Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il grazie a don Gius, «presenza invisibile ma vera»
2) I vescovi tedeschi aprono a unioni gay e ai preti sposati
3) D'Annunzio, Huysmans e i bambini lasciati morire sul davanzale
4) Il Walesa di Pechino
5) Se la scuola è plurale non può essere neutra
6) A giudizio chi antepone i diritti umani alle Olimpiadi
7) A cosa rinuncio e cosa ne guadagno. Mica poco, Giuliano Ferrara
8) Una scuola neutra non può esistere, Angelo Scola
9) Ma chi l'ha detto che cristianesimo e laicità sono incompatibili?
Il grazie a don Gius, «presenza invisibile ma vera» anniversario
Avvenire, 19.2.2008
Messa di Tettamanzi Duomo gremito per il fondatore di Cl a tre anni dalla morte
DI ANNALISA GUGLIELMINO
Impossibile dimenticarlo.
Impossibile non sentire la sua «presenza invisibile, ma vera e profonda», per l’arcivescovo, sopra le teste di quelle diecimila persone che ieri sera riempivano il Duomo fino all’ultimo metro quadrato. Giovani in gruppo. Adulti arrivati in metropolitana da ogni parte della città, intere famiglie. Pregando di «rimanere fedeli a quel carisma che ci ha cambiato la vita». Il carisma del “Gius”. La preghiera di poter restare fedeli all’insegnamento di don Luigi Giussani, a distanza di tre anni dalla sua morte, è arrivata alla fine della Messa di suffragio celebrata dall’arcivescovo Dionigi Tettamanzi, nelle parole di don Julián Carrón, che ha ereditato la guida di Comunione e liberazione. E dal cardinale Tettamanzi alla folla che gremiva il Duomo è andato «il grazie, come vescovo, di tutta la Chiesa ambrosiana al suo prete e a quanto voi siete e fate nella Chiesa di Milano». A quel carisma «educativo ed ecclesiale» che, per il cardinale, «ci chiede ancora oggi di essere vissuto». È la strada scelta da chi ieri sera era in Duomo come tre anni fa si è messo in fila commosso, sin dalla notte del 22 febbraio, davanti alla camera ardente allestita nella Casa di via Rombon, dove il fondatore di Cl è spirato. Una strada di fede in Gesù Cristo che dalla Milano del “Gius” ai tempi del liceo Berchet è arrivata in tutto il mondo. Un «primato», quello dell’«incontro personale con Cristo», che per il pastore ambrosiano va assicurato insieme «all’amicizia con lui, all’amore per la Chiesa, per il Papa e per i pastori della Chiesa», perché «decide della fecondità di tutto quello che facciamo in ogni ambiente della vita». È «amare questo primato», nella fredda sera di Quaresima che ha raccolto in Duomo diecimila «figli» in preghiera per un padre che in molti hanno conosciuto direttamente, «l’omaggio gradito a don Giussani» che per Tettamanzi il movimento può fare. Forte di una Fraternità che compie il 26esimo anniversario del riconoscimento pontificio.
Forte dei ricordi trasmessi da chi il sacerdote di Desio lo ha conosciuto, magari in gioventù, restandone folgorato per sempre. E del «dovere», per Tettamanzi, verso le nuove generazioni, di «far conoscere il suo cuore, i suoi progetti, il suo sogno». E quella «fede ragionevole cresciuta nell’alveo della Chiesa ambrosiana» che, ha ricordato don Carrón usando l’espressione di Benedetto XVI, «ha “ferito” tanti di noi».
I vescovi tedeschi aprono a unioni gay e ai preti sposati
La svolta dell’arcivescovo Robert Zollitsch, nuovo presidente della Conferenza Episcopale tedesca: «Il celibato non è un precetto divino»...
di Andrea Tornielli
Si dice disponibile a discutere il celibato dei preti, apre al riconoscimento delle coppie omosessuali, critica la Cdu di Angela Merkel per il suo essere troppo «neoliberista». Nella prima lunga intervista dopo l’elezione, il nuovo presidente della potente Conferenza episcopale della Germania, il sessantanovenne arcivescovo di Friburgo, Robert Zollitsch, si presenta nel segno della continuità con il predecessore, il cardinale Karl Lehmann, dimessosi dopo vent’anni di guida dell’episcopato tedesco per problemi di salute.
