lunedì 13 dicembre 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    OMELIA DI BENEDETTO XVI NELLA VISITA A UNA PARROCCHIA DI ROMA - San Massimiliano Kolbe a Torre Angela
2)    La "silenziosa luce" che cambia il mondo di di Andrea Tornielli 12-12-2010 da http://www.labussolaquotidiana.it
3)    La realtà supera la mistificazione di Andrea Tornielli - ANDREA TORNIELLI Giornalista e scrittore. Vaticanista de Il Giornale e autore del blog Sacri Palazzi - © Copyright Formiche anno VII - numero 54 - dicembre 2010 – dal sito http://paparatzinger4-blograffaella.blogspot.com/
4)    EMERGENZA UMANITARIA - Profughi eritrei, tragedia nel deserto - Uccisi due diaconi tra i sequestrati dal sito http://www.repubblica.it
5)    Crepaldi: «I politici cattolici pensino all'unità sui principi non negoziabili» di Riccardo Cascioli 13-12-2010 da http://www.labussolaquotidiana.it
6)    Il culto del preservativo nella Spagna dei socialisti di Marco Respinti 13-12-2010 da http://www.labussolaquotidiana.it
7)    EDITORIALE - Santa Lucia e Dante Pigi Colognesi - lunedì 13 dicembre 2010 – il sussidiario.net
8)    CRONACA - IL CASO/ Caro Augias, perché vuoi usare la cicuta per curare la solitudine? Carlo Bellieni - lunedì 13 dicembre 2010 – il sussidiario.net
9)    CULTURA - LETTURE/ Nella Terra di Dio solo dalla carità può venire la pace Monica Mondo - sabato 11 dicembre 2010 – il sussidiario.net
10)                      Avvenire.it, 13 dicembre 2010 - L'ODISSEA INFINITA - I predoni non si fermano: uccisi altri profughi eritrei di Ilaria Sesana

OMELIA DI BENEDETTO XVI NELLA VISITA A UNA PARROCCHIA DI ROMA - San Massimiliano Kolbe a Torre Angela

CITTA' DEL VATICANO, domenica, 12 dicembre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell'omelia che Papa Benedetto XVI ha pronunciato questa domenica mattina recandosi in visita pastorale alla parrocchia di San Massimiliano Kolbe a via Prenestina (Torre Angela), nel settore est della Diocesi di Roma.
* * *


