Nella rassegna stampa di oggi:
1) CATECHESI DI BENEDETTO XVI SU SANTA VERONICA GIULIANI - All'Udienza generale del mercoledì
2) Il sacrificio di Veronica, sfida all'individualismo - di Massimo Introvigne 16-12-2010 da http://www.labussolaquotidiana.it
3) Avvenire.it, 15 dicembre 2010 – DIBATTITO - L’islam secondo Tommaso di Jean-Louis Bruguès
4) Cattolici e politica, qualcosa che viene prima - di Luigi Negri 16-12-2010 - http://www.labussolaquotidiana.it
5) Roma, quei bravi ragazzi Roberto Fontolan - giovedì 16 dicembre 2010 – ilsussidiario.net
6) TURCHIA/ Ayata (leader opposizione): per i cristiani sono i giorni della paura - INT. Sencer Ayata - giovedì 16 dicembre 2010 – ilsussidiario.net
7) Newsletter n.328 | 2010-12-16 - Messa in Fabbrica. Prossima e vicina. - Riportiamo di seguito il testo di un intervista a S. E. Mons. Giampaolo Crepaldi, Vescovo di Trieste e Presidente del nostro Osservatorio, dal titolo “Messa in Fabbrica. Prossima e vicina”. L’articolo, è stato pubblicato martedì 14 dicembre 2010, nel sito web di AGENSIR. da Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân
8) Continua il dibattito sul Vaticano II di Rassegna Stampa del 16/12/2010, in Religione, dal sito http://www.libertaepersona.org
9) Avvenire.it, 16 dicembre 2010 - Fariñas come Liu Xiaobo - Vuota non sia la parola di Luigi Geninazzi
10) Avvenire.it, 16 dicembre 2010 - La violenza che incombe. Come in un déjà vu - Figli miei, figli nostri non ci cascate di Marina Corradi
11) Avvenire.it, 16 dicembre 2010 - GIORNATA PACE 2011 - Il Papa: libertà religiosa e «il diritto di credere»
12) Avvenire.it, 16 dicembre 2010 - GIORNATA MONDIALE DELLA PACE - Libertà religiosa, via per la pace – testo integrale del discorso del Papa
13) «Laicismo e fondamentalismo, due facce della stessa medaglia» di Massimo Introvigne 16-12-2010 da http://www.labussolaquotidiana.it
14) Avvenire.it, 16 dicembre 2010 – POESIA - Da Baudelaire ai «fiori» dei poeti italiani di Davide Rondoni
15) A DIECI ANNI DELLA PROMULGAZIONE, LA DOMINUS JESUS INTERROGA ANCORA - Intervista a don Mauro Gagliardi di Antonio Gaspari
CATECHESI DI BENEDETTO XVI SU SANTA VERONICA GIULIANI - All'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 15 dicembre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo dell'intervento pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI durante l'Udienza generale svoltasi nell’Aula Paolo VI.
Nel suo discorso, il Pontefice si è soffermato sulla figura di Santa Veronica Giuliani, monaca clarissa cappuccina (1660-1727), della quale ricorre il 27 dicembre prossimo il 350° anniversario della nascita.
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Cari fratelli e sorelle,
Oggi vorrei presentare una mistica che non è dell’epoca medievale; si tratta di santa Veronica Giuliani, monaca clarissa cappuccina. Il motivo è che il 27 dicembre prossimo ricorre il 350° anniversario della Sua nascita. Città di Castello, luogo dove visse più a lungo e morì, come pure Mercatello - suo paese natale - e la diocesi di Urbino, vivono con gioia questo evento.
Veronica nasce appunto il 27 dicembre 1660 a Mercatello, nella valle del Metauro, da Francesco Giuliani e Benedetta Mancini; è l’ultima di sette sorelle, delle quali altre tre abbracceranno la vita monastica; le viene dato il nome di Orsola. All’età di sette anni, perde la madre, e il padre si trasferisce a Piacenza come soprintendente alle dogane del ducato di Parma. In questa città, Orsola sente crescere in sé il desiderio di dedicare la vita a Cristo. Il richiamo si fa sempre più pressante, tanto che, a 17 anni, entra nella stretta clausura del monastero delle Clarisse Cappuccine di Città di Castello, dove rimarrà per tutta la vita. Là riceve il nome di Veronica, che significa "vera immagine", e, in effetti, ella diventerà una vera immagine di Cristo Crocifisso. Un anno dopo emette la solenne professione religiosa: inizia per lei il cammino di configurazione a Cristo attraverso molte penitenze, grandi sofferenze e alcune esperienze mistiche legate alla Passione di Gesù: la coronazione di spine, lo sposalizio mistico, la ferita nel cuore e le stimmate. Nel 1716, a 56 anni, diventa badessa del monastero e verrà riconfermata in tale ruolo fino alla morte, avvenuta nel 1727, dopo una dolorosissima agonia di 33 giorni che culmina in una gioia profonda, tanto che le sue ultime parole furono: "Ho trovato l’Amore, l’Amore si è lasciato vedere! Questa è la causa del mio patire. Ditelo a tutte, ditelo a tutte!" (Summarium Beatificationis, 115-120). Il 9 luglio lascia la dimora terrena per l’incontro con Dio. Ha 67 anni, cinquanta dei quali trascorsi nel monastero di Città di Castello. Viene proclamata Santa il 26 maggio 1839 dal Papa Gregorio XVI.
Veronica Giuliani ha scritto molto: lettere, relazioni autobiografiche, poesie. La fonte principale per ricostruirne il pensiero è, tuttavia, il suo Diario, iniziato nel 1693: ben ventiduemila pagine manoscritte, che coprono un arco di trentaquattro anni di vita claustrale. La scrittura fluisce spontanea e continua, non vi sono cancellature o correzioni, né segni d’interpunzione o distribuzione della materia in capitoli o parti secondo un disegno prestabilito. Veronica non voleva comporre un’opera letteraria; anzi, fu obbligata a mettere per iscritto le sue esperienze dal Padre Girolamo Bastianelli, religioso dei Filippini, in accordo con il Vescovo diocesano Antonio Eustachi.
Santa Veronica ha una spiritualità marcatamente cristologico-sponsale: è l’esperienza di essere amata da Cristo, Sposo fedele e sincero, e di voler corrispondere con un amore sempre più coinvolto e appassionato. In lei tutto è interpretato in chiave d’amore, e questo le infonde una profonda serenità. Ogni cosa è vissuta in unione con Cristo, per amore suo, e con la gioia di poter dimostrare a Lui tutto l’amore di cui è capace una creatura.
Il Cristo a cui Veronica è profondamente unita è quello sofferente della passione, morte e risurrezione; è Gesù nell’atto di offrirsi al Padre per salvarci. Da questa esperienza deriva anche l’amore intenso e sofferente per la Chiesa, nella duplice forma della preghiera e dell’offerta. La Santa vive in quest’ottica: prega, soffre, cerca la "povertà santa", come "esproprio", perdita di sé (cfr ibid., III, 523), proprio per essere come Cristo, che ha donato tutto se stesso.
In ogni pagina dei suoi scritti Veronica raccomanda qualcuno al Signore, avvalorando le sue preghiere d’intercessione con l’offerta di se stessa in ogni sofferenza. Il suo cuore si dilata a tutti "i bisogni di Santa Chiesa", vivendo con ansia il desiderio della salvezza di "tutto l’universo mondo" (ibid., III-IV, passim). Veronica grida: "O peccatori, o peccatrici… tutti e tutte venite al cuore di Gesù; venite alla lavanda del suo preziosissimo sangue… Egli vi aspetta con le braccia aperte per abbracciarvi" (ibid., II, 16-17). Animata da un’ardente carità, dona alle sorelle del monastero attenzione, comprensione, perdono; offre le sue preghiere e i suoi sacrifici per il Papa, il suo vescovo, i sacerdoti e per tutte le persone bisognose, comprese le anime del purgatorio. Riassume la sua missione contemplativa in queste parole: "Noi non possiamo andare predicando per il mondo a convertire anime, ma siamo obbligate a pregare di continuo per tutte quelle anime che stanno in offesa di Dio… particolarmente con le nostre sofferenze, cioè con un principio di vita crocifissa" (ibid., IV, 877). La nostra Santa concepisce questa missione come uno "stare in mezzo" tra gli uomini e Dio, tra i peccatori e Cristo Crocifisso.
Veronica vive in modo profondo la partecipazione all’amore sofferente di Gesù, certa che il "soffrire con gioia" sia la "chiave dell’amore" (cfr ibid., I, 299.417; III, 330.303.871; IV, 192). Ella evidenzia che Gesù patisce per i peccati degli uomini, ma anche per le sofferenze che i suoi servi fedeli avrebbero dovuto sopportare lungo i secoli, nel tempo della Chiesa, proprio per la loro fede solida e coerente. Scrive: "L’eterno Suo Padre Gli fece vedere e sentire in quel punto tutti i patimenti che avevano da patire i suoi eletti, le anime Sue più care, cioè quelle che si sarebbero approfittate del Suo Sangue e di tutti i Suoi patimenti" (ibid., II, 170). Come dice di sé l’apostolo Paolo: "Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa" (Col 1,24). Veronica arriva a chiedere a Gesù di essere crocifissa con Lui: "In un istante – scrive -, io vidi uscire dalle Sue santissime piaghe cinque raggi risplendenti; e tutti vennero alla volta mia. Ed io vedevo questi raggi divenire come piccole fiamme. In quattro vi erano i chiodi; ed in una vi era la lancia, come d’oro, tutta infuocata: e mi passò il cuore, da banda a banda… e i chiodi passarono le mani e i piedi. Io sentii gran dolore; ma, nello stesso dolore, mi vedevo, mi sentivo tutta trasformata in Dio" (Diario, I, 897).
La Santa è convinta di partecipare già al Regno di Dio, ma contemporaneamente invoca tutti i Santi della Patria beata perché le vengano in aiuto nel cammino terreno della sua donazione, in attesa della beatitudine eterna; è questa la costante aspirazione della sua vita (cfr ibid., II, 909; V, 246). Rispetto alla predicazione dell’epoca, incentrata non raramente sul "salvarsi l’anima" in termini individuali, Veronica mostra un forte senso "solidale", di comunione con tutti i fratelli e le sorelle in cammino verso il Cielo, e vive, prega, soffre per tutti. Le cose penultime, terrene, invece, pur apprezzate in senso francescano come dono del Creatore, risultano sempre relative, del tutto subordinate al "gusto" di Dio e sotto il segno d’una povertà radicale. Nella communio sanctorum, ella chiarisce la sua donazione ecclesiale, nonché il rapporto tra la Chiesa peregrinante e la Chiesa celeste. "I Santi tutti - scrive - sono colassù mediante i meriti e la passione di Gesù; ma a tutto quello che ha fatto Nostro Signore, essi hanno cooperato, in modo che la loro vita è stata tutta ordinata, regolata dalle medesime opere (sue)" (ibid., III, 203).
Negli scritti di Veronica troviamo molte citazioni bibliche, a volte in modo indiretto, ma sempre puntuale: ella rivela familiarità col Testo sacro, del quale si nutre la sua esperienza spirituale. Va rilevato, inoltre, che i momenti forti dell’esperienza mistica di Veronica non sono mai separati dagli eventi salvifici celebrati nella liturgia, dove ha un posto particolare la proclamazione e l’ascolto della Parola di Dio. La Sacra Scrittura, dunque, illumina, purifica, conferma l’esperienza di Veronica, rendendola ecclesiale. D’altra parte, però, proprio la sua esperienza, ancorata alla Sacra Scrittura con una intensità non comune, guida ad una lettura più profonda e "spirituale" dello stesso Testo, entra nella profondità nascosta del testo. Ella non solo si esprime con le parole della Sacra Scrittura, ma realmente anche vive di queste parole, diventano vita in lei.
Ad esempio, la nostra Santa cita spesso l’espressione dell’apostolo Paolo: "Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?" (Rm 8,31; cfr Diario, I, 714; II, 116.1021; III, 48). In lei, l’assimilazione di questo testo paolino, questa sua fiducia grande e gioia profonda, diventa un fatto compiuto nella sua stessa persona: "L’anima mia – scrive - è stata legata colla divina volontà ed io mi sono stabilita davvero e fermata per sempre nella volontà di Dio. Parevami che mai più avessi da scostarmi da questo volere di Dio e tornai in me con queste precise parole: niente mi potrà separare dalla volontà di Dio, né angustie, né pene, né travagli, né disprezzi, né tentazioni, né creature, né demoni, né oscurità, e nemmeno la medesima morte, perché, in vita e in morte, voglio tutto, e in tutto, il volere di Dio" (Diario, IV, 272). Così siamo anche nella certezza che la morte non è l’ultima parola, siamo fissati nella volontà di Dio e così, realmente, nella vita per sempre.
Veronica si rivela, in particolare, una testimone coraggiosa della bellezza e della potenza dell’Amore divino, che la attira, la pervade, la infuoca. È l’Amore crocifisso che si è impresso nella sua carne, come in quella di san Francesco d’Assisi, con le stimmate di Gesù. "Mia sposa - mi sussurra il Cristo crocifisso - mi sono care le penitenze che fai per coloro che sono in mia disgrazia … Poi, staccando un braccio dalla croce, mi fece cenno che mi accostassi al Suo costato ... E mi trovai tra le braccia del Crocifisso. Quello che provai in quel punto non posso raccontarlo: avrei voluto star sempre nel Suo santissimo costato" (ibid., I, 37). E’ anche un’immagine del suo cammino spirituale, della sua vita interiore: stare nell’abbraccio del Crocifisso e così stare nell’amore di Cristo per gli altri. Anche con la Vergine Maria Veronica vive una relazione di profonda intimità, testimoniata dalle parole che si sente dire un giorno dalla Madonna e che riporta nel suo Diario: "Io ti feci riposare nel mio seno, avesti l’unione con l’anima mia, e da essa fosti come in volo portata davanti a Dio" (IV, 901).
Santa Veronica Giuliani ci invita a far crescere, nella nostra vita cristiana, l’unione con il Signore nell’essere per gli altri, abbandonandoci alla sua volontà con fiducia completa e totale, e l’unione con la Chiesa, Sposa di Cristo; ci invita a partecipare all’amore sofferente di Gesù Crocifisso per la salvezza di tutti i peccatori; ci invita a tenere lo sguardo fisso al Paradiso, meta del nostro cammino terreno, dove vivremo assieme a tanti fratelli e sorelle la gioia della comunione piena con Dio; ci invita a nutrirci quotidianamente della Parola di Dio per riscaldare il nostro cuore e orientare la nostra vita. Le ultime parole della Santa possono considerarsi la sintesi della sua appassionata esperienza mistica: "Ho trovato l’Amore, l’Amore si è lasciato vedere!". Grazie.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Cari fratelli e sorelle, rivolgo ora un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i fedeli della diocesi di Città di Castello, accompagnati dal loro Pastore Mons. Domenico Cancian, che si apprestano a dare inizio alle celebrazioni commemorative del 350° anniversario della nascita di Santa Veronica Giuliani, loro concittadina. Saluto la delegazione della città di Mileto, qui convenuta con il Vescovo Mons. Luigi Renzo. Saluto i partecipanti al Congresso internazionale della Pastorale per i circensi e i fieranti - grazie per la vostra presentazione - come pure le Suore Missionarie del Sacro Costato e di Maria Santissima Addolorata, che stanno celebrando il loro Capitolo Generale. Vi ringrazio tutti di cuore per la vostra partecipazione, invocando su ciascuno la continua protezione di Dio e della Vergine Santissima.
