venerdì 22 febbraio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:

1) Cesana: tre anni dopo l’eredità viva del «Gius»
2) «I cattolici scelgano chi difende i loro valori. I simboli non contano»
3) RADICALI COMPRATI
4) Le intuizioni del Papa sulla vera speranza (Parte II)
5) Aborto, le immigrate cinesi al «Buzzi» scelgono la vita
6) Oscar, Coen favoriti con un film sul male
7) La favola nera di Depp e Burton


COMUNIONE E LIBERAZIONE

Il leader di Cl ricorda la sua ansia radicale per un cristianesimo vivo «qui e ora». «La speranza cristiana? Nasce dallo sperimentare un cambiamento che è già iniziato»
Cesana: tre anni dopo l’eredità viva del «Gius» Avvenire, 22.2.2008
DA MILANO
MARINA CORRADI
Tre anni oggi dalla morte di don Giussani. Chi ne cono­sce i libri, nella Spe salvi av­verte, nella pretesa di Benedetto XVI di un cristianesimo operante nella realtà, un’eco dell’ansia ra­dicale del sacerdote lombardo per un cristianesimo vivo «qui e ora». In una prefazione per un libro di Giussani del 1994 –- Il senso di Dio e l’uomo moderno, (Bur) l’allora cardinale Ratzinger scriveva: «È inquietante che la voce della Chiesa appaia incapace di rag­giungere le orecchie e i cuori de­gli uomini...». Con Giancarlo Ce­sana, storico leader di Cl, parlia­mo della attualità di quest’ ansia di ritrovare il cristia­nesimo delle origini, comune a due uomi­ni per formazione e temperamento di­versi.
Cesana: «Giussani raccontava di un suo alunno al Berchet, studiosissimo, e che portava il distintivo di una organizzazio­ne cattolica. E a cui lui però rimprovera­va di 'rendere testi­monianza solo a se stesso'. Il punto era quello, già negli anni ’50: la novità di Cristo si deve ve­dere.
È, se opera, è il titolo di un li­bro di Giussani. Se 'è vero', deve agire sulla realtà. Dalla certezza di un evento nasce la speranza cristiana: noi speriamo, perchè vediamo in noi un cambiamento già iniziato. L’altra sera parlavo in una città dove si era appena cele­brato il funerale di due ragazzi di Gs. Le loro famiglie non erano di­strutte perchè vivono dentro una esperienza che è più forte del­l’assurdo, di un dolore indicibile».
È dunque la speranza che il Papa dice già 'sostanza', già germe di ciò che si spera.
Essere cristiani è fare esperienza di un amore a sè che viene da qualcosa di molto più grande di noi. Che uno possa sperare nel dolore, è indice della presenza nella sua vita di qualcosa di più grande della morte. Giussani ha combattuto per questa piena in­cidenza della fede nella realtà; senza la quale il cristianesimo sa­rebbe allucinazione, o sogno. Il germe di vita vera è possibile den­tro la comunione dei cristiani, in una appartenenza che è un con­tinuo riprendersi, correggersi – soprattutto perdonarsi. Nel mo­mento più inaspettato, trovi uno che ti abbraccia – «amatevi, come io ho amato voi»–. Per questo oc­corrono le facce dei fratelli, oc­corre, come ha detto il Papa re­centemente, «uomini che renda­no Dio credibile».
C’è un punto, in quel libro di Giussani, in cui l’analisi di ciò che è accaduto alla speranza cristia­na nella storia scorre parallela­mente a quella della «Spe salvi». È la sottolineatura dell’Umane­simo come il farsi avanti di un uomo che si percepisce come au­tosufficiente, e la conseguente ri­bellione al Dio cristiano.
È l’affacciarsi alla storia di un uo­mo autosufficiente e quindi di­sperato - giacchè, poichè moria­mo, la nostra è una «autosuffi­cienza » a termine. E quest’uomo è ostile alla Chiesa, perchè la Chiesa continua a affermare il suo bisogno di essere salvato – la Chiesa come argine alla prepo­tenza dell’uomo. Un punto che il Papa sottolinea con preoccupa­zione: un pericolo per l’uomo che venga da questa pretesa di auto­sufficienza. Come disse De Mai­stre, l’uomo senza Dio non co­struisce un mondo contro Dio, ma contro l’uomo.
La critica del Papa però tocca an­che il cristianesimo moderno, perchè ha 'ridotto la speranza' originaria.
Giussani si chiese, riecheggiando Eliot, se la Chiesa non aveva «ab­bandonato l’umanità». In quello stesso senso di una riduzione del­la speranza originaria a consiglio morale. Di valori proposti di­menticando l’evento di Cristo, su cui quei valori si fondano. Quan­te volte dal pulpito ci siamo sen­titi invitare a «essere buoni», ma senza capire in nome di che, giac­chè il fatto di Cristo, che fonda la bontà, passa in secondo piano, è scontato.
Il Papa scrive: «Se ci fossero strutture che fissassero in modo irrevocabile una determinata ­buona - condizione del mondo, sarebbe negata la libertà dell’uomo, e per questo motivo non sarebbero per nulla strutture buone».
Il tema della libertà era molto ca­ro a Giussani. Ci diceva della pas­sione di Dio per la libertà del­l’uomo: di come avesse voluto che la sua creatura lo amasse, ma li­beramente. Ammettendo con ciò la possibilità del rifiuto e del ma­le. Contro il sogno ideologico – ed è ancora Eliot – di «sistemi tal­mente perfetti che nessuno a­vrebbe più bisogno di essere buo­no ».
La vita eterna, cioè il motivo della speranza, per il Papa è «relazione con Cristo».
Con Cristo, cioè con il Senso di tutto (il significato delle cose è il rapporto tra loro e con tutto) en­trato nella storia. Era costante an­che in Giussani lo sforzo di mo­strare come le parole fondamen­tali della esperienza cristiana – fe­de, speranza, carità, quelle paro­le che il mondo svuota – sono at­tese originarie in ogni uomo. Chi, anche non credente, vuole spera­re che la sua vita possa cambiare, deve avere fiducia nel mondo, e deve legarsi a dei rapporti. La spe­ranza dunque è ontologicamente fondata sulla relazione. Non na­sciamo monadi, fin dal primo i­stante non esistiamo soli.
Sembra di scorgere un’ansia co­mune alla radice, fra questi due uomini quasi coetanei.
Due uomini diversi, ma entram­bi profondamente cristiani e nel­lo stesso periodo storico. Ansiosi di fare ritrovare la speranza origi­naria. Quella di cui il poeta Jimé­nez scrisse: «Ora è vero. /Ma è sta­to così falso/ che ancora oggi sembra impossibile». Versi che Giussani in chiusura di quel libro commentava: «Quando uno in­tuisce il fatto cristiano come ve­ro, gli occorre ancora il coraggio di risentirlo possibile».
«Ha combattuto per la piena incidenza della fede nella realtà. Senza la quale il cristianesimo sarebbe un sogno».
«Occorrono uomini che, come ha detto il Papa, rendano Dio credibile»