Cari fratelli e sorelle della Parrocchia di San Massimiliano Kolbe! Vivete con impegno il cammino personale e comunitario nel seguire il Signore. L’Avvento è un forte invito per tutti a lasciare entrare sempre di più Dio nella nostra vita, nelle nostre case, nei nostri quartieri, nelle nostre comunità, per avere una luce in mezzo alle tante ombre, alle tante fatiche di ogni giorno. Cari amici! Sono molto contento di essere in mezzo a voi, oggi, per celebrare il Giorno del Signore, la terza domenica dell’Avvento, domenica della gioia. Saluto cordialmente il Cardinale Vicario, il Vescovo Ausiliare del Settore, il vostro Parroco, che ringrazio per le parole che mi ha rivolto a nome di tutti voi, e il Vicario parrocchiale. Saluto quanti sono attivi nell’ambito della Parrocchia: i catechisti, i membri dei vari gruppi, come pure i numerosi aderenti al Cammino Neocatecumenale. Apprezzo molto la scelta di dare spazio all’adorazione eucaristica, e vi ringrazio delle preghiere che mi riservate davanti al Santissimo Sacramento. Vorrei estendere il mio pensiero a tutti gli abitanti del quartiere, specialmente agli anziani, ai malati, alle persone sole e in difficoltà. Tutti e ciascuno ricordo in questa Messa.
Ammiro insieme con voi questa nuova chiesa e gli edifici parrocchiali e con la mia presenza desidero incoraggiarvi a realizzare sempre meglio quella Chiesa di pietre vive che siete voi stessi. Conosco le tante e significative opere di evangelizzazione che state attuando. Esorto tutti i fedeli a dare il proprio contributo per l’edificazione della comunità, in particolare nel campo della catechesi, della liturgia e della carità – pilastri della vita cristiana – in comunione con tutta la Diocesi di Roma. Nessuna comunità può vivere come una cellula isolata dal contesto diocesano; deve essere invece espressione viva della bellezza della Chiesa che, sotto la guida del Vescovo – e, nella Parrocchia, sotto la guida del Parroco che ne fa le veci –, cammina in comunione verso il Regno di Dio. Rivolgo uno speciale pensiero alle famiglie, accompagnandolo con l’augurio che esse possano pienamente realizzare la propria vocazione all’amore con generosità e perseveranza. Anche quando dovessero presentarsi difficoltà nella vita coniugale e nel rapporto con i figli, gli sposi non cessino mai di rimanere fedeli a quel fondamentale "sì" che hanno pronunciato davanti a Dio e vicendevolmente nel giorno del matrimonio, ricordando che la fedeltà alla propria vocazione esige coraggio, generosità e sacrificio.
La vostra comunità comprende al proprio interno molte famiglie venute dall’Italia centrale e meridionale in cerca di lavoro e di migliori condizioni di vita. Col passare del tempo, la comunità è cresciuta e si è in parte trasformata, con l’arrivo di numerose persone dai Paesi dell’Est europeo e da altri Paesi. Proprio a partire da questa situazione concreta della Parrocchia, sforzatevi di crescere sempre più nella comunione con tutti: è importante creare occasioni di dialogo e favorire la reciproca comprensione tra persone provenienti da culture, modelli di vita e condizioni sociali differenti. Ma occorre soprattutto cercare di coinvolgerle nella vita cristiana, mediante una pastorale attenta ai reali bisogni di ciascuno. Qui, come in ogni Parrocchia, occorre partire dai "vicini" per giungere fino ai "lontani", per portare una presenza evangelica negli ambienti di vita e di lavoro. Tutti devono poter trovare in Parrocchia cammini adeguati di formazione e fare esperienza di quella dimensione comunitaria che è una caratteristica fondamentale della vita cristiana. In tal modo saranno incoraggiati a riscoprire la bellezza di seguire Cristo e di fare parte della sua Chiesa.
Sappiate, dunque, fare comunità con tutti, uniti nell’ascolto della Parola di Dio e nella celebrazione dei Sacramenti, in particolare dell’Eucaristia. A questo proposito, la verifica pastorale diocesana in atto, sul tema "Eucaristia domenicale e testimonianza della carità", è un’occasione propizia per approfondire e vivere meglio queste due componenti fondamentali della vita e della missione della Chiesa e di ogni singolo credente, cioè l’Eucaristia della domenica e la pratica della carità. Riuniti attorno all’Eucaristia, sentiamo più facilmente come la missione di ogni comunità cristiana sia quella di portare il messaggio dell’amore di Dio a tutti gli uomini. Ecco perché è importante che l’Eucaristia sia sempre il cuore della vita dei fedeli. Vorrei anche dirigere una speciale parola di affetto e di amicizia a voi, cari ragazzi e giovani che mi ascoltate, e ai vostri coetanei che vivono in questa Parrocchia. La Chiesa si aspetta molto da voi, dal vostro entusiasmo, dalla vostra capacità di guardare avanti e dal vostro desiderio di radicalità nelle scelte di vita. Sentitevi veri protagonisti nella Parrocchia, mettendo le vostre fresche energie e tutta la vostra vita a servizio di Dio e dei fratelli.
Cari fratelli e sorelle, accanto all’invito alla gioia, la liturgia odierna – con le parole di san Giacomo che abbiamo sentito - ci rivolge anche quello ad essere costanti e pazienti nell’attesa del Signore che viene, e ad esserlo insieme, come comunità, evitando lamentele e giudizi (cfr Gc 5,7-10).
Abbiamo sentito nel Vangelo la domanda del Battista che si trova in carcere; il Battista, che aveva annunciato la venuta del Giudice che cambia il mondo, e adesso sente che il mondo rimane lo stesso. Fa chiedere, quindi, a Gesù: "Sei tu quello che deve venire? O dobbiamo aspettare un altro? Sei tu o dobbiamo aspettare un altro?". Negli ultimi due, tre secoli molti hanno chiesto: "Ma realmente sei tu? O il mondo deve essere cambiato in modo più radicale? Tu non lo fai?". E sono venuti tanti profeti, ideologi e dittatori, che hanno detto: "Non è lui! Non ha cambiato il mondo! Siamo noi!". Ed hanno creato i loro imperi, le loro dittature, il loro totalitarismo che avrebbe cambiato il mondo. E lo ha cambiato, ma in modo distruttivo. Oggi sappiamo che di queste grandi promesse non è rimasto che un grande vuoto e grande distruzione. Non erano loro.
E così dobbiamo di nuovo vedere Cristo e chiedere a Cristo: "Sei tu?". Il Signore, nel modo silenzioso che gli è proprio, risponde: "Vedete cosa ho fatto io. Non ho fatto una rivoluzione cruenta, non ho cambiato con forza il mondo, ma ho acceso tante luci che formano, nel frattempo, una grande strada di luce nei millenni".
Cominciamo qui, nella nostra Parrocchia: San Massimiliano Kolbe, che si offre di morire di fame per salvare un padre di famiglia. Che grande luce è divenuto lui! Quanta luce è venuta da questa figura ed ha incoraggiato altri a donarsi, ad essere vicini ai sofferenti, agli oppressi! Pensiamo al padre che era per i lebbrosi Damiano de Veuster, il quale è vissuto ed è morto con e per i lebbrosi, e così ha portato luce in questa comunità. Pensiamo a Madre Teresa, che ha dato tanta luce a persone, che, dopo una vita senza luce, sono morte con un sorriso, perché erano toccate dalla luce dell’amore di Dio.
E così potremmo continuare e vedremmo, come il Signore ha detto nella risposta a Giovanni, che non è la violenta rivoluzione del mondo, non sono le grandi promesse che cambiano il mondo, ma è la silenziosa luce della verità, della bontà di Dio che è il segno della Sua presenza e ci dà la certezza che siamo amati fino in fondo e che non siamo dimenticati, non siamo un prodotto del caso, ma di una volontà di amore.
Così possiamo vivere, possiamo sentire la vicinanza di Dio. "Dio è vicino", dice la Prima Lettura di oggi, è vicino, ma noi siamo spesso lontani. Avviciniamoci, andiamo alla presenza della Sua luce, preghiamo il Signore e nel contatto della preghiera diventiamo noi stessi luce per gli altri.
E questo è proprio anche il senso della Chiesa parrocchiale: entrare qui, entrare in colloquio, in contatto con Gesù, con il Figlio di Dio, così che noi stessi diventiamo una delle più piccole luci che Lui ha acceso e portiamo luce nel mondo che sente di essere redento.
Il nostro spirito deve aprirsi a questo invito e così camminiamo con gioia incontro al Natale, imitando la Vergine Maria, che ha atteso nella preghiera, con intima e gioiosa trepidazione, la nascita del Redentore. Amen!
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]


La "silenziosa luce" che cambia il mondo di di Andrea Tornielli 12-12-2010 da http://www.labussolaquotidiana.it

«Non è la violenza la vera rivoluzione che cambia il mondo, ma la silenziosa luce della verità», ha detto ieri mattina Benedetto XVI, che da vescovo di Roma ha visitato la parrocchia della sua diocesi dedicata a San Massimiliano Kolbe. Nell’omelia, fatta a braccio, il Papa ha preso spunto dal Vangelo che narra di Giovanni Battista, il quale dal carcere dov’era rinchiuso, avendo sentito parlare di ciò che Gesù stava operando, manda a dirgli per mezzo dei suoi discepoli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?».

«Negli ultimi due, tre secoli – ha detto Papa Ratzinger – sono venuti tanti profeti, ideologi dittatori che hanno detto “non è Lui, siamo noi che abbiamo cambiato il mondo”. E hanno fatto le loro dittature. Ma di tutte queste loro promesse è rimasto solo un grande vuoto e distruzione. Oggi sappiamo che “non erano loro”». Benedetto XVI ha aggiunto: «Cristo non ha fatto rivoluzioni cruente. Non è la violenza la vera rivoluzione che cambia il mondo, ma la silenziosa luce della verità, è il segno della presenza di Cristo che ci dà certezza che siamo amati e non siamo il prodotto del caso ma di una volontà di amore».

Non la violenza, il sopruso, la volontà di dominio che calpesta; non le rivoluzioni cruente… Tutti coloro che si sono presentati come padroni del mondo, sono finiti miseramente dopo aver seminato distruzione. Ciò che cambia il mondo è, invece, la «silenziosa luce della verità». Quella luce entrata nella storia nel nascondimento, in un angolo dell’impero romano di duemila anni fa: un bambino indifeso, che fin dall’inizio ha rischiato di essere schiacciato dal potente re Erode e dalla sua strage degli innocenti. Gesù non ha fatto rivoluzioni cruente, è stato messo in croce, mettendosi dalla parte dei vinti, di chi subisce violenza e sopruso, di chi è schiacciato.