Un particolare saluto rivolgo infine ai giovani, malati e sposi novelli. A voi, cari giovani, specialmente a voi ragazzi dell’Azione Cattolica, auguro di disporre i vostri cuori ad accogliere Gesù, che viene a salvarci con la potenza del suo amore. A voi, cari malati, che nella vostra esperienza di malattia condividete con Cristo il peso della Croce, le prossime feste natalizie apportino serenità e conforto. Invito voi, cari sposi novelli, che da poco tempo avete fondato la vostra famiglia, a crescere sempre più in quell'amore che Gesù nel suo Natale ci ha donato.
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]
Il sacrificio di Veronica, sfida all'individualismo - di Massimo Introvigne 16-12-2010 da http://www.labussolaquotidiana.it
Con la straordinaria sensibilità per gli anniversari che è nota a chiunque segue il suo Magistero, Benedetto XVI ha voluto dedicare la sua catechesi del 15 dicembre 2010 a santa Veronica Giuliani (1660-1727), di cui il prossimo 27 dicembre ricorre il 350° anniversario della nascita. Come sempre in queste catechesi, il Papa ha ripercorso l’itinerario spirituale della santa che, nata a Mercatello (Urbino), matura la vocazione religiosa a Piacenza, dove dopo avere perso la mamma si era trasferita seguendo il padre, soprintendente alle dogane del Ducato di Parma, e trascorre tutta la vita adulta come suora di clausura nel monastero delle clarisse cappuccine di Città di Castello (Perugia), di cui è badessa dal 1716 fino alla morte sopravvenuta nel 1727.
Una vita apparentemente senza storia agli occhi del mondo, ma che si rivela ricchissima sotto il profilo spirituale. La santa – che nulla avrebbe voluto fare conoscere all’esterno della sua vita interiore – per obbedienza al confessore e al vescovo trascrive le sue esperienze in ben ventiduemila pagine di Diario che, pubblicate postume e conosciute principalmente per estratti e antologie, alimenteranno spiritualmente e convertiranno molti fino ai giorni nostri.
Ignorando le sciocchezze di una «psicostoria» di matrice freudiana, che in anni recenti ha studiato il Diario di Veronica Giuliani interpretando l’innamoramento della santa per Gesù in chiave psicoanalitica di sessualità repressa, Benedetto XVI ha esaltato la «spiritualità marcatamente cristologico-sponsale» della clarissa di Città di Castello, e l’ha esaltata come «testimone coraggiosa della bellezza e della potenza dell’Amore divino, che la attira, la pervade, la infuoca», e che si manifesta anche esteriormente nelle stigmate. Lo sposalizio mistico con il Salvatore altro non è, ha spiegato il Papa, che una profonda «esperienza di essere amata da Cristo», come tale aperta a ogni anima cristiana.
L’amore che Gesù chiede a Veronica è esigente. Il Cristo che la santa sposa è «quello sofferente della passione, morte e risurrezione; è Gesù nell’atto di offrirsi al Padre per salvarci». Di qui una profonda riflessione, di grande maturità spirituale, sul significato della sofferenza, opera di una donna che non parlava per sentito dire perché fu tormentata da malattie dolorosissime. La santa, meditando sulla passione di Cristo, fa l’esperienza di «essere crocefissa con lui», svelando così a se stessa e a tanti futuri lettori del Diario quel significato profondo della sofferenza già esposto da san Paolo nella Lettera ai Colossesi: chi soffre cristianamente e consapevolmente si unisce a Cristo, e completa nel suo corpo quello che in qualche modo «manca» ai patimenti del Signore, a favore del Suo corpo che è la Chiesa.
C’è un punto su cui Benedetto XVI vuole insistere. La fase più matura della vita religiosa di santa Veronica Giuliani si situa nel Settecento. Apparentemente, la santa nella sua clausura è lontanissima dalle tensioni sociali e culturali di quel secolo. In verità ne partecipa pienamente. Riprendendo un tema della sua enciclica Spe salvi, del 2007, il Papa osserva che la modernità aveva trasformato la predicazione cattolica maggioritaria. Ormai, questa era «incentrata non raramente sul “salvarsi l’anima” in termini individuali». Ci si potrebbe chiedere: c’è forse qualcosa di male nel cercare di salvarsi l’anima? Chiaramente non c’è nulla di male, e c’è tutto di bene. Ma in un certo senso concentrarsi sulla «propria» anima è una concessione all’individualismo tipico della modernità, un ripiegamento individualistico rispetto agli ideali della Cristianità che avevano fatto grande l’Europa.
Santa Veronica Giuliani fa eccezione rispetto alla mentalità prevalente fra i cattolici della sua epoca perché il suo atteggiamento rispetto alla preghiera, alla sofferenza, alla stessa salvezza non è individualistico ma – precisa il Papa – «di comunione». Certo, il Diario sottolinea il rapporto fra le sofferenze di Gesù Cristo e quelle di ogni singolo fedele che accetta di patire con Lui. Ma santa Veronica Giuliani non manca mai di sottolineare che il Signore soffre per la Chiesa e per i suoi problemi che si manifesteranno nella storia del mondo, e per sostenere i cristiani che saranno perseguitati. Così Benedetto XVI riassume il pensiero della santa: «Gesù patisce per i peccati degli uomini, ma anche per le sofferenze che i suoi servi fedeli avrebbero dovuto sopportare lungo i secoli, nel tempo della Chiesa, proprio per la loro fede solida e coerente».
Una claustrale non predica, eppure con l’esempio e gli scritti può convertire generazioni di peccatori. Una claustrale non opera visibilmente nella società, eppure la sua dottrina e la sua spiritualità possono contribuire a trasformare il mondo. Lontana – appunto – da ogni ripiegamento su se stessa tipicamente moderno, Veronica sa che le sue preghiere e le sue sofferenze sono efficaci, afferma Benedetto XVI, «per il Papa, il suo vescovo, i sacerdoti e per tutte le persone bisognose, comprese le anime del purgatorio. Riassume la sua missione contemplativa in queste parole: “Noi non possiamo andare predicando per il mondo a convertire anime, ma siamo obbligate a pregare di continuo per tutte quelle anime che stanno in offesa di Dio… particolarmente con le nostre sofferenze, cioè con un principio di vita crocifissa”».
Il segreto di una società riconciliata con Dio sta nella presenza di anime capaci di amare veramente la Croce e il Crocefisso.
Avvenire.it, 15 dicembre 2010 – DIBATTITO - L’islam secondo Tommaso di Jean-Louis Bruguès
Nella maggior parte delle società dell’Europa occidentale diventa sempre più visibile e più forte la presenza di popolazioni islamiche. In Francia, Olanda e Germania la religione islamica è ormai diventata la seconda religione dopo il cristianesimo. Questa potenza accresciuta dell’islam sta provocando cambiamenti profondi nella percezione del fenomeno religioso da parte di un’opinione pubblica fortemente secolarizzata.
In negativo, si potrebbe dire, che questa stessa opinione ha sempre più la tendenza ad associare religione e violenza, a tal punto che alcuni Paesi stanno considerando la possibilità di proibire ogni insegnamento confessionale nelle scuole, ritenendolo una fonte di divisione sociale, sostituendolo invece con una scoperta fredda del fatto religioso. In positivo, la presenza massiccia dell’islam obbliga a riconsiderare il ruolo propriamente sociale di queste stesse religioni e le pratiche spesso molto antiche della laicità.
Se l’islam si considera una religione squisitamente comunitaria, e quindi sociale, al punto che il termine comunità è quello che più la caratterizza, è sempre più difficile relegare il fenomeno religioso nel privato, cioè nello spazio ristretto della coscienza individuale. Così è nato il concetto, inatteso, della laicità positiva, per coloro che credevano di <+corsivo>aver chiuso<+tondo> con il religioso.
Nel 2000, nel rendere pubblica la Dichiarazione Dominus Jesus sull’unicità e universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, il magistero ha proposto una Carta dello sviluppo legittimo della teologia cattolica delle religioni. È dunque all’interno di questa «carta» che conviene formulare le seguenti domande: come capire l’Islam? Qual è il valore delle sue dottrine e istituzioni culturali? Qual è il suo posto in ciò che noi chiamiamo l’economia della salvezza?
La domanda è nuova in quanto viene posta nel contesto della mondializzazione e del pluralismo culturale che, come è stato ricordato sopra, sono caratteristiche tipiche della società del nostro tempo. Si tratta anche di una domanda molto tradizionale, nel senso che da molto tempo, in verità fin dalla sua nascita, durante l’impero romano, il cristianesimo si è interrogato con personalità forti come san Giustino sulla possibilità della salvezza personale per gli «infedeli in buona fede». È necessario, dunque, rifarsi agli antichi. Non è impossibile, dopotutto, che questi antichi riescano a illuminarci su problematiche nuove o almeno riproposte. Cosa direbbe Tommaso d’Aquino?
Vale la pena ricordare prima di tutto una proposizione teologica audace, relativa alla salvezza personale degli infedeli, che non è sicuro sia condivisa oggi da tutti i teologi. Tommaso insegna che non si può essere salvati senza la fede in Cristo, ma che non è necessario che questa fede sia per tutti così esplicita come presso coloro che hanno avuto la fortuna di ricevere il Vangelo. Già per sant’Agostino o Gregorio il Grande, la Chiesa vera che supera di molto i confini istituzionali visibili, raccoglie igiusti di tutti i tempi. «Dio vuole salvare le persone di ogni categoria», scrive il domenicano, «uomini e donne, giudei e gentili, piccoli e grandi; ma non necessariamente tutte le persone di ogni categoria», cioè non quelle che si sono escluse da sé conducendo una esistenza contraria alle prescrizioni della legge naturale.
Tommaso conosceva due tipi di non-cristiani: i musulmani, a cui si sta facendo riferimento, e soprattutto i giudei, più vicini perché vivono all’interno del mondo cristiano. Può darsi che egli avesse sentito parlare dei Mongoli e dei Tartari, ma, salvo errore da parte nostra, egli non vi fa alcun riferimento particolare; Marco Polo non aveva ancora fatto uscire il racconto dei suoi viaggi in Estremo Oriente.
Per quanto riguarda i maomettani, o i saraceni (a volte egli usa l’espressione i mori), Tommaso d’Aquino ci offre tre intuizioni che noi avremmo certamente interesse ad approfondire. In primo luogo, poiché questi non riconoscono alcuna autorità alle Sacre Scritture, è inutile portare la discussione su questo terreno; gli argomenti di scambio non possono che riguardare la ragione naturale.
Notiamo di passaggio che, anche se egli li combatte vigorosamente, Tommaso riconosce il valore intellettuale dei migliori rappresentanti della filosofia araba, Avicenna o Averroè.
In effetti, egli stesso non ha mai letto il Corano, anche se ai suoi tempi c’erano due traduzioni in latino. In secondo luogo, il loro Dio non è sicuramente quella trinità di persone, che fa apparire il cristianesimo ai loro occhi come una specie di politeismo – e si sa che questo punto costituisce uno degli ostacoli più grandi nello scambio teologico –, ma egli è comunque una sola persona: «La natura di Dio, come è in sé, non la conosce né il cattolico né il pagano; ma l’uno e l’altro la conoscono secondo una certa ragione di casualità, o d’eminenza, o di negazione».
Si può pensare che Tommaso d’Aquino, per i due motivi appena menzionati, non si sarebbe aspettato di ottenere grandi risultati da uno scambio propriamente teologico tra le due religioni (sarebbe andato sicuramente in modo diverso per uno scambio filosofico). È l’opinione della maggioranza dei teologi ancora oggi. Per contro, i cristiani dei nostri tempi si chiedono quale atteggiamento adottare nei confronti dei musulmani. Di fatto la Dichiarazione Nostra aetate incoraggia i cristiani a promuovere insieme con i musulmani «la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà» per tutti gli uomini.
Sicuramente il Dottore della Chiesa non ha mai avuto una conoscenza diretta di questo ambiente. Egli propone una riflessione squisitamente teologica. Affrontando la questione da un punto molto elevato, ci offre un prezioso filone di ricerca. Egli ricorda che nella sua onnipotenza Dio permette il verificarsi dei mali nel mondo, per timore che eliminandoli siano impediti dei beni ancora più grandi. Non afferma che la pratica di un culto pagano sia un bene in sé, ma non conclude neanche che tutte le azioni di questi stessi pagani costituiscano dei peccati.
Alcuni tra loro, come il centurione Cornelio degli Atti degli Apostoli, possono anche non essere infedeli nel senso spirituale del termine. In ogni caso, i pagani non devono mai essere costretti ad abbracciare la fede in Cristo; non abbiamo il diritto di battezzare dei bambini non cristiani contro la volontà dei loro genitori. Tommaso va oltre: i Príncipi infedeli possono legittimamente esercitare la loro autorità su soggetti cristiani, perché il diritto divino della grazia della fede non sopprime la sovranità né l’autorità del diritto umano che emana dalla legge naturale.
Cattolici e politica, qualcosa che viene prima - di Luigi Negri 16-12-2010 - http://www.labussolaquotidiana.it
Proponiamo un brano tratto dal libro Perché la Chiesa ha ragione, di Luigi Negri e Riccardo Cascioli (Lindau 2010, pp. 224, Euro 16), che spiega perché è fondamentale che i cattolici in politica guardino anzitutto ai "princìpi non negoziabili". E' un utile contributo in questi giorni di crisi politica per comprendere che, prima delle formule di governo, quello che ci deve stare a cuore sono le fondamenta su cui vogliamo costruire il Paese.
Dobbiamo la definizione di “princìpi non negoziabili” a Benedetto XVI in uno dei suoi primi discorsi da pontefice. Precisamente l’occasione è stata offerta dall’incontro con i parlamentari del Partito Popolare Europeo, ricevuti in udienza il 30 marzo 2006. E’ una circostanza non secondaria perché il Papa non ha portato innovazioni dottrinali, ma ha reso esplicita e circostanziata la posizione tradizionale della Chiesa calandola nella situazione attuale dell’Europa, dove il relativismo imperante attacca i diritti fondamentali strettamente connessi con la natura dell’uomo e la sua dignità.
Nell’occasione Benedetto XVI ha indicato i tre princìpi non negoziabili che scaturiscono dalla tradizione della dottrina sociale della Chiesa, verificati nella storia delle nazioni: (…)
“- tutela della vita in tutte le sue fasi, dal primo momento del concepimento fino alla morte naturale;
- riconoscimento e promozione della struttura naturale della famiglia, quale unione fra un uomo e una donna basata sul matrimonio, e sua difesa dai tentativi di renderla giuridicamente equivalente a forme radicalmente diverse di unione che, in realtà, la danneggiano e contribuiscono alla sua destabilizzazione, oscurando il suo carattere particolare e il suo insostituibile ruolo sociale;
- tutela del diritto dei genitori di educare i propri figli.
Questi princìpi non sono verità di fede anche se ricevono ulteriore luce e conferma dalla fede. Essi sono iscritti nella natura umana stessa e quindi sono comuni a tutta l'umanità. L'azione della Chiesa nel promuoverli non ha dunque carattere confessionale, ma è rivolta a tutte le persone, prescindendo dalla loro affiliazione religiosa”. (…)
(…) La formulazione di princìpi non negoziabili era in realtà già presente nella Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno dei cattolici nella vita politica, che la Congregazione per la Dottrina delle Fede (presidente l’allora cardinale Joseph Ratzinger) pubblicò il 24 novembre 2002 con lo scopo di richiamare e specificare alcuni punti della dottrina sociale della Chiesa per quanti operano e vivono nelle società democratiche.