«I cattolici scelgano chi difende i loro valori. I simboli non contano»Intervista al vescovo di San Marino Luigi Negri:
«Servono politici che abbiano come criterio ultimo la dottrina sociale cristiana»
«Sono gli uomini che difendono i valori, non i simboli».
Il vescovo di San Marino monsignor Negri torna sul voto dei cattolici.

Andrea Tornielli
Il Giornale, 18 febbraio 2008

«Il problema per i cattolici oggi, di fronte alle vicende politiche del nostro Paese, è innanzitutto un problema di cultura. Ci devono essere uomini e donne che sappiano impegnarsi avendo come criterio ultimo i valori non negoziabili e la dottrina sociale della Chiesa».
Così Luigi Negri, vescovo di San Marino e Montefeltro, sintetizza la sfida che si presenta di fronte al mondo cattolico. Ieri il quotidiano Avvenire, in un editoriale firmato da Marco Tarquinio, faceva il punto sulla presenza (e sulle difficoltà) dei cattolici negli schieramenti della politica italiana, parlando di «un problema di compatibilità tra visioni antropologiche» per quanto riguarda il Partito democratico, «un nodo che negli ultimi anni è emerso a più riprese (si pensi solo ai temi della famiglia e della tutela della vita), fino a farsi stringente».
Che rischia di «diventare soffocante - si legge ancora nell’editoriale del quotidiano cattolico -, se davvero si realizzasse un ulteriore e definitivo avvicinamento con il gruppo di Pannella e Bonino». A destra, invece, Avvenire vede un problema di «omologazione» dovuto al «subitaneo assemblaggio di soggetti differenti» che hanno come «solo connotato ben definito», per il momento, il «profilo» del Cavaliere. Infine, al centro, nell’area dove si colloca l’Udc, secondo Avvenire c’è il «problema chiave» della «qualità» degli uomini che incarnano il progetto.

Monsignore, una situazione un po’ confusa, non crede?
«Vorrei innanzitutto dire che a me il problema appare culturale, non di formazione politica o di schieramento partitico: un ragionamento sugli schieramenti sarebbe tra l’altro del tutto fuori luogo nelle parole di un vescovo. Parlo di cultura perché questa è un’emergenza per il nostro Paese. Si tratta infatti di recuperare i principi e i valori fondamentali, quelli che Papa Benedetto XVI ha definito non negoziabili – vale a dire vita, famiglia ed educazione – e su questi costruire ad ogni livello e in ogni campo ciò che la dottrina sociale della Chiesa ha formulato in un secolo e mezzo di magistero».

Oggi i cattolici militano nel centrodestra, nel centro, nel centrosinistra...
«Il problema è che esistano oggi in Italia uomini decisi a impegnarsi nella vita sociale e politica affermando che i valori non negoziabili sono e saranno il criterio in base a cui verificare la loro stessa militanza politica».

Che cosa pensa della decisione di Pier Ferdinando Casini di non aderire al Pdl mantenendo il suo simbolo e correndo da solo?
«Non mi trascinerà in considerazioni relative agli schieramenti e ai partiti. Non sono un politico, non intendo pronunciarmi su questo. Faccio notare soltanto che sono gli uomini che difendono i valori, non i simboli. E la dottrina sociale della Chiesa, per il cattolico che s’impegna in politica, dovrebbe essere il criterio operativo, non soltanto l’ispirazione ideale tirata in ballo nei discorsi per poi fare le scelte concrete sulla base delle convenienze o delle ideologie o della disciplina di partito. Se politici così scarseggiano, ci vuole un’esperienza educativa che ne faccia rinascere, perché non possiamo accettare l’idea che la Chiesa non sia più in grado di educare».