Quella stessa luce che ha mostrato il frate francescano a cui è dedicata la parrocchia, padre Massimiliano Kolbe, con la sua straordinaria testimonianza d’amore, quando nel lager nazista, in uno dei momenti più bui della storia, scelse di offrire la sua vita salvando quella di un padre di famiglia.


La realtà supera la mistificazione di Andrea Tornielli - ANDREA TORNIELLI Giornalista e scrittore. Vaticanista de Il Giornale e autore del blog Sacri Palazzi - © Copyright Formiche anno VII - numero 54 - dicembre 2010 – dal sito http://paparatzinger4-blograffaella.blogspot.com/

Uno degli aspetti che più colpisce in Benedetto XVI è l’umiltà e la capacità di pronunciare parole che arrivano dritte al cuore degli uomini e delle donne che l’ascoltano. Anche se si dice (e talvolta si esagera, caricando questa affermazione di un significato eccessivo) che Giovanni Paolo II parlasse più con i gesti, mentre il suo successore è il papa della “parola”, la realtà, a ben vedere, appare diversa.
Infatti, non è soltanto assodato che papa Wojtyla sia stato un papa della “parola”, e della parola forte, scomoda, proclamata con tutta la forza di cui poteva disporre.
È altrettanto vero che Benedetto XVI sia un pontefice che prima ancora di parlare, colpisce per la sua umiltà e mitezza.
Lo si è potuto riscontrare in occasione di viaggi internazionali presentati come difficilissimi, densi di insidie. Viaggi – come quello in Francia o il più recente in Inghilterra – durante i quali, invece, proprio questa attitudine del papa ha “sciolto” paure e tensioni della vigilia. Purtroppo su Joseph Ratzinger, prima ancora che diventasse Benedetto XVI, grava un pregiudizio negativo, in termini tecnico-comunicativi un “frame”, che a partire dalla metà degli anni Ottanta lo ha dipinto come “panzerkardinal”, retrogrado, nostalgico del passato.
Si è finito per contrapporlo a Giovanni Paolo II, del quale è invece stato fedelissimo e apprezzato collaboratore, al punto che papa Wojtyla fino all’ultimo si è rifiutato di accogliere le dimissioni di Ratzinger, ripetutamente presentate dal cardinale che più a lungo di qualsiasi altro capo dicastero della Curia romana ha affiancato il pontefice polacco.
Questo pregiudizio negativo, costruito con campagne mediatiche dal dissenso ecclesiale, pesa purtroppo ancora oggi e impedisce, insieme ad altri elementi e fattori (tra i quali, non va dimenticato, una certa inadeguatezza, in talune occasioni, della macchina curiale) che l’autentico messaggio del papa venga trasmesso all’opinione pubblica. «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva».
Queste parole, che Benedetto XVI ha scritto nelle righe iniziali della sua prima enciclica, Deus caritas est, definiscono meglio di altre il cuore del messaggio di papa Ratzinger, il filo rosso del suo magistero.
Joseph Ratzinger, ha scelto come chiave del suo pontificato – le più ricorrenti – parole quali “bellezza”, “amore”, “gioia”. È significativo che fin nel suo primo messaggio Urbi et orbi, l’omelia tenuta nella cappella Sistina la mattina del giorno dopo l’elezione, il nuovo vescovo di Roma abbia detto: «Nell’intraprendere il suo ministero, il nuovo papa sa che il suo compito è di far risplendere davanti agli uomini e alle donne di oggi la luce di Cristo: non la propria luce, ma quella di Cristo». Queste parole preannunciavano lo stile del pontificato: papa Ratzinger non voleva essere protagonista, ma voleva fare emergere il vero protagonista.
Un’indicazione importante, a questo riguardo, è avvenuta fin dai primi mesi del suo servizio pontificale. A partire dalla Giornata mondiale della gioventù di Colonia (2005), e poi via via in molte altre occasioni, Benedetto XVI ha voluto che il culmine di questi grandi eventi fosse sempre l’adorazione eucaristica, quando il centro della scena viene occupato non dal vicario, ma dal vero protagonista. Su questa stessa linea va inquadrato il magistero di Ratzinger sulla liturgia. Ben cosciente che i cambiamenti continui e calati dall’alto poco si addicono alla liturgia e soprattutto vengono difficilmente accolti e assimilati, Benedetto XVI ha scelto la via dell’esempio. Le messe papali si sono poco a poco trasformate: la croce ha ritrovato la
sua centralità sull’altare, di fronte al celebrante, è stato dato più spazio al canto Gregoriano.
Nel 2007 il papa ha ridato piena cittadinanza al messale antico, in vigore fino al 1962. La volontà del papa, con questa scelta, non è affatto quella di tornare al passato o di cancellare le riforme conciliari. È invece quella di promuovere una riconciliazione e un arricchimento reciproco, per far sì che le celebrazioni del rito romano ordinario – che era, è e rimane quello scaturito dall’ultima riforma liturgica – possano riscoprire la bellezza e la sacralità di quelle antiche; e quelle nel rito romano straordinario – che ha cittadinanza accanto all’altro – possano scoprire la ricchezza del patrimonio di sacre Scritture che la riforma conciliare ha introdotto.
Il papa si sta dunque spendendo per favorire la guarigione di antiche ferite e la riconciliazione: così va letta la sua decisione di revocare la scomunica ai vescovi lefebvriani, la Costituzione apostolica Anglicanorum coetibus, indirizzata alle comunità anglicane insofferenti che intendono tornare alla piena comunione con Roma e che potranno conservare le loro tradizioni. Decisiva, nella visione di Ratzinger, è l’immagine di una Chiesa che è “convocata” e che risponde a un mistero che non le appartiene.
«La Chiesa – ha detto il papa – non è la Chiesa nostra, ma la sua Chiesa, la Chiesa di Dio. Il servo deve rendere conto di come ha gestito il bene che gli è stato affidato. Non leghiamo gli uomini a noi, non cerchiamo potere, prestigio, stima per noi stessi». La Chiesa, inoltre, non consiste nelle sue strutture organizzative, non vive di convegni o commissioni. Come ha chiarito Ratzinger a Lisbona l’11 maggio 2010: «Spesso ci preoccupiamo affannosamente delle conseguenze sociali, culturali e politiche della fede, dando per scontato che questa fede ci sia, ciò che
purtroppo è sempre meno realista.
Si è messa una fiducia forse eccessiva nelle strutture e nei programmi ecclesiali, nella distribuzione di poteri e di funzioni; ma che cosa accadrà se il sale diventa insipido?». Un altro importante filo rosso che attraversa il magistero di Benedetto XVI è quello dedicato al rapporto fede-ragione, al centro della lectio di Regensburg. Il nucleo di quel messaggio, che sarà ripreso in vari altri interventi e documenti, è quello della sintesi tra fede e ragione come terreno per un dialogo autentico del mondo musulmano con il cristianesimo.
Benedetto XVI ha spiegato che il dialogo non può essere innanzitutto una questione politica o di diplomazia, ma è la ricerca dei fondamenti razionali comuni a tutti gli uomini.
Proprio parlando della ragione, il papa ha mostrato come la nostra epoca – a partire dall’Illuminismo, che pure ha i suoi meriti – sia caratterizzata da un concetto ristretto e limitato di ragione, una ragione che si “autolimita”, ritenendo di non poter dire nulla su Dio, sulle domande ultime che agitano il cuore dell’uomo, su ciò che la supera. Tutto questo, il senso religioso, l’epoca moderna non lo censura, ma lo relega nel limbo della soggettività, affermando che su questi temi non vi può essere una conoscenza ragionevole e oggettiva. Così la fede finisce per essere considerata qualcosa di irrazionale e di soggettivo.
Su questa riflessione s’innesta anche il richiamo, più volte fatto da Benedetto XVI, alla “morale naturale”, cioè a quella capacità che l’uomo ha di riconoscere il bene e il male. È un richiamo che vuole favorire un dialogo e un confronto vero tra credenti e non credenti, non soltanto sui temi di fede, ma anche su quelli legati alle emergenze etiche, per ricostruire una
“grammatica” comune. Non vanno poi dimenticate altre importanti prospettive del pontificato, meno evidenziate perché contrastanti con il pregiudizio sul papa conservatore.
Nell’enciclica sociale Caritas in veritate (2009), papa Ratzinger ha inserito nelle emergenze sociali anche la questione antropologica e le emergenze etiche, superando così – un altro passo di riconciliazione – la consolidata divisione che vorrebbe i cristiani “progressisti” dediti ai poveri e alle opere sociali, mentre quelli “conservatori”, impegnati nella difesa della vita e della famiglia.
No, difesa della vita e della famiglia sono anch’esse questioni sociali. Va ricordata la vicinanza che il papa ha saputo manifestare ai poveri, agli ultimi, in questi primi cinque anni di pontificato.
Ma si deve pure ricordare che nel suo magistero si ritrovano parole forti contro il capitalismo selvaggio e la globalizzazione che finisce per impoverire chi è già povero: l’invito alla carità, alla fraternità, alla condivisione dei beni, a uno stile di vita più sobrio e più attento alle esigenze degli ultimi sono centrali nel suo insegnamento. Ratzinger ha anche spesso riflettuto sulla necessità di una più attenta gestione delle risorse del creato. Il richiamo all’ecologia umana, alla salvaguardia della natura che Dio ha affidato all’uomo, è infatti un’altra delle costanti di questo primo lustro di pontificato. Anche se a livello mediatico, l’esistenza del pregiudizio negativo, finisce per far passare soltanto quanto è assimilabile al cliché del papa conservatore.