In particolare, il documento distingue tra scelte politiche contingenti nelle quali sono spesso “moralmente possibili diverse strategie per realizzare o garantire uno stesso valore sostanziale di fondo” (no. 3) e “principi morali che non ammettono deroghe, eccezioni o compromesso alcuno” (no. 4), dove “allora l’impegno dei cattolici si fa più evidente e carico di responsabilità”. La Nota parla in questo caso di “esigenze etiche fondamentali e irrinunciabili”, davanti alle quali “i credenti devono sapere che è in gioco l’essenza dell’ordine morale, che riguarda il bene integrale della persona”. “E’ questo il caso – prosegue la nota - delle leggi civili in materia di aborto e di eutanasia (da non confondersi con la rinuncia all’accanimento terapeutico, la quale è, anche moralmente, legittima), che devono tutelare il diritto primario alla vita a partire dal suo concepimento fino al suo termine naturale. Allo stesso modo occorre ribadire il dovere di rispettare e proteggere i diritti dell’embrione umano. Analogamente, devono essere salvaguardate la tutela e la promozione della famiglia, fondata sul matrimonio monogamico tra persone di sesso diverso e protetta nella sua unità e stabilità, a fronte delle moderne leggi sul divorzio: ad essa non possono essere giuridicamente equiparate in alcun modo altre forme di convivenza, né queste possono ricevere in quanto tali un riconoscimento legale. Così pure la garanzia della libertà di educazione ai genitori per i propri figli è un diritto inalienabile, riconosciuto tra l’altro nelle Dichiarazioni internazionali dei diritti umani” (no. 4).
In questo approccio c’è una questione di fondo che si deve sottolineare, e cioè che la dottrina sociale della Chiesa è il contenuto che vincola gli interventi che vengono fatti da persone e da gruppi. Vincola nel senso che costituisce l’ipotesi di lavoro, ipotesi valoriale alla luce della quale poi possono essere condotte tutte le analisi di carattere culturale e tutti gli interventi di carattere operativo.
Ciò che è fondamentale nell’impegno dei cattolici dunque non sta nell’analisi dei singoli e dei gruppi, dove si corre il rischio inevitabile di utilizzare i principi della dottrina sociale in funzione di valutazioni o interventi di carattere culturale, sociale e politico. Se non si tengono presenti i principi fondamentali che solo la Chiesa insegna e che non possono essere disattesi, allora sostanzialmente i valori fondamentali diventano i contenuti delle analisi, sono le scelte contingenti – sociali, culturali e politiche - che assumono il ruolo di valori fondamentali. Con il risultato di una disgregazione, che non solo rende equivoca la presenza dei cattolici in politica, ma fa sì che i contenuti degli interventi finiscano per essere irreformabili come la fede.
Così accade che all’interno della comunità ecclesiale coloro che fanno scelte operative, culturali e sociali diverse si combattono con una violenza accanita come se non ci fosse una base comune che precede queste differenze, che dà ragione di queste differenze, e che al limite potrebbe valorizzare queste differenze. Allora il catto-comunista considera quello del centro-destra come un non cristiano, quello del centro-destra considera il catto-comunista come un tradimento fondamentale della fede e la comunità si divide nella sua natura profonda, rischia di essere messa in crisi o divisa per valutazioni di carattere contingente. E questa divisione arriva fino ai vertici della gerarchia.
La grande lezione del Papa è proprio quella di richiamare a ciò che viene prima, ciò che fonda l’unità dei cattolici.
Roma, quei bravi ragazzi Roberto Fontolan - giovedì 16 dicembre 2010 – ilsussidiario.net
Il black bloc che conosco io ha ventisei anni, è figlio di un medico, appartiene a una famiglia di buona borghesia e di genealogia cattolica che pur avendo colf extracomunitarie in casa un po’ se ne vergogna. Quando non bighellona tra una notte alternativa e una microcomune, risiede in un bel quartiere romano, è accampato in una selettiva facoltà scientifica della “più grande università d’Europa” (e probabilmente la peggio organizzata), da dove scatena occupazioni e cortei, è amico di vari professori e ricercatori in quanto “siamo tutti vittime della Gelmini”.
Ha fatto regolarmente comunione e cresima e se in un’assemblea parla uno di Cl (la lobby più minacciosa e misteriosa d’Italia e forse di più, secondo un volume delirante che torreggia in varie librerie) lo zittisce urlando di suo e aizzando le ragazze-compagne, in genere molto più suscettibili dei maschi. Se in quelle occasioni non muove le mani è solo perché comunione e cresima le ha fatte insieme al nemico e ciò fa scattare una specie di freno automatico, sentimento residuo di un un bel tempo andato fatto di recite a scuola e stravaganti raccolte di figurine.
In fondo a una certa preoccupazione qua e là affiorante, i genitori manifestano istintivamente un filo di orgoglio per un figlio politicamente impegnato, che lotta per dei valori, meglio di tanti altri che pensano solo a se stessi (l’eventuale esistenza di quelli che, per dire, credono in Berlusconi non è contemplata). A questa età è giusto protestare, è giusto essere ribelli, poi ci pensa la vita a metterti a posto con le sue delusioni e normalizzazioni, resteranno dei gran ricordi.
Il black bloc che conosco io non è un cattivo soggetto. È che lo disegnano così, direbbe la conturbante fiamma di Roger Rabbit. I black bloc che si sono messi in azione a Roma nel giorno della sfiducia sfiduciata non sono cattivi. Semplicemente non esistono in quanto black bloc. Cioè in quanto fantasmi maligni, cani sciolti senza alcun collare, arrivati sotto il Colosseo a cavallo di leggende metropolitane: venivano da Padova, da Berlino, comunque dal Nord (da mondi nebbiosi e indecifrabili), anarchici, specialisti della provocazione, professionisti dello scontro, “marcantoni dell’anticapitalismo tedesco”. Sono proprio le entusiastiche cronache di Repubblica a dirci la verità.
Che racconti frementi, che pagine epiche, che spettacolo offre la gioventù quando si indigna: “E quando i centomila arrivano all’Ara Pacis lo stile black bloc prende il sopravvento”. Uno stile. “La violenza è ora di massa, di una generazione intera”. Una generazione intera. “Quelli di Terzigno mostrano esperienza. Per attaccare i blindati alcuni usano i picconi, alcuni versano liquido infiammabile sulla carrozzeria”. Esperienza. “Chi è rimasto in piazza dice: i black bloc non esistono, la rivolta è stata molto naturale, sostenuta da un sentimento collettivo”. Naturale. “La sera dalla Sapienza in assemblea (è l’università di cui sopra) il movimento fa sapere: non c’è nessuna condanna, tra noi non ci sono buoni e cattivi, solo diversi modi di protestare”. Modi.
Dalle parti di piazza del Popolo c’è anche un Tommaso, diciottenne “ciondolante”, in una mano una bottiglia di birra e nell’altra un telefonino: “Sì, ‘amo fatto un bel casino”, dice all’interlocutore (padre? amico? fidanzata?). Passa una signora “elegante, di mezza età” (ovvio, già ci infastidisce) che gli dice: “Ci sarà pure un altro modo per dire che non siete d’accordo”. E il romantico Tommaso, di rimando: “E allora anche tu sei una merda. Io te pago la pensione col lavoro che nun c’ho. Tu che fai per me? Dimmelo, che fai? Ce state a ruba’ la vita”. Wow, che quadretto, che fulminante lucidità. Un film neorealista non ce l’avrebbe restituita così efficacemente come la penna del cronista ammirato da tanta sfrontatezza e comprensione delle contraddizioni del sistema.
Il mese scorso il mensile Style del Corriere della Sera ospitava un’intervista con un finanziere francese d’alto lignaggio monetario che ha salvato Le Monde. Quarantenne, sobrio, colto, belloccio, misurato, charmant, viaggiatore. Roba da cadere ai suoi piedi e proclamarlo presidente universale. Dichiarava di essere un lettore appassionato di Baudelaire e di tutti i grandi “ribelli” contro l’ordine costituito, contro il perbenismo, contro la tradizione borghese. Secondo lui, la società ha bisogno della rabbia, altrimenti si affermano l’egoismo e lo sfruttamento. Lui, il black bloc di successo ha comprato Le Monde. Agli altri resteranno i ricordi. E che Baudelaire li perdoni.
TURCHIA/ Ayata (leader opposizione): per i cristiani sono i giorni della paura - INT. Sencer Ayata - giovedì 16 dicembre 2010 – ilsussidiario.net
Continui attacchi contro i luoghi di culto cristiani, discriminazioni su base religiosa e un’intera società che vive nella paura. E’ la denuncia di Sencer Ayata, vicepresidente e responsabile culturale del Partito Repubblicano del Popolo, il principale partito di opposizione in Turchia. Il professor Ayata è intervenuto con un articolo sul numero di novembre della rivista «New Europe», dedicato al tema della libertà religiosa. IlSussidiario.net lo ha intervistato in esclusiva, chiedendogli di spiegare il suo punto di vista sulla società turca. Domani Ilsussidiario.net pubblicherà un’altra intervista a Egemen Bagis, ministro per gli Affari europei del governo turco, che risponderà alle osservazioni mosse da Ayata.
Professor Ayata, quali sono le principali discriminazioni subite dai cristiani in Turchia?
Numerose relazioni sulla situazione in Turchia hanno più volte segnalato che discriminazione, esclusione e odio si sono diffusi nell'ultimo decennio. Gli attacchi contro luoghi di culto, cimiteri, sacerdoti e altre personalità pubbliche cristiane hanno suscitato preoccupazione tra gli osservatori nazionali e internazionali. Molte comunità in Turchia continuano a chiedere parità di diritti, trattamento equo e il rispetto della libertà di religione. Tuttavia il partito Akp (quello che detiene la maggioranza, Ndr), pur essendo stato al potere negli ultimi otto anni, non ha dimostrato né un forte impegno, né la volontà di istituzionalizzare i diritti e le libertà fondamentali.
Lei ha scritto di recente che «i cittadini turchi si riferiscono sempre più spesso al sistema politico turco come alla società della paura». Che cosa voleva dire?
La paura è diventata un sentimento dominante nella politica turca sotto il dominio dell’Akp. I cittadini turchi hanno sempre più paura di esprimere, comunicare, o pubblicizzare pareri dissenzienti. Intercettazioni illegali, violazione della privacy e la diffusione volontaria di disinformazione a fini di diffamazione sono ormai pratica comune. Numerosi appartenenti ai media e alle Ong turche hanno subito pesanti multe o sono anche stati in carcere a lungo senza essere stati condannati o, in alcuni casi, addirittura senza incriminazione. Il risultato è che, nella Turchia di oggi, le persone sono restie a fare uso della loro libertà di espressione e di associazione. Il governo sta cercando in tutti i modi di far tacere e di tenere tranquille le forze dell'opposizione. L'elezione di Kemal Kilicdaroglu come nuovo leader del Partito Repubblicano del Popolo, in questo momento di svolta è uno sviluppo fondamentale per la Turchia. Kilicdaroglu è un aperto sostenitore della democrazia liberale, del pluralismo, dei diritti e delle libertà fondamentali, la cui forte critica degli abusi del potere dello Stato compiuti dal governo incoraggia i cittadini a resistere contro l'autoritarismo e l'ingiustizia.
Secondo alcuni osservatori internazionali, la Turchia si sta spostando verso il fondamentalismo religioso. E’ davvero così?
Il rischio in realtà è che la Turchia possa trasformarsi in un sistema autoritario con coloriture religiose conservatrici. Ciò che è veramente in gioco è la separazione dei poteri, pesi e contrappesi, il pluralismo e la democrazia partecipativa. La religione sembra essere solo uno dei motivi per i quali ha luogo la discriminazione e la disparità di trattamento tra i cittadini. Nella Turchia contemporanea, le donne e i giovani sono esclusi ed emarginati, come le minoranze religiose.
Questo spostamento è causato dal governo dell'Akp, o da un cambiamento nella società turca?
E' vero che l’Akp è in qualche misura una conseguenza della mobilitazione politica dei segmenti conservatori e autoritari del popolo turco. Ma è anche vero che l’attuale governo turco è la principale forza trainante, che determina non solo l'aumento del conservatorismo religioso, ma anche dell'autoritarismo reazionario. Se l'Akp perdesse il controllo sulla società turca, non vi è dubbio che le componenti progressiste della società civile ripristinerebbero la forza e la vitalità delle organizzazioni di base nella loro ricerca di giustizia e democrazia. Il Partito del Popolo Repubblicano è pienamente impegnato a lavorare con gli elementi progressisti della società civile per sradicare dalla vita quotidiana l'intolleranza e l'odio.
In che modo il Partito del Popolo Repubblicano pensa di poter fermare la deriva religiosa in Turchia?
Il nostro obiettivo principale è difendere i principi universali della democrazia nella loro interezza. Come partito socialdemocratico, condividiamo gli stessi ideali dei nostri amici del Partito dei Socialisti Europei e dell'Internazionale Socialista. Noi continueremo a mobilitare i cittadini turchi provenienti da diversi percorsi di vita per sostenere lo Stato di diritto, la separazione dei poteri, il pluralismo, i diritti e le libertà fondamentali. Il nostro impegno per sradicare tutte le forme di discriminazione e di esclusione è la migliore soluzione contro l'autoritarismo e i fondamentalismi di ogni genere non solo in Turchia, ma anche nell'Unione europea.
La presenza dei cristiani in Turchia può essere un’opportunità anche per i musulmani?
Credo che la diversità sociale, culturale e religiosa sia di importanza fondamentale per una democrazia pluralista. Siamo impegnati a lavorare con tutti i cittadini turchi, indipendentemente dalla loro religione, etnia, età, sesso o disabilità, per difendere la democrazia e i diritti umani di tutti.
L'Ue dovrebbe essere più disponibile nell’accogliere la Turchia, anche se il governo turco non cambia la sua linea politica?
Il compito più importante che attende l'Ue è quello di sviluppare una più profonda conoscenza delle dinamiche interne della politica e della società turca. Se i funzionari dell'Ue saranno più in sintonia con le preoccupazioni, le lamentele e il dissenso dei vari gruppi in Turchia, capiranno quanto la ricerca turca di democrazia e libertà sia centrale per il progetto europeo di integrazione. Come Partito Popolare Repubblicano, noi abbracciamo l'ideale europeo di unità nella diversità e continueremo a fornire pieno sostegno per portare avanti i principi dell’«Europa sociale».
(Pietro Vernizzi)
Newsletter n.328 | 2010-12-16 - Messa in Fabbrica. Prossima e vicina. - Riportiamo di seguito il testo di un intervista a S. E. Mons. Giampaolo Crepaldi, Vescovo di Trieste e Presidente del nostro Osservatorio, dal titolo “Messa in Fabbrica. Prossima e vicina”. L’articolo, è stato pubblicato martedì 14 dicembre 2010, nel sito web di AGENSIR. da Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân
MESSA IN FABBRICA
Vicina e prossima
Intervista con mons. Giampaolo Crepaldi
In molte diocesi si celebra la messa di Natale in fabbrica: un incontro richiesto e desiderato da molti imprenditori e lavoratori dipendenti. Come valutare questa scelta anche rispetto ad altre di segno opposto? Come tener conto di molti che vivono le difficoltà del precariato e della disoccupazione? Ne parliamo con mons. Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste, membro della Commissione Cei per la pastorale sociale e responsabile del gruppo del Ccee (Consiglio Conferenze episcopali europee) impegnato nell’elaborazione di un progetto per la Settimana Sociale europea.
La messa di Natale è desiderata in fabbrica mentre altrove sembra indesiderata...