L’unità politica dei cattolici è una fase chiusa, impraticabile la via del partito unico. Nessuna nostalgia?
«A dire il vero un po’ di nostalgia io ce l’ho. Ho appena detto che la difesa dei valori la fanno gli uomini, non i simboli, però il partito unitario dei cattolici era un ambito di riferimento. Adesso tutto è lasciato alla singola persona. Ogni cattolico, al momento del voto, dovrà guardare là dove i valori della dottrina sociale sono non tanto affermati, ma almeno non contrastati».

Può fare degli esempi?
«Non credo che una certa legislazione sulla famiglia che si è cercato di portare avanti negli ultimi due anni sia in linea con quel riconoscimento della famiglia naturale così come è sancito dalla nostra Costituzione. Così come faccio fatica ad avvertire una qualche consonanza con chi ostentatamente contrasta qualsiasi discorso di autonomia scolastica e di libertà di educazione. Mi sembra difficile che un cattolico possa votare per chi è contro la sacralità della vita, l’unità della famiglia, il rispetto della libertà di educazione».



RADICALI COMPRATI
La premiata ditta MarcoEmma&C ha piazzato l’ultimo affare. Tre milioni di euro, otto posti da parlamentare e la Bonino ministro. È l’incredibile bottino che il partito di Pannella ha strappato a Veltroni. In cambio di nulla.

