domenica 19 dicembre 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    Radio Vaticana - notizia del 19/12/2010 - Benedetto XVI all'Angelus parla di San Giuseppe: ebbe assoluta fiducia in Dio. Il Papa gli affida vescovi e sacerdoti
2)    Romania: la fede cresciuta nel sangue dei martiri di Alessandro Rivali 18-12-2010 da http://www.labussolaquotidiana.it
3)    18/12/2010 - CINA-VATICANO - Vescovo sotterraneo: giusto il comunicato Vaticano, pregate per la Cina di Zhen Yuan (AsiaNews)
4)    18/12/2010 – IRAN - Iran: cristiani in prigione da tre mesi per attività di evangelizzazione Teheran (AsiaNews/Agenzie)
5)    Breve dissertazione sulle tentazioni del Maligno e sulla disperazione del credente di Carlo Di Pietro dal sito http://www.pontifex.roma.it
6)    Preso lo schiaffo, il Vaticano non porge più l’altra guancia alla Cina - Postato in General il 17 dicembre, 2010 dal sito http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/
7)    Allen Sandage, in morte di un grande astrofisico Di Francesco Agnoli del 18/12/2010, in Scienza, dal sito http://www.libertaepersona.org/
8)    La preghiera di fronte al dolore di Aldo Trento - Tempi 11 dicembre 2010
9)    Dal sangue di Nasiriyah nuova vita in Burkina Faso - In Africa l’orfanotrofio nato dalla strage di carabinieri - «La felicità dei bambini quando hanno visto l’acqua sgorgare pulita». Il pozzo dedicato a Eluana Durante la cerimonia di benedizione il vescovo ha scandito i nomi dei nostri 19 ragazzi uccisi La popolazione in piedi a capo chino. Scoperta una targa con i loro volti DI LUCIA BELLASPIGA – Avvenire, 19 dicembre 2010


Radio Vaticana - notizia del 19/12/2010 - Benedetto XVI all'Angelus parla di San Giuseppe: ebbe assoluta fiducia in Dio. Il Papa gli affida vescovi e sacerdoti

San Giuseppe è l’esempio di un uomo che ha fiducia nel progetto di salvezza di Dio. La figura del padre putativo di Gesù è stata oggetto di riflessione di Benedetto XVI all’Angelus di questa mattina in Piazza San Pietro. Il Papa ha anche affidato a San Giuseppe, patrono universale della Chiesa, tutti i pastori della Chiesa perché la loro vita, ha detto, aderisca “Sempre più alla persona di Gesù”. Il servizio di Alessandro De Carolis:

Lo sconcerto acuto di un uomo equilibrato e intimamente giusto e il tocco divino che riporta serenità nel suo cuore, dando spiegazione di ciò che appariva un tradimento personale e invece era un mistero di salvezza universale. Sono i due risvolti del cuore di Giuseppe, prima e dopo la rivelazione dell’Angelo che gli annuncia che la sua promessa sposa, Maria, genererà un figlio destinato a “salvare il suo popolo dai suoi peccati”. San Matteo, ha spiegato Benedetto XVI prima dell’Angelus, narra come avvenne la nascita di Gesù “ponendosi dal punto di vista di San Giuseppe” e di come egli abbandoni il pensiero di ripudiare Maria quando i suoi occhi diventano capaci di vedere “in lei l’opera di Dio:

“Sant’Ambrogio commenta che ‘in Giuseppe ci fu l’amabilità e la figura del giusto, per rendere più degna la sua qualità di testimone” (...) Pur avendo provato turbamento, Giuseppe agisce “come gli aveva ordinato l’angelo del Signore’, certo di compiere la cosa giusta. Anche mettendo il nome di ‘Gesù’ a quel Bambino che regge tutto l’universo, egli si colloca nella schiera dei servitori umili e fedeli, simile agli angeli e ai profeti, simile ai martiri e agli apostoli – come cantano antichi inni orientali”.

San Giuseppe, ha osservato il Papa, “annuncia i prodigi del Signore, testimoniando la verginità di Maria, l’azione gratuita di Dio, e custodendo la vita terrena del Messia” e ciò, ha soggiunto, lo rende degno di venerazione perché in lui…

“Si profila l’uomo nuovo, che guarda con fiducia e coraggio al futuro, non segue il proprio progetto, ma si affida totalmente all’infinita misericordia di Colui che avvera le profezie e apre il tempo della salvezza”.

L’esempio di San Giuseppe, patrono universale della Chiesa, ha suggerito a Benedetto XVI una particolare intenzione spirituale:

“Desidero affidare tutti i Pastori, esortandoli ad offrire ‘ai fedeli cristiani e al mondo intero l’umile e quotidiana proposta delle parole e dei gesti di Cristo’ (Lettera Indizione Anno Sacerdotale). Possa la nostra vita aderire sempre più alla Persona di Gesù, proprio perché ‘Colui che è il Verbo assume Egli stesso un corpo, viene da Dio come uomo e attira a sé l’intera esistenza umana, la porta dentro la parola di Dio”.

Al termine dei saluti in sei lingue, il Papa ha rivolto a tutti i gruppi in Piazza San Pietro i migliori auspici per le prossime feste:

“A tutti auguro una buona domenica e un sereno Natale nella luce e nella pace del Signore”.


Romania: la fede cresciuta nel sangue dei martiri di Alessandro Rivali 18-12-2010 da http://www.labussolaquotidiana.it

Il primo dicembre 1948 il regime comunista in Romania attaccò frontalmente la Chiesa greco-cattolica dichiarandola «fuorilegge». Da quel giorno iniziò una persecuzione sistematica e durissima. Furono imprigionati tutti i vescovi, circa seicento sacerdoti e moltissimi fedeli; vennero inoltre confiscati i beni patrimoniali che furono consegnati alla Chiesa ortodossa e ad altre realtà statali. Dopo la caduta del comunismo, con un decreto legge del 24 aprile 1990 la Chiesa greco-cattolica è stata reintegrata nei suoi diritti, ma la strada per riottenere la restituzione di quanto è stato sottratto è ancora lunga. Abbiamo incontrato S.E.R. Mons. Florentin Crihalmeanu, vescovo eparchiale di Cluj-Gherla, chiedendongli una panoramica sui martiri del terrore comunista e un bilancio sull’attuale dialogo con la Chiesa ortodossa.



Come scoprì la sua vocazione?

Non sono uno di quelli che sin dall’infanzia ha pensato a diventare sacerdote. Dai miei genitori, e in particolare da mia madre, ho ricevuto però un’educazione cristiana che mi ha aiutato a vivere con coerenza la fede anche sotto il regime comunista. Terminata la scuola superiore e poi il servizio militare, mi sono iscritto alla Facoltà di Tecnologia delle macchine, sono diventato ingegnere e ho iniziato a lavorare in un’azienda a Cluj.

Tra le figure che il Signore pose sul mio cammino mentre cercavo la «mia» strada, ce ne fu una determinante. Era un uomo che diceva di essere un professore. Un giorno ci incontrammo fuori dalla chiesa dopo la Messa della domenica (i comunisti avevano permesso a Cluje la celebrazione di una Messa in rito latino nella chiesa degli Scolopi). Voleva assolutamente incontrarmi per «parlarmi di Dio». Era un sacerdote, ma lo seppi soltanto due mesi dopo. Continuammo a incontrarci insieme con un gruppo di giovani e andavamo anche in gita insieme; c’erano anche dei giovani sacerdoti, ma non potevano dichiararlo, era proibito, e inoltre io ero appena entrato nel gruppo, per cui sarebbe stato rischioso esporsi.

Quel professore diventò il mio padre spirituale e mi condusse gradualmente al sacerdozio. Si faceva chiamare padre Pintea, ma il suo vero nome era Pantelimon Asteleanu. Venne ordinato durante il regime e dovette essere sempre molto cauto.

La sua casa era nel cuore della città, al terzo piano di un grande edificio, con una piccola uscita su una via centrale. Sapeva che dall’altra parte della via c’era un bar con una persona che leggeva il giornale tutto il giorno, ma che aveva il compito di controllarlo.

Osservava sempre chi entrava e chi usciva. Quando andavamo a trovarlo nei giorni delle feste, per esempio per cantare insieme per Natale, celebrava la Messa di nascosto, con le persiane chiuse. Ci raccomandava di non venire mai in gruppo.



Quale fu la strategia del regime nei confronti della Chiesa greco-cattolica?

In un primo periodo si tentò di sterminarla. I nostri vescovi furono messi in una prigione molto dura come quella di Sighet, nella zona del Maramures¸ a un paio di km da quello che era il confine con l’Unione Sovietica. Sighet è un vero monumento della sofferenza. In un secondo periodo cercarono di «rieducare» i nostri pastori: ricevevano delle lezioni in prigione per comprendere la «bontà» del regime comunista... Tra gli esperimenti più crudeli vi fu quello del campo di Pitesti. Dicono che abbiano usato sui prigionieri anche sostanze radioattive. Chi è riuscito a sopravvivere a quel campo non è mai tornato normale. Gli scampati sono persone completamente distrutte dal punto di vista fisico e psichico.