Rispondendo alle domande di Der Spiegel, Zollitsch ha affermato di essere «contrario al divieto di riflessione» sulla possibilità di abbandonare l’obbligo del celibato dei preti. Un dibattito che anche il Sinodo dei vescovi di due anni fa non ha ritenuto di aprire. Il nuovo presidente della Conferenza episcopale tedesca è di diverso avviso: «Constatiamo la diminuzione delle vocazioni, perché la sfida del Vangelo è difficile da trasmettere. È ovvio che il collegamento tra l’essere prete e il celibato non è teologicamente necessario». L’arcivescovo di Friburgo, con questa espressione, intende ribadire che il celibato è una norma ecclesiastica ma non è legato all’essenziale della fede. Benedetto XVI, esprimendosi sull’argomento nell’esortazione post-sinodale Sacramentum caritatis, aveva però fatto notare che il celibato è «una ricchezza inestimabile» e «rappresenta una speciale conformazione allo stile di vita di Cristo stesso».
Monsignor Zollitsch, invece, pur prendendo atto che consentire il matrimonio dei preti «sarebbe una rivoluzione che una parte della Chiesa non accetterebbe», è più possibilista. Affermando però che «non si può cambiare nulla senza convocare prima un Concilio, giacché l’abolizione del celibato inciderebbe molto nella vita interna della Chiesa». E per il momento, com’è noto, un Concilio Vaticano III, già più volte auspicato dall’ala più aperturista della Chiesa, non è in agenda.
Per quanto riguarda le unioni gay, il nuovo presidente dei vescovi tedeschi spiega che si tratta di «una realtà sociale» anche se «come cattolico» il suo ideale «sono ovviamente il matrimonio e la famiglia». Ma, aggiunge, «se esistono persone con questa predisposizione, lo Stato può adottare le opportune regolamentazioni, anche se considero sbagliato il concetto di matrimonio omosessuale, poiché lo mette sullo stesso piano del matrimonio tra uomo e donna». Regolamentazione sì, equiparazione al matrimonio, no.
Decisamente meno aperturista, invece, Zollitsch appare riguardo al sacerdozio femminile. In questa materia l’arcivescovo non lascia aperto nemmeno un debole spiraglio: «Gesù Cristo ha chiamato soltanto uomini a fare gli apostoli. La funzione sacerdotale e quella episcopale restano riservate agli uomini, anche se in determinate cerimonie religiose le donne possono predicare. Siamo interessati ad avere donne come assistenti spirituali». Il presidente dei vescovi tedeschi constata infine come si siano indeboliti i legami tra la Chiesa cattolica tedesca e il partito cristiano-democratico, perché, spiega, «la Cdu si è più fortemente attestata su tesi neoliberiste e rischia di non tenere più nel debito conto l’economia sociale di mercato e i temi sociali. Per questi motivi c’è meno vicinanza tra la Chiesa cattolica e la Cdu». Del resto, conclude il prelato, «la Spd e gli altri partiti tematizzano più che in passato alcuni aspetti che per noi sono importanti. Oggi molti Verdi difendono sulle nostre stesse posizioni la tutela della vita».
Il Giornale 17 febbraio 2008
D'Annunzio, Huysmans e i bambini lasciati morire sul davanzale
Di Francesco Agnoli
(18/02/2008)
Un bimbo esposto sulla finestra, al gelo, perché muoia. Un innocente che richiede ogni attenzione e ogni cura, perché da solo non può nulla. Affidato totalmente all’amore dei suoi genitori. Un agnello sacrificale, come Gesù, misteriosamente in balia della bontà e della cattiveria degli uomini. Misteriosamente chiamato, con la sua grazia, con la sua dolcezza, con la sua piccola anima bianca, a commuovere un uomo e una donna già adulti, già sazi di esperienze, di amori, di lusso, di peccato. Chiamato a purificare il loro sguardo, i loro pensieri, ormai da tempo insudiciati dalle miserie del mondo, da tempo persi in «selve oscure» che non lasciano intravedere il cielo.