“Viviamo spesso segni di rifiuto della presenza pubblica della fede cristiana e quindi è positivo che si facciano queste celebrazioni, e soprattutto che questo avvenga su richiesta di imprenditori e lavoratori, i quali cercano non certo ‘consolazione’ nelle difficoltà della crisi economica, ma forza morale e spirituale. È un segno positivo che il nostro popolo non ha cessato di guardare alla religione cristiana anche come fermento di civiltà, oltre che come viatico nelle difficoltà”.
C’è anche il Natale dei disoccupati, dei precari, dei lavoratori a rischio, quale messaggio per loro?
“Il lavoro è un ambito fondamentale per trovare il senso della vita. Chi è disoccupato o è in una situazione lavorativa precaria perde la fiducia in se stesso e nella società, si sente colpito nella propria dignità di persona. Quando poi c’è alle spalle una famiglia, il disagio si approfondisce e rasenta l’angoscia. I problemi del lavoro vengono spesso affrontati solo con considerazioni sindacali o politiche, ma sotto c’è la concretezza delle persone, la vita, le difficoltà dell’esistenza. E il Natale è Dio che si fa carne per noi, è Dio che scende nel concreto delle nostre sofferenze e le condivide. Egli si fa vicino e prossimo. Il Natale non è favola ma storia viva, non è mito ma incontro tra Dio e uomo. Esso è, per questo, invito affinché anche noi siamo prossimi dei nostri fratelli e sappiamo in qualche modo incarnarci nella loro vita”.
Sono i giovani a risentire maggiormente della crisi occupazionale, pensa che la pastorale giovanile debba essere più attenta a questa attesa, a questa sofferenza?
“La pastorale del mondo del lavoro talvolta non si incontra con la pastorale giovanile: procedono su piani diversi. Molti giovani oggi studiano e questo tende a far dimenticare che invece molti di loro lavorano e spesso in età precoce. Le statistiche parlano di giovani che rimangono tali fino ad età piuttosto avanzata perché si sistemano tardi, ma ci parlano anche di giovani che fanno precocemente le esperienze del lavoro, della precarietà e della disoccupazione. Le nostre parrocchie sono spesso frequentate prevalentemente da giovani studenti e questo può distogliere l’attenzione dai giovani lavoratori. Bisogna ricomporre il quadro e dare vita ad un pastorale del mondo del lavoro non solo nei luoghi di lavoro e di formazione al lavoro ma anche nelle parrocchie e nei movimenti”.
Questo appuntamento di fede con il mondo del lavoro perché non sia un episodio a quali riflessioni deve portare la comunità cristiana sulle questioni sociali ed economiche?
“La pastorale del mondo del lavoro incontra oggi anche due altre difficoltà. La prima è relativa alle forze da mettere in campo. Nella scarsità di sacerdoti è piuttosto difficile trovare sacerdoti preparati che possano dedicarsi a tempo pieno a questa attività. La seconda è che la pastorale del lavoro ha ampliato la propria prospettiva divenendo pastorale sociale ed anche qualcosa di più. Questo è stato positivo, però ha anche reso più generici i nostri interventi pastorali. Bisogna riprendere una vera e propria pastorale del lavoro, in un contesto anche più ampio, ma senza che perda la propria specificità di linguaggio e di proposta. Questo renderebbe anche più continuativo il messaggio della Chiesa in questo mondo. Questo messaggio consiste nella comunicazione e incarnazione del patrimonio della dottrina sociale della Chiesa, che non è un insieme di interventi per organizzare in modo diverso il lavoro ma una rigenerazione dell’uomo che lavora. Naturalmente intendo qui il termine lavoro in senso ampio”.
La Chiesa italiana si avvia a vivere l’impegno educativo come prioritario per il decennio appena iniziato. In che misura questo impegno coinvolge l’esperienza del lavoro?
“Non ci può essere impegno educativo che non tenga conto del mondo del lavoro, perché nel lavoro l’uomo si misura non solo con le ‘cose da fare’ ma con il senso di se stesso e della vita. Non dimentichiamo che Giovanni Paolo II considerava il lavoro la ‘chiave della questione sociale’. Il lavoro ha a che fare con la famiglia, prima di tutto, ma anche con la politica o la società, con il tempo libero e la cultura e con tutte le dimensioni comunitarie della persona. Agendo nel lavoro l’uomo costruisce se stesso insieme agli altri; ogni lavoro infatti è un lavorare con gli altri e per gli altri. Nel lavoro l’uomo fa esperienza della trascendenza e incontra Gesù Cristo, il figlio del falegname. Oggi il lavoro cambia, accentua la sua qualifica relazionale, ma come tale rimane una esperienza centrale della persona e, quindi, ad alto valore educativo o diseducativo”.
Il lavoro è ancora un luogo educativo?
“Di fatto spesso non lo è. Già Leone XIII, scrivendo la ‘Rerum Novarum’, era preoccupato dell’ambiente morale che i lavoratori di allora trovavano nelle periferie delle grandi città, quando vi si recavano provenienti dalla montagna o dalla campagna. Egli temeva che i valori della tradizione cristiana venissero perduti. Anche oggi questo pericolo esiste, forse più di ieri. Il mondo del lavoro è spesso cinico e non aiuta le persone a comprendersi fino in fondo. Però è anche un ambiente in cui le qualità umane di una persona emergono con grande forza ed è impossibile nascondersi. Il lavoro mette vigorosamente alla prova la nostra umanità, la fa emergere, nel bene e nel male e quindi è senz’altro un fondamentale luogo educativo”.
Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân
Continua il dibattito sul Vaticano II di Rassegna Stampa del 16/12/2010, in Religione, dal sito http://www.libertaepersona.org
Riportiamo un intervento del prof. Corrado Gnerre in risposta all’articolo comparso su “Avvenire” del 1° dicembre scorso a firma di Massimo Introvigne, critico nei confronti del recente testo pubblicato da Roberto de Mattei: Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, edito dalla casa editrice Lindau.
Le accuse che Massimo Introvigne muove al libro del prof. de Mattei sono fondamentalmente due: l’autore non avrebbe adeguatamente “separato” i testi conciliari dalla dimensione dell’“evento” Concilio e inoltre l’autore avrebbe rifiutato la cosiddetta “ermeneutica della continuità” (tanto raccomandata e sollecitata da Benedetto XVI) per sostenere invece un’“ermeneutica della rottura”.
Per quanto riguarda la prima accusa, Introvigne scrive: «[Roberto de Mattei] conclude che i documenti [del Concilio] fanno parte dell’evento, fuori del quale perdono significato. Ma la teoria sociologica dell’evento non afferma che sia impossibile la distinzione fra un testo e il suo contesto. Se il testo fosse fagocitato dal contesto, il che applicando il metodo del libro potrebbe essere applicato di qualunque documento che si presenta come autorevole, saremmo di fronte a una sorta di strutturalismo, o un’applicazione al Magistero di quelle teorie – pure criticate da de Mattei con riferimento alla Bibbia – che riducono la Sacra Scrittura alla sola redazione e forma, dove ogni brano è smontato e decostruito in un gioco di riferimenti perpetuo».
Mi sembra, però, che questo tipo di critica non centri bene la questione, perché se è vero, come dice Introvigne, che un testo può essere separato dal contesto, è pur vero che c’è testo e testo e qualsiasi indagine che voglia davvero dirsi scientifica deve prendere in considerazione anche come il testo in questione è scritto e soprattutto perché è stato scritto. Ora, sembra proprio che i testi conciliari non possano essere separati da una motivazione di fondo, che fu quella non solo di “avvicinarsi” alla modernità, ma anche di rilevare della modernità principalmente il positivo, trascurando la differenza tra il “moderno” come categoria filosofica e il “moderno” come semplice sviluppo della tecnica.
Quando Introvigne allude alla Sacra Scrittura fa un esempio che non regge, perché essa (la Sacra Scrittura) non è suscettibile di un’interpretazione strutturalista, in quanto nella sua stesura vi sono motivazioni secondo cui la Parola debba costituire salvezza del mondo e non viceversa. Dai testi conciliari, invece – come dicevo prima – si evince un intento di recuperare la modernità e di mettersi in ascolto dei segni dei tempi.
Insomma, i documenti conciliari, optando per un’impostazione pastorale, utilizzano un tipo di linguaggio che è d’incontro con la modernità; un linguaggio che risente di quella tipica atmosfera degli anni ’60, cioè di fiducia per l’immediato futuro, che oggi è difficilmente proponibile e che la storia degli ultimi decenni ha anche chiaramente smentito. Ed è proprio l’impostazione pastorale di quei documenti che rende difficile ed anche impropria la separazione testo-contesto.
L’altro punto è senza dubbio più complesso ed è quello riguardante l’“ermeneutica della continuità”. Benedetto XVI lo ha detto chiaramente più volte, ma soprattutto nel famoso discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005: il Concilio Vaticano II deve essere interpretato alla luce della Tradizione di sempre della Chiesa, e quindi non può esserci rottura tra ciò che è stato insegnato prima e ciò che è stato insegnato con questo concilio.
La questione però dov’è? Cosa significa davvero “ermeneutica della continuità”? Ciò che dice il Papa è una constatazione di ciò che era davvero nell’intenzione di tutti i padri conciliari o invece di ciò che non poteva non accadere?
Mi spiego meglio: i testi del Concilio sono davvero tutti nella continuità, oppure dobbiamo fare in modo che lo siano perché non può esserci rottura tra gli atti ufficiali del Magistero? Il celebre teologo, monsignor Brunero Gheraradini, decano della Lateranense, afferma nel suo Concilio Vaticano II. Un discorso da fare (Casa Mariana) che l’“ermeneutica della continuità” non può non essere anche “ermeneutica teologica”.
E dal momento che i testi conciliari, per loro stessa ammissione, non sono dogmatici e definitori, si potrebbe anche intervenire su di essi, perlomeno per chiosarli con un documento chiarificatore in maniera che non possa su di essi essere applicata nessuna ermeneutica della rottura.
Da qui anche l’auspicio con cui monsignor Gherardini conclude il suo libro indirizzando una supplica al Santo Padre: «Sembra, infatti, difficile, se non addirittura impossibile, metter mano all’auspicata ermeneutica della continuità, se prima non si sia proceduto ad un’attenta e scientifica analisi dei singoli documenti, del loro insieme e d’ogni loro argomento, delle loro fonti immediate e remote […]. A ciò ripensando, da tempo era nata in me l’idea – che oso ora sottoporre alla Santità Vostra – d’una grandiosa e possibilmente definitiva mess’a punto sull’ultimo Concilio in ognuno dei suoi aspetti e contenuti».
Insomma, Introvigne dovrebbe capire che la definizione “ermeneutica della continuità” può essere suscettibile di due possibili interpretazioni: “minimalista” e “massimalista”.
La “minimalista”, che afferma la continuità, ma conservando tutto com’è; la “massimalista”, che afferma ugualmente la continuità, ritenendo però necessario intervenire con un eventuale documento per annotare quelle parti dei testi conciliari che più difficilmente sono armonizzabili con i documenti del magistero precedente
. È “ermeneutica della continuità” in entrambi i casi. Infatti, non mi sembra che né il testo di Roberto de Mattei né tantomeno ciò che affermano coloro che vogliono che il dibattito sulla storia e sui documenti del Vaticano II si sviluppi adeguatamente pretendano di cancellare ciò che è avvenuto.
Il Concilio Vaticano II è un fatto. Piuttosto da parte di costoro si vuole prendere in considerazione l’opportunità di andare molto più a fondo per capire davvero le cause di un ormai troppo lungo “inverno” della Chiesa. Pur essendo molto conosciute e frequentemente citate, voglio ugualmente ricordare alcune parole di Paolo VI: «Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio».
Dunque, Paolo VI non evita di citare il Concilio, e ovviamente nessuno giudicherebbe quel Papa come un Papa anticonciliare. Certamente i segni della crisi erano già prima, ma indubbiamente sono esplosi da quell’“evento”. Rimane poi una questione di non poco conto.
Mi sembra che per la prima volta s’invochi da parte del Magistero un’ermeneutica per un atto del Magistero stesso, un atto per giunta pastorale, quindi che ha volutamente utilizzato un linguaggio che sarebbe dovuto essere quanto più possibile chiaro, semplice e aperto a tutti. Già questo dovrebbe far capire che la questione che pone il testo di Roberto de Mattei di andare ad approfondire la storia del Vaticano II per capirlo fino in fondo, sia una questione tutt’altro che irrilevante. da Corrispondenza Romana, 10 Dicembre 2010
Avvenire.it, 16 dicembre 2010 - Fariñas come Liu Xiaobo - Vuota non sia la parola di Luigi Geninazzi
È diventata l’immagine che caratterizza le dittature più longeve del pianeta. Una sedia vuota, un’altra dopo quella che troneggiava sul palco del Premio Nobel per la pace conferito al dissidente cinese Liu Xiaobo, tenuto in carcere dal regime di Pechino. La stessa scena si è ripresentata ieri nell’emiciclo del Parlamento europeo che quest’anno ha voluto conferire il suo più alto riconoscimento per i diritti umani, il Premio Sakharov, all’oppositore cubano Guillermo Fariñas, sopravvissuto a 135 giorni di sciopero della fame per chiedere la liberazione dei detenuti politici in stato di malattia. Un’altra assenza forzata, dunque, nel segno dell’arroganza e della pavidità che accomuna le tirannie comuniste.
Ma il copione, nonostante la sceneggiatura sembri identica, potrebbe contenere un finale molto diverso. A differenza della sedia vuota di Oslo, dominata dall’onnipresenza del gigante asiatico, seconda potenza economica del mondo, quella collocata nell’Europarlamento ci appare un po’ meno desolante, in bilico tra un passato che si vuole archiviare e un futuro di cambiamenti che, per quanto timidi, si stanno sperimentando nell’isola del socialismo tropicale. La Cina che tiene in pugno l’indebitata America, invade l’Africa con le sue finanziarie e il mondo intero con le sue merci, può permettersi di rinviare al mittente le flebili domande di clemenza che le vengono rivolte dai leader occidentali, a cominciare da Barack Obama. Purtroppo, non c’è alcuna speranza che l’ex Impero Celeste gestito dai burocrati rossi conceda la libertà a Liu Xiaobo e alle migliaia di dissidenti finiti nel terribile sistema carcerario capital-comunista di Pechino.
A Cuba, invece, qualcosa sta cambiando. Incredibile ma vero, un prigioniero politico come Fariñas è uscito vincitore dal lungo braccio di ferro con la dittatura castrista, ottenendo la liberazione di quasi tutti i suoi compagni di sventura. Dei 52 detenuti della Primavera negra del 2003, ben 40 sono stati rilasciati tra luglio e ottobre, grazie soprattutto all’attiva e coraggiosa mediazione della Chiesa cattolica. Intanto la crisi economica spinge Raul Castro a varare un piano di privatizzazioni e di caute riforme, nonostante la presenza ancora ingombrante del lìder maximo Fidel che, bontà sua, ha riconosciuto recentemente alcuni errori nell’attuazione del socialismo.
Qualcuno all’estero ha già esultato inneggiando «all’inizio di un’era nuova». Ma resta la domanda: quale strategia deve adottare la comunità internazionale? «Non ascoltate il canto delle sirene di un regime crudele», è l’invito rivolto da Fariñas nel video-messaggio rivolto all’Europarlamento. Senza giri di parole il dissidente cubano ha dettato la linea dell’intransigenza, l’unica in grado di far breccia in un sistema totalitario. E ha supplicato l’Unione Europea di non modificare la "Posizione comune", il documento del 1996 che stabilisce uno stretto legame tra le aperture della Ue a Cuba e il rispetto dei diritti umani sull’isola. Anche se qualche Paese, come la Spagna, pensa che sia ora di andare oltre quel testo.
