lunedì 18 febbraio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:

1) Benedetto XVI: "Trasfigurati nella speranza"
2) Il dolore del neonato
3) CHE STUPORE SCOPRIRE, NELLA MACELLERIA DELLA CRONACA E DELLA STORIA…, di Antonio Socci

Benedetto XVI: "Trasfigurati nella speranza"

Discorso introduttivo alla preghiera dell'Angelus
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 17 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell'intervento pronunciato questa domenica da Benedetto XVI in occasione della preghiera mariana dell'Angelus, recitata insieme ai fedeli e ai pellegrini riuniti in Piazza San Pietro.
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Cari fratelli e sorelle,
si sono conclusi ieri qui, nel Palazzo Apostolico, gli Esercizi Spirituali che, come ogni anno, hanno visto uniti nella preghiera e nella meditazione il Papa e i suoi collaboratori della Curia Romana. Ringrazio quanti ci sono stati vicini spiritualmente: voglia il Signore ricompensarli per questa loro generosità.
Quest’oggi, seconda domenica di Quaresima, proseguendo il cammino penitenziale, la liturgia, dopo averci presentato domenica scorsa il Vangelo delle tentazioni di Gesù nel deserto, ci invita a riflettere sull’evento straordinario della Trasfigurazione sul monte. Considerati insieme, entrambi gli episodi anticipano il mistero pasquale: la lotta di Gesù col tentatore prelude al grande duello finale della Passione, mentre la luce del suo Corpo trasfigurato anticipa la gloria della Risurrezione.
Da una parte vediamo Gesù pienamente uomo, che condivide con noi persino la tentazione; dall’altra lo contempliamo Figlio di Dio, che divinizza la nostra umanità. In tal modo, potremmo dire che queste due domeniche fungono da pilastri su cui poggia tutto l’edificio della Quaresima fino alla Pasqua, ed anzi l’intera struttura della vita cristiana, che consiste essenzialmente nel dinamismo pasquale: dalla morte alla vita.
La montagna – il Tabor come il Sinai – è il luogo della vicinanza con Dio. E’ lo spazio elevato, rispetto all’esistenza quotidiana, dove respirare l’aria pura della creazione. E’ il luogo della preghiera, dove stare alla presenza del Signore, come Mosè e come Elia, che appaiono accanto a Gesù trasfigurato e parlano con Lui dell’"esodo" che lo attende a Gerusalemme, cioè della sua Pasqua.
La Trasfigurazione è un avvenimento di preghiera: pregando Gesù si immerge in Dio, si unisce intimamente a Lui, aderisce con la propria volontà umana alla volontà di amore del Padre, e così la luce lo invade e appare visibilmente la verità del suo essere: Egli è Dio, Luce da Luce. Anche la veste di Gesù diventa candida e sfolgorante. Questo fa pensare al Battesimo, alla veste bianca che indossano i neofiti. Chi rinasce nel Battesimo viene rivestito di luce anticipando l’esistenza celeste, che l’Apocalisse rappresenta con il simbolo delle vesti candide (cfr Ap 7,9.13).
Qui è il punto cruciale: la trasfigurazione è anticipo della risurrezione, ma questa presuppone la morte. Gesù manifesta agli Apostoli la sua gloria, perché abbiano la forza di affrontare lo scandalo della croce, e comprendano che occorre passare attraverso molte tribolazioni per giungere al Regno di Dio. La voce del Padre, che risuona dall’alto, proclama Gesù suo Figlio prediletto come nel Battesimo nel Giordano, aggiungendo: "Ascoltatelo" (Mt 17,5).
Per entrare nella vita eterna bisogna ascoltare Gesù, seguirlo sulla via della croce, portando nel cuore come Lui la speranza della risurrezione. "Spe salvi", salvati nella speranza. Oggi possiamo dire: "Trasfigurati nella speranza".
Rivolgendoci ora in preghiera a Maria, riconosciamo in Lei la creatura umana trasfigurata interiormente dalla grazia di Cristo, e affidiamoci alla sua guida per percorrere con fede e generosità l’itinerario della Quaresima.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Seguo con preoccupazione le persistenti manifestazioni di tensione in Libano. Da quasi tre mesi il Paese non riesce a darsi un Capo dello Stato. Gli sforzi per comporre la crisi e il sostegno offerto da numerosi esponenti di rilievo della Comunità internazionale, anche se non hanno ancora raggiunto un risultato, dimostrano l’intenzione di individuare un Presidente che sia tale per tutti i libanesi e porre così le basi per superare le divisioni esistenti. Purtroppo, non mancano anche i motivi di preoccupazione, soprattutto a causa di una inconsueta violenza verbale o di quanti addirittura pongono la loro fiducia nella forza delle armi e nella eliminazione fisica degli avversari.
Assieme al Patriarca maronita e a tutti i Vescovi libanesi, vi chiedo di unirvi alla mia supplica a Nostra Signora del Libano, perché incoraggi i cittadini di quella cara Nazione, ed in particolare i politici, a lavorare con tenacia in favore della riconciliazione, di un dialogo veramente sincero, della pacifica convivenza e del bene di una Patria profondamente sentita come comune.
Rivolgo infine un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare ai fedeli provenienti da alcune parrocchie romane, e inoltre da Cento, dall’Isola di Lipari e da Valeggio sul Mincio, questi ultimi in occasione del bicentenario della dedicazione della chiesa parrocchiale, intitolata alla Cattedra di San Pietro. Saluto inoltre la Scuola Salesiana "Edoardo Agnelli" di Torino, l’Associazione Musicale "San Leucio" di Brindisi e le Famiglie del Movimento "Tra Noi". Un pensiero speciale va ai familiari delle persone scomparse il 4 gennaio scorso in Venezuela, con l’assicurazione della mia preghiera. A tutti auguro una buona domenica.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]