E’ questo bambino, è la redenzione che promette, con i suoi occhi puliti e profondi, senza malizia, la sua pelle candida, e le sue manine innocue, che occupa la mente di Gabriele D’Annunzio, quando decide di scrivere il romanzo «L’innocente»; quando sceglie di produrre scintille mettendo a confronto il sentimento della sua miseria, della malattia interiore del suo animo degradato dal piacere e dall’infedeltà, con qualcosa di puro, di immacolato, di innocente, appunto. Beati immaculati: così scrive, il poeta soldato, nell’incipit del romanzo, in cui il protagonista, Tullio Hermil, narra la sua storia, i suoi amori disordinati, le sue impulsività demoniache, che lo hanno spinto ad uccidere un bimbo appena nato, esponendolo al gelo di un davanzale. Tullio Hermil è un alter ego di D’Annunzio. E’, a me sembra, l’ammissione del grande retore dell’impossibilità per l’uomo di vivere al di fuori della legge, e quindi dell’amore di Dio. Perché alla fine di tutto, il rimorso per aver violato l’innocenza urla dentro di lui, sebbene offuscato dall’orgoglio e dalla negazione, implicita, di Dio e della sua misericordia. Così inizia il romanzo: « Andare davanti al giudice, dirgli: ‘Ho commesso un delitto. Quella povera creatura non sarebbe morta se io non l’avessi uccisa. Io Tullio Hermil, io stesso l’ho uccisa... Eccomi nelle vostre mani. Ascoltatemi. Giudicatemi.’ Non posso né voglio. La giustizia degli uomini non mi tocca. Nessun tribunale della terra saprebbe giudicarmi. Eppure bisogna che io mi accusi, che mi confessi. Bisogna che riveli il segreto a qualcuno. A Chi?».
A chi, se non all’Innocente per eccellenza, immolato per i nostri peccati, che si è fatto bambino e si è offerto così alla nostra libertà? Ma D’Annunzio poteva credere nel peccato, perché lo viveva ogni giorno, perché sapeva riconoscere, a tratti, di essere ormai «stanco di mentire». Ma forse non aveva la forza per umiliarsi, per chiedere perdono, esattamente come Giuda: di qui i suoi vari tentativi di suicidio. E’terribile dover dire «a Chi?», e non trovare risposta. Questo vecchio romanzo, «L’Innocente», mi è venuto in mente quando ho letto, sul Corriere del 4 febbraio, quello che già si sapeva: che vi sono bambini «sopravvissuti all’aborto lasciati morire di freddo», «messi sul davanzale delle finestre o addirittura in frigorifero per affrettarne la fine, o semplicemente abbandonati a se stessi, sul tavolo operatorio, così da sollevare dall’imbarazzo genitori e medico». Leggendo, ho pensato che il decadente D’Annunzio, il perverso poeta fiumano, nemico giurato di Dio, pagano sin nel midollo, attento solamente a mordere «frutti terrestri», succube della magia e della superstizione, schiavo dei sensi, oltre cent’anni fa sapeva ancora stupirsi dinnanzi all’innocenza. Sapeva ancora sognarla, a momenti, e rimpiangerla.
Ho pensato anche ad un altro decadente, che D’Annunzio ben conosceva, il francese Joris Karl Huysmans, e al suo «La bas». E’, questa, la storia di Durtal, un alter ego dell’autore, che giunge pian piano dalle bassezze del piacere fine a se stesso, sino all’abisso del satanismo. Nel suo peregrinare intellettuale, si interessa alle vicende di Gilles de Rais, un uomo pio, seguace fedele e coraggioso di Giovanna d’Arco, della limpida «vergine d’Orleans», divenuto poi, dopo la morte di lei, mago, spiritista, e «violentatore di bambini, sgozzatore di ragazzi e fanciulle». Gli innocenti,
coloro che si fidano, divennero per Gilles le prede più ambite, sinché, «non potendo più scendere, tentò di tornare sui suoi passi», si pentì dinanzi ai suoi giudici, ai genitori delle vittime e fu accompagnato alla pena di morte, tra le lacrime e le dimostrazioni di pietà. Anche Durtal, come Gilles, sperimenta il culto del Maligno, scende nel suo inferno, passo dopo passo, sino a partecipare a cerimonie in onore di Satana. Ad un certo punto del romanzo riporta proprio una preghiera al Signore del Male, che ha udito con le sue orecchie: «…Tu salvi l’onore delle famiglie con l’aborto di ventri fecondati nell’oblio di leciti orgasmi; tu suggerisci alle madri un rapido aborto e la tua ostetricia risparmia le angosce della maturità, il dolore delle cadute, ai bambini che muoiono prima di nascere».