Da oggi però l’Unione Europea ha un motivo in più per ribadire i principi affermati quattordici anni fa. Anche a Cuba, come già nei regimi comunisti dell’Est Europa, le riforme economiche sono una parola vuota se non s’accompagnano alla libertà e alla democrazia. Altrimenti, perché assegnare un premio che porta il nome di Sakharov a un oppositore del regime castrista?
Luigi Geninazzi
Avvenire.it, 16 dicembre 2010 - La violenza che incombe. Come in un déjà vu - Figli miei, figli nostri non ci cascate di Marina Corradi
Come in un déjà vu. Il fuoco e il fumo nero. La cortina dei lacrimogeni, gli autoblindo incendiati, le facce coperte dai passamontagna, le spranghe. Fissi con angoscia le immagini di Roma: un film già visto, un brutto film che sembra tornato dal passato, martedì pomeriggio, in piazza del Popolo e non solo.
Sono passati oltre trent’anni. Ma la cronaca da Roma potrebbe essere un filmato anni Settanta: la guerriglia e una rabbia che spacca, sfascia, frantuma, picchia. Chi ha cinquant’anni, ricorda. Anche allora sulle autoblindo c’erano giovani poliziotti, chiamati con disprezzo "celerini". A Milano, erano tutti figli di immigrati dal Sud; e tuttavia i "proletari" erano gli altri, i figli dei borghesi. Io ero molto giovane: rivedo le cariche della polizia, risento l’odore acre dei lacrimogeni che bruciava gli occhi. Un odio che si allargava. Rivedo poi una scena muta: la folla al funerale del commissario Calabresi, lungo corteo nero e silenzioso. L’odio aveva fatto un altro morto a Milano.
Pochi anni dopo, al liceo, gli autoblindo davanti al portone. E c’erano due sole possibilità: o compagni, o fascisti. Non ti davano nemmeno il tempo di scegliere. Figlia di un giornalista del Giornale di Montanelli, io ero naturalmente considerata "fascista". I compagni, in quel liceo Parini anni Settanta, alzavano rabbiosi il pugno, ma al polso avevano spesso un Rolex.
E la realtà tutta, sempre, o bianca o nera. Il male, sempre ed esclusivamente da una parte sola – quella degli altri. Se una foto inchiodava un manifestante con la spranga in mano, quello, ovvio, era un provocatore infiltrato. Rivedo l’inquietudine di mio padre, quando si trovò la casa devastata, la Olivetti Lettera 32 per terra. A Montanelli, a Tobagi spararono davvero: l’odio delle parole di certi salotti della Milano bene, si era alla fine condensato in piombo.
Non può essere che quel tempo ritorni, ti dici. Ma allora come è stato, cosa è stato a Roma, come un corteo di studenti ha generato la guerriglia? E leggi di black bloc, di professionisti organizzati ed estranei alla massa pacifica. Poi però nelle cronache dei miei colleghi e di altri cronisti dalla piazza avverti che la distinzione non è così netta; il "Corriere" scrive che a quelli col passamontagna si sono aggiunti ragazzi diciottenni – come contagiati e sedotti dall’aria stessa di piazza del Popolo. All’assemblea alla Sapienza,a sera, nessuna condanna delle violenze, registra "Repubblica". Il cronista de "Il Fatto" afferma che l’atmosfera in piazza è cambiata nell’istante in cui Berlusconi ha ottenuto la fiducia: cambiata «all’improvviso, come per un ordine preciso», scrive, e ora comandano i "black book", studenti con un libro di polistirolo come scudo, i volti coperti.
Cosa è stato? Agitatori di mestiere, "antagonisti" di professione, d’accordo. "Infiltrati, provocatori", senti dire, e anche questa reazione l’hai sentita, uguale, trent’ anni fa. Ma, e gli altri? La folla che applaudiva al primo indietreggiare della polizia, in piazza del Popolo? Non forse ragazzi come gli altri, figli nostri, che l’altra mattina, magari solo a livello di tacito consenso, hanno perso la memoria del confine tra protesta legittima e violenza?
Quel confine radicale, per qualche ora violato. Attorno al Parlamento, che non rappresenta Berlusconi, ma gli italiani. Del resto, non è sorprendente che dopo mesi e anni di odio verbale spuntino le spranghe. Non stupisce poi tanto, se in realtà, secondo quanto ha scritto ieri Marco Travaglio, Montecitorio è «il regno dei morti», e la questione martedì non era rovesciare un governo, ma «un regime». Già, la storia insegna che i regimi non si rovesciano con le buone maniere. Occorre il sangue. Ma, davvero questo governo pieno di difetti ma democraticamente eletto è un regime? Oggi come trent’anni fa, le parole hanno un peso grave.
All’apparenza sono solo segni sulla carta, ma poi germinano, producono, deflagrano. È un film già visto, un brutto film di paura e di morti. Che i nostri figli non ci credano, che non ci caschino, come i padri – nelle foto di allora in piazza con i caschi, e le spranghe. E poi, un giorno, con le pistole.
Avvenire.it, 16 dicembre 2010 - GIORNATA PACE 2011 - Il Papa: libertà religiosa e «il diritto di credere»
«In alcune regioni del mondo non è possibile professare ed esprimere liberamente la propria fede religiosa, se non a rischio della vita e della libertà personale. In altre regioni vi sono forme più silenziose e sofisticate di pregiudizio e di opposizione verso i credenti e i simboli religiosi. I cristiani sono attualmente il gruppo religioso che soffre il maggior numero di persecuzioni a motivo della propria fede». Così esordisce Benedetto XVI nel messaggio per la Giornata mondiale per la pace (1° gennaio 2011), che quest’anno ha per tema “Libertà religiosa, via per la pace” . Un richiamo che si pone dopo un anno, sottolinea il Papa, «segnato dalla persecuzione, dalla discriminazione, da terribili atti di violenza e d’intolleranza religiosa»: tra gli altri nel messaggio menziona gli attacchi a Baghdad (Iraq) contro la cattedrale siro-cattolica e contro i cristiani nelle loro case, gli atti di violenza e intolleranza “in Asia, in Africa, nel Medio Oriente e specialmente in Terra Santa”.
Negare o limitare in maniera arbitraria la libertà religiosa e oscurare il ruolo pubblico della religione, secondo Benedetto XVI, vuol dire coltivare una visione parziale della persona umana, rendere impossibile l’affermazione di una pace autentica e duratura, poiché «l’essere umano non è "qualcosa", ma è "qualcuno", possiede una naturale vocazione a realizzarsi nella relazione con l’altro e con Dio», e «la dignità trascendente della persona è un valore essenziale della sapienza giudaico-cristiana, ma anche condiviso da grandi civiltà e religioni del mondo, perché, grazie alla ragione, è accessibile a tutti». «L’illusione di trovare nel relativismo morale la chiave per una pacifica convivenza – dice il Papa – è in realtà l’origine della divisione e della negazione della dignità degli esseri umani». Benedetto XVI cita il suo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 2008: è inconcepibile che i credenti «debbano sopprimere una parte di se stessi – la loro fede – per essere cittadini attivi; non dovrebbe mai essere necessario rinnegare Dio per poter godere dei propri diritti».
Il messaggio del Papa tocca anche le difficoltà che la libertà religiosa incontra oggi in Iraq, in Medio Oriente, in numerosi Paesi d’Africa e dell’Asia; Benedetto XVI sottolinea i pericoli della strumentalizzazione della libertà religiosa «per mascherare interessi occulti, come ad esempio il sovvertimento dell’ordine costituito, l’accaparramento di risorse o il mantenimento del potere da parte di un gruppo». Tutto ciò, aggiunge, «può provocare danni ingentissimi alle società» ed è contrario alla natura della religione. «La professione di una religione – prosegue – non può venire impiegata per fini che le sono estranei e nemmeno può essere imposta con la forza». «La stessa determinazione con la quale sono condannate tutte le forme di fanatismo e di fondamentalismo religioso deve animare anche l’opposizione a tutte le forme di ostilità contro la religione, che limitano il ruolo dei credenti nella vita civile e politica». E «l’ordinamento giuridico a tutti i livelli, nazionale, regionale e internazionale, quando consente o tollera il fanatismo religioso o antireligioso, viene meno alla sua stessa missione, che consiste nel tutelare e nel promuovere la giustizia e il diritto di ciascuno».
Un richiamo particolare arriva dal Papa ai credenti, «chiamati non solo con un responsabile impegno civile, economico e politico, ma anche, con la testimonianza della propria carità e fede, a offrire un contributo prezioso al faticoso ed esaltante impegno per la giustizia, per lo sviluppo umano integrale e per il retto ordinamento delle realtà umane». Primo passo per promuovere la libertà religiosa come via per la pace è il dialogo tra istituzioni civili e religiose, dal momento che «esse non sono concorrenti ma interlocutrici, perché sono tutte a servizio dello sviluppo integrale della persona umana e dell’armonia della società». Il Papa fa appello alla verità morale nella politica e nella diplomazia, rivolgendosi in modo particolare a quei Paesi occidentali segnati dall’ostilità contro la religione fino al «rinnegamento della storia e dei simboli religiosi nei quali si rispecchiano l’identità e la cultura della maggioranza dei cittadini».
Da ultimo, un appello al «dialogo interreligioso» per collaborare «per il bene comune» e uno affinché cessino i soprusi nei confronti dei cristiani che abitano in Asia, nel Medio Oriente e specialmente in Terra Santa, con l’auspicio che pure «nell’Occidente cristiano, specie in Europa, cessino ostilità e pregiudizi contro i cristiani per il fatto che essi intendono orientare la propria vita in modo coerente ai valori e principi espressi nel Vangelo. L’Europa sappia riconciliarsi con le proprie radici cristiane, che sono fondamentali per comprendere il ruolo che ha avuto, che ha e che intende avere nella storia; saprà, così, sperimentare giustizia, concordia e pace, coltivare un sincero dialogo con i popoli non cristiani. Alcuni di essi si affacciano con speranza verso il continente europeo e vanno accolti con spirito di apertura e di fraternità radicato nel Vangelo, secondo i criteri di legalità e di sicurezza che non possono prescindere dal rispetto della comune dignità umana».
Avvenire.it, 16 dicembre 2010 - GIORNATA MONDIALE DELLA PACE - Libertà religiosa, via per la pace – testo integrale del discorso del Papa
1. All’inizio di un Nuovo Anno il mio augurio vuole giungere a tutti e a ciascuno; è un augurio di serenità e di prosperità, ma è soprattutto un augurio di pace. Anche l’anno che chiude le porte è stato segnato, purtroppo, dalla persecuzione, dalla discriminazione, da terribili atti di violenza e di intolleranza religiosa.
Il mio pensiero si rivolge in particolare alla cara terra dell'Iraq, che nel suo cammino verso l’auspicata stabilità e riconciliazione continua ad essere scenario di violenze e attentati. Vengono alla memoria le recenti sofferenze della comunità cristiana, e, in modo speciale, il vile attacco contro la Cattedrale siro-cattolica "Nostra Signora del Perpetuo Soccorso" a Baghdad, dove, il 31 ottobre scorso, sono stati uccisi due sacerdoti e più di cinquanta fedeli, mentre erano riuniti per la celebrazione della Santa Messa. Ad esso hanno fatto seguito, nei giorni successivi, altri attacchi, anche a case private, suscitando paura nella comunità cristiana ed il desiderio, da parte di molti dei suoi membri, di emigrare alla ricerca di migliori condizioni di vita. A loro manifesto la mia vicinanza e quella di tutta la Chiesa, sentimento che ha visto una concreta espressione nella recente Assemblea Speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi. Da tale Assise è giunto un incoraggiamento alle comunità cattoliche in Iraq e in tutto il Medio Oriente a vivere la comunione e a continuare ad offrire una coraggiosa testimonianza di fede in quelle terre.
Ringrazio vivamente i Governi che si adoperano per alleviare le sofferenze di questi fratelli in umanità e invito i Cattolici a pregare per i loro fratelli nella fede che soffrono violenze e intolleranze e ad essere solidali con loro. In tale contesto, ho sentito particolarmente viva l’opportunità di condividere con tutti voi alcune riflessioni sulla libertà religiosa, via per la pace. Infatti, risulta doloroso constatare che in alcune regioni del mondo non è possibile professare ed esprimere liberamente la propria religione, se non a rischio della vita e della libertà personale. In altre regioni vi sono forme più silenziose e sofisticate di pregiudizio e di opposizione verso i credenti e i simboli religiosi. I cristiani sono attualmente il gruppo religioso che soffre il maggior numero di persecuzioni a motivo della propria fede. Tanti subiscono quotidianamente offese e vivono spesso nella paura a causa della loro ricerca della verità, della loro fede in Gesù Cristo e del loro sincero appello perché sia riconosciuta la libertà religiosa. Tutto ciò non può essere accettato, perché costituisce un’offesa a Dio e alla dignità umana; inoltre, è una minaccia alla sicurezza e alla pace e impedisce la realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale.1
Nella libertà religiosa, infatti, trova espressione la specificità della persona umana, che per essa può ordinare la propria vita personale e sociale a Dio, alla cui luce si comprendono pienamente l’identità, il senso e il fine della persona. Negare o limitare in maniera arbitraria tale libertà significa coltivare una visione riduttiva della persona umana; oscurare il ruolo pubblico della religione significa generare una società ingiusta, poiché non proporzionata alla vera natura della persona umana; ciò significa rendere impossibile l’affermazione di una pace autentica e duratura di tutta la famiglia umana.
Esorto, dunque, gli uomini e le donne di buona volontà a rinnovare l’impegno per la costruzione di un mondo dove tutti siano liberi di professare la propria religione o la propria fede, e di vivere il proprio amore per Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente (cfr Mt 22,37). Questo è il sentimento che ispira e guida il Messaggio per la XLIV Giornata Mondiale della Pace, dedicato al tema: Libertà religiosa, via per la pace.
Sacro diritto alla vita e ad una vita spirituale
2. Il diritto alla libertà religiosa è radicato nella stessa dignità della persona umana,2 la cui natura trascendente non deve essere ignorata o trascurata. Dio ha creato l’uomo e la donna a sua immagine e somiglianza (cfr Gen 1,27). Per questo ogni persona è titolare del sacro diritto ad una vita integra anche dal punto di vista spirituale. Senza il riconoscimento del proprio essere spirituale, senza l’apertura al trascendente, la persona umana si ripiega su se stessa, non riesce a trovare risposte agli interrogativi del suo cuore circa il senso della vita e a conquistare valori e principi etici duraturi, e non riesce nemmeno a sperimentare un’autentica libertà e a sviluppare una società giusta.3
La Sacra Scrittura, in sintonia con la nostra stessa esperienza, rivela il valore profondo della dignità umana: "Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi" (Sal 8, 4-7).
Dinanzi alla sublime realtà della natura umana, possiamo sperimentare lo stesso stupore espresso dal salmista. Essa si manifesta come apertura al Mistero, come capacità di interrogarsi a fondo su se stessi e sull’origine dell’universo, come intima risonanza dell’Amore supremo di Dio, principio e fine di tutte le cose, di ogni persona e dei popoli.4 La dignità trascendente della persona è un valore essenziale della sapienza giudaico-cristiana, ma, grazie alla ragione, può essere riconosciuta da tutti. Questa dignità, intesa come capacità di trascendere la propria materialità e di ricercare la verità, va riconosciuta come un bene universale, indispensabile per la costruzione di una società orientata alla realizzazione e alla pienezza dell’uomo. Il rispetto di elementi essenziali della dignità dell’uomo, quali il diritto alla vita e il diritto alla libertà religiosa, è una condizione della legittimità morale di ogni norma sociale e giuridica.
