domandare davvero, in una notte di Natale.
Relativismo democratico Lorenzo Albacete - mercoledì 22 dicembre 2010 da il sussidiario.net
In un articolo del 17dicembre sul New York Times, l’editorialista Charles M. Blow offre diversi spunti di riflessione su quanto sta avvenendo politicamente negli Stati Uniti alla vigilia del nuovo anno.
L’editoriale, sottotitolato provocatoriamente “L’epurazione dei partiti”, inizia con un fatto: “L’estrema sinistra ha la schiuma alla bocca”. Blow si riferisce al “livello quasi apoplettico” di agitazione tra i progressisti nei confronti del compromesso di Obama sul taglio delle imposte. La legge, firmata dal presidente la settimana scorsa, “ha mostrato una faglia sismica nel monolite Democratico, tra progressisti da un lato e moderati dall’altro, ben visibili i primi, appena percettibili gli altri”.
È questa in effetti la domanda che si pone: “Esiste nel Partito Democratico un futuro per le posizioni moderate, e specialmente per quelle conservatrici, o il partito si sta avviando a sperimentare un’epurazione tipo quella vista nella destra?”. La conclusione di Blow è: “In una certa misura, sembrerebbe prevalere la seconda ipotesi”.
Blow esamina i risultati dei sondaggi: secondo Gallup, “la percentuale di Democratici che si qualificano come progressisti è salita di quasi un terzo dal 2000 al 2007 e per la prima volta è pari alla percentuale che si descrive come moderata. Nello stesso periodo, è diminuita la percentuale di Democratici conservatori. Nel 2000, tra Democratici progressisti e conservatori vi era un margine relativamente piccolo; ora i Democratici progressisti sono due volte quelli conservatori”.
Secondo Blow, anche se la demografia lavora in favore dei Democratici, nel breve termine “le cose potrebbero essere problematiche, perché Repubblicani e Indipendenti sono sempre più conservatori e i progressisti rimangono di gran lunga il più piccolo gruppo ideologico”. Il progressismo rimane, come osserva Blow, una “situazione delle coste”, lasciando fuori molta America interna, specialmente il Sud. In effetti, le elezioni di novembre hanno spazzato via quasi tutti i Democratici del Sud. “A meno che i Democratici vogliano cedere il Sud, dovranno mantenere uno spazio per le posizioni moderate e conservatrici”.
Un altro problema per la sinistra progressista è che dimostra “un insaziabile appetito per divorare i suoi”. Da un altro sondaggio della Gallup risulta che l’indice di gradimento di Obama tra i Democratici progressisti è sceso del 10% dal 1° novembre, mentre è rimasto stabile tra i Democratici moderati. Per Blow, questo dipende “dalla derisione generalizzata ed eccessiva da parte degli ultraprogressisti autoproclamatisi l’intelligenza del partito. Secondo loro, Obama deve pagare per aver abbandonato la sua ‘base progressista’”.
Adattando una frase del comico e commentatore Bill Maher, Blow osserva: “Questi progressisti di estrema sinistra preferirebbero combattere l’amico che li ha delusi piuttosto che concentrarsi sul nemico che li vuole distruggere. Ciò non vale per la destra, che vuole solo vincere. Troppi progressisti vogliono invece solo lamentarsi”. Blow conclude: “Se la grande tenda dell’apertura Democratica si restringe alla piccola rocca del progressismo tutto e subito, ci saranno senz’altro ragioni per piangere”.
Per quanto mi riguarda, posso confermare questa battaglia anche tra i miei amici Democratici progressisti, la maggior parte moderatamente progressisti. Intelligentemente, cominciano a porre in discussione l’ideologia progressista, ma il loro “relativismo” gli impedisce di andare abbastanza avanti nella loro disponibilità a scoprire la Verità che non rende schiavi, ma al contrario libera.
Sono paralizzati di fronte al rischio di accettare che l’unica via per salvare il bene che possono fare è di rinunciarvi, in cambio della Verità che li attrae, riottenendolo da quell’Uno che è la Verità. E così rimangono con nient’altro che lacrime. A tutti loro, ai miei lettori, e a me stesso, auguro un Natale e un nuovo anno di pace. La Verità è diventata carne.
GLI IGNORANTI DOVREBBERO STARE ZITTI - di Paolo Deotto da http://www.riscossacristiana.it
Ammettiamo che i nostri politici sinistri siano in buona fede. Si fa fatica, ma ammettiamolo. Allora sono semplicemente ignoranti, participio presente del verbo ignorare. E chi è ignorante dovrebbe, se non è scemo, documentarsi prima di parlare.
Dopo la violenza scatenata a Roma il 14 dicembre, violenza favorita dal fatto che la città era stata semibloccata dalla solita liturgia di cortei faziosi, non solo Gasparri, ma anche Mantovano, Maroni, Alemanno e altri esponenti dell’area di Governo hanno ipotizzato delle misure preventive, per fermare in anticipo i violenti professionali, i mascalzoni a libro paga di un’opposizione furiosa.
Come per i violenti degli stadi esistono i provvedimenti di divieto di accesso agli impianti sportivi, (i c.d. “Daspo”) per i violenti “politici” si potrebbero adottare misure preventive analoghe, onde evitare che le manifestazioni di piazza si trasformino in guerriglie urbane, con rischi gravissimi non solo per le cose, ma anche per la vita stessa delle persone.