Tre milioni di euro. È l'incredibile cifra che i radicali sono riusciti a strappare a Walter Veltroni in cambio di nulla. Perché se i Democratici non avessero offerto loro nove posti da parlamentare, più questa sontuosa fetta di finanziamento pubblico, i pannelliani sarebbero scomparsi dal Parlamento. Impossibile infatti che raggiungano il quattro per cento, quota-ghigliottina per i non apparentati, da soli o magari riesumando la Rosa nel Pugno con i socialisti, che due anni fa si fermò mesta al due virgola qualcosa. Oggi i sondaggi unanimi assegnano loro l'uno-due per cento. E nessun altro forno - Berlusconi, Bertinotti - li vuole. Nessuna alternativa, quindi. Eppure, trattando e lamentandosi, Marco Pannella ed Emma Bonino hanno spuntato condizioni di lusso. Il governo italiano - qualunque governo - dovrebbe nominarli immediatamente plenipotenziari per tutti i negoziati internazionali che aspettano il nostro Paese. Si sono dimostrati più abili di qualsiasi pokerista incallito, trader di Wall Street o vu' cumprà da spiaggia. Eccezionali.
ECCEZIONALE MARCO
Pannella, d'altronde, è sempre stato eccezionale. Da quando a quindici anni, nel 1945, comprò la prima copia del giornale di Benedetto Croce, "Risorgimento liberale", e s'innamorò del partito omonimo. Pochi anni dopo lui ed Eugenio Scalfari erano i due galletti più promettenti nel vivaio del Pli. Ma stavano troppo a sinistra per i filo-confindustriali, e allora nel '55 fondarono il partito radicale. Dopodiché, sono sempre andati a scrocco. Alle politiche si allearono con il Pri, ma presero l'1,4. Nel '60 si appiccicarono al Psi e andò un po' meglio: 51 consiglieri comunali radicali eletti in Italia (fra i quali Arnoldo Foà in Campidoglio e Scalfari a Milano, col quadruplo dei voti di un giovane Bettino Craxi). Poi ci fu un'alleanza a Roma addirittura con i filosovietici dello Psiup: Pannella arrivò terzo ma non fu eletto. La strategia del cuculo funzionò invece nell'89, quando i radicali stabilirono un record mondiale. Riuscirono a candidarsi eurodeputati in ben quattro liste diverse: Pannella con Pri-Pli, Adelaide Aglietta con i Verdi, Marco Taradash con gli antiproibizionisti sulla droga. E Giovanni Negri finì nel Psdi, unico non eletto. Nel '63 fu il Pci a fare la corte a Pannella, proprio come oggi: Giancarlo Pajetta in persona offrì tre posti da indipendenti di sinistra ai radicali. Ma loro rifiutarono sdegnosamente. Allora se lo potevano permettere, perché nessuno faceva il politico di mestiere: Pannella e Gianfranco Spadaccia erano giornalisti, Angiolo Bandinelli professore, Sergio Stanzani dirigente Iri, Mauro Mellini avvocato. Oggi, invece, la «baracca» radicale è una piccola multinazionale dei diritti umani con uffici a Bruxelles e New York, una bella sede nel centro di Roma proprio sopra al night Supper club, e un'ottima radio che copre tutta Italia e offre la migliore rassegna stampa ai patiti di politica: quella del direttore Massimo Bordin. Loro, che si considerano sempre il sale della terra, preferiscono autodefinirsi umilmente "galassia", e vantano un sacco di associazioni collaterali: da "Nessuno tocchi Caino" che ha appena strappato la moratoria sulle esecuzioni capitali all'Onu alla "Luca Coscioni" che si batte per la libertà della ricerca scientifica e il testamento biologico (caso Welby), dagli ecologisti di "Rientro dolce" agli umanitaristi internazionali di "Non c'è pace senza giustizia". Il che, molto prosaicamente, vuol dire decine di stipendi che Pannella si trova sul groppone. Ora, grazie a Walter, verranno erogati per altri cinque anni.
IL TESORO IN RADIO
Quanto a Radio radicale, da decenni riesce nel miracolo di incassare contributi statali sia come organo di partito, sia come emittente super partes delle sedute parlamentari. Intendiamoci, però: i pannelliani non sono imbroglioni clientelari. La loro radio, per esempio, trasmette con spirito voltairiano convegni e congressi di tutti i partiti. Tanto che, all'ultima assemblea di An, un oratore ha chiesto in extremis la parola a Gianfranco Fini giustificandosi così: «Devo dimostrare a mia moglie in ascolto dalla Sicilia che sono veramente qui».
SILVIO COME WALTER
Nel 1996 fu Berlusconi a trovarsi nei panni di Veltroni. Allora Pannella trattò con lui l'entrata dei radicali nel Polo, chiedendo lo stesso numero di collegi sicuri offerti ai cattolici di Ccd-Cdu. Ma aveva sottovalutato l'abilità di Casini, Mastella e Buttiglione, che alla fine spuntarono cento posti contro i 43 offerti ai radicali. «Non entrerò più nel suk di via dell'Anima!», tuonò Marco, che si vendicò presentando candidati autonomi. Un disastro: nessun deputato, e solo un senatore eletto in Sicilia (Piero Milio) grazie a una desistenza concordata in extremis. Ammaestrato da quella esperienza, che tenne i radicali fuori da Montecitorio per un decennio, questa volta Pannellik ha bluffato solo fino all'ultimo secondo. Poi i suoi fidatissimi Rita Bernardini e Marco Cappato hanno acchiappato al volo quel che offriva Goffredo Bettini, il generoso (o sprovveduto?) luogotenente di Veltroni, probabilmente anche lui succube del fascino di SuperMarco fin dal '93, quando assieme architettarono la prima sindacatura romana vincente di Francesco Rutelli. Chi saranno adesso i nove radicali nel partito democratico? Proforma è stato convocato un comitato nazionale radicale per il weekend. Però come sempre deciderà Pannella, gran libertario fuori ma leninista all'interno del suo partitino. I due giovani radicali più brillanti, quelli della svolta liberista degli anni Novanta che fruttò l'exploit dell'otto per cento alla lista Bonino nel '99 (con punte del 15% in alcune città del Nord), se ne sono andati con Berlusconi. Benedetto Della Vedova è riuscito a mantenere rapporti cordiali con Marco, mentre con Daniele Capezzone si è passati direttamente dall'amore all'odio. Eppure Pannella è spesso generoso con i suoi. A volte quasi scialacquatore. Due anni fa, per esempio, regalò due seggi che spettavano ai radicali (nell'alleanza con i socialisti) agli ex comunisti Lanfranco Turci e Salvatore Buglio - quest'ultimo unico ex operaio eletto alla Camera. Molti sono gli ex portaborse radicali che devono essere sistemati. (La definizione non suoni insulto: chi ha portato la borsa a Pannella è destinato a carriere mirabolanti, come Elio Vito in Forza Italia e lo stesso Rutelli). Non ci saranno quindi esterni di lusso, come Leonardo Sciascia, Enzo Tortora o Domenico Modugno. E neanche scandali viventi come Toni Negri o Cicciolina. Bandinelli, possibile senatore, ha 80 anni come Ciriaco De Mita, ma Veltroni ha un debole per lui: sedettero assieme nel consiglio comunale a Roma di Luigi Petroselli negli anni '70 (prima carica di Walter). Oggi Bandinelli è un po' imbarazzato, perché dopo avere scritto sul mitico "Mondo" di Mario Pannunzio negli anni '50 e '60 è approdato al "Foglio". Ma la svolta clericale di Giuliano Ferrara lo ha spiazzato, anche se conserva la sua column settimanale in nome della "dissenting opinion". Quanto a Pannella, a 78 anni non è un mistero che ambisca a un posto da senatore. A vita, però. Prima o poi, c'è da scommetterlo, riuscirà ad ammaliare anche qualche presidente della Repubblica, che sarà costretto a nominarlo dopo uno sciopero della fame o della sete. Per evitare un'altra bevuta di pipì, come quella che l'in correggibile inflisse al povero Carlo Azeglio Ciampi nel 2002.
LIBERO 22 febbraio 2008



Le intuizioni del Papa sulla vera speranza (Parte II)
Intervista a padre James Schall, docente di Filosofia politica

di Carrie Gress

ROMA, giovedì, 21 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Il più grande imbarazzo per il mondo di oggi è constatare che la voce più intelligente con cui confrontarsi è quella del papato, afferma padre James Schall.

Il gesuita, professore di filosofia politica presso la Georgetown University, è autore di “The Order of Things”, e di “Another Sort of Learning”, entrambi pubblicati da Ignatius Press.