Dopo la preghiera, racconta Durtal, un sacerdote apostata profana l’ostia monda, l’ostia santa, l’ostia immacolata: l’Innocente. In seguito ad esperienze analoghe a quelle di Durtal, Huysmans approderà alla fede, e scriverà: «E’ attraverso la visione del soprannaturale del male che ho avuto la prima percezione del soprannaturale del bene. Con la sua zampa adunca il demonio m’ha condotto verso Dio». L’innocenza violata, oggi, da coloro che lasciano morire i bambini sul davanzale, dai nuovi pedofili in serie alla Gilles de Rais, porterà ancora ai grandi pentimenti, o la trasmutazione del male in bene, il peccato più grave perché «chiude la porta al pentimento», ha ormai offuscato del tutto i nostri cuori?
Il Walesa di Pechino
Scontri fra la polizia cinese e un gruppo di operai impegnati in una dimostrazione per i diritti umani nel mondo del lavoro.
Avvenire, 19 febbraio 2008
DA SHANGHAI ILARIA MARIA SALA
E ra il 1989, la Cina era in preda a un profondo sconvolgimento politico: da settimane gli studenti universitari erano in piazza Tienanmen, a Pechino, chiedendo riforme, democrazia, e lotta alla corruzione. Il loro coraggio ispirò ben presto molte altre categorie professionali e città, e le proteste si estesero a Chengdu e Canton, Xi’an, Shanghai, Xiamen. I giornalisti e i registi cinematografici, gli artisti e gli scrittori si erano uniti, chiedendo libertà di stampa e di espressione, e perfino i lavoratori decisero che era giunto il momento di sostenere gli studenti e chiedere un sindacato indipendente.
Han Dongfang, un lavoratore delle ferrovie che all’epoca aveva 26 anni, fondò allora il primo sindacato indipendente della Cina, proprio ai margini della piazza: il comitato generale, infatti, era ospitato all’interno di una tenda rossa, che portava la scritta «Sindacato indipendente dei lavoratori di Pechino», dove Han riceveva aspiranti iscritti e coordinava un movimento che diventava ogni giorno più imponente. Oggi, riflettendo su quei giorni conclusisi con la decisione di inviare l’esercito contro la folla disarmata, che causò centinaia di morti, alcuni pensano che fu proprio il timore dato dalla possibilità di un movimento di lavoratori organizzati a scatenare la violenza repressiva di Stato.
Forse.
Quello che appare chiaro, però, quasi vent’anni dopo, è come i conflitti dati dalla mancanza di un sindacato indipendente siano oggi fra i problemi più esplosivi del Paese. La Costituzione cinese dà a tutti il diritto di formare sindacati autonomi, ma questo, nella pratica, è un diritto che è negato, e usurpato totalmente dalla Federazione sindacale dell’intera Cina, sotto la guida del Partito comunista. Dopo la repressione di Tienanmen, Han Dongfang venne arrestato e messo nel reparto malattie infettive dell’ospedale carcerario, dove contrasse la tubercolosi e dove sarebbe potuto morire entro breve, se una forte campagna internazionale per la sua difesa non avesse convinto le autorità a rilasciarlo, ed esiliarlo, per ragioni di salute.
Dal 1992, dunque, questo ex ferroviere vive in esilio, a Hong Kong (senza avere il diritto di valicare la frontiera che ancora separa l’ex colonia britannica dal territorio cinese), da dove porta avanti un lavoro straordinario per la difesa dei diritti dei lavoratori cinesi, tramite la sua ong, il China Labour Bulletin (Clb), che compie un’opera di monitoraggio dei problemi legati al lavoro in Cina. Cura anche un programma radio trasmesso dalla stazione Radio Free Asia (finanziata parzialmente dal Congresso americano), che lo mette in contatto quotidiano con i lavoratori cinesi, e con il vasto panorama di abusi, lotte, e progressi che caratterizzano la Cina anche in questo campo.