Apriti Cielo! Si torna al fascismo” tuonano i soliti assatanati, IdV in testa. Ebbene, inviteremmo questi signori, che si gargarizzano spesso l’ugola con la “difesa della Costituzione” a leggere (ammesso che sappiano leggere) il terzo comma dell’art. 13 della Costituzione, che recita: “In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l'autorità di Pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all'Autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto”.
In altre parole, signori difensori full time della legalità repubblicana nata dalla Resistenza eccetera, la possibilità di provvedimenti provvisori restrittivi della libertà individuale, eseguiti direttamente dall’Autorità di Pubblica Sicurezza, è prevista da quella stessa Costituzione che voi probabilmente non avete mai letto. Una legge che prevedesse tali facoltà per le forze dell’ordine sarebbe del tutto legittima.
Questo tanto per sgombrare i campo dalle stucchevoli scemenze di quanti ormai sanno solo urlare ogni volta che un membro del governo apre bocca. Del resto, sono gli stessi ai quali i cosiddetti “black block” fanno infinitamente comodo, perché questa sinistra alla canna del gas può solo trarre vantaggio dai violenti di piazza, per tenere alta la tensione e accusare il Governo per i fattacci che prima o poi, inevitabilmente, accadranno. Loro, i sinistri, dopo Genova 1960 hanno imparato a non sporcarsi mai direttamente le mani. Nel 68 hanno inventato il Movimento Studentesco, adesso sono forse troppo disorganizzati per organizzare e finanziare direttamente i violenti, che sono burattini con fili che vengono da lontano. Ma di sicuro questi violenti fanno estremamente comodo a chi sogna un altro Carlo Giuliani.
Comunque, a proposito di cortei violenti e cortei pacifici, vorremmo ricordare, così per inciso, che è reato anche:
- manifestare nelle pubbliche vie senza la previa comunicazione alle Autorità di Pubblica Sicurezza
- occupare stazioni, autostrade, e in genere attentare alla sicurezza dei trasporti e alla libera circolazione
- interrompere pubblici servizi.
- eccetera
È un piccolo pro-memoria utile perché altrimenti abbiamo cento cattivoni che devastano (tanto dopo poche ore i giudici li mettono fuori galera) e migliaia di giovani che con atteggiamento democratico, pensoso e – naturalmente – antifascista, rompono le scatole a tutta una città, commettendo anche loro un sacco di reati.
E se la piantassimo con questa trita, noiosa, fondamentalmente cretina liturgia delle manifestazioni, e mandassimo a scuola, con sani schiaffoni, tanti studenti che fanno solo bigiate di massa e rischiano pasticci grossi per pura stupidità?
L'INTERVISTA/ Il ministro turco: riformiamo lo Stato per dare più libertà ai cristiani - INT. Egemen Bagis - mercoledì 22 dicembre 2010 da il sussidiario.net
«Le riforme per incrementare la libertà religiosa dei cristiani in Turchia sono importanti nell'ottica di una trasformazione del Paese, ma ancora più importante è il cambiamento di mentalità dei cittadini musulmani». E il governo turco di Recep Tayyip Erdogan si sta impegnando in entrambe le direzioni, come rivendica in un’intervista a Ilsussidiario.net il ministro degli Affari europei e capo negoziatore della Turchia, Egemen Bagis. Tra le novità un inasprimento delle pene per il reato di discriminazione contro le minoranze religiose, una campagna per favorire la tolleranza e la riapertura di chiese e monasteri chiusi da un centinaio di anni. Un’intervista, quella rilasciata da Bagis , che tocca temi scottanti come i rapporti tra Islam, Stato e società, la lotta al terrorismo fondamentalista, i rapporti con l’Unione europea, le rivelazioni di Wikileaks e la rottura dei rapporti diplomatici con Israele.
Ministro Bagis, in che modo il governo turco si sta impegnando per tutelare la libertà religiosa dei cristiani?
La libertà religiosa è saldamente garantita dalla Costituzione e dall'attuale legislazione. In linea con la nostra tradizione di tolleranza religiosa, ci stiamo occupando dei problemi dei nostri cittadini appartenenti a diverse fedi religiose, con i quali è in corso un dialogo continuo e costruttivo. Il Gruppo di Monitoraggio per le Riforme, composto da quattro Ministri, vale a dire il Ministro per gli Affari Europei e Capo Negoziatore, il Ministro degli Affari Esteri, il Ministro della Giustizia e il Ministro dell'Interno, è diventato uno strumento molto attivo e un importante meccanismo nella supervisione del processo di riforma politica.
Il nostro Governo ha stabilito un dialogo diretto con i nostri cittadini di fedi e credenze diverse. Si tengono riunioni periodiche con i rappresentanti delle comunità religiose per affrontare i loro problemi. Queste comunità comprendono ebrei, siriani cattolici, siriani ortodossi, armeni ortodossi, greci ortodossi, bulgari ortodossi, georgiani cattolici, armeni cattolici, armeni protestanti, cattolici caldei e cattolici latini. Quest'anno si sono tenute due riunioni generali che hanno visto la partecipazione dei rappresentanti di 11 diversi gruppi religiosi.
Una circolare su questo tema è stata emanata dal Primo Ministro Erdogan nel maggio 2010. Egli ha dato disposizioni alla burocrazia di trattare con compassione i problemi dei nostri cittadini di diverse fedi.