Il dolore del neonato
ROMA, domenica, 17 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l'intervento di Carlo Valerio Bellieni, Dirigente del Dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Universitario "Le Scotte" di Siena e membro della Pontificia Accademia Pro Vita.
L'articolo è stato pubblicato anche sul Journal of Medicine and the Person (December, Volume 5, Issue 4, 2007).
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Il rapporto del neonato con il dolore è estremamente particolare e articolato, dato che sappiamo bene che:
1. il neonato sente il dolore in modo più intenso che l’adulto
2. il neonato non può esprimere verbalmente le sue necessità e sensazioni
3. il neonato ospedalizzato va incontro ad un’alta serie di interventi potenzialmente dolorosi
4. abbiamo a disposizione efficaci strumenti farmacologici e procedure analgesiche per combattere il dolore. Per una rassegna completa ci si può rifare alla recente pubblicazione edita a cura del Gruppo di Studio sul dolore della Società Italiana di Neonatologia [1]

Curare il dolore

Purtroppo e inspiegabilmente il dolore neonatale è ancora non adeguatamente trattato [2]; simili risultati vengono anche da una nostra recente indagine italiana [3] e da lavori australiani [4]. Ci si domanda perché il dolore del neonato sia così poco considerato e abbiamo cercato di dare una risposta, che considera vari punti.
1. La stessa definizione della parola “dolore” non si addice al piccolo paziente. Infatti la IASP (Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore) ne ha fissato una definizione che lega la sensazione di dolore alla capacità del paziente di esplicitarlo e di esserne cosciente: questo crea diversi problemi nella sua applicazione al neonato [5]. Inoltre è difficile poter valutare oggettivamente il dolore mediante scale di misurazione, come avviene nell’adulto: attualmente per il neonato ne esistono oltre 30, ma ancora non si è arrivati ad avere il cosiddetto “golden standard”.
2. Confusione tra “dolore” e “sofferenza”: si pensa che i due termini siano un tutt’uno e invece non si distinguono in maniera corretta, con conseguenze spiacevoli, dato che i farmaci analgesici hanno effetto nel primo caso, mentre nel caso di una sofferenza psicologica, da isolamento, delusione ecc. non hanno motivo di essere impiegati. Inoltre, anche il dolore fisico, se non viene approcciato tenendo conto del carico di sofferenza che esso porta con sé, non verrà mai trattato in modo soddisfacente.
3. Medicina difensiva [6-9]: si tratta della tendenza a moltiplicare gli esami che si fanno ad un paziente per evitare il rischio di conseguenze legali, così da poter prevenire ogni possibile lamentela o rivalsa per una possibile trascuratezza, anche se di questi esami (o ricoveri) non c’è stretto e impellente bisogno. È un fenomeno ben descritto in letteratura, che ha un rovescio della medaglia: il rischio che dove non ci sia la possibilità di un contenzioso legale, non ci sia nemmeno un alto livello di attenzione. Un esempio di questo è la cura del dolore nel neonato: difficilmente qualcuno verrà accusato di aver provocato al neonato un dolore non necessario, come invece potrebbe succedere in un adulto (pensiamo al dentista che estraesse un dente senza anestesia); anche le conseguenze fisiche o morali che il dolore suddetto potrà provocare al neonato non sono dimostrabili, dunque il livello di vigilanza rischia di diminuire.
4. Alla scarsa capacità di sopravvivere che culturalmente attribuiamo al neonato, specialmente al prematuro, si associa anche una scarsa “umanità”. In altre parole, non ci si vuole affezionare al neonato e per questo non lo si tratta completamente da persona, la quale ha diritto a tutti i comfort, come ogni altro. Ci si limita, e questo è già un buon passo, a curarlo, ma ancora i passi da fare per passare dalla “cure” alla “care” sono tanti. Eppure sappiamo che una cura umanizzata, in particolare centrata sulle esigenze del singolo neonato e della sua famiglia, non solo costituiscono un modo etico di procedere, ma riducono il danno cerebrale
5. Empatia: per curare correttamente bisogna in parte immedesimarsi nel malato. Questo è particolarmente difficile nel caso del paziente preverbale.