EMERGENZA UMANITARIA - Profughi eritrei, tragedia nel deserto - Uccisi due diaconi tra i sequestrati dal sito http://www.repubblica.it

Salgono così a otto le vittime di questa interminabile tragedia. Ci sarebbero molte altre persone in fin di vita, comprese donne incinta e bambini. Le percosse sono quotidiane. Da qualche giorno viene negata loro l'acqua e molti sono costretti a bere la propria urina.  Altre persone sono sparite dal gruppo e forse portate via per essere sottoposte all'espianto di organi, per pagare il riscatto.
di CARLO CIAVONI
ROMA -  Sono stati uccisi due diaconi ortodossi che erano tra i 250 eritrei, tenuti in catena dai trafficanti di esseri umani nel deserto del Sinai egiziano dal 20 novembre scorso. Diventano così otto le vittime di questa lunga tragedia che si sta consumando in territorio egiziano a pochi chilometri dal confine israeliano. Altri sei sono stati eliminati dai trafficanti nelle scorse settimane. I carcerieri hanno ammazzato i due religiosi di fronte a tutti gli altri, accusati di aver lanciato l'allarme. E' quanto riferisce padre Moses Zerai, direttore dell'agenzia eritrea Habeshia, che tiene clandestinamente i contatti con i profughi attraverso i cellulari che gli stessi sequestratori mettono a disposizione delle loro vittime affinché chiamino chiunque, parenti oppure organizzazioni umanitarie, sia in grado di mandare loro il denaro per pagare il riscatto: 8000 dollari.

Secondo quanto raccolto dal sacerdote, ci sarebbero anche molte altre persone in fin di vita tra quelle sequestrate, comprese donne incinta e bambini. Le loro condizioni sono gravissime per le percosse subite  oggi pomeriggio. Oltre tutto, da qualche giorno viene negata loro l'acqua, al punto che molti sono costretti a bere la propria urina. Si ha notizia, infine, del trasferimento di altre persone, sparite dal gruppo e molto probabilmente portate da qualche parte per essere sottoposte all'espianto di organi, per pagare il riscatto.
La situazione è dunque decisamente e precipitata. "Non si possono più aspettare i tempi delle diplomazie - ha detto padre Zerai - perché la gente sta morendo anche a causa della fame e della sete. Di fronte a questa autentica barbarie, chiediamo che la comunità internazionale condanni tutto ciò, e richiami il governo egiziano ad intervenire con decisione per sottrarre queste vite umane dalle mani dei trafficanti e il loro complici in quella regione del Sinai".

Proprio ieri, una lettera di numerosi parlamentari italiani è stata inciata alla Comunità Europea affinché prendesse atto delle responsabilità del governo egiziano, che sicuramente esistono, il quale proprio ieri ha però replicato - in verità con qualche ragione - che le responsabilità originarie di questa drammatica situazione risiedono nei governi che si affacciano sul Mediterraneo e che hanno adottato politiche estremamente e indiscriminatamente restrittive, impedendo ai richiedenti asilo politico anche solo di arrivare da qualche parte per dimostrare di aver diritto a quello status.
(11 dicembre 2010)


Crepaldi: «I politici cattolici pensino all'unità sui principi non negoziabili» di Riccardo Cascioli 13-12-2010 da http://www.labussolaquotidiana.it

«Non è il 25 luglio anche se l’appuntamento di domani è uno snodo politicamente importante», ma il dato preoccupante è che «ci troviamo ancora una volta davanti ad una possibile spaccatura dei cattolici in politica. Per questo mi auguro che i deputati e i senatori cattolici si facciano orientare dai principi non negoziabili». A vedere così il voto in Parlamento sulla mozione di sfiducia contro il governo Berlusconi è monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste e presidente dell’Osservatorio internazionale Cardinale Van Thuan per la Dottrina sociale. Crepaldi, che fino all’ottobre 2009 è stato segretario del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace e in questa posizione ha curato la redazione del Compendio di Dottrina Sociale della Chiesa, ha anche scritto recentemente il libro Il cattolico in politica – Breve manuale per la ripresa (editore Cantagalli). Per questo è l’interlocutore ideale per cercare di fare chiarezza sul momento politico attuale e il compito dei cattolici.