C'è stato un considerevole progresso in termini di rafforzamento del clima di tolleranza e di comprensione reciproca. Una cerimonia religiosa si è tenuta il 15 agosto 2010 a Maçka, Trabzon, nello storico monastero di Sumela, che era rimasto chiuso per 88 anni. Un'altra cerimonia religiosa si è tenuta il 19 settembre 2010 nella chiesa armena di Surp Hac, sull'isola di Akdamar nel lago di Van. Queste cerimonie si sono tenute dopo decenni. A Sumela, la cerimonia religiosa è stata officiata dal Patriarca Bartholomeos il quale ha affermato di essere molto lieto di prendere parte ad un evento storico che simboleggia pace e tranquillità per l'umanità.
Tra i recenti sviluppi, in conformità con la sentenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo, c'è stata la decisione, presa all'unanimità dall'Assemblea delle Fondazioni, di trasferire l'orfanotrofio di Büyükada al Patriarcato greco-ortodosso. L'orfanotrofio è stato ceduto al Patriarcato il 29 novembre 2010.
E che cosa intendete fare contro le discriminazioni ai danni dei cristiani?
Nel frattempo, la task force antidiscriminazione, istituita dal Gruppo di Monitoraggio per le Riforme, sta preparando una legge quadro, in conformità con l'acquis comunitario, contenente le definizioni di discriminazione diretta e indiretta; sta conducendo uno studio per aumentare le pene per i reati a sfondo discriminatorio, inoltre, sta iniziando una campagna nazionale contro la discriminazione.
Il Patriarcato greco-ortodosso esercita le sue funzioni nelle sue proprietà, provvede al mantenimento delle sue chiese ed è trattato con il massimo rispetto. Il Patriarcato svolge le sue attività religiose liberamente. Inoltre, conduce rituali religiosi in importanti luoghi, in varie parti della Turchia.
Non c'è nessuna interferenza da parte delle autorità turche nella nomina del clero all'interno del Patriarcato. I metropoliti stranieri avranno l'opportunità di essere nominati membri nel Santo Sinodo del Patriarcato. Alcuni metropoliti greco - ortodossi non turchi, che fanno parte del Patriarcato, hanno fatto domanda per ottenere la cittadinanza turca. Finora dodici di loro l'hanno ottenuta. Le riforme sono importanti nell'ottica del cambiamento, ma ancora più importante è il cambiamento di mentalità in Turchia. Negli ultimi otto anni, è emersa in Turchia una società più tollerante.
Che cosa farete per rendere cristiani e musulmani uguali sotto tutti i punti di vista, e non solo sulla carta?
Il nostro Governo e le nostre istituzioni continueranno i loro sforzi per migliorare la protezione della libertà religiosa e il pieno godimento di tutti i diritti e le libertà fondamentali da parte di tutti gli individui senza discriminazioni. Continueremo a portare avanti un dialogo costruttivo con i nostri cittadini di diverse fedi religiose e faremo del nostro meglio per occuparci dei loro problemi attuali. Oggi, in Turchia, esistono 315 luoghi di culto appartenenti ai nostri cittadini di fedi diverse, compresi 85 tra chiese, sinagoghe e monasteri. Questi luoghi di culto sono amministrati dalle loro rispettive associazioni o fondazioni.
Il Consiglio delle Fondazioni, il massimo organo decisionale del Direttorato Generale per le Fondazioni DGF), è stato riorganizzato per accogliere 15 membri eletti a rappresentare vari gruppi di fondazioni. Uno di questi membri rappresenta le fondazioni della comunità non musulmana. Come Governo turco, uno dei nostri obiettivi principali è quello di incoraggiare ulteriormente la comprensione reciproca, mettendo i nostri cittadini nelle condizioni di vivere in armonia e praticare liberamente la loro religione.
La tolleranza e la convivenza fra fedi diverse appartiene alla storia della Turchia. Come tenere vivi questi valori, in una fase in cui il fondamentalismo sembra prevalere?
Il sistema dei millet (confessioni religiose, Ndr) nell'Impero Ottomano aveva creato un'atmosfera tollerante che ha permesso a diverse religioni di coesistere pacificamente al suo interno per molti secoli. Per un considerevole periodo di tempo, vari gruppi religiosi, musulmani, cristiani, ebrei, hanno vissuto insieme nell'Anatolia, in un'atmosfera di tolleranza. L'Impero Ottomano, conosciuto come Impero della Tolleranza, permetteva al suo popolo di godere di un'atmosfera più tollerante rispetto alla sua controparte europea. In questo senso, l'Impero Ottomano ha rappresentato una storia di successo nel creare una società tollerante.
Per esempio, il sultano Mehmet II, dopo la conquista di Istanbul, aveva permesso il funzionamento indipendente del Patriarcato greco-ortodosso. Ancora più interessante è il fatto che egli abbia posto le basi per la fondazione della Chiesa armena, che non era ammessa nell'epoca bizantina. Entrambe le Chiese operano ancora attivamente dopo 600-700 anni. Non è stata una coincidenza che gli ebrei esiliati dalla Spagna nel XV secolo si siano rifugiati nell'Impero Ottomano.
Come Governo turco, uno dei nostri obiettivi principali è quello di incoraggiare ulteriormente la comprensione reciproca, mettendo i nostri cittadini nelle condizioni di vivere in armonia e praticare liberamente la loro religione. La Turchia, in quanto stato secolare, salvaguarda la libertà di religione, credo, coscienza e convinzione , attraverso la Costituzione e la legislazione ordinaria. Tuttavia, ci sono state volte in cui abbiamo rilevato mancanze nell'applicazione di queste leggi. Nell'ultimo decennio, la Turchia ha intrapreso un serio processo di riforma. Questa trasformazione socio-economica sta continuando. Molte delle riforme realizzate per innalzare gli standard di vita dei nostri cittadini sono in linea con il percorso di ingresso nell'Unione Europea. Un certo numero di queste riforme sono legate alle libertà religiose.