Un altro gulag terribile era quello di Jilava. Mettevano i prigionieri in cantine sotterranee riempite d’acqua. Stavano in acqua fino alle ginocchia e questa condizione impediva loro di addormentarsi. Erano costretti a espletare i loro bisogni in quell’acqua... Chi scampava non riusciva a dimenticarsi l’odore di quella prigione...

Nel campo di Sighet adesso sono esposti i pannelli con i tipi di torture a cui venivano sottoposti i prigionieri. Ricordo con particolare impressione quello del gatto sulla schiena: torturavano gettando dei gatti sulla schiena denudata delle vittime... veramente diabolico. Più tardi, il governo rumeno dovette firmare dei trattati internazionali e rilasciare i prigionieri «politici». Questo è stato in un terzo periodo, quello della cosiddetta tolleranza, ma in realtà il controllo rimase molto forte. Un sorvegliato speciale era tenuto ogni settimana a preparare un rapporto in cui descriveva tutto quello che aveva fatto. Si confrontava poi questo rapporto con quello redatto dalle spie della polizia segreta e si cercavano le differenze. Se si trovavano divergenze, si veniva chiamati a interrogatori più duri.



Vuole raccontarmi qualche dettaglio dei vostri martiri?

Tra le vittime della persecuzione vorrei ricordare mons. Vladimir Ghika (1873-1954), di cui ora è aperto il processo di beatificazione. Sono ancora in vita delle persone che raccontano degli eventi straordinari su di lui, tra queste c’è padre Tertulian Langa che ha raccontato in un libro i 16 anni di sevizie nelle prigioni comuniste: ebbe come padre spirituale proprio mons. Ghika. Tra i suoi racconti ce n’è uno che fa pensare al miracolo. In un’occasione fu costretto a portare dei pezzi di metallo molto pesanti. Li portavano in due. A un certo momento il suo compagno inciampò e cadde: il metallo cadde sulla mano di padre Langa spezzandogliela; lo portarono dal medico che gli esaminò la mano e confermò la necessità di un intervento, ma gli disse di tornare il giorno successivo. Padre Langa rimase in cella a piangere per il dolore insopportabile. Era solo. Nella notte gli apparve la figura di mons. Ghika che gli toccò la mano. La mattina successiva lo portarono all’ospedale e il chirurgo osservando la mano si arrabbiò con i secondini dicendo: «Avete sbagliato persona, questo qui non ha niente alla mano!». Era guarito.

I vescovi greco-cattolici furono prima imprigionati in monasteri ortodossi e si cercò di convincerli a passare alla religione ortodossa, poi furono portati in blocco a Sighet. Cercarono di sparpagliarli in varie celle, ma si resero conto che riuscivano a convertire gli altri detenuti e allora li misero insieme per controllarli meglio. Li videro pregare insieme e glielo proibirono, non gli diedero il permesso neppure di stare seduti o di parlare tra di loro. Molti episodi si possono trovare nelle Memorie del cardinale Iuliu Hossu (1885-1970), che sono già tradotte in italiano, ma che non saranno pubbliche fino a che non sarà concluso il suo processo di beatificazione. In questi anni si sta iniziando a scrivere la storia di diversi martiri e si è partiti dalla vicenda di Valeriu Traian Fren?iu (1875-1952) e dei suoi compagni di prigionia. Era il più anziano di quelli incarcerati e morì a Sighet. Il problema di queste cause è che non ci sono più testimoni. Non è poi scontato che i martiri abbiano un processo di beatificazione rapido: bisogna dimostrare che abbiano accettato la propria morte e che siano rimasti vicini alla fede sino in fondo. Un’altra figura importante è quella di Vasile Aftenie (1899-1950), che morì sotto tortura a Bucarest. Su di lui è interessante il racconto del sacerdote che ne celebrò il funerale. Vennero a trovarlo due persone vestite di nero e gli dissero di celebrare un funerale per un presunto zio. Misero in chiesa la bara e poi andarono a fumare fuori. Il sacerdote rimase colpito da questo distacco e al contempo si accorse che la bara non era ben chiusa: era troppo piccola per il corpo che conteneva; nel tentativo di chiuderla, involontariamente la aprì del tutto. Con grande sorpresa riconobbe il volto sfigurato, con le mandibole distrutte e la barba strappata del vescovo Aftenie...

Lo scorso 30 ottobre è stato beatificato il vescovo di Oradea Szilard Bogdanffy (1911-1953). Venne consacrato vescovo di nascosto: fu imprigionato subito dopo e mandato a lavorare in una miniera di piombo. Morì nei pressi di Aiud dopo essere stato sottoposto a violenze e fu lasciato morire senza cure. In quel campo di sterminio non c’erano vetri alle finestre. Le persone camminavano tutto il giorno intorno alla cella per non morire congelate. Soltanto verso mezzogiorno arrivava nella cella un raggio di sole. Smettevano allora di camminare per lasciarsi colpire dal raggio. Si addormentavano subito per la stanchezza, ma appena il raggio era passato si svegliavano per il freddo e tornavano a camminare.



Quali sono gli attuali rapporti con la Chiesa ortodossa?

Dopo la caduta del comunismo il dialogo con la Chiesa ortodossa è stato abbastanza confuso. Alcuni fedeli cattolici hanno cercato di riprendersi le chiese che erano state sottratte dal governo e date agli ortodossi. Come vescovi ci siamo opposti a questo comportamento, non vogliamo riprenderci le chiese con la forza, ma ricorrendo ai tribunali o al dialogo. Il 28 ottobre 1998 sono iniziati i lavori della Commissione di dialogo a livello gerarchico tra la Chiesa ortodossa e quella greco-cattolica, che sono durati sino al 24 febbraio del 2004. In questo periodo ci siamo incontrati una volta all’anno e possiamo dire che qualcosa si è mosso. Il fatto di stare alla stessa tavola è già qualcosa... All’inizio i nostri fedeli erano contrari. Non volevano che partecipassimo, perché erano convinti che non avremmo ottenuto la restituzione delle chiese. Noi rispondevamo invece: «Dovete avere pazienza, dobbiamo provare a sentire le loro ragioni». Abbiamo chiesto la restituzione delle circa 2.500 chiese che ci sono state sottratte; siamo riusciti a ottenere la restituzione di una ventina. Non di più: è molto poco per considerarlo un dialogo vero.



C’è speranza che qualcosa possa cambiare?

La situazione si è bloccata nel 2004, anche se per fortuna non ci sono più le tensioni di prima. Restano situazioni difficili. Per esempio nella mia eparchia di Cluj-Gherla abbiamo due chiese della stessa capacità a distanza di 200 metri una dall’altra. La comunità ortodossa ha iniziato a celebrare nella nostra chiesa perché nella loro hanno messo le impalcature per delle ristrutturazioni. Hanno detto: «Dobbiamo ristrutturarle e non possiamo celebrare la Messa, abbiamo bisogno della vostra chiesa...». Noi abbiamo risposto in modo positivo, ma questi lavori non sono mai terminati... E la nostra comunità nel frattempo celebra in una casa privata. Dei 22 monasteri che erano di nostra proprietà nel 1948, non ne è stato restituito nessuno. Riconosco che con i monasteri la situazione è più difficile, perché non possiamo dire: «Adesso arrivano i nostri monaci, andate via». Vorremmo, però, avere la possibilità di fare un pellegrinaggio una volta l’anno, senza interferire con le liturgie ortodosse. Questi luoghi sono significativi per noi perché molte persone lì hanno fatto i voti o sono stati ordinati sacerdoti. Nelle comunità dove c’era una sola chiesa greco-cattolica e che adesso è utilizzata dagli ortodossi, abbiamo chiesto la possibilità di celebrare con alternanza. Abbiamo provato a suggerire: «Celebrate voi a una certa ora e poi noi dopo». Ma loro hanno risposto: «No. È inaccettabile che i cattolici celebrino sui nostri altari, come noi non possiamo celebrare su quelli cattolici». Ma in Occidente in Spagna, in Francia e in Italia celebrano senza problemi nelle chiese date loro dai cattolici...