Monsignor Crepaldi, nella grande confusione politica attuale, quali criteri devono guidare i cattolici nel giudicare la situazione?

Per i cattolici la politica non è mai solo politica. Essi vedono nel gioco politico, spesso così confuso e dalla vista corta, la presenza di significati assoluti. Nella politica si giocano anche valori eterni. Per questo essa è una cosa tremendamente seria, nonostante i toni da avanspettacolo che talvolta assume. Essa ha a che fare anche con la salvezza, perché l’organizzazione di questo mondo non è indipendente dalla vocazione integrale dell’uomo.
Credo che il criterio primario sia, come ci ripete Benedetto XVI, di aprire nel mondo un posto per Dio o, come disse Giovanni Paolo II il 22 ottobre 1978, di aprire le porte a Cristo, aprire «i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo». Il bene vero dell’uomo, anche di ordine naturale, non può che venire da lì. Da un punto di vista strettamente politico questo comporta difendere e promuovere politicamente i cosiddetti “principi non negoziabili”. Il loro senso è triplice. Prima di tutto essi costituiscono in se stessi una difesa della trascendente dignità della persona; secondariamente essi indicano un vasto programma politico trasversale ai vari problemi sociali; in terzo luogo essi rimandano la politica alla sua fondazione trascendente. Credo che nessun altro criterio, seppure legittimo, dovrebbe essere anteposto a questo.


Nelle ultime settimane più volte è stato sollevato il problema morale, riferito ai comportamenti di questo o quel politico. Ma dal punto di vista della Dottrina sociale, cosa vuol dire un atteggiamento morale in politica?

Il problema del comportamento morale si pone a due livelli. Prima di tutto c’è il livello strategico della prospettiva culturale in cui l’uomo politico si colloca, del programma e della  storia del suo partito. Il programma del partito prevede la negazione dei principi non negoziabili? E la cultura di riferimento? E la sua storia?
Poi c’è il livello dei comportamenti personali di “morale privata”, come potremmo anche dire. Naturalmente, l’ideale sarebbe che il comportamento fosse moralmente accettabile e coerente sia nel primo che nel secondo senso. Nel caso tale coerenza non ci fosse, va tenuto presente che rimane preferibile che ci sia la moralità nel primo senso. Tra un politico che fa pessime leggi, per esempio contrarie  alla tutela della famiglia e della vita, ma che è sul piano del comportamento individuale integro ed un uomo politico che non lo sia ma che faccia buone leggi rimane preferibile il secondo.

Vuol dire che l’immoralità privata non ha conseguenze pubbliche?
I comportamenti negativi di “morale privata” non devono mai essere proposti come esempi da seguire. Ma bisogna sempre guardarsi dal “moralismo”, atteggiamento che può avere molte varianti: stracciarsi le vesti per un comportamento immorale dell’avversario politico sul piano privato dopo aver seminato per anni una cultura del relativismo morale; approfittare della propria posizione pubblica per esaltare pubblicamente i propri comportamenti immorali; esigere dall’avversario, con rigore inquisitorio, una coerenza piena tra morale privata e morale pubblica, dopo aver teorizzato e promosso il divorzio, l’aborto o le nuove “forme” di famiglia che senz’altro non sono chiari esempi di morale pubblica; restringere il concetto di morale pubblica solo ad alcuni ambiti, come per esempio la corruzione, sottraendone altri, come per esempio la morale familiare o la violenza sull’embrione. Spesso, oggi, a lanciare giudizi morali sono personaggi politici che vorrebbero distribuire la pillola abortiva alle minorenni, liberalizzare l’uso della droga o parificare le coppie omosessuali alla famiglia.  


Riguardo alla presenza cattolica, a un estremo si cerca di espellere il fatto religioso dalla politica, all’altro si ha a volte l’impressione che il fatto religioso sia ridotto all’intervento dei vescovi su questo o quel tema. Qual è invece il corretto rapporto tra fede e politica?

Teniamo innanzitutto presente che è dovere dei vescovi intervenire anche sulle questioni politiche, quando queste abbiano una ripercussione sul bene delle anime, a protezione del creato, della trascendente dignità della persona e dei diritti della religione cristiana. L’intervento dei vescovi “su questo o quel tema” non va inteso come una forma di “gentilonismo”, una contrattazione diretta con il sistema politico per avere, in cambio dell’appoggio, assicurazioni su presunti “interessi cattolici”. Come non è ingerenza, così non è nemmeno trattativa politica. Sono interventi non a difesa di interessi cattolici ma per il bene di tutti. Anche quando i vescovi chiedono il rispetto per il ruolo pubblico della religione non lo fanno per difendere posizioni di rendita o corporative ma perché ritengono che anche la libertà della religione cristiana sia un bene per tutti. Si tratta di ribadire la necessità della luce cristiana per la costruzione della società degli uomini e di “purificare” la politica quando questa si discosti dal vero bene dell’uomo. La religione cristiana non può rinunciare a questa sua “pretesa”. Obbligarla a farlo significherebbe chiederle di rinunciare a se stessa e non sarebbe vera laicità.
    

Vita, famiglia, libertà di educazione: questi sono i princìpi non negoziabili che devono unire tutti i politici che si dichiarano cattolici, presenti in diversi schieramenti. Ma passando al concreto, quali sono le priorità in Italia su cui ci si dovrebbe concentrare?