Nel combattere il fondamentalismo islamico, c'è il pericolo che la lotta si trasformi in aggressione nei confronti dei musulmani e conduca all'aumento dell'islamofobia. Per prevenire ciò, bisogna distinguere tra movimenti terroristi che portano disaccordo nel mondo e i veri credenti dell'Islam. I principi di base dell'Islam dovrebbero essere spiegati a fondo. Gli insegnamenti dei filosofi islamici come Farabi, Avicenna, Ibn-i Rüşd, Ibn-i Haldun, che hanno largamente contribuito alla diffusione della cultura ai loro tempi, lasciando contributi preziosi per l'umanità, dovrebbero essere insegnati e spiegati. Solo in questo modo, i veri valori islamici possono essere rivelati. La Turchia come stato secolare che contribuisce all'Alleanza delle Civiltà, intraprende ogni sforzo per sostenere la lotta al fondamentalismo islamico.
La rivoluzione dei Giovani turchi del 1908 ha trasformato il vostro Paese in uno Stato laico. Che cosa rimane di quella stagione e quale deve essere oggi il ruolo della religione islamica nella società?
La storia della Turchia si è formata parallelamente a quella dell'Europa a partire dal tardo periodo ottomano. Dopo l'istituzione della Repubblica nel 1923, la società turca era stata radicalmente trasformata in diversi ambiti come l'alfabeto, i diritti delle donne, e il secolarismo. Il codice civile svizzero, il codice penale italiano e il codice amministrativo francese sono stati presi a modello per la giovane Repubblica. In questo contesto, la Turchia è cambiata e si è trasformata in uno stato secolare. Le decisioni politiche non sono prese in relazione alle questioni religiose. Tuttavia, in quanto Paese a maggioranza musulmana, questa nazione ha sempre considerato la religione un elemento importante per la società e l'identità turca.
D'altra parte, è la tolleranza che rende la nostra società un mosaico di culture e religioni. In realtà, l'Islam non fa nessuna distinzione tra persone di fede diversa. La nostra religione dice: "Per te è la tua religione, e per me è la mia religione". Questo significa che niente è imposto nella religione. Nessuno ha il diritto di intervenire e sfidare le reciproche fedi e credenze. Il nostro Primo Ministro Erdoğan ripete spesso che coloro che hanno fiducia nella propria religione non hanno problemi con il concetto di libertà religiosa. Ciò significa che la religione non è un modello per le istituzioni politiche ma per le questioni sociali e culturali.
L’AKP di Erdogan ha chiesto di entrare a far parte del Partito Popolare Europeo. Perché per voi è importante essere ammessi in un partito di ispirazione cristiana?
A dire il vero, avevamo fatto richiesta per una piena adesione. Ma c'erano alcuni pregiudizi tra i membri del Partito Popolare Europeo contro la Turchia, e il Partito AK. Alcuni, all'interno del partito, sostenevano che dare uno status di membro a pieno titolo al Partito AK, avrebbe potuto pregiudicare ulteriori dibattiti riguardanti il futuro della Turchia nell'UE. Per questo motivo, abbiamo potuto ottenere solo lo status di osservatori. Anche se non abbiamo ottenuto quello che volevamo,questo è stato un enorme passo avanti, perché è la prima volta che il Partito Popolare Europeo ha finalmente trovato nella Turchia un partner forte e affidabile. E cosa ancora più importante, il PPE, un partito politico transnazionale, radicato per quasi 30 anni nella tradizione cristiano-democratica, ha accettato un partito con valori musulmani.
Credo davvero che il Partito AK e il PPE possano avere molti valori in comune e possano avere più successo nel rendere l'Unione Europea più credibile, efficace e forte. E il migliore risultato che possiamo ottenere è l'adesione della Turchia all'UE.
Nell’opinione pubblica turca l’ingresso nell’Ue suscita ancora interesse?
E' ancora popolare, ma meno rispetto a 3-4 anni fa. La popolazione turca e il nostro Governo sono stati molto infastiditi per i doppi standard e l'ipocrisia degli ultimi anni. Ma ci impegniamo a raggiungere gli standard europei e a fornire ai nostri cittadini le condizioni di una nazione europea. Vogliamo più democrazia e più libertà. Vogliamo essere un Paese moderno in ogni senso e consideriamo i valori su cui si fonda l'Unione Europea come l'unico modo per raggiungere questo obiettivo. Ma non è un errore affermare che la nostra pazienza è messa a dura prova dall'Europa. Non è tollerabile per me e per la mia nazione essere soggetti all'ipocrisia.
In un file del 2009 pubblicato da Wikileaks, Israele critica l’Europa per la sua freddezza nei confronti della Turchia. Come valuta questi cablogrammi riservati?