Libertà religiosa e rispetto reciproco
3. La libertà religiosa è all’origine della libertà morale. In effetti, l’apertura alla verità e al bene, l’apertura a Dio, radicata nella natura umana, conferisce piena dignità a ciascun uomo ed è garante del pieno rispetto reciproco tra le persone. Pertanto, la libertà religiosa va intesa non solo come immunità dalla coercizione, ma prima ancora come capacità di ordinare le proprie scelte secondo la verità.
Esiste un legame inscindibile tra libertà e rispetto; infatti, "nell’esercitare i propri diritti i singoli esseri umani e i gruppi sociali, in virtù della legge morale, sono tenuti ad avere riguardo tanto ai diritti altrui, quanto ai propri doveri verso gli altri e verso il bene comune".5
Una libertà nemica o indifferente verso Dio finisce col negare se stessa e non garantisce il pieno rispetto dell’altro. Una volontà che si crede radicalmente incapace di ricercare la verità e il bene non ha ragioni oggettive né motivi per agire, se non quelli imposti dai suoi interessi momentanei e contingenti, non ha una "identità" da custodire e costruire attraverso scelte veramente libere e consapevoli. Non può dunque reclamare il rispetto da parte di altre "volontà", anch’esse sganciate dal proprio essere più profondo, che quindi possono far valere altre "ragioni" o addirittura nessuna "ragione". L’illusione di trovare nel relativismo morale la chiave per una pacifica convivenza, è in realtà l’origine della divisione e della negazione della dignità degli esseri umani. Si comprende quindi la necessità di riconoscere una duplice dimensione nell’unità della persona umana: quella religiosa e quella sociale. Al riguardo, è inconcepibile che i credenti "debbano sopprimere una parte di se stessi - la loro fede - per essere cittadini attivi; non dovrebbe mai essere necessario rinnegare Dio per poter godere dei propri diritti".6
La famiglia, scuola di libertà e di pace
4. Se la libertà religiosa è via per la pace, l’educazione religiosa è strada privilegiata per abilitare le nuove generazioni a riconoscere nell’altro il proprio fratello e la propria sorella, con i quali camminare insieme e collaborare perché tutti si sentano membra vive di una stessa famiglia umana, dalla quale nessuno deve essere escluso.
La famiglia fondata sul matrimonio, espressione di unione intima e di complementarietà tra un uomo e una donna, si inserisce in questo contesto come la prima scuola di formazione e di crescita sociale, culturale, morale e spirituale dei figli, che dovrebbero sempre trovare nel padre e nella madre i primi testimoni di una vita orientata alla ricerca della verità e all’amore di Dio. Gli stessi genitori dovrebbero essere sempre liberi di trasmettere senza costrizioni e con responsabilità il proprio patrimonio di fede, di valori e di cultura ai figli. La famiglia, prima cellula della società umana, rimane l’ambito primario di formazione per relazioni armoniose a tutti i livelli di convivenza umana, nazionale e internazionale. Questa è la strada da percorrere sapientemente per la costruzione di un tessuto sociale solido e solidale, per preparare i giovani ad assumere le proprie responsabilità nella vita, in una società libera, in uno spirito di comprensione e di pace.
Un patrimonio comune
5. Si potrebbe dire che, tra i diritti e le libertà fondamentali radicati nella dignità della persona, la libertà religiosa gode di uno statuto speciale. Quando la libertà religiosa è riconosciuta, la dignità della persona umana è rispettata nella sua radice, e si rafforzano l’ethos e le istituzioni dei popoli. Viceversa, quando la libertà religiosa è negata, quando si tenta di impedire di professare la propria religione o la propria fede e di vivere conformemente ad esse, si offende la dignità umana e, insieme, si minacciano la giustizia e la pace, le quali si fondano su quel retto ordine sociale costruito alla luce del Sommo Vero e Sommo Bene.
La libertà religiosa è, in questo senso, anche un’acquisizione di civiltà politica e giuridica. Essa è un bene essenziale: ogni persona deve poter esercitare liberamente il diritto di professare e di manifestare, individualmente o comunitariamente, la propria religione o la propria fede, sia in pubblico che in privato, nell’insegnamento, nelle pratiche, nelle pubblicazioni, nel culto e nell’osservanza dei riti. Non dovrebbe incontrare ostacoli se volesse, eventualmente, aderire ad un’altra religione o non professarne alcuna. In questo ambito, l’ordinamento internazionale risulta emblematico ed è un riferimento essenziale per gli Stati, in quanto non consente alcuna deroga alla libertà religiosa, salvo la legittima esigenza dell’ordine pubblico informato a giustizia.7 L’ordinamento internazionale riconosce così ai diritti di natura religiosa lo stesso status del diritto alla vita e alla libertà personale, a riprova della loro appartenenza al nucleo essenziale dei diritti dell’uomo, a quei diritti universali e naturali che la legge umana non può mai negare.
La libertà religiosa non è patrimonio esclusivo dei credenti, ma dell’intera famiglia dei popoli della terra. È elemento imprescindibile di uno Stato di diritto; non la si può negare senza intaccare nel contempo tutti i diritti e le libertà fondamentali, essendone sintesi e vertice. Essa è "la cartina di tornasole per verificare il rispetto di tutti gli altri diritti umani".8 Mentre favorisce l’esercizio delle facoltà più specificamente umane, crea le premesse necessarie per la realizzazione di uno sviluppo integrale, che riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni sua dimensione.9
La dimensione pubblica della religione
6. La libertà religiosa, come ogni libertà, pur muovendo dalla sfera personale, si realizza nella relazione con gli altri. Una libertà senza relazione non è libertà compiuta. Anche la libertà religiosa non si esaurisce nella sola dimensione individuale, ma si attua nella propria comunità e nella società, coerentemente con l’essere relazionale della persona e con la natura pubblica della religione.
La relazionalità è una componente decisiva della libertà religiosa, che spinge le comunità dei credenti a praticare la solidarietà per il bene comune. In questa dimensione comunitaria ciascuna persona resta unica e irripetibile e, al tempo stesso, si completa e si realizza pienamente.
E’ innegabile il contributo che le comunità religiose apportano alla società. Sono numerose le istituzioni caritative e culturali che attestano il ruolo costruttivo dei credenti per la vita sociale. Più importante ancora è il contributo etico della religione nell’ambito politico. Esso non dovrebbe essere marginalizzato o vietato, ma compreso come valido apporto alla promozione del bene comune. In questa prospettiva bisogna menzionare la dimensione religiosa della cultura, tessuta attraverso i secoli grazie ai contributi sociali e soprattutto etici della religione. Tale dimensione non costituisce in nessun modo una discriminazione di coloro che non ne condividono la credenza, ma rafforza, piuttosto, la coesione sociale, l’integrazione e la solidarietà.
Libertà religiosa, forza di libertà e di civiltà: i pericoli della sua strumentalizzazione
7. La strumentalizzazione della libertà religiosa per mascherare interessi occulti, come ad esempio il sovvertimento dell’ordine costituito, l’accaparramento di risorse o il mantenimento del potere da parte di un gruppo, può provocare danni ingentissimi alle società. Il fanatismo, il fondamentalismo, le pratiche contrarie alla dignità umana, non possono essere mai giustificati e lo possono essere ancora di meno se compiuti in nome della religione. La professione di una religione non può essere strumentalizzata, né imposta con la forza. Bisogna, allora, che gli Stati e le varie comunità umane non dimentichino mai che la libertà religiosa è condizione per la ricerca della verità e la verità non si impone con la violenza ma con "la forza della verità stessa".10 In questo senso, la religione è una forza positiva e propulsiva per la costruzione della società civile e politica.
Come negare il contributo delle grandi religioni del mondo allo sviluppo della civiltà? La sincera ricerca di Dio ha portato ad un maggiore rispetto della dignità dell’uomo. Le comunità cristiane, con il loro patrimonio di valori e principi, hanno fortemente contribuito alla presa di coscienza delle persone e dei popoli circa la propria identità e dignità, nonché alla conquista di istituzioni democratiche e all’affermazione dei diritti dell’uomo e dei suoi corrispettivi doveri.
Anche oggi i cristiani, in una società sempre più globalizzata, sono chiamati, non solo con un responsabile impegno civile, economico e politico, ma anche con la testimonianza della propria carità e fede, ad offrire un contributo prezioso al faticoso ed esaltante impegno per la giustizia, per lo sviluppo umano integrale e per il retto ordinamento delle realtà umane. L’esclusione della religione dalla vita pubblica sottrae a questa uno spazio vitale che apre alla trascendenza. Senza quest’esperienza primaria risulta arduo orientare le società verso principi etici universali e diventa difficile stabilire ordinamenti nazionali e internazionali in cui i diritti e le libertà fondamentali possano essere pienamente riconosciuti e realizzati, come si propongono gli obiettivi - purtroppo ancora disattesi o contraddetti - della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948.
Una questione di giustizia e di civiltà: il fondamentalismo e l’ostilità contro i credenti
pregiudicano la laicità positiva degli Stati
8. La stessa determinazione con la quale sono condannate tutte le forme di fanatismo e di fondamentalismo religioso, deve animare anche l’opposizione a tutte le forme di ostilità contro la religione, che limitano il ruolo pubblico dei credenti nella vita civile e politica.
Non si può dimenticare che il fondamentalismo religioso e il laicismo sono forme speculari ed estreme di rifiuto del legittimo pluralismo e del principio di laicità. Entrambe, infatti, assolutizzano una visione riduttiva e parziale della persona umana, favorendo, nel primo caso, forme di integralismo religioso e, nel secondo, di razionalismo. La società che vuole imporre o, al contrario, negare la religione con la violenza, è ingiusta nei confronti della persona e di Dio, ma anche di se stessa. Dio chiama a sé l’umanità con un disegno di amore che, mentre coinvolge tutta la persona nella sua dimensione naturale e spirituale, richiede di corrispondervi in termini di libertà e di responsabilità, con tutto il cuore e con tutto il proprio essere, individuale e comunitario. Anche la società, dunque, in quanto espressione della persona e dell’insieme delle sue dimensioni costitutive, deve vivere ed organizzarsi in modo da favorirne l’apertura alla trascendenza. Proprio per questo, le leggi e le istituzioni di una società non possono essere configurate ignorando la dimensione religiosa dei cittadini o in modo da prescinderne del tutto. Esse devono commisurarsi - attraverso l’opera democratica di cittadini coscienti della propria alta vocazione - all’essere della persona, per poterlo assecondare nella sua dimensione religiosa. Non essendo questa una creazione dello Stato, non può esserne manipolata, dovendo piuttosto riceverne riconoscimento e rispetto.
L’ordinamento giuridico a tutti i livelli, nazionale e internazionale, quando consente o tollera il fanatismo religioso o antireligioso, viene meno alla sua stessa missione, che consiste nel tutelare e nel promuovere la giustizia e il diritto di ciascuno. Tali realtà non possono essere poste in balia dell’arbitrio del legislatore o della maggioranza, perché, come insegnava già Cicerone, la giustizia consiste in qualcosa di più di un mero atto produttivo della legge e della sua applicazione. Essa implica il riconoscere a ciascuno la sua dignità,11 la quale, senza libertà religiosa, garantita e vissuta nella sua essenza, risulta mutilata e offesa, esposta al rischio di cadere nel predominio degli idoli, di beni relativi trasformati in assoluti. Tutto ciò espone la società al rischio di totalitarismi politici e ideologici, che enfatizzano il potere pubblico, mentre sono mortificate o coartate, quasi fossero concorrenziali, le libertà di coscienza, di pensiero e di religione.
Dialogo tra istituzioni civili e religiose
9. Il patrimonio di principi e di valori espressi da una religiosità autentica è una ricchezza per i popoli e i loro ethos. Esso parla direttamente alla coscienza e alla ragione degli uomini e delle donne, rammenta l’imperativo della conversione morale, motiva a coltivare la pratica delle virtù e ad avvicinarsi l’un l’altro con amore, nel segno della fraternità, come membri della grande famiglia umana.12
Nel rispetto della laicità positiva delle istituzioni statali, la dimensione pubblica della religione deve essere sempre riconosciuta. A tal fine è fondamentale un sano dialogo tra le istituzioni civili e quelle religiose per lo sviluppo integrale della persona umana e dell'armonia della società.
Vivere nell’amore e nella verità
10. Nel mondo globalizzato, caratterizzato da società sempre più multi-etniche e multi-confessionali, le grandi religioni possono costituire un importante fattore di unità e di pace per la famiglia umana. Sulla base delle proprie convinzioni religiose e della ricerca razionale del bene comune, i loro seguaci sono chiamati a vivere con responsabilità il proprio impegno in un contesto di libertà religiosa. Nelle svariate culture religiose, mentre dev’essere rigettato tutto quello che è contro la dignità dell’uomo e della donna, occorre invece fare tesoro di ciò che risulta positivo per la convivenza civile.
Lo spazio pubblico, che la comunità internazionale rende disponibile per le religioni e per la loro proposta di "vita buona", favorisce l’emergere di una misura condivisibile di verità e di bene, come anche un consenso morale, fondamentali per una convivenza giusta e pacifica. I leader delle grandi religioni, per il loro ruolo, la loro influenza e la loro autorità nelle proprie comunità, sono i primi ad essere chiamati al rispetto reciproco e al dialogo.
I cristiani, da parte loro, sono sollecitati dalla stessa fede in Dio, Padre del Signore Gesù Cristo, a vivere come fratelli che si incontrano nella Chiesa e collaborano all’edificazione di un mondo dove le persone e i popoli "non agiranno più iniquamente né saccheggeranno […], perché la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare" (Is 11, 9).
Dialogo come ricerca in comune
11. Per la Chiesa il dialogo tra i seguaci di diverse religioni costituisce uno strumento importante per collaborare con tutte le comunità religiose al bene comune. La Chiesa stessa nulla rigetta di quanto è vero e santo nelle varie religioni. "Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini".13
Quella indicata non è la strada del relativismo, o del sincretismo religioso. La Chiesa, infatti, "annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è «via, verità e vita» (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose".14 Ciò non esclude tuttavia il dialogo e la ricerca comune della verità in diversi ambiti vitali, poiché, come recita un’espressione usata spesso da san Tommaso d’Aquino, "ogni verità, da chiunque sia detta, proviene dallo Spirito Santo".15
Nel 2011 ricorre il 25° anniversario della Giornata mondiale di preghiera per la pace, convocata ad Assisi nel 1986 dal Venerabile Giovanni Paolo II. In quell’occasione i leader delle grandi religioni del mondo hanno testimoniato come la religione sia un fattore di unione e di pace, e non di divisione e di conflitto. Il ricordo di quell’esperienza è un motivo di speranza per un futuro in cui tutti i credenti si sentano e si rendano autenticamente operatori di giustizia e di pace.
Verità morale nella politica e nella diplomazia
12. La politica e la diplomazia dovrebbero guardare al patrimonio morale e spirituale offerto dalle grandi religioni del mondo per riconoscere e affermare verità, principi e valori universali che non possono essere negati senza negare con essi la dignità della persona umana. Ma che cosa significa, in termini pratici, promuovere la verità morale nel mondo della politica e della diplomazia? Vuol dire agire in maniera responsabile sulla base della conoscenza oggettiva e integrale dei fatti; vuol dire destrutturare ideologie politiche che finiscono per soppiantare la verità e la dignità umana e intendono promuovere pseudo-valori con il pretesto della pace, dello sviluppo e dei diritti umani; vuol dire favorire un impegno costante per fondare la legge positiva sui principi della legge naturale.16 Tutto ciò è necessario e coerente con il rispetto della dignità e del valore della persona umana, sancito dai Popoli della terra nella Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite del 1945, che presenta valori e principi morali universali di riferimento per le norme, le istituzioni, i sistemi di convivenza a livello nazionale e internazionale.