Sul senso da attribuire ai principi non negoziabili ho già detto qualcosa rispondendo ad una precedente domanda. Per quanto riguarda l’Italia è mia convinzione che una grande rivoluzione sarebbe la creazione di un sistema scolastico veramente paritario, concedendo alle famiglie la reale possibilità di scegliere la scuola per i propri figli e ai soggetti della società civile di esprimere la propria vocazione educativa. Una simile riforma sprigionerebbe energie partecipative ed educative formidabili e romperebbe tutta una serie di corporazioni materiali e ideologiche che tengono ingessato questo Paese.
C’è poi l’agenda politica sulla bioetica. Qui bisogna stare molto attenti perché sono in gioco valori enormi e lo stesso nostro futuro. Bisognerà, credo, che i cattolici siano più chiari: nell’opinione pubblica circola l’idea che la 194 sia una legge cara ai cattolici dato che questi ne chiedono insistentemente la realizzazione piena, come anche molti penano che la legge 40 sulla fecondazione assistita sia una legge cattolica perché i cattolici hanno sostenuto un referendum per il suo mantenimento. Su questi aspetti bisogna fare chiarezza e far capire che chiedere l’applicazione di una legge nei punti in cui essa può tutelare la vita non significa condividere quella legge né gettare la spugna per una sua radicale revisione. Le battaglie non si fanno mai a metà, non possiamo dare una mano agli altri a sbagliare su punti così importanti e il bene comune non è il minor male comune.
Poi c’è la difesa della famiglia, per la quale sono importantissime le provvidenze di un nuovo regime fiscale, ma ancor prima va mantenuta la difesa giuridica della famiglia e, prima ancora, la sua promozione culturale. Dove viene promossa oggi la famiglia? Non nei media e non nella scuola pubblica.
 
Domani, 14 dicembre, ci sarà un voto importante in Parlamento: lei cosa si augura o cosa si aspetta?

Non è compito di un vescovo entrare in queste faccende di cabotaggio politico. Io mi limiterei a dire solo due cose. La prima è che mi sembra che non siamo davanti a nessun 4 luglio, 14 luglio o 25 luglio, anche se concordo che l’appuntamento è uno snodo politicamente importante, dato che ormai “galleggiamo” da molto tempo. La seconda è che ci troviamo ancora una volta davanti ad una possibile spaccatura dei cattolici in politica. Per questo mi auguro che i deputati e i senatori cattolici si facciano orientare dai principi che ho sopra esposto.


Il culto del preservativo nella Spagna dei socialisti di Marco Respinti 13-12-2010 da http://www.labussolaquotidiana.it

Tutto è cominciato il 1 dicembre, Giornata Mondiale contro l’AIDS. Il tema è sempre quello, fritto e rifritto: per fermare il contagio da HIV occorre il preservativo. Non è esattamente così, ma la Juventudes Socialistas de Andalucía (JSA) insiste e lancia l’offensiva. Blasfema. Stampa e affigge in tutte le otto province della comunità autonoma spagnola manifesti che gridano «Bendito condón que quitas el SIDA del mundo», ovvero “Benedetto il preservativo che toglie l’AIDS del mondo”. Appena sotto, due mani scimmiottano il gesto con cui nella Messa, dopo la consacrazione, il sacerdote eleva il Corpo di Cristo ostentando al suo posto la confezione di un preservativo circolare come l’Ostia. Il video promozionale lanciato su YouTube che accompagna l’iniziativa snocciola un po’ di cifre, accusa la Chiesa di mentire al mondo, strumentalizza citazioni del portavoce della Conferenza episcopala spagnola e del Papa, e arriva al dunque intimando: «Non farti dare la Comunione», che tanto è inutile, ma prendi un condom. E «usalo». È a quel punto che quella che fino a quel momento sembrava l’immagine di un sacerdote con la Particola si muta in un profilattico rosso.


Ma alla controffensiva sono bastati solo pochi giorni per organizzarsi attraverso il canale YouTube El Otro Video, una sigla indipendente cattolica che produce filmati di risposta a quello diffuso dalla JSA. Uno è anzi perfettamente speculare. Si affida però alla testimonianza di Elie Assogba, studente universitario del Benin, che spiega la grande azione svolta in prima linea dalla Chiesa Cattolica nella battaglia contro l’AIDS africano. Poi ve n’è un secondo e un terzo rincara la dose di quella verità dei fatti che non è mai troppa, dando voce a Didier Amaedi, studente universitario del Togo. Pareggio? No, vittoria.


Chi infatti cercasse ora il video blasfemo che fino a pochi giorni fa campeggiava sul sito della JSA resterebbe deluso. Non funziona, non si carica. Tutto merito di Life Teen, una organizzazione cattolica di apostolato fra  i giovani degli Stati Uniti che ha protestato con YouTube per violazione di copyright e che ha ottenuto piena soddisfazione. Qua è là quelle immagini assurde e ridicole si riescono ancora a trovare sui siti Internet di quotidiani ispanofoni lo spagnolo El Mundo e l'argentino La Nación, ma, per la legge del web, hanno le ore contate.


EDITORIALE - Santa Lucia e Dante Pigi Colognesi - lunedì 13 dicembre 2010 – il sussidiario.net

È confortante che il calendario proponga proprio oggi la festa di santa Lucia. Il 13 dicembre è uno dei giorni in cui la luce diurna è più breve, quasi facesse fatica - soprattutto qui, a Milano - a vincere la tenebra della notte. Ti svegli che è ancora buio e solo molto lentamente qualcosa simile al sole, che non vedi, da dietro la nuvolaglia proietta una luce lattiginosa. A metà pomeriggio tiri su la testa dal computer ed è già scuro. Manca la luce. Ed è santa Lucia.

La Leggenda aurea di Jacopo da Varazze, vera summa dell’agiografia medievale, prima di raccontare la storia di un santo, dà informazioni sul significato del nome, in cui è già contenuto il significato della sua vita. Ecco la spiegazione di quello della santa del 13 dicembre: «Lucia deriva da luce. La luce infatti è bella da vedere, dato che essa è tale che fa risplendere tutte le cose belle. Si diffonde inoltre senza perdere purezza, per quanto sordidi siano i luoghi dove penetra; i suoi raggi sono costantemente dritti, percorre una via lunghissima in incessante movimento». Ed ecco l’applicazione alla vita della martire siracusana: «La conformità del nome è dovuta al fatto che la beata vergine Lucia brilla della purezza della verginità senza alcuna macchia, infonde la carità, drittamente si rivolge a Dio, senza mai deviare».

Per questa etimologia spirituale del suo nome, santa Lucia è diventata la protettrice della vista, colei che salvaguardia gli occhi, gli strumenti con cui noi percepiamo la luce. Nell’iconografia tradizionale la martire è spesso raffigurata con un piattino a una coppa nella quale ci sono, appunto, due occhi. La ragione non sta in un qualche particolare del suo martirio - prima hanno tentato di bruciarla e poi l’hanno finita con un colpo di spada alla gola -, ma proprio nella caratteristica indicata dal suo nome.