Beh... La nostra richiesta di adesione all'UE risale a cinquant'anni fa. Non esiste un altro paese che ha aspettato così a lungo. Se si fa un paragone con il passato, oggi la Turchia è più ricca. Il reddito pro capite è aumentato di otto volte rispetto a otto anni fa. Le leggi della Turchia, la sua lealtà alla democrazia e la sensibilità verso i diritti umani sono oggi superiori a quelli dei paesi leader in Europa. Un recente rapporto sui progressi compiuti, mostra che la Turchia ha fatto progressi in 33 titoli dei capitoli sui diritti. Questo significa che la Turchia progredisce nel modo giusto. Tuttavia, 17 capitoli non possono essere aperti. Abbiamo aperto 13 dei 33 titoli. Ci sono impedimenti su 17 dei rimanenti 20 titoli dei capitoli sui diritti. Questi impedimenti sono imputabili all'Europa, non alla Turchia.
L'Europa dovrebbe essere sincera. La Turchia vuole correttezza nelle negoziazioni, ma al momento non la vediamo. Vogliamo che l'Europa contribuisca in maniera più tangibile alla lotta contro il terrorismo. Quando la Turchia chiede l'estradizione di un terrorista, l'Europa contesta "difetti nella documentazione". Tuttavia, quando la Turchia chiede l'estradizione di un assassino, uno stupratore o un ladro, la documentazione è considerata quasi perfetta. L'insincerità è chiaramente visibile in questo caso.
I cittadini di paesi che non hanno ancora iniziato le negoziazioni con l'UE come la Serbia, il Montenegro e la Russia, entrano nei paesi europei senza il visto. Sebbene la Turchia sia parte del processo europeo dal 1959, abbia con l'Europa il 60% dei suoi scambi commerciali, e sia membro di tutte le istituzioni europee, deve rispettare i requisiti per il visto. C'è dell'insincerità qui. Questo è un caso in cui siamo faccia a faccia con i doppi standard dell'Europa. Gli europei non hanno invitato la Turchia ai summit dell'UE e in seguito hanno affermato, "Dovremmo promuovere il dialogo strategico con la Turchia. L'asse si è spostato?"
Il Primo Ministro turco è stato invitato al summit Ue-Africa come ospite d'onore per tenere un discorso e ha avanzato le proposte di soluzione della Turchia per i problemi dell'Europa. Tuttavia, né il Presidente turco, né il Primo Ministro, o il Ministro degli Esteri sono stati invitati al summit dell'UE a Bruxelles. Questo non ha alcun senso. Se si invita la Turchia al summit con l'Africa e non la si invita ai summit interni all'UE, nessuno ha il diritto di accusare la Turchia di spostare l'asse. La Turchia dovrebbe decisamente essere rappresentata ai summit.
L'esempio più palese di doppio standard è la questione di Cipro. Di fatto, il blocco nei confronti dei turchi ciprioti è contrario alle disposizioni dell'Unione Europea. I membri dell'UE presero una decisione all'unanimità, il 24 aprile 2006, che prevedeva di rimuovere il blocco verso la Repubblica turca di Cipro del Nord (RTCN). Solo uno dei 27 membri dell'UE ha implementato questa decisione. Solo i cittadini di uno dei membri dell'UE possono facilmente visitare la RTCN. E questi sono i cittadini della Repubblica di Cipro. La Repubblica di Cipro impedisce agli altri membri dell'UE di avvalersi dello stesso diritto.
Quanto sono cambiate le relazioni tra Turchia e Israele nell’ultimo anno e perché?
Non è la stessa rispetto a un anno fa. Perché una nave civile è stata attaccata dalle forze israeliane nelle acque internazionali, a 72 miglia dalla costa israeliana. Secondo il diritto internazionale, questo è un reato. Nove civili turchi, uno dei quali era anche cittadino americano, sono rimasti uccisi.
Il solo scopo di questa missione civile era di fornire gli aiuti necessari ai bambini della striscia occupata di Gaza, che sono stati per anni soggetti al blocco illegale e inumano degli israeliani. Le navi trasportano servizi e attrezzature come parchi giochi che riportino i bambini alla loro infanzia. Trasportano beni di prima necessità come medicine e latte in polvere per migliorare la crescita e la salute dei bambini in assenza di vero latte. Questa è senza dubbio una violazione del diritto internazionale che è stata anche ufficialmente riconosciuta dalla Commissione di Investigazione. Qualcuno dovrà pagare e assumersi la responsabilità di quel reato, e quel qualcuno è Israele.
Abbiamo ancora relazioni diplomatiche ma non c'è nessuna relazione ufficiale e nessun contatto ufficiale in questo momento. Non c'è neanche cooperazione militare. Il nostro spazio aereo è chiuso agli aerei militari israeliani. Abbiamo richiamato il nostro ambasciatore che si trova ancora ad Ankara. Dal 31 maggio, giorno dell'attacco alla flottiglia ad oggi non c'è stata nessuna visita ufficiale di Israele alla Turchia, o da parte della Turchia ad Israele.
Non esiste quindi nessuna possibilità di riavvicinamento con Tel Aviv?
Quando sono scoppiati gli incendi ad Haifa, il nostro Primo Ministro ha immediatamente mandato degli aerei militari per aiutare a spegnere gli incendi, venendo in soccorso alla popolazione israeliana. In seguito, il Primo Ministro Netanyahu ha contattato telefonicamente il nostro Premier Erdoğan per esprimere la sua gratitudine per l'assistenza della Turchia. Ma questo non dovrebbe essere considerato come l'inizio di un processo di normalizzazione delle relazioni. Il nostro aiuto per gli incendi è stato un gesto sentito come dovere umanitario e islamico. Non voleva significare che le relazioni sarebbero tornate alla normalità, la Turchia si aspetta ancora delle scuse e un risarcimento per le vittime. I responsabili del martirio di nove persone devono essere individuati. Innanzitutto, devono essere offerte delle scuse e deve essere pagato un adeguato risarcimento. Noi andiamo incontro solo a chi fa un passo nella nostra direzione. Ma prima vorremmo vedere una mano tesa in modo sincero.