Ham è il primo a essere sorpreso dalle evoluzioni in atto fra i lavoratori nel suo Paese: «Qualche anno fa, quando parlavamo per telefono, erano i lavoratori stessi a chiedermi di modificare le loro voci, per non essere riconoscibili. Adesso invece tocca a me dire loro di stare attenti, di non commettere imprudenze e di non mettersi nei guai, mentre loro insistono, chiedono di andare in onda con nome e cognome, talmente sono esasperati dalle condizioni in cui alcuni di loro si trovano ». In tutta la sua carriera, infatti, Han è sempre stato una voce assennata, coraggiosa, certo, ma sempre nel nome del rispetto dei diritti e delle regole.
E nel nome della dignità dei lavoratori cinesi: «Non si tratta di proteggere gli operai», dice, dagli studi della radio. «Questo è un sentimento nobile, ma che è meglio riservare alle piante o ai panda: stiamo parlando di adulti, per cui nel loro caso quello per cui si deve lottare è affinché ottengano il diritto di organizzarsi in modo indipendente. Nessuno meglio di un lavoratore sa quali sono i problemi all’interno di una fabbrica, di un’azienda, di un’istituzione – spiega –. È a loro che si deve concedere il diritto di parola che gli spetta per legge».
Ma per quanto il governo cinese sia oggi impegnato a varare leggi per garantire migliori condizioni nel Paese, l’idea di un sindacato indipendente continua a essere vista con terrore. Non a caso, l’ex presidente cinese Deng Xiaoping chiamava i sindacati liberi il «morbo polacco», capace di capovolgere un intero regime.
Se la scuola è plurale non può essere neutra
Brescia
Il cardinale Scola: una vera pedagogia «laica» non punta sull’azzeramento dei valori ma scommette su varie esperienze
Il patriarca di Venezia: «Per parlare di libertà d’educazione serve che i due modelli possano avere stessi diritti e stessi doveri. Non ci interessa una battaglia ideologica su quale sia il più giusto; vogliamo stare dentro un sistema che conceda ad entrambi parità di condizioni giuridiche ed economiche a parità di verifica da parte degli organismi competenti»
DAL NOSTRO INVIATO A BRESCIA
ENRICO LENZI
Avvenire, 19.2.2008
Una scuola «che vuole dirsi veramente laica» non è quella che «punta sulla neutralità dei valori in campo», ma è quella che scommette «sul pluralismo delle scuole e non quella del pluralismo nella scuola unica».
È un quadro chiaro quello che il cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, disegna commentando «l’attuale tempo di transizione che stiamo vivendo. Un periodo non privo di tensioni» anche, ma forse soprattutto, in campo educativo. Un cammino difficile, reso ancora più complesso da un «conflitto di linguaggi» sul vero significato delle definizioni di scuola laica e indipendente. «Per alcuni una scuola laica è quella libera da vincoli ideologici di tipo identitario – spiega il Patriarca –, mentre per altri la scuola è libera proprio in quanto trasmette un sistema coerente di valori senza costrizioni da parte dello Stato».
Discorso analogo per il termine «indipendente »: per i primi lo è in un «contesto di finanziamento statuale centralizzato senza preoccuparsi di mettersi sul mercato», mentre gli altri sostengono che è indipendente «perché grazie alla sua qualità, intesa come capacità di rispondere in modo adeguato ai bisogni degli utenti, resta sul mercato senza dipendere dallo Stato». Uno scenario che sembra rendere difficile qualsiasi possibilità di convergenza. Eppure nel suo discorso svolto nell’Aula magna della sede bresciana dell’Università Cattolica in occasione dei trent’anni di fondazione dell’Opera per l’Educazione Cristiana, il cardinale Scola traccia un possibile percorso per dare una vera risposta all’emergenza educativa, che «in un contesto come quello attuale è sempre più evidente e urgente da affrontare». E lo fa chiedendo un atto di coraggio da parte dello Stato perché «in una società veramente laica il compito di quest’ultimo, per quanto riguarda il sistema scolastico, non è quello di difendere un preteso diritto ad essere l’unico gestore della scuola, ma quello di garantire l’educazione, esercitando innanzitutto un’azione di sostegno dei più deboli».