Tutti questi ostacoli vanno vinti e oggi abbiamo gli strumenti per farlo. Trincerarsi dietro l’idea che il dolore non sia trattabile significa vivere la preistoria della neonatologia e non fare gli interessi del paziente.

Il dolore del personale curante
Quando si parla di dolore, si pensa anzitutto al dolore del paziente, ma non si tiene in conto il dolore del personale curante. Si considera il personale -medici e infermieri- come “fornitori di un servizio” e il malato come “utenza”. Sembra cioè che il rapporto sia a senso unico: c’è chi cura e chi viene curato. Invece no: chi sta con coscienza di sé di fianco al paziente si rende conto di quanto ha imparato da ogni singola persona con cui si è coinvolto, che ha assistito, che ha curato. Quanto si è imparato da ogni singolo caso, anche da quelli in cui gli sforzi non sono stati efficaci. Ogni minuto speso con i genitori, per spiegare quello che altri non avevano saputo spiegare, per consolare, per rassicurare, non è contemplato in un mansionario, non è nemmeno retribuito, ma è spesso la salvezza di qualcuno. E questo conta e costa. Consideriamo che siamo spesso in contatto con bambini morenti, ma anche con altri che avranno nella loro vita gravi disabilità per patologia o per alta prematurità.
Questo lascia il segno psicologicamente; nascono dubbi in chi li assiste, tanto da far domandare se la loro vita non sia dovuta ad un uso eccessivo della tecnologia. D’altronde, se così si fosse ragionato trent’anni fa, quasi nessun bambino sotto il chilo di peso sarebbe sopravvissuto, dato che la mortalità al di sotto di quella soglia era altissima. È giusto curare anche chi non ha grosse possibilità di farcela. Ovviamente senza usare strumenti o medicinali inutili; senza provocare dolore per quanto possibile; senza cercare di far vivere chi chiaramente si trova in fin di vita e non ha possibilità di sopravvivenza.
Consideriamo tre punti:
1. a 23 settimane 3-4 neonati su 10 sopravvivono, pur essendo chiaro che molti di questi avranno disabilità di vario tipo; a 24 settimane il tasso di sopravvivenza aumenta e cala il rischio di disabilità, dunque a 23-24 settimane non siamo a priori davanti a neonati morenti
2. non si può essere certi dell’esattezza dell’età gestazionale alla nascita
3. la prognosi di un neonato resta incerta non solo in sala parto, ma spesso per mesi