(Pietro Vernizzi)
CENSIS/ Mastrocola: dalla crisi del desiderio può nascere solo la violenza - INT. Paola Mastrocola - mercoledì 22 dicembre 2010 da il sussidiario.net
«Mi ha colpito, perché non avevo mai riflettuto sul desiderio in questi termini e quello che qui si dice del desiderio mi convince perfettamente. Il desiderio non c’è più e questo è alla radice dei nostri problemi».
Paola Mastrocola, scrittrice e insegnante, parla con il sussidiario dell’ultimo volantino di Cl, che mette a tema la crisi del desiderio, dopo che il Censis ha lanciato l’allarme sulla sua eclissi privata e pubblica, esortando il paese a «tornare a desiderare» per uscire dalla crisi che l’opprime.
«Il dramma di oggi è che non desideriamo più - continua Mastrocola -. C’è desiderio quando a noi manca qualcosa. Oggi invece non siamo più mancanti: siamo dominati da una sazietà che ci ha tolto la forza di desiderare, di creare, di fondare qualsiasi cosa. Non fondiamo più nulla, a parte degli insulsi partiti».
Vede più questa crisi del desiderio come un fatto generazionale, oppure essa accomuna tutti?
«Penso che sia addirittura più grave negli adulti. I giovani, è vero, sono i nostri figli e riflettono la nostra mancanza di desiderio, ma la gravità è tutta nostra, perché siamo noi adulti che dovremmo fondare e creare e volere, invece non vogliamo più nulla. Non sperimentiamo più quella mancanza che farebbe vivere il nostro desiderio. A scuola tutto questo è evidente: i giovani dovrebbero sentire l’ignoranza come una mancanza di sapere, e quindi soprattutto desiderar di sapere. Invece, purtroppo, avviene il contrario».
Lei è scrittrice. «Se la vita ci soddisfacesse - ha detto la scrittrice americana Flannery O’Connor - fare letteratura non avrebbe alcun senso».
«È vero. Se non fossimo sazi, allora sì che ci rimetteremmo a scrivere, a creare, a studiare, a insegnare. Noi insegnanti non desideriamo più veramente insegnare, a scuola preferiamo fare altro. Ecco perché dicevo che la mancanza di desiderio è più grave negli adulti».
Chi o che cosa - si chiede il volantino di Cl - può ridestare il desiderio?
«Dobbiamo ritrovare virtù come la parsimonia, la misura, la modestia. Occorre una nuova “povertà”. Se avessimo di meno, saremmo più consapevoli di noi stessi e delle nostre esigenze e questo faciliterebbe il desiderio».
Si suggerisce un metodo: che abbandonando ogni pretesa ideologica, sottomettiamo la nostra ragione all’esperienza. Che guardiamo persone capaci di costruire, persone cioè nelle quali l’operosità nasca dal desiderio. Che ne dice?
«Se abbiamo un modello, sì, dobbiamo seguirlo. Non so francamente se questo metodo per “contagio” sia in grado di funzionare. Vedere il buono che c’è intorno a noi? Mi pare francamente un po’ poco. Il rischio è quello di rifare un discorso buonista, generico. Occorre invece che la risposta sia nostra. Innanzitutto nostra».
Il volantino dice che anche la Chiesa non può oggi chiamarsi fuori dalla sfida dell’esperienza. «Non potrà limitarsi ad offrire un riparo assistenziale per le mancanze altrui, dovrà mostrare l’autenticità della sua pretesa di avere qualcosa in più da offrire».
«Mi pare difficile che in questo momento il mondo cristiano abbia qualcosa in più da offrire. Lo vedo anzi molto debole, in difficoltà. Io poi non sono la persona più adatta a parlarne, perché non mi riconosco in questo mondo. Per me la Chiesa non è una risposta».
Torniamo ai giovani. Saviano su Repubblica ha scritto una lettera ai manifestanti che hanno scatenato in piazza la guerra al governo. «…e la rabbia dove la metti? La rabbia di tutti i giorni dei precari, (...) la rabbia di chi non vede un futuro. Beh quella rabbia, quella vera, è una caldaia piena che ti fa andare avanti, che ti tiene desto, che non ti fa fare stupidaggini ma ti spinge a fare cose serie, scelte importanti». Ha però condannato il cattivo desiderio di chi «finito il videogame a casa, continua a giocarci per strada». Lei che ne pensa?
«Quello che ho visto mi ha ricordato i peggiori anni Settanta, mi ha ricordato la folla del Manzoni. Queste manifestazioni collettive sono sempre uguali e celebrano solo se stesse. Le ragioni cambiano, ma sono solo un pretesto. La mia condanna è totale. Condanno soprattutto il vittimismo dei nostri giovani, il sentimento di sentirsi sempre vittime di qualcun altro, della società, del potere, e di rivendicare sempre e soltanto diritti.
Diritti cioè senza doveri?