Un esempio può chiarire ulteriormente la situazione. Qualche tempo fa si è svolta una cerimonia di una benedizione di una nostra chiesa alla quale ha partecipato anche il metropolita ortodosso di Timosoara, che è la persona più aperta del loro sinodo. Al momento della Comunione il metropolita ortodosso, che ha aveva partecipato a tutta la liturgia, ha fatto la Comunione recandosi all’altare. Da questo gesto è scoppiato uno scandalo tremendo: in quello stesso anno è stato messo sotto giudizio dal sinodo ortodosso e alcuni hanno proposto di scomunicarlo. Lui ha chiesto perdono, ha detto che non voleva diventare cattolico, ma che si era sentito in piena comunione con la nostra liturgia e che aveva dato spazio al suo cuore senza forse valutare troppo le conseguenze e le interpretazioni dei suoi fedeli. Alla fine c’è stata una votazione e non è stato scomunicato, ma quanti volevano scomunicarlo hanno ribadito: «Non è sufficiente. Dobbiamo fare un decreto nel quale sia scritto esplicitamente che non si può partecipare a nessun Sacramento dei cattolici». Con questa decisione hanno tagliato del tutto il dialogo.



Qual è la percentuale dei fedeli greco-cattolici?

La percentuale dei greco-cattolici è molto bassa. Siamo sotto l’uno per cento. Gli ortodossi sono l’86.8% e i cattolici di rito latino sono 1.3% e si trovano in particolare in Transilvania. Come le dicevo in precedenza, il dialogo non è progredito. Non possiamo pregare insieme neppure durante la settimana in cui si prega per l’unità dei cristiani. Noi chiediamo allo Stato romeno di garantire veramente la libertà di culto. I cattolici alcune volte vengono trattati da stranieri. Ci vorrebbe una legge per regolamentare la situazione di questi beni espropriati. Abbiamo fatto un proposta, chiedendo in primo luogo la restituzione delle cattedrali e di alcune chiese simbolo. Ma non siamo stati ascoltati. Ci sono chiese che sono la copia in miniatura di san Pietro e che hanno persino le statue dei Papi... Come si fa dire che sono ortodosse? Abbiamo anche costruito nuove chiese e dove abbiamo costruito non abbiamo richiesto la restituzione per non creare tensioni. Vorremmo la stessa comprensione anche da parte loro, ma fino adesso non c’è stata vera collaborazione.
Da Studi cattolici n. 598, dicembre 2010, pp. 847-849


18/12/2010 - CINA-VATICANO - Vescovo sotterraneo: giusto il comunicato Vaticano, pregate per la Cina di Zhen Yuan (AsiaNews)

Mons. Wei Jingyi, vescovo di Qiqihar, definisce le ordinazioni illecite come una ferita nel corpo della Chiesa e di Cristo. Solidarietà per i vescovi costretti contro la loro volontà a partecipare agli eventi organizzati dal governo.


Pechino (AsiaNews) – Mons. Wei Jingyi, vescovo sotterraneo della diocesi di Qiqihar (Nord est della Cina), ha espresso oggi il suo sostegno al comunicato contro l’ottava Assemblea dei rappresentanti cattolici cinesi pubblicato ieri dal Vaticano.

In una lettera pastorale, mons. Wei ha invitato i fedeli a pregare di più per la Chiesa in Cina, che “sta attraversando un particolare momento di difficoltà”, come espresso lo scorso 1 dicembre dal Papa nel suo appello per la Chiesa cinese.

Oltre alla convocazione dell'assemblea, il vescovo Wei ha citato anche l'ordinazione illegale di Chengde avvenuta lo scorso 20 novembre, festa di Cristo re, che ha violato le norme della dottrina della Chiesa. “Questo atto – ha affermato il prelato – ha ferito seriamente la Chiesa e apre una piaga nel Corpo di Cristo. Dobbiamo anche ammettere che la politica religiosa cinese ha subito una grave battuta di arresto”.  Il vescovo sottolinea che di fronte alla convocazione dell'Assemblea conclusasi lo scorso 9 dicembre, durante la quale sono stati eletti i leader delle due organizzazioni (presidente del Consiglio dei vescovi cinesi e capo dell’Associazione patriottica) “abbiamo espresso solidarietà e preoccupazione" per coloro che sono stati costretti a partecipare all'ordinazione illecita e all'assemblea.

Ricordando l’appello del Papa di pregare per la Chiesa in Cina, mons. Wei ha chiesto ai suoi fedeli di fare quotidiana adorazione del Santissimo e recitare il rosario chiedendo a Maria e a San Giuseppe intercessioni per la Chiesa in Cina.

Nel frattempo, un sacerdote della Cina continentale ha detto oggi ad AsiaNews che la Santa Sede ha mostrato un "gesto di fermezza nei principi della Chiesa", e questo deve "ristabilire la fiducia" nell'autorità della Santa Sede, fede e cuore della Chiesa. Un altro sacerdote ha anche detto che il comunicato è "come un raggio che esce prima di Natale", un buon momento per la Chiesa in Cina e per riflettere il governo. Alcuni fedeli temono però l’intervento delle autorità durante le celebrazioni natalizie e sottolineano che era meglio se il messaggio fosse uscito dopo le festività.


18/12/2010 – IRAN - Iran: cristiani in prigione da tre mesi per attività di evangelizzazione Teheran (AsiaNews/Agenzie)
Un gruppo di nove cristiani arrestati a Hamadan sono in prigione, dopo essere stati tenuti in isolamento senza un’accusa specifica. I media parlano di “sionisti cristiani”. La colpa principale pare sia quella di fare dei convertiti.

Teheran (AsiaNews/Agenzie) – Nove cristiani sono in prigione da tre mesi in Iran senza che sia stata ancora elevata un’accusa precisa nei loro confronti. Il giorno del loro arresto, il 19 settembre, la televisione di Stato affermava: “Un gruppo di nove cristiani sono stati arrestati a Hamadan con l’accusa di attività di evangelizzazione”. Fonti locali riportavano dichiarazioni dei servizi di sicurezza, secondo i quali scopo del gruppo era distruggere la Repubblica islamica dell’Iran. Nel testo ci si riferiva varie volte ai nove definendoli “Sionisti cristiani”.
I nomi di quattro di loro (di cinque è ignota l’identità) sono Vahik Abrahamian sua moglie Sonia Keshish Avanessian (armeno-iraniani), Arash Kermanjany e Arezou Teimouri, iraniani di lingua farsi. Le forze di sicurezza secondo il reportage hanno fatto irruzione nella casa di Abrahamian e l’hanno arrestato, con sua moglie e altri due convertiti cristiani che erano suoi ospiti. La casa è stata perquisita, e gli agenti hanno raccolto vari oggetti personali. Più tardi il gruppetto è stato condotto in un luogo sconosciuto.

Altri convertiti cristiani sono stati fermati e interrogati a Karaj, Teheran e Hamadan; alcuni di loro sono stati rilasciati dopo aver garantito che avrebbero cessato le attività di evangelizzazione. I quattro arrestati ad Hamad invece sono stati incarcerati nella prigione di Hamadan, nella Quarta sezione, e nella sezione femminile. Tutti sono stati messi in isolamento per quaranta giorni prima di essere trasferiti alla prigione di Hamadan, e in quel periodo non hanno potuto essere contattati dalle famiglie. Ma le autorità giudiziarie nel frattempo non hanno ancora spiegato perché sono stati incarcerati, né hanno elevato accuse specifiche nei loro confronti.


Breve dissertazione sulle tentazioni del Maligno e sulla disperazione del credente di Carlo Di Pietro dal sito http://www.pontifex.roma.it

Dio permette al Maligno di tentarci; anche Gesù, come ogni uomo, è stato tentato. Dio, nella sua immensa bontà, fa sì che il Maligno ci tenti, ma tiene anche conto delle nostre reali capacità. La logica conseguenza è che Dio permette a Satana di “molestarci”, ma sempre nei limiti della nostra tolleranza; Dio non è sadico, Egli non ci sottoporrebbe mai delle prove “perse in partenza”. Certamente viene automatico chiedersi il perché Dio concede questo largo spazio a Satana e perché lo ha concesso anche per tentare il suo unico Figlio. Col Battesimo ci viene cancellato il peccato originale, ma rimaniamo vittime della concupiscenza, ovvero di quelle tendenze che ci inducono a peccare, come una calamita attrae il metallo. Dice il Concilio di Trento che noi, attraverso la battaglia, possiamo sperimentare la potenza della grazia e riusciamo a meritare la corona della vittoria eterna. La redenzione è sì un dono di Dio, ma rimane comunque una conquista, un merito, secondo il mio parere è l’unico vero trofeo da conquistare. Ecco anche perché Dio ha permesso che in noi venisse inoculata la tendenza al male (oltre alla ragione del grande e dignitoso dono del libero arbitrio); il Signore permette a Satana di tentarci, ma queste tentazioni non saranno mai al di sopra delle nostre possibilità di reazione e delle nostre forze spirituali. Ed è una vera grazia che noi sperimentiamo la grandezza di Dio ed il bene che egli ci vuole, perché in questa maniera rimaniamo piccoli, umili, sottomessi al volere di chi ci ha creati. Ecco una importante testimonianza:

“Non perdete la fede! Questo è il vero scopo del Maligno e non quello di creare le sofferenze. Lui non desidera provocare in noi dolore fisico, dispiaceri ed insuccessi, ma qualcosa di più. Egli desidera che noi proferiamo frasi del tipo”:

“Basta, sono un vinto, Dio non è capace di liberarmi”;

“Dio dimentica i suoi figli e non ascolta le mie preghiere”;

“Dio non mi ama, perché mi ha fatto succedere questo …”;

“Il Maligno è superiore a Lui, a me cosa importa del dopo, io voglio vivere bene adesso”;

“Capitano tutte a me bestemmie e spergiuri vari …

Questa è la vera vittoria del diavolo. La fede però è la nostra unica salvezza. Se noi non crediamo con fermezza, per esempio, il male fattoci dai nostri simili o dagli esseri immondi, può durare anche per tutta la vita e portarci alla disperazione. La fede ci insegna che dopo la Croce c’è immancabilmente la Resurrezione, come dopo la notte viene il giorno e il bagliore della salvezza e della liberazione. Alla luce di quanto detto, è importante non ignorare mai questa inclinazione al male che l’uomo ha insita in esso.