Oltre l’odio e il pregiudizio
13. Nonostante gli insegnamenti della storia e l’impegno degli Stati, delle Organizzazioni internazionali a livello mondiale e locale, delle Organizzazioni non governative e di tutti gli uomini e le donne di buona volontà che ogni giorno si spendono per la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali, nel mondo ancora oggi si registrano persecuzioni, discriminazioni, atti di violenza e di intolleranza basati sulla religione. In particolare, in Asia e in Africa le principali vittime sono i membri delle minoranze religiose, ai quali viene impedito di professare liberamente la propria religione o di cambiarla, attraverso l’intimidazione e la violazione dei diritti, delle libertà fondamentali e dei beni essenziali, giungendo fino alla privazione della libertà personale o della stessa vita.
Vi sono poi - come ho già affermato - forme più sofisticate di ostilità contro la religione, che nei Paesi occidentali si esprimono talvolta col rinnegamento della storia e dei simboli religiosi nei quali si rispecchiano l’identità e la cultura della maggioranza dei cittadini. Esse fomentano spesso l’odio e il pregiudizio e non sono coerenti con una visione serena ed equilibrata del pluralismo e della laicità delle istituzioni, senza contare che le nuove generazioni rischiano di non entrare in contatto con il prezioso patrimonio spirituale dei loro Paesi.
La difesa della religione passa attraverso la difesa dei diritti e delle libertà delle comunità religiose. I leader delle grandi religioni del mondo e i responsabili delle Nazioni rinnovino, allora, l’impegno per la promozione e la tutela della libertà religiosa, in particolare per la difesa delle minoranze religiose, le quali non costituiscono una minaccia contro l’identità della maggioranza, ma sono al contrario un’opportunità per il dialogo e per il reciproco arricchimento culturale. La loro difesa rappresenta la maniera ideale per consolidare lo spirito di benevolenza, di apertura e di reciprocità con cui tutelare i diritti e le libertà fondamentali in tutte le aree e le regioni del mondo.
Libertà religiosa nel mondo
14. Mi rivolgo, infine, alle comunità cristiane che soffrono persecuzioni, discriminazioni, atti di violenza e intolleranza, in particolare in Asia, in Africa, nel Medio Oriente e specialmente nella Terra Santa, luogo prescelto e benedetto da Dio. Mentre rinnovo ad esse il mio affetto paterno e assicuro la mia preghiera, chiedo a tutti i responsabili di agire prontamente per porre fine ad ogni sopruso contro i cristiani, che abitano in quelle regioni. Possano i discepoli di Cristo, dinanzi alle presenti avversità, non perdersi d’animo, perché la testimonianza del Vangelo è e sarà sempre segno di contraddizione.
Meditiamo nel nostro cuore le parole del Signore Gesù: "Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati […]. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati [...]. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli" (Mt 5,4-12). Rinnoviamo allora "l’impegno da noi assunto all’indulgenza e al perdono, che invochiamo nel Pater noster da Dio, per aver noi stessi posta la condizione e la misura della desiderata misericordia. Infatti, preghiamo così: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12)".17 La violenza non si supera con la violenza. Il nostro grido di dolore sia sempre accompagnato dalla fede, dalla speranza e dalla testimonianza dell’amore di Dio. Esprimo anche il mio auspicio affinché in Occidente, specie in Europa, cessino l’ostilità e i pregiudizi contro i cristiani per il fatto che essi intendono orientare la propria vita in modo coerente ai valori e ai principi espressi nel Vangelo. L’Europa, piuttosto, sappia riconciliarsi con le proprie radici cristiane, che sono fondamentali per comprendere il ruolo che ha avuto, che ha e che intende avere nella storia; saprà, così, sperimentare giustizia, concordia e pace, coltivando un sincero dialogo con tutti i popoli.
Libertà religiosa, via per la pace
15. Il mondo ha bisogno di Dio. Ha bisogno di valori etici e spirituali, universali e condivisi, e la religione può offrire un contributo prezioso nella loro ricerca, per la costruzione di un ordine sociale giusto e pacifico, a livello nazionale e internazionale.
La pace è un dono di Dio e al tempo stesso un progetto da realizzare, mai totalmente compiuto. Una società riconciliata con Dio è più vicina alla pace, che non è semplice assenza di guerra, non è mero frutto del predominio militare o economico, né tantomeno di astuzie ingannatrici o di abili manipolazioni. La pace invece è risultato di un processo di purificazione ed elevazione culturale, morale e spirituale di ogni persona e popolo, nel quale la dignità umana è pienamente rispettata. Invito tutti coloro che desiderano farsi operatori di pace, e soprattutto i giovani, a mettersi in ascolto della propria voce interiore, per trovare in Dio il riferimento stabile per la conquista di un’autentica libertà, la forza inesauribile per orientare il mondo con uno spirito nuovo, capace di non ripetere gli errori del passato. Come insegna il Servo di Dio Paolo VI, alla cui saggezza e lungimiranza si deve l’istituzione della Giornata Mondiale della Pace: "Occorre innanzi tutto dare alla Pace altre armi, che non quelle destinate ad uccidere e a sterminare l'umanità. Occorrono sopra tutto le armi morali, che danno forza e prestigio al diritto internazionale; quelle, per prime, dell’osservanza dei patti".18 La libertà religiosa è un’autentica arma della pace, con una missione storica e profetica. Essa infatti valorizza e mette a frutto le più profonde qualità e potenzialità della persona umana, capaci di cambiare e rendere migliore il mondo. Essa consente di nutrire la speranza verso un futuro di giustizia e di pace, anche dinanzi alle gravi ingiustizie e alle miserie materiali e morali.
Che tutti gli uomini e le società ad ogni livello edin ogni angolo della Terra possano presto sperimentarela libertà religiosa, via per la pace!
Dal Vaticano, 8 dicembre 2010
«Laicismo e fondamentalismo, due facce della stessa medaglia» di Massimo Introvigne 16-12-2010 da http://www.labussolaquotidiana.it/
Il Papa ha reso pubblico oggi il suo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2011 sul tema Libertà religiosa, via per la pace. Si tratta ormai di un genere letterario ben definito all’interno del Magistero, che in passato – con il messaggio per la Giornata del 2009 – era servito a Benedetto XVI per anticipare alcuni temi della successiva enciclica Caritas in veritate, e – nel messaggio per la Giornata del 2010 – a precisare quanto la stessa enciclica insegnava sul delicato tema dell’ambiente.
Il messaggio per la Giornata del 2011 riveste particolare importanza per il suo tema: la libertà religiosa. Anzitutto, il Papa ritiene opportuno intervenire dopo un anno segnato da «terribili atti di violenza» soprattutto ai danni dei «cristiani [i quali] sono attualmente il gruppo religioso che soffre il maggior numero di persecuzioni a motivo della propria fede». In secondo luogo, Benedetto XVI – il cui Magistero è fin dal suo esordio rivolto a un’interpretazione dei testi del Concilio Ecumenico Vaticano II nel solco della Tradizione della Chiesa, evitando quella che chiama una loro «ermeneutica della discontinuità e della rottura» – offre ora preziose indicazioni per interpretare uno dei documenti conciliari più discussi, la dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae.
Quanto al primo aspetto – la gravità della situazione attuale – il Papa denuncia due diversi tipi di discriminazione e persecuzione. La prima, che riferisce particolarmente a regioni dell’Africa e dell’Asia, è in atto in tutte quelle «regioni del mondo [dove] non è possibile professare ed esprimere liberamente la propria religione, se non a rischio della vita e della libertà personale». In queste regioni, ricorda il Papa, chiedere la libertà di celebrare il culto è necessario ma non è sufficiente. È necessario che sia riconosciuto il diritto alla missione e che nessuno debba «incontrare ostacoli se volesse, eventualmente, aderire ad un’altra religione», una chiara allusione a sistemi e pratiche giuridiche fondate sull’islam e sull’induismo che in alcuni Paesi puniscono direttamente o indirettamente la conversione al cristianesimo come apostasia.
La seconda forma di persecuzione è la nostra, quella dei «Paesi occidentali», i quali manifestano «forme più sofisticate di ostilità contro la religione». Quando i governi sono laicisti, queste ostilità «si esprimono talvolta col rinnegamento della storia e dei simboli religiosi nei quali si rispecchiano l’identità e la cultura della maggioranza dei cittadini». In talune zone dell’Occidente le autorità addirittura «fomentano l’odio e il pregiudizio» contro la religione storicamente maggioritaria, cioè contro il cristianesimo.
Ma che cos’è la libertà religiosa? Interpretando la Dignitatis humanae lo stesso Benedetto XVI ha spiegato più volte che dal punto di vista giuridico non si tratta di un diritto positivo – il quale dovrebbe comprendere anche un «diritto all’errore» che, come ribadisce il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 2108, la Chiesa non ha mai riconosciuto – ma di un diritto negativo, che anche questo Messaggio chiama «immunità dalla coercizione». Questa immunità acquista certo un profilo specifico negli Stati moderni, per definizione incompetenti in materia di religione, ma corrisponde al principio antico secondo cui – come recita il Messaggio – «la professione di una religione non può essere […] imposta con la forza». Se si può parlare di «diritto», in senso giuridico, si tratta del diritto a non essere turbati da un’intromissione dello Stato moderno nella formazione delle proprie convinzioni in materia di religione.
Rispetto a interventi precedenti, vi è qui però un secondo elemento, certamente non nuovo ma il cui collegamento inscindibile con il primo è ribadito con particolare forza. La libertà religiosa che la Chiesa proclama «va intesa non solo come immunità dalla coercizione, ma prima ancora come capacità di ordinare le proprie scelte secondo la verità». Da un punto di vista filosofico, un’analisi di che cos’è la persona viene «prima» delle soluzioni giuridiche. La persona è ordinata alla verità ed è dotata di libertà per la verità. Il libero arbitrio consente certamente il cattivo uso della libertà, contro la verità e addirittura contro Dio. Ma in questo caso, spiega Benedetto XVI, la libertà erode il suo stesso fondamento. «Una libertà nemica o indifferente verso Dio finisce col negare se stessa e non garantisce il pieno rispetto dell’altro. Una volontà che si crede radicalmente incapace di ricercare la verità e il bene non ha ragioni oggettive né motivi per agire, se non quelli imposti dai suoi interessi momentanei e contingenti, non ha una “identità” da custodire e costruire attraverso scelte veramente libere e consapevoli. Non può dunque reclamare il rispetto da parte di altre “volontà”, anch’esse sganciate dal proprio essere più profondo, che quindi possono far valere altre “ragioni” o addirittura nessuna “ragione”. L’illusione di trovare nel relativismo morale la chiave per una pacifica convivenza, è in realtà l’origine della divisione e della negazione della dignità degli esseri umani».
Un altro equivoco, indotto da una lettura secondo il Papa errata, ma per anni dominante, della nozione di libertà religiosa e della Dignitatis humanae, è quello che vorrebbe confinare la religione in una dimensione meramente privata, quasi che quando la Chiesa chiede leggi conformi alle verità naturali che fanno parte del suo insegnamento consueto – anzitutto nelle materie, specificamente richiamate nel Messaggio, della vita, della famiglia e della libertà dell’educazione (i famosi «valori non negoziabili» di Benedetto XVI) – stia negando la libertà religiosa dei non cattolici attraverso un’indebita ingerenza nella vita politica. Non solo i principi della morale naturale valgono per tutti, credenti e non credenti. Ma, sia pure «nel rispetto della laicità positiva delle istituzioni statali», l’orientamento della libertà alla verità non può rinunciare a una dimensione politica.
«La dimensione pubblica della religione deve essere sempre riconosciuta» e «le leggi e le istituzioni di una società non possono essere configurate ignorando la dimensione religiosa dei cittadini o in modo da prescinderne del tutto». «Non essendo questa [dimensione religiosa della persona] una creazione dello Stato, non può esserne manipolata, dovendo piuttosto riceverne riconoscimento e rispetto». Tutto questo è riassunto in un’espressione molto forte sul ruolo della società per la salvezza delle anime, che ricorda analoghe e celebri espressioni del venerabile Pio XII: «Anche la società, dunque, in quanto espressione della persona e dell’insieme delle sue dimensioni costitutive, deve vivere ed organizzarsi in modo da favorirne l’apertura alla trascendenza».
Questa ricostruzione della vera nozione di libertà religiosa esclude dunque anzitutto «la strada del relativismo, o del sincretismo religioso» – cose diverse, spiega il Papa, dal dialogo tra le religioni condotto nella chiarezza e nella verità – e consente di evitare i due errori opposti del fondamentalismo e del laicismo, anch’essi più volte richiamati nel Magistero di Benedetto XVI. «Non si può dimenticare – scrive ora il Papa – che il fondamentalismo religioso e il laicismo sono forme speculari» fra loro. Entrambe infatti negano il corretto rapporto fra fede e ragione. Nel fondamentalismo, la fede nega la ragione. Nel laicismo la ragione, o meglio il razionalismo, nega la fede. Entrambi sono nemici della libertà religiosa: il fondamentalismo vuole imporre la religione con la forza, il laicismo con la forza vuole imporre l’irreligione. Mentre solo l’equilibrio fra fede e ragione – senza confusione, ma anche senza separazione – garantisce la libertà religiosa che, ci assicura il Papa, «è all’origine della libertà morale» e dunque di ogni vera libertà.
Avvenire.it, 16 dicembre 2010 – POESIA - Da Baudelaire ai «fiori» dei poeti italiani di Davide Rondoni
La voce di Charles Baudelaire continuo a vederla come galleria del vento, come banco di prova per la poesia contemporanea. Lo è, senza volermi dilungare, in quanto banco di prova delle visioni o meglio della mancanza di visioni dell’epoca contemporanea. Aveva ragione in questo senso un lettore come Arthur Miller, quando ricordava l’estraneità voluta ed esibita di Baudelaire ad un tempo che sarebbe stato il mondo della borghesia, con la sua «morale da cassieri», «goloso, affamato di cose e infatuato di se stesso».
E si rammenti quanto Baudelaire accusava in Heine, esponente della «scuola pagana» e di una «letteratura fradicia di materialismo sentimentalista», sostenendo contro ogni neo-paganesimo estetizzante che «non è lontano un tempo in cui si comprenderà che qualsiasi letteratura che si rifiuti di procedere fraternamente tra la scienza e la filosofia è una letteratura omicida e suicida».
In questo essere banco di prova dell’epoca che sopraggiungeva, dunque, Baudelaire lo è pure della poesia a noi contemporanea, ben al di là delle cosiddette due linee che la critica da tempo vede provenire dal suo fuoco centrale: la linea dei poeti "artisti" che in Mallarmé trova il suo acme, e in parte in Valéry, e quella dei "veggenti" che ha in Rimbaud il suo paradigma.