Può sorgere il dubbio se sia corretto curare neonati, di cui conosciamo l’ipotetico rischio di handicap, ma è un dubbio di rapida risoluzione: qualunque paziente ha diritto ad essere assistito nel migliore dei modi, indipendentemente dal livello di abilità o disabilità che egli abbia. Anche negli Stati Uniti fu sollevato questo dibattito: è giusto rianimare un bambino Down come si rianimerebbe qualunque altro bambino? E la risposta della Corte Suprema fu: assolutamente sì [10]. Un recente studio svedese mostra che negli ospedali dove si rianimano i bambini al limite della sopravvivenza, la percentuale di bambini senza gravi patologie è maggiore [11].
Sono sempre più numerosi i lavori che avanzano dubbi sulla correttezza di far dipendere la sopravvivenza di questi piccolissimi pazienti dalla qualità presunta della loro vita [12]. D’altronde un recente studio su 460 bambini con spina bifida (potologia malformativa per la quale in Olanda si esegue l’eutanasia neonatale), mostra che il livello mentale di questi bambini è paragonabile a quello degli altri, così come la soddisfazione di vita e la interazione con i compagni [13]. Un articolo cinese mostra risultati simili, nonostante solo il 18% del campione potesse camminare senza aiuto [14]; e anche i bambini estremamente prematuri danno esiti simili: qualità della vita e soddisfazione di essere vivi, paragonabili a quelle di bambini nati a termine, pur essendo presente nei bambini prematuri studiati una disabilità di vario livello [15].
«Pensare che limitare la rianimazione alla nascita dei neonati di 23-24 settimane risolva il problema dell’handicap è una semplificazione ingenua. Recenti casistiche mostrano come circa il 40 per cento dei nati a 23 settimane di gestazione sopravvive. Sospendere le cure per la previsione di modesti ritardi intellettuali e motori obbligherebbe a comportarsi nello stesso modo con neonati portatori di sindrome di Down, cosa inconcepibile sia dal punto di vista etico che di legge» [16]. E aggiunge Dino Pedrotti, già primario neonatologo di Trento: «È da mettere in seria discussione il non intervento a 23 settimane, un’età in cui nei centri migliori la sopravvivenza può arrivare a superare il 30%, sia pur con esiti gravi (…) nel 20-60% dei casi. Questo significa che chi ha i risultati peggiori deve impegnarsi a ridurre gli esiti almeno ai livelli medi. Oggi si interviene su una coppia di neonati siamesi o su una grave cardiopatia congenita, anche se sono altissimi i rischi di morte e di menomazioni, pensando che l’esperienza acquisita serva per futuri interventi. Ribadisco un altro concetto: se un adulto in un incidente ha il 20% di probabilità di sopravvivenza e il 50% di avere danni neurologici, lo si rianima. Il neonato ha forse meno diritti di una persona “grande”?» [17].
Qui vogliamo sottolineare un dilemma: quanto tendiamo a riversare sulle decisioni che prendiamo in terapia intensiva i nostri stati d’animo e le nostre fobie? Un recente studio condotto in Nuova Zelanda mostra che i neonatologi che tendono a sospendere più precocemente le cure per la previsione di una eventuale scarsa qualità di vita del bambino, in realtà sono quelli che hanno su di sé una maggior paura di malattia e di morte [18]. Lungi dal voler banalizzare l’estrema prematurità, che resta un grave rischio per la vita e la salute, la cura del prematuro non può essere sospesa “a priori”, ma accanto all’imperativo del prendersi cura, bisogna che cambi la cultura verso la sofferenza e si incrementino in maniera importante i fondi che gli Stati destinano alle spese per la disabilità, e al sostegno del volontariato. C’è nella cultura occidentale una tendenza a voler censurare la sofferenza negandole cittadinanza. Sicuramente a nessuno, che nel suo lavoro abbia l’occasione di curare e carezzare questi piccolissimi bambinifeti, viene il dubbio se essi siano persone o meno e l’amore verso il bambino disabile è certamente nel cuore di tutti coloro che curano i piccolissimi pazienti. Ma il rischio che un po’ alla volta penetri una mentalità dettata dalla paura del diverso e della malattia aleggia in ogni campo. Urge far capire che i limiti della scienza si espandono e fanno vedere cose prima impensabili: l’umanità del bambino di 400 gr, il dolore del feto.
Tutto questo costa. E il dolore e lo stress si fanno sentire. Tanto che viene da abbandonare, da rinunciare. Il cosiddetto burn-out è un quadro non raro: si tratta dello stress cronico di chi ha lavorato strenuamente e ora è esausto. Il sentimento di condivisione del dolore, del sostegno della fatica altrui, la presenza della morte, la vita a contatto con sangue e sofferenza non sono facili da sostenere. Molto utili sarebbero momenti di giudizio comune dell’operato e anche incontri con una figura di sostegno quale ad esempio uno psicologo, per evitare di crollare sotto il peso del dolore avvertito, ma anche per oggettivare il proprio vissuto, e non farsi prendere la mano dal sentimentalismo o da un serpeggiante cinismo.
Da dove ripartire? Forse dalla certezza che entrambi, curanti e paziente, vivono un dolore, che può essere lasciato sedimentare e degenerare, che può essere oggetto di terapia personale, ma che può anche divenire occasione per riconsiderare i propri obiettivi e le proprie priorità. Il problema è come non riversare sul paziente le proprie ansie, come non lasciar influenzare la prognosi dalle proprie paure e dalla propria stanchezza.