Cerchiamo di vigilare saldi nella fede e fortificati nella preghiera, specialmente nei momenti di decisioni importanti, politiche, sociali e di costume. Ricordiamoci che ogni qual volta non ci affidiamo a Cristo è il male che interviene per farci prendere le scelte sbagliate.

Il Burattinaio dell’uomo interviene con le sue allettanti proposte e suscita in noi quella spinta che ci induce ad abbracciare il cammino più semplice, quello meno arido e più fruttifero, ma che in realtà è sbagliato per la nostra crescita spirituale in Cristo. Gesù dice:

“Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!” (Matteo 7, 13-14);

“Nessuno può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro, o preferirà l'uno e disprezzerà l'altro: non potete servire a Dio e a mammona” (Matteo 6, 24);

“Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde” (Matteo 12, 30).

Viviamo quindi spensierati sotto il potere di Dio ed osservanti della sua legge, ma non dimentichiamo mai che la Sacra Scrittura spesso ci comunica apertamente che il mondo intero è pervaso da demoni.

“Noi sappiamo che siamo da Dio, mentre tutto il mondo giace sotto il potere del Maligno. Sappiamo anche che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l'intelligenza per conoscere il vero Dio. E noi siamo nel vero Dio e nel Figlio suo Gesù Cristo: egli è il vero Dio e la vita eterna. Figlioli, guardatevi dai falsi dei!” (1 Giovanni 5, 19-21).


Preso lo schiaffo, il Vaticano non porge più l’altra guancia alla Cina - Postato in General il 17 dicembre, 2010 dal sito http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/



Il messaggio di Benedetto XVI per la prossima giornata mondiale della pace, dedicato alla libertà religiosa e reso pubblico il 16 dicembre, porta un solo esempio esplicito di violazione di tali libertà: quello della strage del 31 ottobre nella cattedrale siro-cattolica di Baghdad.

Ma nemmeno ventiquattr’ore dopo, le autorità vaticane hanno richiamato l’attenzione del mondo su un’altra flagrante violazione della libertà religiosa: non in Iraq ma in Cina.

Gli “atti inaccettabili e ostili” che la Chiesa di Roma imputa alle autorità della Cina riguardano l’ottava “Assemblea dei rappresentanti cattolici cinesi” tenuta a Pechino tra il 7 e il 9 dicembre, di cui “Settimo Cielo” ha dato a suo tempo notizia.

L’affronto è stato giudicato di tale gravità che persino una “colomba” nei rapporti con le autorità cinesi come padre Jeroom Heyndrickx ha espresso la sua profonda delusione, in una nota diffusa dal Verbiest Institute con sede a Lovanio e a Taipei: “Does China want friends or not?“.

Ecco qui di seguito, integrale, il comunicato della sala stampa della Santa Sede. L’originale è in inglese e la versione italiana è ad opera degli uffici vaticani:

*

COMMUNIQUÉ OF THE HOLY SEE PRESS OFFICE

1. Con profondo dolore la Santa Sede deplora che, nei giorni 7-9 dicembre corrente, si sia tenuta a Pechino l’Ottava Assemblea dei Rappresentanti Cattolici Cinesi. Questa è stata imposta a numerosi Vescovi, Sacerdoti, Religiose e Fedeli laici. Le modalità della sua convocazione ed il suo svolgimento manifestano un atteggiamento repressivo nei confronti dell’esercizio della libertà religiosa, che si auspicava ormai superato nell’odierna Cina. La persistente volontà di controllare la sfera più intima dei cittadini, qual è la loro coscienza, e d’ingerirsi nella vita interna della Chiesa cattolica, non fa onore alla Cina; anzi, sembra un segno di timore e di debolezza, prima che di forza; di un’intransigente intolleranza, più che di apertura alla libertà e al rispetto effettivo sia della dignità umana sia di una corretta distinzione tra la sfera civile e quella religiosa.

2. A più riprese la Santa Sede aveva fatto conoscere, prima di tutto ai Pastori ma pure a tutti i Fedeli, anche pubblicamente, che non dovevano partecipare all’evento. Ognuno di coloro che erano presenti sa in che misura è responsabile davanti a Dio e alla Chiesa. I Vescovi, in particolare, e i Sacerdoti saranno anche posti di fronte alle attese delle rispettive comunità, che guardano al proprio Pastore e hanno diritto di ricevere da lui guida e sicurezza nella fede e nella vita morale.

3. È noto, peraltro, che molti Vescovi e Sacerdoti sono stati forzati a partecipare all’Assemblea. La Santa Sede denuncia questa grave violazione dei loro diritti umani, in particolare della loro libertà di religione e di coscienza. Inoltre, la Santa Sede esprime la sua stima più profonda a quanti, in diverse modalità, hanno testimoniato la fede con coraggio e invita gli altri a pregare, a fare penitenza e, con le opere, a riaffermare la propria volontà di seguire Cristo con amore, in piena comunione con la Chiesa universale.

4. A coloro che portano nel cuore sconcerto e profonda sofferenza, domandandosi come sia possibile che il proprio Vescovo o i propri Sacerdoti abbiano partecipato all’Assemblea, la Santa Sede chiede di rimanere saldi e pazienti nella fede; li invita a prendere atto delle pressioni subite da molti dei loro Pastori e a pregare per loro; li esorta a continuare coraggiosamente a sostenerli di fronte alle ingiuste imposizioni che incontrano nell’esercizio del loro ministero.

5. Durante l’Assemblea sono stati, fra l’altro, designati i responsabili della cosiddetta Conferenza Episcopale e dell’Associazione Patriottica Cattolica Cinese. Riguardo a questi due organismi, così come all’Assemblea stessa, rimane valido quanto il Santo Padre Benedetto XVI ha scritto nella Lettera del 2007 alla Chiesa in Cina (cfr. nn. 7 e 8).

In particolare, l’attuale Collegio dei Vescovi Cattolici di Cina non è riconosciuto come Conferenza Episcopale dalla Sede Apostolica: non ne fanno parte i Vescovi «clandestini», cioè non riconosciuti dal Governo, che sono in comunione con il Papa; include Presuli che sono tuttora illegittimi, ed è retta da Statuti che contengono elementi inconciliabili con la dottrina cattolica. È profondamente deplorevole che sia stato designato a presiederla un Vescovo non legittimo.

Per quanto poi concerne la dichiarata finalità di attuare i principi di indipendenza e autonomia, autogestione e amministrazione democratica della Chiesa, va ricordato che essa è inconciliabile con la dottrina cattolica, che fin dagli antichi Simboli di fede professa la Chiesa «una, santa, cattolica e apostolica». È, quindi, deprecabile anche la designazione di un Presule legittimo a presiedere l’Associazione Patriottica Cattolica Cinese.

6. Non è questo il cammino che la Chiesa deve compiere nel contesto di un grande e nobile Paese, che suscita attenzione nell’opinione pubblica mondiale per le significative mete raggiunte in tanti ambiti, ma trova ancora difficile attuare gli esigenti dettami di una vera libertà religiosa, che nella sua Costituzione pur professa di rispettare. Per giunta, l’Assemblea ha reso più arduo il cammino di riconciliazione fra i Cattolici delle «comunità clandestine» e quelli delle «comunità ufficiali», provocando una ferita profonda non solo alla Chiesa in Cina, ma anche alla Chiesa universale.

7. La Santa Sede si rammarica profondamente per il fatto che la celebrazione della suddetta Assemblea, come pure la recente ordinazione episcopale senza l’indispensabile mandato pontificio, abbiano danneggiato unilateralmente il dialogo e il clima di fiducia, avviati nei rapporti con il Governo della Repubblica Popolare Cinese. La Santa Sede, mentre riafferma la propria volontà di dialogare onestamente, sente il dovere di precisare che atti inaccettabili ed ostili come quelli appena menzionati provocano nei fedeli, dentro e fuori della Cina, una grave perdita di quella fiducia che è necessaria per superare le difficoltà e costruire una relazione corretta con la Chiesa, a vantaggio del bene comune.