Nella seconda parte di questa intervista rilasciata a ZENIT, padre Schall evidenzia nella recente enciclica “Spe salvi” come Benedetto XVI presti attenzione sia alla cura della mente che dell’anima.

La prima parte dell'intervista è stata pubblicata il 20 febbraio.

Il paragrafo n. 15 della “Spe salvi” traccia una bella similitudine fra il monastero e l’anima. Cosa vuole sottolineare il Santo Padre attraverso questa immagine?

Padre Schall: Un brano degli scritti di Josef Pieper, di derivazione tomistica se non aristotelica e platonica, affronta proprio tale questione. Il passaggio si trova in “Josef Pieper -- an Anthology” e si chiama “The Purpose of Politics”. È lungo solo qualche paragrafo. Lo indico sempre agli studenti come il più fondamentale passaggio sulla politica e sulla filosofia politica. In sostanza dice che la politica non è comprensibile se non si tiene conto anche dell’ordine trascendente e che non è possibile costruire una società sana basandosi solo sulla politica.

Scrive Pieper citando San Tommaso d’Aquino: “Per il bene della comunità umana è necessario che ci siano delle persone dedicate alla vita contemplativa. Perché è la contemplazione che preserva, nell’ambito della società umana, la verità che è allo stesso tempo non usabile e misura di ogni possibile uso; è quindi la contemplazione che mantiene chiaro il vero fine e che dà senso ad ogni azione nella vita” (trad. libera da “An Anthology”, 123). Questi concetti si ritrovano anche in molto di ciò che il Papa scrive sulla legge naturale quale metro e misura dell’azione umana.

Detto in maniera sintetica: nessun ordinamento politico può essere in sé sano e utile se non comprende anche coloro che non si dedicano alla politica. Questo non significa in alcun modo negare alla politica la sua importanza, bensì evitare che questa diventi la cosa più importante in una società. Certamente una società che fa della politica la cosa più importante è già una società totalitaria, come affermava implicitamente Aristotele.

Il Papa, nel trattare questa questione nella “Spe salvi”, si riferisce alla tradizione monastica e a Sant’Agostino. Il Papa è attento a precisare che questa vita contemplativa non si oppone ad alcuna impostazione della vita temporale. Anzi, mette in risalto il rapporto fra la contemplazione e il lavoro. Del resto, l’elevazione del lavoro ad una dignità superiore a quella della schiavitù o di altra forma di oppressione, deriva proprio dal concetto benedettino di “ora et labora”.

Il Papa cita a questo proposito un certo Pseudo-Rufino che sostanzialmente afferma ciò che anche Pieper dice: “Il genere umano vive grazie a pochi; se non ci fossero quelli, il mondo perirebbe”. È veramente un’affermazione notevole. Non solo dimostra l’assoluta necessità di avere persone che costantemente ricordino alla società che c’è qualcosa che va al di là di questo mondo, ma dimostra l’importanza della contemplazione per mantenere una mente retta.

Il rapporto delicato fra volontà e intelletto costituisce il dramma centrale della filosofia e della rivelazione. È per questo che è stato sempre affermato che i grandi disordini dell’anima, così come i grandi movimenti volti al bene, hanno origine nel cuore degli intellettuali, degli accademici e dei religiosi, ben prima di diffondersi nella collettività. Questo è ciò che significa “immanentizzare l’eschaton”.

Cosa pensa del ruolo del Papa nel mondo di oggi come voce universale rivolta non solo ai cattolici?
Pare Schall: Il Papa rappresenta oggi l’unica voce universale nel mondo attuale. E ciò deriva dalla Sapienza che ha fondato la Chiesa sulla Roccia che è Pietro. Il più grande imbarazzo del mondo di oggi è che la voce più intelligente con cui si confronta, o con cui deliberatamente rifiuta di confrontarsi, è quella del papato. Possiamo dedicare tutto il tempo del mondo a scavare negli scandali della Chiesa o a dissertare su ciò che il papato avrebbe o non avrebbe dovuto fare. Ciò che invece non possiamo fare è leggere i documenti fondamentali della Chiesa, soprattutto quelli degli ultimi Papi, e sostenere che essi non toccano le radici stesse di ogni disordine nella sfera pubblica di questo mondo, non solo in Occidente, ma anche nel mondo islamico, in Cina, in India e così via.

Il Cristianesimo ha una missione nel mondo. Il perché questa si sia sviluppata così lentamente possiamo solo cercare di intuirlo. Ciò che questa enciclica fa è di mostrare che i movimenti nell’ambito della filosofia moderna e delle altre religioni hanno motivazioni intelligibili che è necessario tenere conto in termini di speranza cristiana. Questa enciclica non è rivolta meramente alla cultura occidentale.

Ciò che Benedetto XVI ha illustrato in “Deus caritas est”, così come in questa enciclica, è che è possibile sperare allo stesso tempo nella vita eterna e in un mondo migliore, ma che non possiamo confondere l’una cosa con l’altra. Un altro aspetto notevole di questo documento, a mio avviso, è il modo in cui tratta i concetti trascendenti classici - unicità, verità, bontà, essere e bellezza - dimostrando la loro esistenza concreta. Nessuno di questi è una mera astrazione. La carità non è un qualcosa che possiamo esportare alla politica. La giustizia è un aspetto presente in ogni campo. La bellezza è la grande categoria platonica che, tuttavia, deve essere fondata sul bene e sulla verità.