Nei Fleurs stanno tutti i primi movimenti dei rischi e delle conquiste della poesia successiva. L’ansia e la necessità di autogiustificarsi, come voce altra nell’agone pubblico; la forza di resistenza delle parole alle idee, secondo un’espressione che sarà di Mallarmé; la capacità straordinaria di rompere ogni distinzione tra il classico e l’inedito e non già per banale parifica bensì per tensione unitaria alla ricerca del "nuovo" che nel loro incontro può nascere; la prodigiosa orchestrazione di motivi conosciuti e di azzardi; e infine c’è pure il rischio che il ragazzo che visitò l’Inferno con occhi di vento, Arthur Rimbaud, ebbe il coraggio di notare nel suo "dio", ovvero la vita vissuta in un milieu troppo "artiste".
In Baudelaire, definitivamente, si fissa uno dei tratti del poeta autentico: d’esser voce di contraddizione rispetto all’epoca. Anche nel momento in cui esaurisce e compie le risorse formali del suo tempo, divenendo quel che chiamiamo un "classico", il poeta si pone di traverso rispetto al pensiero dominante. Allo stesso modo, W.H. Auden ricorda che più generale «ogni poeta è insieme esponente e critico della propria cultura».
Tale scandalo può mostrarsi in molti e diversi modi – e certamente oggi in modo diverso dalla metà dell’800. Leggendo i Fleurs certi "maledettismi" novecenteschi o replicati in altri ambiti – come la canzone – appaiono grotteschi e ingenui quasi da ispirare tenerezza invece che scandalo. Ma resta intatta e bruciante la verità: in un poeta autentico l’epoca trova una forza scandalosa. Montale, grande lettore dei Fleurs, mentre costata che nel nostro Ottocento manca una figura analoga di poeta centrale, assiale, imperioso nella sua forza quasi normativa (Leopardi e Foscolo, nota, lasciano scoperta buona parte del secolo) sembra rivendicare tra le righe una sua specie di "funzione Baudelaire". Come l’autore francese ebbe la forza di attraversare Hugo per portare la poesia in un’altra direzione, potremmo leggere Montale come uno che ha traversato D’Annunzio e ha operato una deviazione analoga.
Lo dichiara il famoso inizio della terza poesia che compose, «I limoni», con la sua figura dantesca e l’abiura del lessico aulico. Del resto, l’autore degli Ossi, di sé dice chiaramente di muoversi in un solco "Brownig-Baudelaire" che non è di poesia realistica, né simbolista, ma, precisa Montale, una specie di poesia metafisica.
E ora, da qualche tempo, la poesia italiana sta attraversando il grande ligure. Ma questa è un’altra faccenda, che ci porterebbe a rintracciare l’esistenza di una poesia contemporanea che non accetta di ridursi alle categorie costruite per opposizioni dalle letture novecentesche. Proprio a questa tornata, la voce di Baudelaire viene a porsi ancora accanto al lavoro dei poeti nuovi, o come guerriero che vediamo sull’altura, come sentinella sui tentativi che rifiutano la irrilevanza della poesia nella ricerca di una coscienza contemporanea veramente critica e accesa.
I migliori poeti italiani del ’900 – chi traducendo, chi leggendo con impegno – hanno toccato Baudelaire. Tra gli altri, si vedano le pagine laboriose e profonde che gli dedica Mario Luzi nella prefazione all’antologia su L’idea simbolista, dove il maggior poeta del secondo novecento italiano – presupponendo il lato germanico della riflessione romantica che genera il simbolismo – vede nell’autore dei Fleurs colui che ha introdotto una «drammatizzazione» nell’idea romantica tesa alla «ricostituzione dell’unità del mondo». Dipende da Baudelaire e dai suoi prosecutori, dice Luzi, se «fare poesia nel mondo moderno ha acquistato un significato insieme elementare e decisivo, al di qua del quale ogni altra accezione e pratica della poesia sembra oziosa».
Giorgio Caproni, dal canto suo, ingaggia con Baudelaire un suo personale e lungo corpo-a-corpo. E come è stato notato recentemente da Luca Pietromarchi introduttore della riproposta della sua traduzione dei Fleurs, quel corpo-a-corpo durato fin dagli anni ’60, ebbe non poca influenza nella nascita delle opere del Caproni estremo, cacciatore di frodo ai limiti dell’Inconnu.
Ma si tratta di casi splendidi e isolati. Troppe volte, infatti, scartando da Baudelaire, dalle sue messe in discussione, dalla sua indicazione circa il significato primordiale dell’immaginazione, dal suo freddo incendio dei luoghi comuni, la poesia contemporanea si raggomitola su un’illusione, sui propri ghirigori, evita di approfondire lo "scandalo" della propria esistenza rispetto ad ogni inerte esperienza del mondo e ad ogni comodo moralismo.
Lontana da Baudelaire, la poesia si dà per scontata e finisce per offrire cose scontate. Eppure non sono molti i cosiddetti poeti italiani contemporanei (gli "odiernissimi" li avrebbe chiamati Carducci) che abbiano di Baudelaire una esperienza non puramente letteraria, ovvero nulla. Sembra quasi che i Fleurs abbiano dovuto subire un esilio, e il peggiore degli esilii, che è quello nella presunzione del "già conosciuto".
L’etichetta di "maledetto" ha funzionato quasi perfettamente come sudario di censura. Ha posto in evidenza quel che era comodo vedere, quel che non era davvero scandaloso. E non troverete Baudelaire nei grandi canoni presupposti dai critici maggiori o dai lettori più influenti. Non lo trovate in Harold Bloom, non lo trovate in Italo Calvino, mentre abita dalle parti di Pavese e del suo novecentesco spleen. Non lo trovate nelle mappe che hanno presunto di leggere la poesia e la letteratura seguendo le coordinate della gnosi o dell’ideologia, o delle loro recenti rielaborazioni. Eppure, penetrando persino dalle griglie in cui hanno tentato di ridurla, la sua poesia ancora parla.
E questo libro «di una bellezza sinistra e fredda», fatto con «furore e pazienza» continua a dare i suoi lampi e bagliori. E a portare la sua verità. In altra occasione parlavo del poeta come colui che ha capito e patito il dualismo che segna in fronte l’epoca che ai suoi tempi iniziava e che in pieno viviamo. Ora quel dualismo tra cielo e terra, tra carne e spirito e tra bellezza e perdita pare ancora più accentuato e disperante per tanti. Ad essi Baudelaire è lucido compagno.
A DIECI ANNI DELLA PROMULGAZIONE, LA DOMINUS JESUS INTERROGA ANCORA - Intervista a don Mauro Gagliardi di Antonio Gaspari
ROMA, giovedì, 16 dicembre 2010 (ZENIT.org).- Il 6 agosto del 2000, in pieno Giubileo, la Congregazione per la Dottrina della Fede pubblicò la Dichiarazione Dominus Iesus, sulla unicità e universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa.
Sebbene il testo non facesse altro che ripetere la dottrina immutabile della Chiesa Cattolica in materia, senza proporre alcuna novità, la sua pubblicazione scatenò un’ampia serie di reazioni, in buona parte negative. Rispetto ai secoli passati era infatti nuovo il contesto ecclesiale e culturale in cui la Dichiarazione veniva a collocarsi.
Nel decennale della pubblicazione, l’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” (APRA) di Roma ha dedicato un congresso di due giorni all’approfondimento delle tematiche contenute nel documento vaticano.
Ora l’editrice Lindau ha pubblicato gli atti di quel congresso con il titolo “La dichiarazione Dominus Jesus a dieci anni dalla promulgazione”.
Il curatore don Mauro Gagliardi ha scritto nella presentazione del volume: “nonostante sia un documento breve pubblicato da una congregazione vaticana, è un testo tutt’altro che trascurabile o di secondo piano. Bisogna invece dire che esso è di capitale importanza. Forse tra alcuni decenni o tra un secolo, si potrà persino vedere che ha marcato un’inversione di tendenza”.
Don Mauro Gagliardi è professore ordinario dell’APRA, è anche professore invitato presso l’Università Europea di Roma. Nel 2008, Benedetto XVI lo ha nominato Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice e nel 2010 Consultore della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.
Per cercare di capire l’attualità e le implicazioni della Dominus Jesus nel dibattito contemporaneo, ZENIT lo ha intervistato:
Quali sono le ragioni della pubblicazione del volume, da lei curato, “La Dichiarazione Dominus Iesus a dieci anni dalla promulgazione”?
Don Mauro: Il volume raccoglie gli atti del Convegno tenuto nel mese di marzo scorso, organizzato dalla Facoltà di Teologia dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma, in occasione del decennale di pubblicazione della Dominus Iesus, per approfondire diversi aspetti del documento e anche per rilevare, più in generale, la sua importanza all’interno del percorso tracciato dai documenti magisteriali degli ultimi decenni.
Che cosa dice all’umanità di oggi la Dichiarazione Dominus Iesus?
Don Mauro: Mi pare che il messaggio di oggi sia quello di sempre: Gesù Cristo è l’unico Salvatore del mondo e la Chiesa svolge, per volontà del suo Fondatore, una funzione salvifica universale. In concreto, questo significa che non c’è salvezza senza Gesù di Nazaret e senza una misteriosa mediazione ecclesiale della grazia. Queste dottrine appartengono al grado minimo della fede. Negarle o edulcorarle significa semplicemente porsi al di fuori della comprensione di fede cattolica. Quando la Congregazione per la Dottrina della Fede pubblicò, dieci anni fa, il documento Dominus Iesus, scelse di dargli la forma o genere letterario di “Dichiarazione”. Questo implica, come chiarì l’allora Segretario della Congregazione mons. Tarcisio Bertone, che il contenuto del documento non consiste di dottrine nuove. La Dominus Iesus ha voluto solo riaffermare in modo sintetico la fede cattolica di sempre riguardo al ruolo salvifico di Cristo e della Chiesa. Per i credenti, la Dichiarazione rappresenta un richiamo ai fondamenti stessi della loro fede. Per gli altri uomini, Dominus Iesus espone in modo sintetico e chiaro ciò che noi crediamo a riguardo del carattere cristologico ed ecclesiale della salvezza.
Perché è stata al centro di critiche e polemiche? Quali sono i punti meno accettati dal mondo moderno?
Don Mauro: La pubblicazione della Dichiarazione è stata in effetti accolta in modi diversi, sia dentro che fuori la Chiesa Cattolica. Lascio qui da parte il tema delle reazioni in ambito ortodosso e protestante, oggetto di uno specifico contributo all’interno del volume. Per quanto riguarda la Chiesa Cattolica, molti pastori e fedeli sono stati entusiasti della pubblicazione della Dichiarazione. Credo, anzi, che la “maggioranza silenziosa” abbia accolto Dominus Iesus come un bel dono del Signore alla sua Chiesa, proprio nel cuore del Grande Giubileo del 2000, il quale aveva per motto: «Gesù Cristo ieri, oggi e sempre» (Ebrei 13,8). Nella «Presentazione» al volume, ho voluto sottolineare il contesto immediato di questo versetto neotestamentario, lì dove la centralità di Cristo in ogni tempo – ieri, oggi e sempre – si fonda sulla retta dottrina della fede. L’autore della Lettera agli Ebrei, infatti, prosegue subito dopo: «Non lasciatevi sviare da dottrine varie ed estranee».
Cristo è sempre attuale, sempre vivo e giovane potremmo dire, solo a patto che sia davvero Lui e non una sua caricatura. Purtroppo dobbiamo dire che in epoca moderna sono stati delineati molti ritratti insufficienti di Gesù di Nazaret, che non danno ragione del suo mistero di Verbo incarnato e quindi sottraggono la base per l’affermazione del valore universale della sua mediazione salvifica. Presentando la Dichiarazione, l’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il Cardinale Joseph Ratzinger, annotava che in fondo il motivo per cui la modernità non è spesso riuscita a cogliere completamente l’unicità del mistero di Cristo è «il sostanziale rigetto dell’identificazione della singola figura storica, Gesù di Nazaret, con la realtà stessa di Dio, del Dio vivente. Ciò che è Assoluto, oppure Colui che è l’Assoluto, non può darsi mai nella storia in una rivelazione piena e definitiva. Nella storia si hanno soltanto dei modelli, delle figure ideali che ci rinviano al Totalmente Altro, il quale però non si può afferrare come tale nella storia» (Conferenza Stampa del 5 settembre 2000). Allora possiamo dire che al pensiero moderno è sfuggita la legge dell’incarnazione, ossia della sintesi tra “spirito” e materia, che si realizza perfettamente nel cristianesimo. Molte forme di pensiero moderno si sono contraddistinte per essere o spiritualismi o materialismi: comunque insufficienti per accostarsi al mistero di Cristo e della Chiesa, che mantiene sempre il carattere di sintesi dell’umano e del divino.
È forse la Dominus Iesus una Dichiarazione che rivela la crisi di obbedienza e fedeltà al Magistero?
Don Mauro: Nel clima di generale contestazione generatosi attorno al Sessantotto, certamente vi sono stati anche numerosi episodi spiacevoli e dolorosi di contestazione del Magistero dei legittimi pastori della Chiesa. In alcuni casi questo si è verificato anche in seguito alla pubblicazione di Dominus Iesus. In questo caso la contestazione colpisce maggiormente, proprio perché, come accennavo, qui non si tratta di dottrine che riguardano un ambito particolare della fede e della morale, ma di dottrine assolutamente centrali, con le quali o senza le quali sta o cade l’intero cristianesimo. Ci si può stupire dinanzi al fatto che alcuni reagiscano negativamente nel momento in cui il Magistero della Chiesa ricorda che Cristo è l’unico Salvatore del mondo e che la Chiesa è il sacramento universale della salvezza. Perciò, le reazioni scomposte alla Dichiarazione, almeno in alcuni casi più eclatanti, forse indicano anche quacos’altro e non semplicemente un atteggiamento di disobbedienza al Magistero della Chiesa. Probabilmente esse sono indice di una perdita della fede in quanto tale, quanto meno sotto il profilo dottrinale di essa.
Quali e quanti sono i benefici che questa Dichiarazione ha apportato al dibattito interno ed esterno della Chiesa Cattolica?
Don Mauro: Non sono in grado di enumerare in modo specifico i benefici dovuti a Dominus Iesus. Sono però convinto che siano numerosi. Sempre nella «Presentazione» al volume, ho espresso questa mia convinzione annotando che «Dominus Iesus, nonostante sia un documento breve pubblicato da una congregazione vaticana, è un testo tutt’altro che trascurabile o di secondo piano. Bisogna invece dire che esso è di capitale importanza. Forse tra alcuni decenni o tra un secolo, si potrà persino vedere che ha marcato un’inversione di tendenza». Penso che sia ancora presto per giudicare in modo definitivo l’importanza della Dichiarazione. Voglio però almeno citare uno dei benefici che essa ha apportato: quello della chiarezza. Il Concilio Vaticano II e il successivo Magistero della Chiesa hanno introdotto nella vita della Chiesa la pratica del dialogo a livello istituzionale, a molteplici livelli e con diversi interlocutori. Dominus Iesus rimane totalmente fedele al Concilio e al Magistero postconciliare quando ci ricorda che presupposto necessario perché il dialogo sia costruttivo è l’onestà e la chiarezza, in modo particolare in ambito dottrinale. Dialogare non può significare ingannare il proprio interlocutore e se stessi a riguardo delle proprie convinzioni di fede. Né esso può richiedere come sua componente necessaria la «diminuzione della verità». Dominus Iesus è un grande invito a seguire l’indicazione di san Paolo: vivere l’amore nella verità. Anche qui conviene citare il brano paolino nel suo insieme: «Così non saremo più fanciulli in balìa delle onde, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, ingannati dagli uomini con quella astuzia che trascina all’errore. Al contrario, agendo secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a lui, che è il Capo, Cristo. Da lui tutto il corpo, ben compaginato e connesso […] cresce in modo da edificare se stesso nella carità» (Efesini, 4,14-16).