8. Alla luce di quanto è avvenuto, rimane urgente l’invito che il Santo Padre ha rivolto a tutti i Cattolici del mondo, il 1º dicembre corrente, a pregare per la Chiesa in Cina, che sta vivendo momenti particolarmente difficili.

17 dicembre 2010


Allen Sandage, in morte di un grande astrofisico Di Francesco Agnoli del 18/12/2010, in Scienza, dal sito http://www.libertaepersona.org/

Il lettore mi scuserà se torno periodicamente sul tema Big Bang. A spingermi, questa volta, è la recente morte di Allan Sandage, astrofisico che fu discepolo del grande Edwin Hubble, l’astronomo che scoprì l’espansione dell’universo. Sandage, morto il 13 novembre scorso all’età di 84 anni,  “ha svolto importanti ricerche anche nell’ambito della datazione delle stelle e sulla classificazione delle galassie e dei loro processi di formazione ed evoluzione e fu il primo a riconoscere l’esistenza di quasar privi di intensa emissione radio”. Tra i suoi numerosi riconoscimenti scientifici poteva vantare anche la medaglia Pio IX. Era infatti un credente, convinto che il Big Bang e l’espansione dell’universo si accordassero molto bene con l’idea teologica di creazione e di universo finito.

Si tratta di una convinzione non da poco, che ci riporta sempre al tema chiave del dibattito tra teisti e non: l’universo è stato creato, e come tale presuppone un Dio-Causa prima, oppure non è stato creato, e, perciò, esiste da sempre?

A questa domanda antica come l’uomo, ha dato una svolta, a mio avviso, proprio la teoria del Big Bang, secondo la quale l’universo avrebbe cominciato ad esistere da un certo istante, al principio della storia e del tempo Questa teoria era già stata concepita, in nuce, dal vescovo francescano Roberto Grossatesta nel XIII secolo e poi, soprattutto, all’inizio del Novecento, da un altro sacerdote, Georges Lemaitre.
Subito, come si sa, l’idea di un “atomo primordiale” come origine del cosmo materiale trovò i suoi oppositori tra coloro che non volevano assolutamente credere nella finitezza dell’universo, per motivi puramente ideologici. Sappiamo che lo stesso Einstein reagì all’ipotesi di Lemaitre affermando: “Si vede bene che siete un prete”.
La reazione è perfettamente comprensibile, e non fu certo la più dura.
Del resto come avrebbe reagito un darwinista materialista come Julian Huxley, il quale aveva dichiarato: “La terra non è stata creata, si è evoluta. Così gli animali, le piante, inclusi noi uomini, la mente e l’anima, come il cervello e il corpo. Così la religione”?
E cosa avrebbe detto un Karl Marx, il quale nei suoi “Manoscritti economico filosofici del 1844” parlava di “sussistenza per opera propria della natura e dell’uomo”, e per negare la creazione, incompatibile con il materialismo ateo, sosteneva che tale idea è così diffusa tra la gente per la nostra attuale dipendenza, la nostra abitudine alla società capitalista e padronale? La scienza invece, proseguiva un po’ goffamente Marx, riconduce tutto alla “generazione spontanea”, escludendo la necessità di una Causa trascendente: “La creazione della terra ha ricevuto un potente colpo dalla geognosia, cioè dalla scienza che descrive la formazione della terra, il divenire della terra, come un processo di autogenerazione. La generatio spontanea è l’unica confutazione pratica della teoria creazionista”.
Certamente la teoria del Big Bang, dunque, mette dinnanzi ad una considerazione: se l’universo ha cominciato ad esistere, significa che prima non c’era. Ma perché allora è nato? Dal momento che il nulla non può produrre né “autogenerare” nulla, quale è stata la Causa dell’universo?

Giustamente, nella sua ottica atea, John Maddox, per vent’anni direttore della rivista scientifica “Nature”, nell’agosto 1989 pubblicava un editoriale intitolato “Down with the Big Bang” (“Abbasso il Big Bang”), in cui notava che “il big bang è un effetto la cui causa non può essere identificata e neppure discussa”, con gli strumenti, aggiungiamo noi, della scienza sperimentale. E proseguiva: “I creazionisti e quelli dalle convinzioni simili…trovano ampia giustificazione nella dottrina del Big Bang. Loro potrebbero dire che quello è il momento e il modo in cui è stato creato l’Universo”.
 In effetti, avrebbe commentato Sandage la scienza “può rispondere solo a un tipo di domande, che concernono il cosa, il dove e il come”, ma non il perché profondo; può arrivare al “primo effetto”, l’universo, ma non alla sua origine. E’ per questo che ipotesi come quella del Big Bang sono perfettamente compatibili con il “tipo di teologia medievale che ha cercato di trovare Dio identificando la Causa Prima”.
Ciò è tanto vero che se provassimo a fare un salto indietro nel tempo troveremmo che anche i primi cristiani avrebbero accolto con favore la teoria del Big Bang, a differenza di quanto avrebbero fatto per esempio i seguaci delle religioni animiste, e lo stesso Platone. Per il grande filosofo greco, infatti, la materia è, in origine, amorfa, ma soprattutto eterna ed increata, esistente da sempre e per sempre. Per questo Platone non avrebbe certo potuto approvare l’idea di un venire all’essere della materia (e neppure quella di un ipotetico Big Crunch).

Al contrario qualsiasi cristiano, anche del primo secolo, avrebbe visto nella teoria del Big Bang qualcosa che si accordava perfettamente con la sua fede: in un Dio ingenerato, fuori del tempo e dello spazio, Causa Prima di tutto ciò che esiste, Creatore di un universo che è nato in un attimo di tempo che ha dato origine al tempo; creatore, “dal nulla”, di una materia non eterna, come quella platonica, ma generata e finita. Il Foglio, 16/11/2010


La preghiera di fronte al dolore di Aldo Trento - Tempi 11 dicembre 2010

L’esperienza del dolore – come grazia, come cammino per cambiare la mia persona, come possibilità per guardare la morte come il compimento del mio desiderio di felicità, perché mi fa entrare nel definitivo rapporto con il Mistero – ha nella familiarità con Cristo la sua origine, la sua continuità e la sua fine. Come potrei, come potremmo vedere nel dramma del dolore una positività, se non fosse proprio questo rapporto intimo con Cristo a definirci? Il dolore, come la realtà di cui fa parte, non è positivo in sé, dato che Dio ci ha creato per essere felici e non per soffrire. La sacra Scrittura afferma che attraverso il peccato è arrivata la morte. Ma afferma anche che tutto quello che Dio ha creato è buono e, nel caso dell’uomo, molto buono. Sempre la Scrittura afferma che Dio non ha creato la realtà, non ha creato il cosmo perché avesse una fine, non ha creato l’uomo perché conoscesse la corruzione della tomba, ma perché tutto fosse una vibrazione di vita.