Insomma lo Stato dovrebbe proseguire fino in fondo la strada intrapresa con la costituzione di un sistema pubblico integrato con la legge sulla parità scolastica, in modo da «poter parlare di libertà di educazione con i due modelli che possano avere gli stessi diritti e gli stessi doveri, né più né meno. Non ci interessa una battaglia ideologica su quale sia il modello più giusto – avverte il cardinale Scola –. Vogliamo stare all’interno di un sistema scolastico che conceda ad entrambi i modelli parità di condizioni giuridiche ed economiche a parità di verifica da parte degli organismi statuali competenti».
Dunque da uno Stato come unico gestore di una scuola, che «si fonda sul presupposto pedagogico che la risposta al carattere plurale della nostra società debba arrivare dentro l’unica scuola», al ruolo di «puro governo del sistema scolastico». Ma questo passaggio implica anche per le scuole libere «il dover attuare il principio di solidarietà per garantire l’effettivo e qualificato accesso di tutti, soprattutto all’istruzione gra- tuita obbligatoria».
Resta, però, aperto il capitolo relativo al progetto educativo che il sistema scolastico deve offrire. «Oggi assistiamo a una scuola statale che opta per una sorta di sistema scolastico neutro o indifferente che, rinunciando ad una esplicita proposta di senso, considera l’educazione come addestramento o apprendimento di tecniche» sottolinea il Patriarca di Venezia, che non condivide affatto questa visione. «La categoria di esperienza è il cardine della proposta educativa. L’esperienza integrale – spiega il cardinale – può garantire il processo educativo se garantisce lo sviluppo di tutte le dimensioni di un individuo fino alla loro realizzazione integrale, e nello stesso tempo assicura l’affermazione di tutte le possibilità di connessione attiva di quelle dimensioni con tutta la realtà».
Una simile impostazione «mette subito in campo la natura interpersonale del processo educativo – aggiunge Scola –. Educatore ed educando sono considerati come liberi soggetti coinvolti in un rapporto modulato dall’imporsi del reale». È dunque il rapporto umano ha dare vita a un rapporto educativo, come ha ribadito il professor Michele Lenoci, preside della facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica di Milano. «La persona umana è un processo in continua evoluzione ed è per questo che è importante l’educazione nel corso dell’intera esistenza ». Persino «la laicità vera è predisposizione alla ricerca del bello e del vero» aggiunge il pedagogista Giuseppe Vico, della Cattolica. Una concezione davvero nuova del termine laico, visto che oggi, prosegue, «viene visto come il terreno di incontro in cui risolvere i problemi creati da una società sempre più complessa e plurale».
Ma occorre in primo luogo «invertire l’idea che l’educazione sia cosa da poco, con nessun valore o testimoni ». Un impegno al quale, secondo un altro pedagogista della Cattolica, il professor Luciano Pazzaglia, è «chiamato anche lo Stato, che non può e non deve disinteressarsi in prima persona del tema dell’educazione, anche perché un sistema scolastico affidato quasi interamente alle scuole di tendenza della società civile rischierebbe di aumentare la frammentazione e non di aiutare a fare sintesi e incontro».
Uno scenario che neppure il cardinale Angelo Scola auspica: «Lo Stato non deve disinteressarsi, ma neppure considerarsi l’unico gestore o il principale del sistema scolastico stesso» spiega. Nessuna egemonia, dunque, ma «essere capaci di misurarsi con tutto e con tutti nel campo pedagogico ed educativo» si augura monsignor Luciano Monari, vescovo di Brescia. «Del resto la crescita responsabile di una persona è lo spettacolo più bello che si possa osservare », commenta ricordando che «in questa linea si colloca il compito della Chiesa, cioè di far crescere cristiani maturi in quanto alla capacità di giudizio».
Un compito al quale l’Opera per l’Educazione Cristiana da trent’anni sta dedicando tutta la propria attività, come ha ricordato il suo presidente Giuseppe Camadini. «Fin dal suo inizio l’Opera fu pensata come istituzione promotrice di iniziative culturali rivolte a studenti delle scuole medie superiori, con l’intento di offrire a giovani meritevoli, per profitto e orientamento spirituale e morale, qualche segno di riconoscimento così da suscitare in loro stimoli a progredire, oltre che negli studi, anche nella formazione cristiana ».