Caravaggio, supremo maestro della luce, non raffigura la santa nella posa tradizionale, col piattino degli occhi. Egli, nella tela conservata a Siracusa, coglie il momento del seppellimento. Più di metà del quadro, la parte alta, è una volta scura, incombente, come il buio di questi giorni. A semicerchio intorno alla santa ci sono i cristiani che l’accompagnano alla sepoltura: i familiari affranti, piangenti, il vescovo che benedice. Davanti, possenti, i due becchini che scavano la fossa.
Lei, Lucia, è stesa per terra. Il braccio destro sporge in avanti verso noi che guardiamo, la testa è arrovesciata, il collo mostra la ferita della spada. La scena è buia. Ma su quel viso vibra la luce. La tomba che si sta scavando non sarà l’ultima parola su quella giovane vita. La sua carità verso i poveri, la verginità difesa in modo eroico, l’incrollabile certezza della fede l’avranno vinta sul buio della morte.

Così come la vicenda di un’oscura fanciulla siracusana fatta uccidere dal prefetto romano all’inizio del quarto secolo ha vinto sul buio del tempo. Sulle orme di Dante. È Lucia che invia Beatrice a soccorrere il poeta disperso nella selva oscura. È lei che gli permette di superare un insormontabile ostacolo nella salita al purgatorio, mostrando «li occhi suoi belli». Ed è lei che Dante contempla nella sfolgorante luce del paradiso, seduta in uno degli scranni più alti della candida rosa.


CRONACA - IL CASO/ Caro Augias, perché vuoi usare la cicuta per curare la solitudine? Carlo Bellieni - lunedì 13 dicembre 2010 – il sussidiario.net

Corrado Augias su La Repubblica del 9 dicembre risponde a una lettera sul tema del fine-vita con due argomentazioni tutte da discutere. La prima è: «La Chiesa concede i suoi riti ai suicidi in base al sofisma “nell’ultimo nanosecondo potrebbe essersi pentito”». Strano giudizio: quando la Chiesa accoglie tutti non va bene; ma non va bene neanche quando mostra delle riserve magari perché il defunto non aveva manifestato in vita nessun desiderio di ricevere sacramenti cristiani. Insomma: la Chiesa come si muove sbaglia, mi sembra questa la morale, certo spendibile da qualcuno, ma non accettabile in un dibattito che porti da qualche parte.

In realtà, l’amore anche per il suicida non è un sofisma, ma è la coscienza che darsi la morte non è un atto di “libera scelta”, ma usualmente di coercizione da parte dell’ambiente, di solitudine, di disperazione. La Chiesa prende solo atto della realtà, e la realtà è che nell’epoca della disperazione, qualcuno più fragile porta a termine l’opera della cultura del nulla che insegna che “tutto quello che fai nelle tue quattro mura è non solo lecito, ma è il culmine della libertà”. A casa mia si chiama solitudine, e non la auguro a nessuno. Per questo lo sguardo della Chiesa verso il suicida più che essere condanna per un peccatore è pietà per una vittima.

La seconda è la seguente: «È un gesto di misericordia porgere la coppa di cicuta alla creatura infelice che non può più portarla alle labbra». E chi di noi non è “creatura infelice” prima o poi (bocciature, tradimenti, ecc.) e fortuna che nessuno era lì per darci la cicuta! Ed è più misericordioso chi porge la cicuta o chi si fa in quattro, stravolge le proprie giornate, impiega tempo e denaro, alza il dito contro il Potere per aiutare qualcuno a non essere più infelice?

Molti di coloro che chiedono la morte sono malati di depressione spesso non diagnosticati - anche tra quelli in fin di vita, secondo il British Medical Journal dell’ottobre 2008: nemmeno il 10% dei depressi anziani viene curato (fonte Independent agosto 2008); è allora buona medicina aiutarli a morire? E se non è depressione, non è forse solitudine, povertà, sensazione che gli altri ti sentano “come un peso”? Ed è una buona società quella che apre le porte alla morte senza impegnarsi a rimuovere le cause del disagio?
Come capite, il conflitto vero riguarda cosa si considera “libertà”. È un bivio: considerare libera la scelta di chi dice “io voglio” nella solitudine o di chi lo dice dentro un rapporto e senza coercizioni. Chi è allora più “liberale”: chi lascia aperta la via a ogni decisione solitaria (purché non disturbi gli altri) o chi si rimbocca le maniche per ripulire l’ambiente dalle coercizioni e dalla solitudine? Ma come il principio fondante la “convivenza postmoderna” non è più la fiducia ma la separabilità, quello fondante la “libertà postmoderna” non è la solidarietà ma la solitudine.

Ma c’è chi dice che questo non basta: la vita è chiaramente vista come buona rispetto alla morte dalle migliaia di persone che pur malate e disabili non la vogliono abbandonare; forse perché hanno trovato un significato, un contesto o una persona per cui vivere, e non necessariamente di tipo chiaramente religioso. Forse perché hanno trovato nel momento della disperazione non un aiuto a morire ma a capire, a curare, a lenire, e anche a diventare più forti e magari ardimentosi. Non pensate, che piuttosto che aiutare a incontrare la morte, la gente malata voglia essere aiutata a incontrare questo?


CULTURA - LETTURE/ Nella Terra di Dio solo dalla carità può venire la pace Monica Mondo - sabato 11 dicembre 2010 – il sussidiario.net

Noi non ci speriamo più. Abituati da troppi anni a guardare le divisioni, le lacerazioni tra i popoli che vivono in Terra Santa, sfiduciati da una diplomazia che non offre spiragli, ma solo varchi alla violenza. Non abbiamo speranze che davvero si trovi una soluzione politica che rispetti le identità e le fedi. Vincent Nagle ci crede ancora, come tanti crede silenziosamente nella carità e nell’amicizia. Lavora per questo, e raccoglie già ora i frutti del suo lavoro, che non buca le cronache, ma è cronaca quotidiana per la gente che lo conosce e si fida di lui. Tutto nasce e rinasce da un incontro, oggi come 2000 anni fa, in quella terra fatale dove avvenne il Fatto che cambiò la storia del mondo.

Vincent Nagle è missionario della Fraternità Sacerdotale San Carlo Borromeo. E’ nato in California, da madre ebrea e padre irlandese. Vaghe reminiscenze di tradizione cattolica, ma nei fatti una famiglia di non credenti. Ha attraversato le contraddizioni e le utopie degli anni ’70, ha vissuto da hippy in una comune, ha incontrato una Chiesa ai limiti dell’ortodossia, ha creduto nella teologia della liberazione. Nel frattempo ha studiato tanto (quattro lauree, l’arabo e la cultura islamica) e ha viaggiato di più. Sempre inquieto, donec, diceva Sant’Agostino, cor in Te requiescat.