L’enciclica conclude trattando della sofferenza e del suo rapporto con ciascuno di questi concetti. È una sezione straordinaria, in cui il Papa cita i filosofi tedeschi che riconoscono in definitiva che è necessario affrontare le questioni del male e della giustizia anche del passato e che non è possibile affrontarle se non attraverso la dottrina e la realtà del giudizio finale e la resurrezione dei corpi. In effetti, secondo lo stesso Platone, la questione non può essere trattata al di fuori del concetto del perdono e della sofferenza vicaria.

Quindi il ruolo del Papa come voce universale è quello di mantenere vivo nel mondo la consapevolezza che dobbiamo sapere chi siamo veramente; che dobbiamo conoscere la giustizia, la sofferenza e l’inferno; che dobbiamo sapere che se neghiamo la dottrina dell’inferno, le nostre ideologie semplicemente lo reinventeranno in questo mondo nella forma di qualcosa di veramente disumano. L’inferno della rivelazione è semplicemente la logica conseguenza dell’uso distorto del nostro libero arbitrio, senza il quale non esisteremmo.

La sofferenza, come ci racconta la rivelazione, è il prodotto del peccato e della morte. I tentativi di negare il peccato e la morte, solitamente generano qualcosa di ancora peggiore. Allo stesso tempo è però necessario cercare di ridurre il dolore e la sofferenza in questo mondo. Questo è uno degli effetti derivanti dalla rivelazione della vita eterna, ovvero, dalla comprensione dell’imperfezione di questo mondo.

Alla fine la nostra speranza si ravviva perché siamo in grado di comprenderla. E di questo dobbiamo ringraziare l’attuale Papa che ci spiega a fondo le cose ultime e come le dobbiamo intendere e poi raggiungere. Un dono per il nostro intelletto ma anche e soprattutto un dono per la nostra anima.


LA DIFESA DELLA VITA
Aborto, le immigrate cinesi al «Buzzi» scelgono la vita


Avvenire, 22.2.2008
DA MILANO LUCIA BELLASPIGA
Del bambino cinese mai nato a Firenze, abor­tito al quarto mese, non c’è più traccia: men­tre la madre, 20 anni, immigrata regolare, lot­ta in ospedale con utero e intestino perforati dall’og­getto utilizzato per l’aborto, la polizia cerca nella re­te fognaria. «Ho fatto tutto da sola - ripete lei, forse impaurita, forse minacciata - , non ricordo con qua­le oggetto. Il bambino l’ho buttato nel water...». Pa­role dure, difficili anche da scrivere, figuriamoci da pronunciare, ma questa è la realtà in troppe situa­zioni di degrado e ignoranza. E il rimpianto maggio­re, in tutti noi, lo grida la giovane madre mancata: «So solo che se tornassi indietro non lo rifarei mai più».
Come lei tante giovani cinesi: inspiegabilmente, vi­sto che in Italia vige una legge che regolamenta pro­prio l’interruzione di gravidanza, «ma soprattutto che in Italia abbiamo una normativa per le donne immi­grate che tutela la maternità come in nessun’altra parte del mondo», dice la dottoressa Fausta Gramel­lini, ginecologa all’Ospedale dei Bambini 'Buzzi' di Milano. Una posizione 'privilegiata' quella del Buz­zi, a pochi passi da via Paolo Sarpi, la Chinatown mi­lanese, e comunque inserito in un contesto multiet­nico, tra quartieri di maghrebini e orientali. «Se le stra­niere hanno il permesso di soggiorno ovviamente ri­cevono la stessa assistenza di qualsiasi donna italia­na - spiega la ginecologa - , ma anche quelle irregola­ri che aspettano un figlio non hanno nulla da teme­re, grazie alle leggi dello Stato italiano, perché prima di tutto viene la tutela della vita». Basta che abbiano un documento di identità da mostrare e, per tutto il periodo della gravidanza, ricevono cure e assistenza gratuite, oltre a un permesso di soggiorno tempora­neo.
Deve sembrare un vero miracolo a donne che vivo­no spesso tra degrado e discriminazione, che pro­vengono dalle campagne della Cina più arretrata, che spesso sono analfabete, e soprattutto che nel loro Paese non godono di alcuna tutela sanitaria: in Cina tutto è a pagamento, o te lo puoi permettere o nien­te. Un miracolo italiano, dunque. Ma il fatto è che di questo 'miracolo' troppo spesso le donne cinesi (e non solo) non ne sanno nulla, così decidono di disfarsi di un figlio che altrimenti avrebbero tenuto, e si affi­dano alle 'mammane', agli ambulatori clandestini, ai ferri da tortura. «Per questo il professor Umberto Nicolini, da sempre sensibile alla tutela delle gravi­danze, ha fortemente voluto la mediazione cultura- le», continua la dottoressa Gramellini. Nicolini, re­sponsabile di ostetricia e ginecologia, scomparso gio­vane un mese fa, ha lasciato una grande eredità al Buzzi: dal 2000 nell’ospedale funziona un servizio di mediazione culturale rivolto a decine di etnie, con un’attenzione particolare proprio alle madri cinesi, le più fragili e indifese. Ogni giovedì e venerdì negli am­bulatori di ostetricia e ginecologia Su Ping, 38 anni, da 15 in Italia, mediatrice culturale, accoglie, tradu­ce, spiega in cinese alle giovani madri l’iter burocra­tico, i diritti, ma anche le regole sanitarie per la gra­vidanza: «Chiaro che per loro venire in ospedale e tro­vare una persona cinese, che ti capisce, ti indica gli e­sami da fare, i comportamenti da tenere, significa po­tersi affidare - spiega Su Ping - e accogliere la gravi­danza come una cosa positiva. Per tutte le madri del mondo la nascita di un figlio è una bella notizia, se le si mette nella giusta condizione».
Non hanno aspettato che venissero da sole a cercare il 'miracolo': «Siamo andati noi a bussare all’Asso­ciazione donne cinesi specie per venire incontro a quelle irregolari, le più destinate ai luoghi di macello e ad abortire - aggiunge Antonella A., l’assistente so­ciale - . Ora sanno che esiste la possibilità di tenere il proprio bambino», e se proprio sono decise ad abor­tire almeno lo possono fare rispettando la legge 194. Non è un caso se dal 2000 ad oggi al Buzzi i parti di tutte le immigrate sono balzati al 20% del totale, e di queste ben il 5% sono cinesi. Cinesi che hanno det­to no a 'medici' e 'ambulatori' clandestini per affi­dare la propria salute e quella del bambino alla sanità italiana. «Ormai grazie al passaparola sanno di que­sto servizio e vengono da tutta Italia, soprattutto dal­la Toscana, visto che a Prato vive una foltissima co­munità », nota Su Ping. «E molte così decidono di te­nere il bambino - sottolinea la dottoressa Gramellini -... poi magari lo mandano subito in Cina, ma alme­no è nato! E solo qui da noi siamo in grado di toglie­re la speciale spirale inamovibile che in Cina fanno mettere alle donne dopo il primo figlio perché non ne nasca mai un secondo: in Italia sono libere e ce lo chiedono». Poco importa che un giorno, quando de­cideranno di rientrare in patria, pagheranno 10mila euro di multa per ogni figlio messo al mondo. Ogni mese nell’ambulatorio di ostetricia oltre un centinaio di donne cinesi attende la visita medica. E l’aiuto di Su Ping.
Nell’ospedale milanese dal 2000 una mediatrice cinese è presente durante tutte le visite di ostetricia e ginecologia. Traduce, spiega, rassicura... E molte giovani decidono di tenere il bambino «La nascita di un figlio è una bella notizia per qualsiasi madre al mondo, se la si aiuta. Il nostro compito? Tutelare la maternità anche per le irregolari, le più esposte ai macelli clandestini»