«Senza doveri. Senza mai porsi in questione, senza considerare quello che c’è intorno, senza vedere il mondo in crisi nel quale ci troviamo. Una rivendicazione violenta di diritti col desiderio non ha nulla a che fare. Il desiderio è una mancanza profonda, a cui è sempre l’individuo in prima persona a dover trovare una soluzione. Che questa sia interiore o esteriore, paradossalmente non importa, ma sta a lui trovarla. È vero: la rabbia di cui parla Saviano è un motore che dovrebbe portarci a fare grandi cose. Io però preferisco chiamarla insoddisfazione».
SCIENZE - DIBATTITI/ Se Galileo avesse conosciuto gli indios Kayapo … Mario Gargantini - mercoledì 22 dicembre 2010 da il sussidiario.net
Cosa c’entrano gli indios con Galileo? In realtà il nesso è quello molto personale della vicenda di un fisico francese, Ètienne Klein, che a partire dall’incontro fortuito con cinque capi della popolazione amazzonica dei Kayapo e colpito dalle loro argomentazioni, per nulla rudimentali, a favore della loro terra, ha sviluppato una profonda riflessione sulla tecnoscienza, condensata poi nel volume intitolato appunto “Galileo e gli indiani – Per non liquidare la scienza a causa di un cattivo uso del mondo” (Jaca Book, 2010).
I contenuti di questo saggio hanno tuttavia una valenza molto più che personale e incrociano alcuni dei nodi principali in cui si imbatte chiunque oggi affronti il tema della scienza e delle sue implicazioni culturali e sociali.
Lo sfondo del dibattito è quello che Klein individua nella “trappola di una logica binaria” che vede contrapposti, spesso nella stessa persona, i due fronti: da un lato un ottimismo ingenuo che vede tutto bene quello che viene dalla scienza e che ritiene che la vocazione della scienza sia “quella di aggiustare ogni cosa”; dall’altro la visione che dà un fondamento razionale agli antichi terrori millenaristici e pensa l’umanità incanalata sulla “via senza ritorno delle catastrofi”.
La logica binaria si ritrova anche su un piano più speculativo: è l’eterno dilemma tra la concezione di una scienza in grado di accedere a dei frammenti di verità sulla natura e quella che ignora volutamente gli interrogativi più profondi e si lancia in una corsa forsennata sui problemi, convinta di poterli risolvere tutti e di non dover rispettare alcuna linea di demarcazione tra i diversi ambiti.
Si può quindi e si deve ancora parlare di scientismo. Ma, come fa Klein, si deve anche stare in guardia dal pericolo che una reazione dura e giustificata allo scientismo possa produrre, in modo ingiustificato, l’avvento di una altro nemico: il relativismo. Ecco quindi le minacce per la scienza oggi, ma anche le cause della sua debolezza e della disaffezione di molti giovani. A queste se ne deve aggiungere una terza e cioè la tecnoscienza che, in qualche misura, è la sintesi delle altre due: uno spazio dove il confine tra la conoscenza della natura e la sua manipolazione è evanescente ma al tempo stesso la manipolazione si appoggia, indebitamente, su una sorta di “immunità” che è propria della conoscenza pura.
Acuta è l’osservazione di tipo storico che fa risalire alla rivoluzione galileiana le radici di questi dilemmi: “I problemi posti dal potere della (tecno)scienza erano già in germe in quel gesto che ha fondato la scienza moderna”. Attenzione però: si parla di “germe” e ci si può legittimamente chiedere se era proprio necessario che la situazione evolvesse nel senso della tecnoscienza che vediamo oggi minacciosamente in azione. È proprio colpa di Galileo, come riporta Klein citando Husserl? O forse non è la scienza in sé che ci ha condotto a questo punto; è non è tutto da addossare allo scienziato pisano che peraltro, come l’autore giustamente si suggerisce, ha avuto l’aiuto (si poteva anche aggiungere “determinante”) di uno come Cartesio: “lo scientismo è un’ideologia che la scienza può ispirare, ma non ne è affatto un’implicazione”.
Difficile quindi descrivere il passaggio dalla visione precedente a quella moderna come un meccanismo di causa-effetto prodotto dall’entrare in scena del metodo scientifico sperimentale; si è trattato più di un “preparare il terreno” per una concezione sempre più assolutistica ed esclusivistica della scienza come massima forma di conoscenza. Ed è stato “in modo impercettibile” che dal riduzionismo metodologico si è passati a quello ontologico, vale a dire alla riduzione nella sfera delle scienza di ogni tipo di domanda sulla realtà.
Nel confronto con gli indiani (ma lo stesso avrebbe poteva dire rileggendo la pur sempre Occidentale cultura medievale) Klein evidenzia la rottura di una visione unitaria e l’avvento del paradigma della separazione: “è come se il mondo si fosse scisso: da un lato la natura, concepita esclusivamente nella prospettiva fisico-matematica, e dall’altro l’uomo, isolato, lasciato alla solitudine della sua ragione e delle sue emozioni”. Ecco allora il disorientamento seguito all’impresa di Galileo e acutizzato dalla tecnoscienza. “La scienza moderna con la sua distaccata silenziosa oggettività sembra impedire una reciprocità affettiva (con la realtà). Non ci dice niente che possa davvero toccare la nostra sensibilità”.
Ma non sarà demonizzando la scienza che ritroveremo l’unità perduta e potremo riaprire le domande di senso. Anche perché è possibile anche oggi praticare una scienza che tenga vive tutte queste dimensioni: l’esperienza diretta di molti scienziati (a volte raccontata anche da ilSussidiario.net) conferma questa possibilità.