La casa, il luogo finalmente trovato, è la Fraternità fondata da don Massimo Camisasca secondo il carisma di don Luigi Giussani. Non un porto sicuro e tranquillo: una casa è fatta per partire, per lanciarsi nella realtà, sapendo che non sei solo, che la tua strada è seguita e custodita. Padre Vincent viene destinato alla Giordania, poi alla Palestina: dove i cristiani sono pochi e molti se ne vanno per l’Islam, dove trovano migliori opportunità di lavoro, una vita sicura, la possibilità di sposare chi si ama. Un futuro al buio per chi resta, e un’università all’estero il solo miraggio per i propri figli. C’è bisogno “di una diversità umana che colpisce”, come le suore di madre Teresa, aiutate perfino da volontari musulmani. Si può annunciare il Vangelo anche a loro? “Sì, se hai a cuore solo Gesù”, non il tuo progetto sugli uomini. Se segui San Francesco: “Predica sempre e, se necessario, usa le parole”.

Il giornalista Lorenzo Fazzini presta il suo sguardo attento, appassionato e la sua penna alla voce di Padre Vincent, accompagna le sue riflessioni diaristiche, attraversa con lui i luoghi cruciali del Cristianesimo e della storia di Israele. Nablus, dove c’è il pozzo della Samaritana, Ramallah, dove le donne cominciano da qualche anno a sostituire il velo con il burqa. Gerusalemme, fino a mettere le mani nel buco scavato nella pietra per conficcarvi la croce di Cristo. “Amando questa croce si può vivere in Terra Santa”. Si può incontrare Dio nella realtà “non come la vorremmo, ma come essa stessa è”. Si può vivere senza sopportare, senza perdere la pazienza, la speranza. Certi che “la grazia di Dio non è il risultato di un processo storico, ma il libero atto d’amore che i nostri cuori - tutti i cuori - attendono”.


Avvenire.it, 13 dicembre 2010 - L'ODISSEA INFINITA - I predoni non si fermano: uccisi altri profughi eritrei di Ilaria Sesana

Continua la tragedia dei profughi eritrei nel deserto del Sinai. Altri due giovani sono stati uccisi ieri dai trafficanti che da quasi un mese li tengono imprigionati e in catene. Un duplice omicidio che porta ad otto la tragica conta da quando questi poveretti sono finiti nelle mani dei predoni. A dare la notizia don Mussie Zerai. «Avevano meno di trent’anni ed erano due diaconi della chiesa ortodossa che animavano e guidavano nella preghiera il gruppo dei prigionieri - spiega il direttore dell’agenzia Habeshia-. Già qualche giorno fa i predoni avevano strappato le loro Bibbie.

Erano visti un po’ come gli animatori del gruppo e li hanno accusati di aver lanciato l’allarme».  Nemmeno tra le associazioni che da settimane tengono i contatti con il gruppo dei profughi si sapeva che ci fossero due diaconi tra i prigionieri. Anche se, nella chiesa ortodossa eritrea, si definisce diacono non solo chi ha ricevuto l’ordinazione, ma anche i semplici animatori che guidano la comunità nella preghiera.

Dopo le catene e le botte, gli stupri subiti dalle donne e le privazioni di un mese di prigionia ieri si è consumata l’ennesima tragedia. L’accusa ai due giovani, la brutale esecuzione di fronte a tutti gli e nuove violenze. Una tragedia cui si aggiungono le menzogne delle autorità locali che negano la presenza di questi ostaggi nel loro territorio. «Li hanno picchiati selvaggiamente, accanendosi in cinque su una sola persona. Alcuni sono quasi in fin di vita - racconta con voce rotta don Mussie -. Il ragazzo con cui di solito sono in contatto è stato picchiato così duramente da non riuscire nemmeno a parlare».

A quel punto è stata una giovane a prendere in mano il cellulare e aggiungere agghiaccianti particolari: da qualche giorno gli aguzzini non danno più nemmeno l’acqua ai loro prigionieri che sono costretti a bere le proprie urine per sopravvivere. «Lei continuava a piangere: sono stati picchiati sulla pianta del piede per costringerli a telefonare nuovamente ai loro parenti per chiedere aiuto -conclude don Mussie-. Ogni volta sentirli è uno strazio».

La situazione precipita di ora in ora, dopo il cauto ottimismo di qualche giorno fa. Si sono persi anche i contatti con il gruppo formato da circa un centinaio di profughi che venerdì è stato prelevato dalla prigione di Rafah e trasferito non si sa dove. «Non riusciamo a contattarli telefonicamente e non sappiamo dove li abbiano portati -spiega Roberto Malini, co-presidente del Gruppo EveryOne-. Il nostro timore è che Abu Khaled, il trafficante che fin dall’inizio ha avuto in mano i 250 profughi africani, li abbia rivenduti ad altri predoni». Ma l’angoscia più grande, che pesa sul cuore di chi sta lottando per salvare queste persone, è che i profughi possano sparire nel nulla, vittime dello spietato traffico clandestino degli organi.

L’attenzione mediatica che in queste settimane si è concentrata sul Sinai probabilmente infastidisce Abu Khaled e i suoi complici, sebbene possano contare su una vasta rete di supporto nella città di Rafah e, probabilmente, anche della complicità della polizia locale. «Non è possibile che centinaia di persone possano essere imprigionate in una città come Rafah che conta poco meno di 70mila abitanti, dove ci sono persino un carcere e una stazione di polizia. In una delle aree più militarizzate del Medioriente, a pochi chilometri dalla frontiera con  Israele», aggiunge Malini.

Eppure il governo egiziano (il solo che potrebbe agire concretamente per risolvere la situazione) continua a tentennare. Voci disperate che nessuno sembra voler ascoltare. "È una cosa assurda. Non si può più aspettare i tempi delle diplomazie, perché la gente sta morendo di fame e di sete - si tormenta don Mussie -. Quella che sta accadendo è una vera e propria barbarie: chiediamo che la comunità internazionale condanni tutto ciò e che richiami il governo egiziano a intervenire con decisione».

"Quello che sta succedendo è orribile", conclude Roberto Malini che, assieme a Matteo Pegoraro e Dario Picciau, co-presidenti del Gruppo EveryOne, sta lavorando in queste ore per ottenere le necessarie autorizzazioni per raggiungere Rafah. «Speriamo di poter partire già martedì o mercoledì -spiega-. Da lì, probabilmente, potremo intervenire con maggiore efficacia».