Il frutto del peccato
Il dolore che spesso ci accompagna con mille interrogativi, è frutto del peccato. Per questo il Papa insiste tanto affinché ci convertiamo, ossia torniamo all’origine che il profeta Geremia definisce in questo modo: «Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà». Un amore eterno che si è reso visibile in Cristo. Quanti, con il cuore semplice come Zaccheo, Matteo, l’adultera, la samaritana, lo incontravano e cambiavano, prendevano coscienza di essere frutto di un amore eterno e non del loro passato carico di peccato. Che emozione ha provato quel ladro di Zaccheo, abituato a sentirsi guardato come un delinquente, il giorno in cui lo sguardo di Cristo si è fissato nei suoi occhi! Tutto è accaduto in un secondo, e tuttavia senza quel secondo che determinerà la vita del peccatore fino alla morte, tutto quello che è successo dopo sarebbe stato impossibile. Il cambiamento è frutto di questa frazione di secondo in cui Zaccheo si sente guardato, valorizzato, chiamato con il suo nome. È ciò che, per pura grazia, sperimento ogni giorno, in particolare quando i problemi e il dolore innocente mi assalgono torturandomi il cuore. Partire ogni lunedì, ogni giorno, ogni momento da quello sguardo non risolve i miei problemi, né cancella il dolore dei miei piccoli figli innocenti o dei miei figli anziani o terminali. Tuttavia questo punto di partenza fa cambiare radicalmente il modo di vivere, tanto da sentir dire ai malati in cura nella clinica: «Non abbiamo paura della morte perché significa entrare nella gloria di Dio». Questo è possibile perché Cristo è contemporaneo. Al contrario, se fosse soltanto un ricordo, sarebbe impensabile che delle mamme con tanti figli potessero guardare alla morte come faceva san Francesco. Se Cristo non fosse una presenza oggi, sarebbe impossibile percepire quello che spesso succede intorno a me. L’emozione che proviamo accanto ai pazienti grazie alla testimonianza che ci offrono è la prova evidente di questa contemporaneità di Cristo, che si rende presente non solo nell’Eucaristia, nel santissimo Sacramento che tre volte al giorno visita ogni paziente abbracciandolo, ma anche nei volti che accompagnano i pazienti, volti nei quali sono visibili i tratti della Sua presenza.
L’Eucaristia senza la presenza di testimoni
rischierebbe di essere ridotta a semplice devozione. Tuttavia l’umanità cambiata di chi ha incontrato e vive una grande familiarità con Cristo e che si esprime in una dedizione totalmente gratuita verso i pazienti, permette di vedere fisicamente come agisce il santissimo Sacramento. Come se si fosse provocati nella propria libertà non solo a non fuggire davanti al male delle persone, ma addirittura a tornare indietro e riprendere la posizione di uno adorante davanti al paziente.
Chi sei Tu, Cristo, che ci educhi a guardarti con affetto in questi fratelli condannati dal mondo a morire nelle discariche delle città? Chi sei Tu, Cristo, che mi dai la forza di abbracciare e baciare le piaghe purulente di questi fratelli? Ancora una volta quel “Tu” di Cristo, quel “Tu” del Mistero che mi fa, che ci fa, è la prova evidente della vittoria sul male. Quanto è dolce vivere in mezzo a qualsiasi tormento la certezza che «Io sono Tu che mi fai». Il problema della nostra vita è uno solo: credere al fatto che siamo un «Tu che mi fai».
Ho ricevuto alcune lettere del papà e della mamma di Marta, la ragazza morta a Rimini all’inizio di ottobre. Le propongo perché le parole scritte col sangue da questa famiglia sono il miracolo di una coscienza maturata nel dolore di quello che significa «Io sono Tu che mi fai». Chiediamo tutti a Marta la grazia che ha concesso ai suoi genitori.
padretrento@rieder.net.py

Carissimo Padre Aldo, prima di tutto ti chiedo perdono per non averti scritto prima, ma sapevo che eri al corrente della morte della nostra amatissima Marta; don Giuliano mi ha detto che ti ha inviato i testi della sua omelia e della trascrizione del colloquio fra me e lei; così mi sono un po’ trascurato. Non ti nascondo che sono emozionato mentre ti scrivo perchè le volte precedenti mi rivolgevo a te per chiedere di pregare per la guarigione di nostra figlia, e ora lei non è più fisicamente presente qui. Vivo la fatica quotidiana nell’affrontare la giornata sapendo di non poterla vedere, di non poterci parlare, di non sentire la sua voce e soprattutto di non poter vedere i suoi grandi occhi, sempre pieni di stupore e letizia. Mi manca tantissimo, è come se mi mancasse l’aria quando penso a lei e questo succede molte volte durante il giorno e la notte. In questi giorni cerchiamo di mettere insieme le sue cose, le sue mail, le sue lettere, per non perdere nulla del tesoro preziosissimo che è stata ed è tuttora la sua testimonianza. Questo mi sta aiutando tantissimo; i primi giorni correva in me la sensazione di essere stato fregato, pur nella certezza del suo compimento, ma ora pian piano si fa avanti la coscienza che non solo Lui non ci ha mai abbandonato, ma ha compiuto il miracolo più grande: la fede certa e il desiderio grande di Marta di vivere per Lui e di amarlo di un amore così grande fino ad abbracciare tutto. Ora chiedo al Signore che conceda anche a me di amarlo con la stessa intensità di Marta e che mi conceda sempre più pace dentro questa certezza del compimento del destino buono di nostra figlia. Anche io desidero essere felice come lei. Marta, ad agosto 2009, ha scritto sulla sua agenda: «Mio Dio ti offro il mio cuore, prendilo se vuoi, in modo che nessun altro lo possegga, ma solo Tu mio buon Gesù». Faccio mia questa preghiera perchè anche la mia fede diventi così certa. Ti ringrazio infinitamente per l’amicizia, per la compagnia che ci hai fatto e che continui a farci, per le preziosissime preghiere tue e dei tuoi ammalati. Continuate a pregare per la nostra famiglia perchè il Signore continui ad accompagnarci con la sua benedizione regalandoci il dono di una fede sempre più grande. Ti invierò al più presto il ricordo di Marta, dietro abbiamo trascritto parte della lettera che ti aveva inviato alla vigilia del Natale 2009. Un abbraccio, con tanto affetto.
Giorgio Bellavista e famiglia

Caro Padre Aldo, sono la mamma di Marta. Aggiungo qualche riga a ciò che ha già scritto mio marito, per ringraziarti personalmente dell’aiuto grande che dai alla mia vita con la tua testimonianza. Ho avuto occasione di ascoltarti per la prima volta a un incontro organizzato per le Tende di Natale al teatro Tarkovskij di Rimini. Non posso dimenticare quel momento perché per la prima volta ho incontrato “incarnato” il fatto che una depressione, una fragilità psicologica non sono obiezione alla possibilità di una vita dignitosa, ma sono occasione per sentire più urgente il bisogno di affidarsi a Gesù cosicchè Lui stesso ti possa condurre al compimento. Quella frase che tu hai imparato da Don Giussani, «Io sono Tu che mi fai», è divenuta compagna della mia vita e nei momenti più difficili l’ho recitata quasi con ossessione. Molte volte sento anche il bisogno di accorciarla o perlomeno di soffermarmi sulla prima parte «Io sono Tu» perché avverto che essere una sola cosa con Gesù è il massimo della vita. Quando Marta si è ammalata per la seconda volta, io non riuscivo a stare di fronte alla sua malattia; avvertivo come fatto estremamente disumano che una madre debba assistere impotente al dolore di una figlia. Ancora la preghiera «Io sono Tu che mi fai» è venuta in mio soccorso con questo significato: «Caro Gesù, io non so stare di fronte alla malattia di mia figlia quindi ti prego, attraverso di me stacci Tu. Fa che per Marta e di fronte a Marta io riesca a fare quello che faresti Tu». Adesso che Marta è in cielo posso tranquillamente dire che non ho imparato a stare di fronte al dolore, però posso altrettanto affermare che di fronte al dolore ci sono stata. Nei momenti più drammatici, in ospedale, quella preghiera mi veniva in mente e ogni attimo è stato vissuto nella pienezza, senza fuggire e con la grande speranza, fino all’ultimo secondo, della guarigione di Marta. La grande sorpresa è stata scoprire, in occasione di un colloquio notturno con suo padre, che anche Marta usava quella stessa preghiera per vivere il suo rapporto con Gesù, quel Gesù di cui era profondamente innamorata, quel Gesù che non ha aspettato quella che di solito è la lunghezza di una vita per donarle completamente il Suo amore. Per noi genitori e per i suoi fratelli il funerale di Marta è stato il suo matrimonio con Gesù.
Sua sorella e suo fratello hanno voluto che sulla lapide della sua tomba, accanto alla fotografia, non ci fossero immediatamente il suo nome e cognome, bensì la sua vera identità: «Io sono Tu che mi fai». Con affetto e gratitudine.
Elena


Marta, insegnante di sostegno in una scuola media, è morta venerdì scorso, a 27 anni, per un tumore. Negli ultimi mesi, costretta a letto dalla malattia, ha toccato la vita di tanti: «Attraverso il tuo sì, Dio ci ha presi per mano», come ha detto don Giuliano Renzi ai suoi funerali. Riportiamo un dialogo con il padre Giorgio nelle notti trascorse in ospedale, il suo saluto ai funerali e l'omelia del sacerdote