Un impegno, ha sottolineato il rettore della Cattolica Lorenzo Ornaghi, in un messaggio di saluto letto dal direttore della sede bresciana Luigi Morgano, «oggi più che mai necessario e urgente. Ed è una sfida che si presenta proprio nei termini di quell’emergenza educativa» che da più parti si denuncia.
Un compito che anche uno Stato laico deve affrontare, rimarca il cardinale Scola. «E la pista dell’autonomia scolastica di cui per ora esiste solo il tracciato, se portata con coraggio fino in fondo, può rappresentare una strada percorribile per giungere a un’autentica libertà di educazione nel nostro Paese».
19/02/2008 11:26
CINA
A giudizio chi antepone i diritti umani alle Olimpiadi
Iniziato il processo contro Yang Chunlin, detenuto da luglio per “sovversione” perché ha scritto che i diritti umani vengono prima delle Olimpiadi. Intanto continua la polemica per il Darfur: chi critica Pechino vuole solo contrastarne la grandezza e Spielberg non distingue i sogni dalla realtà.
Pechino (AsiaNews/Agenzie) – E’ iniziato oggi il processo contro Yang Chunlin, accusato di “istigazione alla sovversione contro lo Stato”, per avere promosso una petizione che dice che i diritti umani sono più importanti della Olimpiadi. Intanto nella polemica per il Darfur la Cina usa toni sempre più duri.
Yang, operaio disoccupato di Jiamusi (Heilongjiang), è detenuto da luglio perché, aiutando alcuni rurali a redigere una petizione per terre espropriate, ha scritto che: “noi non abbiamo bisogno delle Olimpiadi, abbiamo bisogno di diritti umani”. Inoltre ha messo su internet scritti critici verso il Partito comunista. Il suo legale, Li Fangping, dice che Yang ha il diritto di criticare i poteri pubblici. Ma altre due persone, Yu Chanqwu e Wang Guilin, che pure hanno sostenuto le richieste dei contadini, sono stati condannati a 18 mesi di detenzione nei campi di "rieducazione tramite lavoro".
Il giudice ha disposto che il processo si svolga a porte chiuse perché riguarda “segreti di Stato”, non è potuta entrare nemmeno la sorella Yang Chunping, che denuncia di non avere potuto neppure visitare il fratello in prigione.
Intanto, Pechino continua ad accusare di malafede chi critica la sua politica verso il Darfur, dopo la rinuncia di Steven Spielberg a collaborare con l’organizzazione dei Giochi motivata con lo scarso intervento della Cina per fermare il massacro lì in atto.
Liu Naiya, dell’Istituto di studi per l’Asia occidentale e l’Africa, ritiene che le “cosiddette organizzazioni che tutelano i diritti umani” sono, in realtà, sostenute da governi e da ditte occidentali e vogliono solo “danneggiare l’immagine della Cina, perché non vogliono che acquisti maggiore influenza internazionale o una migliore reputazione”. Sbandierano i diritti umani “solo per esprimere la loro scontentezza per i crescenti rapporti della Cina in Africa”. Il China Youth Daily dice che Spielberg “è una persona che vive del tutto nel suo mondo di fantascienza e non ha distinguere i sogni dalla realtà”.
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17 febbraio 2008
A cosa rinuncio e cosa ne guadagno. Mica poco
Non so come andrà a finire, questa storia della moratoria e della lista pazza, ma so come è cominciata. Con una salutare rinuncia. La rinuncia per otto giorni al cibo solido, tranne qualche noce, tra Natale e il primo dell’anno. Poi ho rinunciato alla pennichella, quei trenta o quaranta minuti di siesta nel letto nuziale abbandonato da mia moglie perché russo, dolce abitudine contratta da qualche anno, due-tre anni (“Non sei né giovane né vecchio, ma è come se dormissi dopo pranzo sognando di entrambe queste età”: sono versi di Marlowe, credo, citati da Eliot, che mi hanno sempre incantato, fin dall’adolescenza). Poi ho rinunciato a finire Moby Dick, fermo alla pagina duecentosettanta per mancanza di tempo, e il libro di Adriano Sofri, ciò che mi spiace. Poi ho rinunciato all’amicizia dei radicali, non tanto Emma, che mi è sempre sembrata un po’ fanatica sebbene ardente e bella, quanto Marco, che è troppo largo e grosso e infantilmente cinico per non essergli amico, ma al quale ormai rispondo sempre “occupatevi di commercio estero, che è meglio”, e mi firmo Ferrara, e lui risponde cose ideologiche e poetiche firmandosi Teramo, e a quelli della Rai per amore grida “datemelo!”. Poi ho rinunciato alla routine, il mio mondo preconfezionato e farcito di letture, chiacchiere redazionali, chiacchiere amicali, conversazioni televisive serali a scadenza quotidiana, ilari intermezzi e appassionati con il soviet delle magnifiche donne di Otto e mezzo, e della sua Ape Regina Franca, che negli ultimi tempi, per gli ostacoli che frammetteva con gagliarda simpatia alla capacità veritativa della tv, avevo preso a chiamare “il carcere femminile in cui sono ristretto”.