Oscar, Coen favoriti con un film sul male

Arriva nelle sale «Non è un paese per vecchi» cruento ritratto di un’America senza più regole e principi morali ma dominata dalla droga e dal malaffare
DI ALESSANDRA DE LUCA
senza dubbio il loro film più violento e sanguinoso, forse dettato dalla voglia di riscat­tarsi da commedie come Prima ti sposo e poi ti rovino e Ladykillers che
avevano fatto storcere il naso ai fan più accaniti. Quella pistola a pres­sione che stermina sullo schermo decine di persone ti costringe però a distogliere lo sguardo. I fratelli Joel ed Ethan Coen che arrivano oggi su­gli schermi italiani con Non è un pae­se per vecchi volevano rimanere fe­deli al romanzo di Corman Mc­Carthy da cui il film è tratto. E la ri­nascita artistica dei fratelli del Min­nesota è stata salutata da ben otto nomination all’Oscar, quattro delle quali vanno al film, alla regia, alla sceneggiatura non originale e al montaggio.
La vicenda si svolge nel Texas occi­dentale, dove Llewelyn Moss (un ot­timo Josh Brolin), un brav’uomo co­me tanti, trova un furgone circonda­to da morti ammazzati. Una valigia piena di eroina e due milioni di dol­lari sono ancora nella vettura. L­lewelyn decide di prendere i soldi, ma quel gesto scatenerà un’intermi­nabile serie di drammatiche reazio­ni a catena che coinvolgeranno an­che il disilluso sceriffo Bell ( Tommy Lee Jones), un uomo con un concet­to filosofico della legge, una solida morale e un insuperabile senso del­l’umorismo. Qualità che non sono molto d’aiuto quando hai a che fare con un cinico psicopatico come Chi­gurh (magnificamente interpretato da Javier Bardem) che affida le vite umane al lancio di una monetina. Mescolando thriller e commedia n­e­È ra, scene agghiaccianti ed esilaranti battute, i Coen descrivono un West drammaticamente mutato, dove non c’è più posto per leggi e regole se non quelle dettate dal traffico interna­zionale di droga. Un luogo, insom­ma, dove i vecchi principii morali so­no definitivamente scomparsi.
Ma, seppure in sintonia con la storia che raccontano, i Coen, che hanno in parte ritrovato l’eccentrica creatività dei loro primi film, non hanno con­vinto tutta la critica. Se qualcuno in America l’ha definita la migliore pel­licola del 2007, molti degli addetti ai lavori del Festival di Cannes, dove il film è stato presentato in concorso lo scorso maggio, sostenevano che i temi del bene e del male, della ten­tazione e dell’onore, della colpa e del­la giustizia non affiorano sullo schermo con la dovuta forza. Qual­cuno rimprovera loro di aver esage­rato con lo humor nero. Ma i registi si difendono così: «Anche questo a­spetto era nel romanzo e, d’altra par­te, l’umorismo un po’ macabro fa parte del nostro stile. Film politico sulla deriva dei tempi moderni? Non ci interessa dare messaggi, non sarà politico neppure il nostro prossimo film, Burn After Reading, tratto dal li­bro di un ex direttore della Cia e in­terpretato da Brad Pitt, George Cloo­ney, John Malkovich e Tilda Swinton. A noi sta molto più a cuore esplora­re gli abissi dell’umanità, il lato o­scuro dei personaggi».
E se la violenza del killer psicopati­co dalla strana pettinatura non la­scia indifferente lo spettatore, lo stes­so Bardem che ne veste i panni non ha nascosto il proprio turbamento: «Quel personaggio è il male in per­sona e io in quel ruolo ho provato un forte disagio. Ho avvertito delle stra­ne emozioni che mi disturbavano, tendevo a isolarmi e a incupirmi sul set. Ma i Coen sono tra i pochi regi­sti capaci di raccontare una violen­za così estrema». E i registi confer­mano: «Non prendiamo mai deci­sioni astratte, il livello di violenza vie­ne deciso caso per caso ed è legato al contesto della storia. Non vi è nul­la di gratuito né di intellettualmen­te compiaciuto».