20 ottobre 2010

GIORGIO: Marta, chi è Gesù per te?
MARTA: Eccolo, smettila con i ragionamenti, smetti di ragionare. Gesù è "Io sono Tu che mi fai". La cosa più evidente è che siamo oggetto di un amore infinito, un Altro ti ha voluto e ti vuole bene. Guarda, guarda quello che hai! Vivi! Guarda la realtà tutta, non servono tanti ragionamenti, guarda, è come quando fai la piadina, hai l'impasto fra le mani.
Per essere felici occorre amare Lui più di tutto, sopra ogni cosa e questo ti fa amare tutto, più intensamente. Io amo tutto, tutto della mia vita, da quando sono nata fino ad adesso.
La vita è gioia e dolore ed è così perché l'ha fatta così Gesù, è per questo che dico sì alla mia malattia. Uno si lava, si veste bene, sceglie delle cose belle, ha cura di sé perché un Altro ha cura di lui.
Questo succede per grazia, lo devi chiedere tutti i giorni e chiedere che ti dia pace. La felicità la vivremo in Paradiso, qui possiamo chiedere che ci faccia vivere con pace.
GIORGIO: Tutte queste cose dove le hai imparate? Grazie agli amici?
MARTA: L'amico è come l'obbiettivo di una macchina fotografica, mette a fuoco, mette a fuoco, cioè ti aiuta a fare luce dove c'è il vero, ma tutto il rapporto è tuo e basta, tuo con Lui, basta, nessuno di diverso, non tu-l'amico-e-Lui, è tuo e basta, sei tu che domandi, sei tu che chiedi, sei tu che gridi, sei tu che gli chiedi: amami!
GIORGIO: E Lui ti risponde.
MARTA: Lui ti risponde nella realtà.
GIORGIO: Ad esempio, in questo caso con tutta la gente che ti si muove intorno.
MARTA: Guarda che roba, ma non solo: mi sta cambiando, sta cambiando me e intanto io aspetto la guarigione.
GIORGIO: Tutti l'aspettiamo. Preghiamo, lottiamo, domandiamo, chiediamo. Dicevi prima: «Io tengo a me perché c'è un Altro che tiene a me»? Dicevi così?
MARTA: Sì.
GIORGIO: Tutte queste cose come le hai imparate?
MARTA: Vivendo, vivendo in compagnia di amici grandi.
GIORGIO: E guardando?
MARTA: Sì, vivendo tutto appieno; ma come si fa a vivere tutto appieno? Ci vuole anche un metodo e una strada, e la strada e il metodo io l'ho imparato in università. Io Gesù l'ho incontrato in università.
GIORGIO: Be', l'avevi già incontrato prima, lì ti si è palesato di più.
MARTA: Il mio incontro io l'ho fatto in università, l'ho fatto con Francesco, e poi un fatto dietro l'altro.
GIORGIO: Bello quello che mi dici, bisogna che ne parliamo più spesso di queste cose.
MARTA: E no! È qui che dico io, non è un problema di parlare.
GIORGIO: Ma quando mi comunichi la tua esperienza a me aiuta, è un fatto quello che mi racconti.
MARTA: Però il problema non è stare al tavolino a parlare, il problema è che tu domani mattina ti alzi e vai davanti allo specchio e dici: «Io, Giorgio, sono Tu che mi fai», e tutta la giornata chiedi che Lui si faccia vedere da te, non è che ne parliamo io e te, capito? Non è quello il problema. Io Francesco in un anno quante volte l'ho visto, quante volte ci siamo messi al tavolino a parlare? Non è un problema di parlare: è il tuo rapporto personale con Gesù. In quello non ti può sostituire nessuno.

Omelia di don Giuliano Renzi ai funerali (Rimini, 9 ottobre 2010)
Carissima Marta,
solo ieri, verso mezzogiorno, dopo la convulsa mattinata, nel tentativo di aiutare i tuoi a preparare questa celebrazione eucaristica di "adDio", nel senso letterale dell’espressione, mi sono reso conto che sei stata tu a condurci oggi fin qui, fisicamente qui. In questa chiesa di S. Maria Ausiliatrice, dove 64 anni fa, come ieri, l'8 ottobre ma del 1946, un'immensa folla dava l’"adDio" al beato Alberto Marvelli, anch’egli della tua età. E, ancora qui, a poca distanza dove c’è la scuola che ha segnato la tua crescita mentre il Mistero che è Padre, preparava alla tua vita grandi cose che non sapevi ancora; ancora: a pochi giorni dall’anniversario di don Giancarlo. Apparentemente coincidenze, ma so che nel grande Disegno del Padre sono fili sottili di una grande storia d'amore!
Così, improvvisamente, mi sono accorto di come Gesù, attraverso il tuo "sì", ci ha silenziosamente, drammaticamente, sicuramente preso per mano e ci ha condotto in tutto questo lungo periodo della tua malattia. A cominciare dai tuoi genitori, Giorgio e Elena, che per te hanno dato, letteralmente, tutto quello che umanamente era possibile, tuo fratello Giacomo e tua sorella Maria, che hanno preso in mano quest'estate la pensione Mon Pays (guarda "caso", proprio qui accanto).
Cominciando proprio da loro, gli sei diventata madre e maestra; così come per tutti noi che ci siamo uniti in una sterminata catena di preghiera, di supplica, di domanda al Padre per la tua guarigione! Eppure con il tuo "sì" siamo stati noi ad essere condotti sulla strada della guarigione, della salute, cioè a riconoscere Gesù: «Io sono Tu che mi fai» o, come dice il Vangelo che abbiamo letto, Io sono la Via, cioè la Strada: il metodo, come hai voluto ricordare a tuo babbo in quel dialogo notturno per la Verità della Vita.
Insomma, ci hai accompagnato tutti per mano fino alle soglie del Mistero, di cui i tuoi occhioni di cielo erano sempre più il riflesso. Cioè, il riflesso di Colui a cui guardavi e che ora vedi faccia a faccia! Compiendosi così quel desiderio di felicità, di pienezza, fiorito nel tuo cuore e che hai espresso così intensamente e consapevolmente nel dialogo con padre Aldo Trento nella vigilia del Natale dello scorso anno: «Desidero che ogni cosa mi parli di Lui. Ho bisogno che il mio cuore di pietra si converta veramente, ho bisogno di avere fiducia, di credere che quello che sto vivendo è la strada per la mia felicità. Il mio cuore scoppia per questo desiderio di essere veramente felice e di scoprire qual è il mio posto nel mondo, cosa vuole farci Dio con me. Sto aspettando il giorno di Natale, che ormai è arrivato, con la domanda di poter immedesimarmi davvero con Gesù che nasce, con Lui, e di lasciarmi amare così come sono. Abbandonandomi fra le Sue braccia senza resistere».
Carissimi amici, attraverso il sacrificio della Marta, che immedesimandosi in Cristo «imparò l’obbedienza dalle cose che patì», Dio, nel suo misterioso Disegno (che tante volte ci appare confuso e addirittura contrario) rinnova a ciascuno di noi la sfida a metterci in gioco personalmente, a provocare il nostro "sì" a Lui, all’unico Amore che soddisfa la vita.
Don Pino mi ha pregato di leggere a tutti due righe che ha scritto:
«Se il Signore le avesse concesso di continuare il cammino sulla terra, questo essere tutta di Cristo avrebbe preso una forma visibile, una consegna totale di sé, nella certezza che ora, con i suoi grandi e bellissimi occhi, vede che il Signore è il Signore della Vita, che il Signore è tutto».
Accettiamo con semplicità e decisione questa incursione nella nostra vita della Grazia che, attraverso il sacrificio di Marta, provoca in maniera così imponente la nostra vita e la sfida! Nulla ci separerà dall’amore di Cristo! Per questo credo che l’amicizia con la nostra amica Marta sia appena cominciata!

Il saluto di Giorgio, padre di Marta, al termine dei funerali
Non voglio fare un’altra omelia, voglio solo dire due cose perché credo che siano importanti.
Io, mia moglie e i miei figli vogliamo ringraziare tutti voi, tutte le persone che sono qui presenti oggi - non solo gli amici carissimi, i parenti, i famigliari, coloro che ci hanno conosciuto -, perché con le vostre preghiere, soprattutto con le vostre preghiere ci siete sempre stati vicini, facendoci sentire sempre abbracciati e accompagnati.
La compagnia grande del movimento, soprattutto la Fraternità, dei volti precisi in particolare, i nostri amici, ma in ogni caso tutti, ci hanno sempre accompagnato e ci hanno aiutato e ci stanno aiutando a non farci travolgere dal peso di questo dolore.
Ringraziamo il buon Dio e caro Gesù. Se oggi mi chiedi se sono felice, no! Non posso essere felice, perché io Marta l’avrei voluta qui.
Però, altrettanto posso dirti che sono certo che sono felice, perché so che Marta in questo momento Ti vede, è fra le braccia dove desiderava essere. Poi la cosa più importante: devo ringraziare Marta, perché la sua presenza così preziosa nelle nostre vite ci ha insegnato che si può vivere tutto, compresa la malattia, con letizia e senza rassegnazione, e io Ti ringrazio, Padre, perché questo periodo che ci hai dato da vivere con lei, a me, alla Elena, ma non solo, a Maria, a Giacomo, è stato bellissimo perché abbiamo fatto esperienza di come ha vissuto la sua malattia con letizia, sempre senza tristezza. Qualche sera fa Marta, in prima linea, ha chiuso così una telefonata: «Io ci sono», con una voce flebile. A quel punto io, che l’ho sempre provocata - ma le mie provocazioni sono sempre state perché io per primo ho bisogno di imparare -, le ho chiesto cosa vuol dire «io ci sono», e lei ha risposto: «Vuol dire essere sempre in prima linea. Non in ultima, ma sempre in prima: vuol dire che combatto, combatto certa del grande abbraccio, con le armi che ho, che sono i grandi amici e la preghiera».
Tu, Marta, hai sempre guardato tutto con curiosità, guardando intorno cosa c’è di bello e di vero dentro ogni circostanza, al fondo delle cose. Come dicevi tu: «Bisogna guardare al fondo, cioè Lui, c’è Lui».
Io mi sono chiesto spesso in queste notti, in questi mesi passati con lei, cosa che non avevo fatto in precedenza: «Quid animo satis?» cioè: che cosa basta all’animo? Una cosa che avevo già detto e sentito, ma che era passata via senza peso. Poi mi sono accorto che a questa domanda nella mia vita io ho sempre risposto in modo parziale, cioè dando peso agli affetti, al lavoro, alla riuscita nelle cose e a un senso di giustizia che mi son sempre portato dentro, ma che se è staccato da Lui non vale niente. Tu, invece, ci hai insegnato con la tua vita che solo Lui può bastare; quell’"io sono Tu che mi fai", che spesso mi hai ripetuto in maniera così decisa, è diventato carne della tua esperienza quotidiana.
Aiutaci, adesso che Lo vedi e sei abbracciata a Lui, perché questa cosa possa diventare esperienza quotidiana anche per noi, guardando Lui in faccia.
Signore, Ti offriamo tutto il nostro dolore per la Tua maggior gloria, per la Tua Chiesa. Ti prego, vieni Signore Gesù a darci pace.