Avvenire.it, 2 dicembre 2010 - L'ODISSEA DEGLI ERITREI - Adam: picchiati con spranghe e tenuti in container sotto terra di Paolo Lambruschi
Per la prima volta parla uno degli eritrei sopravvissuti ai mercanti di uomini del Sinai. Il suo riscatto è stato pagato dal fratello, lui racconta come è finito e cosa accade nelle prigioni dei predoni. Un racconto dove si riscontrano impressionanti analogie con quelli dei 250 eritrei, 80 dei quali provenienti dalla Libia, catturati un mese fa.
Tre mesi fa Adam, 22 anni, era prigioniero dei trafficanti di esseri umani. C’è rimasto quasi un mese, incatenato e trattato come una bestia, prima che il fratello maggiore Michele pagasse per liberarlo da un lurido container interrato, a pochi chilometri dal confine tra Egitto e Israele. Michele, che da un paio d’anni vive in Toscana e che aveva chiesto aiuto alla Caritas diocesana fiorentina per mettere insieme i soldi del riscatto, ci ha raccontato cinque giorni fa l’odissea di Adam, rapito dai predoni ai primi di settembre e liberato il 28 dello stesso mese. Una testimonianza importante perché ha smentito il governo egiziano, arrivato a negare perfino l’esistenza degli eritrei prigionieri.
Un’ulteriore conferma che in questo angolo del pianeta fiorisce un immondo mercato sulla pelle dei migranti provenienti dal Corno d’Africa e diretti in Israele. Un affare da milioni di dollari in mano a un racket organizzato e capace di gestire sequestri e riscatti su scala internazionale. Costituito, per quanto siamo riusciti a ricostruire, da una rete di clan beduini che una volta commerciava gli schiavi, i Rashaida, ramificata nel nordest dell’Africa come nel deserto del Sinai, protetta dalle polizie corrotte di diversi Stati e affiancata da complici tigrini che attirano in trappola i migranti impegnati a raggiungere lo stato ebraico dalla Libia o dalla vecchia rotta che attraversa Sudan ed Egitto.
Ieri siamo riusciti a rintracciare Adam in Israele e lui ha accettato di rivivere con noi quei terribili momenti che definisce «my trouble in Sina», il mio problema nel Sinai. Adam oggi vive in un campo per richiedenti asilo in Israele e svolge illegalmente lavoretti saltuari per sopravvivere. Si sta riprendendo dagli stenti patiti durante il rapimento. Il patto è nomi di fantasia e indicazioni topografiche essenziali, per non far correre rischi alle famiglie in Eritrea.
Quando è cominciato il tuo viaggio verso Israele?
Sono partito dall’Eritrea a fine agosto. Vengo da un villaggio alla periferia dell’Asmara. Mio fratello Michele per farmi emigrare ha pagato tremila dollari a un passatore eritreo che vive a Khartoum, in Sudan. Si chiama Mshgna.
Chi ti ha aiutato a uscire dall’Eritrea?
I Rashaida. Hanno in mano loro i traffici tra Eritrea e Sudan. Mi hanno portato in un loro accampamento a Kassala. Il giorno dopo è cominciato il viaggio verso il Sinai, sempre con i Rashaida, su piccoli pullman. Ogni vettura trasportava 16 persone. La nostra carovana era composta da cinque pullman.
Quindi eravate in tutto 80 persone. Tutti eritrei?
Si e ciascuno di noi ha pagato a Mshgna tremila dollari.
Il quale ha intascato 240 mila dollari per il vostro trasporto. E durante il viaggio cosa è accaduto?
Tutto liscio fino al Sinai. Ma nel deserto, vicino ad Israele, i Rashaida ci hanno consegnato ad altri beduini. Pensavamo di essere arrivati e di percorrere l’ultimo tratto a piedi per passare il confine. Invece Mshgna ci ha venduti. Un gruppo di uomini armati ci ha messo in colonna e ci ha preso portafogli e documenti. Ci hanno lasciato solo il cellulare, dicendoci di usarlo per chiamare parenti e amici in Eritrea e in tutto il mondo. Se volevano rivederci vivi, dovevano pagare settemila dollari. Poi ci hanno messo le catene ai piedi, che mi hanno tolto solo quando mi hanno liberato, e ci hanno chiuso in un grande container interrato.
Quanti eravate dentro?
Eravamo circa 70. I container erano tre. In tutto eravamo circa 200.
Dunque il vostro valore per i rapitori ammontava a quasi un milione mezzo di dollari. Come vi hanno trattati?
Come bestie, con crudeltà. Ogni giorno venivamo picchiati a caso con sbarre di ferro e minacciati. Dicevano che se non veniva pagato il riscatto ci avrebbero tagliato la testa e tolto gli organi per venderli al mercato nero. Ci hanno dato poco cibo e potevamo uscire solo a piccoli gruppi di sera, sempre sorvegliati. Alle donne è toccato il peggio, sono state stuprate anche se erano lì con fratelli e mariti.
Hai capito dove eravate?
No, ma abbastanza vicini al confine. Siamo stati liberati in otto perché era stato pagato il riscatto e abbiamo camminato meno di un’ora per superare il confine. La polizia non l’ho mai vista.
Che fine hanno fatto i tuoi compagni di prigionia?
Non lo so. Chi ha detto di non poter pagare è sparito. Nella comunità dei profughi Eritrei in Israele girano storie terribili su quanto sta succedendo nel nord del Sinai.