La favola nera di Depp e Burton
Avvenire, 22.2.2008
DI FRANCESCO BOLZONI
Nelle sale il gotico «Sweeney Todd» con l’attore feticcio del geniale regista nei panni di un barbiere omicida per vendetta

Tim Burton, regista di culto presso i cinefili per film come Ed Wood, due Batman, Big Fi­sh, La fabbrica di cioccolato, La spo­sa cadavere, non cessa mai di stupi­re. E con lui il sorprendente attore Johnny Depp (sei film insieme). L’ul­tima favola nera della coppia, Swee­ney Todd - Il diabolico barbiere di Fleet Street, è atrocemente bello. Il nucleo narrativo è di un nero più spesso del nero, come del resto nei racconti dei fratelli Grimm che a lun­go vennero narrati ai bambini. Una storia terribile, dunque, articolata su un telaio di immagini di rara creati­vità, personalissima, sebbene sia ri­cavata da un musical di Stephen Sondheim e Hugh Wheeler (gli atto­ri alternano il canto alla parola e l’e­spediente mai disturba).
In un porto minacciato dalle nebbie arriva una nave dalle ampie vele. Non vi sbarcano Frankenstein o il vampiro Dracula che Burton consi­dera degli 'incompresi' come il suo Sweeney Todd (un Johnny Depp dal viso assorto, una ciocca bianca nei capelli), l’uomo che, anni prima, benché innocente, era stato con­dannato da un giudice invaghitosi della sua bella consorte. Torna in u­na Londra oscura, sporca e affollata che non ha nulla da spartire con gli scenari posticci di tanti film dell’or- rore che pure invadono gli schermi. È una Londra, come in bianco e ne­ro, inventata sapientemente da Dan­te Ferretti (candidato all’Oscar, così come Depp) e, all’inizio del raccon­to, scoperta nei suoi vicoli putridi da un carrello velocissimo che precede il reduce delle prigioni (a contrasto i colori tenui, dolcissimi dei ricordi di Todd o dei sogni di Nellie Lovett, He­lena Bonham Carter, bravissima). Todd vuole vendicarsi del torto su­bito, della fine della moglie e della fi­glioletta. La sua volontà di vendetta si sposa con l’innamoramento di un marinaio e di una ragazza, Johanna, che il tutore (il giudice che condannò Todd) tiene segregata in casa (un ri­svolto romantico intelligentemente contrapposto alla orrida storia del barbiere).
I contorni della poetica di Tim Bur­ton sono delimitati dall’horror, dal­l’umorismo e da una leggera patina di tenerezza che investe, oltre ai due innamorati, perfino il barbiere ma­­ledetto, il quale nella sua bottega ta­glia la testa ai clienti, e la perfida Nel­lie ne tritura i corpi preparando fo­cacce che fanno impazzire mezza Londra. Quello che viene racconta­to nel film non è riassumibile, non è adatto ad anime candide o a spetta­tori che da tempo non vanno al ci­nema. Nel finale, per fortuna, un tro­vatello – una sorta di non innocen­te angelo vendicatore – fa pagare il fio al diabolico barbiere. Ma, biso­gna riconoscerlo, tutto è reso da u­na scrittura di incredibile creatività. Tutto vi è amalgamato: le parole e i versi della canzoni, una Londra ot­tocentesca e una nevrosi assoluta, i continui colpi di scena. E tutto ten­de a un 'segno' moderno, come i­natteso, sempre sorprendente. Tim Burton dice che il cinema è un for­ma dispendiosa di psicoterapia. A­nalizza sogni che, talvolta, assomi­gliano a incubi. Saprà mai liberarse­ne, il geniale regista?