Dal sangue di Nasiriyah nuova vita in Burkina Faso - In Africa l’orfanotrofio nato dalla strage di carabinieri - «La felicità dei bambini quando hanno visto l’acqua sgorgare pulita». Il pozzo dedicato a Eluana Durante la cerimonia di benedizione il vescovo ha scandito i nomi dei nostri 19 ragazzi uccisi La popolazione in piedi a capo chino. Scoperta una targa con i loro volti DI LUCIA BELLASPIGA – Avvenire, 19 dicembre 2010

Gli occhi sgranati ad aspettare l’evento. Poi un fruscio scono­sciuto e infine il miracolo e un «ooooh» di meraviglia: è l’acqua, tra­sparente e pulita, che per la prima vol­ta sgorga dal pozzo e zampilla attra­verso un tubo. Difficile trattenere i pic­coli, i primi a lanciarsi verso la magia, quell’acqua che esce a volontà solo girando una manopola: da impazzi­re di eccitazione. E infatti impazzi­scono, quei bambini, si buttano sot­to il getto, ridono e si schizzano il pre­zioso liquido che fino a oggi avevano visto solo stagnante sul fondo di un secchio.

Questo – e molto altro – succede in Burkina Faso, tra i Paesi più poveri al mondo, grazie a una giovane donna italiana e a migliaia di altri italiani da lei trascinati in una grande sfida per la vita, lanciata due anni fa e in questo Natale vinta. «Il no­stro progetto era la costruzione di un orfanotrofio e di un pozzo per l’acqua potabile che potes­se servire tutti i vil­laggi circostanti, perché qui i bambi­ni muoiono come mosche non per malattie incurabili ma per i parassiti che infestano l’acqua – racconta Mar­gherita Coletta, vedova del brigadie­re dei carabinieri Giuseppe, morto a 37 anni il 12 novembre 2003 nella stra­ge di Nasiriayh assieme ad altri di­ciotto italiani e a nove iracheni (mol­ti dei quali bambini) –. Sono venuta in Burkina Faso nel luglio 2009 per porre la prima pietra e consegnare al vescovo i primi 10mila euro raccolti in Italia, ora ci sono tornata per la fase più bella: l’inaugurazione dell’orfa­notrofio e del pozzo finalmente rea­lizzati. Fino a pochi mesi fa qui c’era solo un rudere senza il tetto, fatto di fango e sterco, dove i bambini si an­davano a infilare la notte per dormi­re... ». I lavori finora sono costati 52mi­la euro, dice Margherita, che di cia­scun euro racimolato conosce l’origi­ne e soprattutto la destinazione, con­scia di come sia importante che nul­la vada sprecato «perché c’è ancora tanto da fare».

MERITO DI UN BOTTONE

La diocesi è quella di Diebougou, il villaggio si chiama Kpakpare... Nomi e luoghi molto lontani dalla Sicilia, dove tutto ha avuto origine: di Avola era Giuseppe Coletta, noto come il 'Brigadiere dei bambini' per il suo impegno costante a favore dei più pic­coli nei luoghi straziati della terra, e nel suo nome Margherita porta avanti la sua appassionata missione attra­verso l’Associazione Coletta 'Bussa­te e vi sarà aperto'. E Cristo si è fer­mato ad Avola una mattina di due an­ni fa, quando nel negozio di oggetti religiosi di Margherita è entrato un sa­cerdote africano... per colpa di un bot­tone. «Gli si era sganciato il colletto bianco del clergyman – ricorda oggi – e mi chiese se potevo aiutarlo. Vide sul muro il ritratto di mio marito in divisa e mi chiese chi fosse. Gli rac­contai di Nasiriayh e dell’associazio­ne, che allora assisteva già tante fa­miglie italiane e di immigrati, oltre a portare aiuti in Iraq e in Albania, co­sì padre Joseph mi chiese se me la sen­tissi di costruire un orfanotrofio in Burkina Faso... Penso spesso a come sarebbe andata se quel giorno non a­vesse perso un bottone: la Provvi­denza prende le vie più impensate».

IL POZZO DI ELUANA

L’orfanotrofio ora c’è ed è bello, per­ché «dare solidarietà non significa svuotarsi gli armadi delle cose vec­chie ma dare il meglio - sottolinea Margherita - , come faremmo per i fi­gli nostri. Finché vivrò e avrò fiato continuerò a girare l’Italia per racco­gliere fondi e concedere loro non il lusso ma la dignità di Persone». Il tut­to in obbedienza e umiltà: «Noi non ci imponiamo, chiediamo sempre al vescovo di Diebougou, monsignor Raphael Dabiré, che cosa è più ur­gente, perché troppo spesso la bene­ficienza rischia di tradursi in opere i­nutili mentre manca l’indispensabi­le ». Prima che i trentadue bambini possano ora occupare le loro came­­rette, già arredate di tutto punto, man­cano solo i due refettori, che saranno ultimati entro febbraio grazie alle ri­sorse già confluite di nuovo nelle cas­se dell’Associazione Coletta, «in se­guito andremo avanti ancora con u­na nuova ala dell’orfanotrofio per al­tri trentadue bambini, questa volta neonati, altri tre pozzi per l’acqua po­tabile e – la cosa più dispendiosa – un dispensario medico che servirà tutti i villaggi intorno». L’ala dei neonati sarà intitolata a Madre Teresa di Calcutta, il dispensario a Carlo Urbani, il me­dico missionario morto di Sars nel 2003, e i tre pozzi futuri a Chiara Lu­ce Badano (la giovane scomparsa nel 1990 e beatificata a settembre), ad An­drea (un ragazzo morto di leucemia lo scorso anno a Gavirate) e alla Provvi­denza. «Ma il primo pozzo l’abbiamo dedicato a Eluana Englaro, che ho co­nosciuto di persona: a lei è stata tolta l’acqua, e lei continuerà a dissetare la gente e a salvare vite». L’immagine del suo volto ora sorride da una targa po­sta sulla struttura: «Durante la ceri­monia io ho spiegato la sua storia e il vescovo la traduceva in francese per la popolazione – racconta Margheri­ta –, quando ho detto che l’hanno la­sciata morire di fame e di sete, c’è sta­to un mormorio incredulo e un uo­mo si è fatto avanti con queste paro­le: ma come, in Italia togliete l’acqua e la vita, e venite fin qui per dare l’u­na e l’altra a noi? Non si raccapezza­va ».

IL SEME DI NASIRIYAH

L’orfanotrofio, invece, porta il nome e i volti dei diciannove uccisi a Nasi­riyah, in gran parte carabinieri. «Non sapevo che avessero preparato una grande insegna con la foto di Giusep­pe – racconta Margherita – e che tut­ti i bambini indossassero una ma­glietta col suo viso stampato sopra. È stato toccante quando il vescovo, che parla un italiano perfetto, ha letto u­no per uno i nomi dei nostri dician­nove ragazzi, mentre tutti, comprese le autorità civili, militari e religiose, a­scoltavano in piedi a capo chino, sin­ceramente commossi». La cittadella della gioia dovrà ora riuscire ad an­dare avanti con le sue gambe, crean­do posti di lavoro e ingrandendosi sempre più, e ogni euro raccolto dal­l’Associazione sarà investito sul po­sto, perché è lì che l’economia dovrà girare. Il compito più arduo resta a pa­dre Joseph, il cui cellulare suona di continuo; sono i servizi sociali che lo chiamano da Diebougou, ma anche dalla capitale Ouagadougou, e da tan­ti altri villaggi: ovunque ci sono bam­bini che attendono, «valuteremo il grado di necessità», allarga le mani il sacerdote. I lettini sono trentadue e altrettante le culle. Ma in fondo è so­lo l’inizio.