Ho rinunciato alla parte di ozio campagnolo del mio tempo festivo, con i miei amati cani e canette, uno dei quali se ne è andato via subito (Quinto Fufio non ne ha proprio voluto sapere di tutta questa moratoria, e della dieta liquida), e le due piccine il venerdì mi guardano con l’aria di dire: “Vai in crociata, pezzo di cretino, e non ci porti a Scansano a caccia di lucertole?”. Ho rinunciato a seguire il cantiere per la mia barchetta meravigliosa, il Maria Christina, un Nauticat 33 del 1972 che mantengo e rinnovo come una fidanzata trentenne, perché mi ha portato in Grecia e in Turchia con la memorabile Randi e tanti altri amici, e con Selma che al largo di Capo Sounion leggeva Newsweek e mi faceva impazzire di rabbia, ma per il resto era una marinaia e una sirena perfetta per l’acqua dell’Egeo e il vento di Meltemi.
Ho rinunciato a un bel po’ di soldi utili solo se li si sappia spendere bene, e non sempre succede, e a un contratto a cui tenevo e che mi aveva mandato Sergio Valzania, mille euro a puntata per rievocare alla radio ogni giorno il rapimento di Moro, dal 16 marzo di trent’anni fa al 9 maggio, la strage della sua scorta, il processo nel carcere del popolo, la campagna di primavera delle brigate rosse, la dissoluzione etica della prima Repubblica, il tradimento dei chierici né con lo stato né con i terroristi, e le lettere bellissime, la pietà e la paura, l’eccidio malinconico che si sarebbe potuto evitare se fossero state fatte le battaglie culturali e politiche giuste, a suo tempo, e non quelle ingiuste. Ho rinunciato alla stasi come aspetto del movimento, per abbracciare uno sconclusionato movimento che forse si rivelerà un banale dettaglio della lunga stasi politica in cui questo paese è immerso, nella perdita mia e di molti altri d’ogni illusione, da così tanti anni.
Ma cosa ho guadagnato. Oltre a un’indubbia competenza in fatto di bioetica, ho guadagnato significato e copie per il mio giornalino che non potrebbe uscire senza la dedizione allegra e militarmente indisciplinata di quelle persone fantastiche regalategli dalla Fortuna, che è donna ma non bisogna, come voleva il politico sconfitto Machiavelli, “batterla”: piuttosto amarla. Ho guadagnato la fiducia e l’amore di tanti fedeli, preti e vescovi, che non sono affatto la parte peggiore e dimenticata della nazione, tutt’altro, e non sono solo la nazione, concetto in fondo piccolo e maurrassiano. Ho guadagnato un sentimento potente, invincibile, quello di fare la cosa giusta al momento giusto, e pazienza se i mezzi non saranno proprio conformi a puntino, pazienza, basta che siano commisurati alla natura della cosa, amorevoli e sensati. Ho guadagnato quella cosa strana, così vicina a una conversione ancora senza fede e così lontana dall’etica kantiana, bella ma un po’ rinunciataria, che è la trasformazione della propria vita in totale buonumore, come dice Ratzinger, in comprensione e legame anche con chi ti respinge. Mica poco.
Una scuola neutra non può esistere, Angelo Scola, L'Osservatore Romano
Ma chi l'ha detto che cristianesimo e laicità sono incompatibili?/a>Michele Lenoci, L'Osservatore Romano