Il dolore dei genitori

Dopo mesi e mesi, alla nascita, la famiglia è piena di attese. La denatalità e il posticiparsi dell’età della prima (spesso unica) gravidanza ha fatto sì che il figlio sia diventato realmente un investimento [19], talora fragilissimo perché spesso unico. E su di lui spesso si riversano tutte le frustrazioni, tutti i desideri insoddisfatti. Esistono tuttavia fortunate eccezioni, determinate da un forte legame di coppia, da una forte appartenenza ad un gruppo [20].
Dunque il figlio è di norma un investimento [21]. Lo si definisce anche “prodotto (del concepimento)”, “diritto della coppia”. Ma può avvenire un intoppo. La costruzione ideale che si era creata durante la gravidanza non sempre corrisponde all’attesa. E il genitore è assolutamente impreparato. Questo è il punto di partenza, il substrato che il medico deve considerare quando si trova a dare ai genitori una notizia di patologia alla nascita e con il quale tutto il personale deve fare i conti per non improvvisare atteggiamenti pietistici o cinici: la gravidanza è stata vissuta continuamente esorcizzando la paura, tanto che la domanda che più di frequente viene posta appena il bambino nasce è: “È perfetto?”, “Ha tutto?”, “È normale?”. E ora si vede che l’esorcismo medico-diagnostico non è servito: “La possibilità che la gravidanza possa finire con la nascita di un bambino le cui condizioni rendono questo ideale (maternità normale) impossibile, semplicemente non è loro permessa” [22]. Dunque la ferita si fa sentire. Dunque la medicina non è onnipotente e la sorpresa amara si tramuta in ferita.
È in questo momento che si fa strada la possibilità di un colloquio positivo con i genitori, che porti ad un ingresso del piccolo nato nella famiglia. Questo passerà attraverso lo sguardo del personale curante, che creerà una barriera se parlerà del piccolo in termini troppo clinici, freddi e frettolosi, ma creerà una strada se lo chiamerà per nome, lo toccherà, farà intravedere ai genitori la possibilità di una strada da percorrere insieme.
Ma attenzione: non imponiamo scelte di vita o di morte sulle spalle dei genitori. Non pretendiamo che dicano sì o no su argomenti prospettati, di cui nemmeno noi abbiamo certezze e che richiedono mesi per essere compresi, soprattutto in un momento di fragilità estrema, talora di dolore provocato dalle doglie o dalla tragicità della situazione. I genitori devono essere sempre al centro del processo di cura e informati su tutto. Bisogna però capire che le decisioni mediche richiedono tre fattori: libertà, competenza, certezza dei dati.


BIBLIOGRAFIA

1. Raccomandazioni per la prevenzione e il trattamento del dolore del neonato. A cura di Lago P, Ancora G, Bellieni CV, Cavazza A, Cocchi G, Guadagni AM, Memo L, Merazzi D, Pirelli A: http://www.neonatologia.it/linee_guida/ dolore_neonato.pdf
2. McKechnie L, Levene M: Procedural pain guidelines for the newborn in the United Kingdom. J Perinatol. 2007 Sep 13; [Epub ahead of print]
3. Lago P et al. Pain management in the neonatal intensive care unit: a National survey in Italy. Pediatr Anaesth 2005; 15(11): 925.
4. Harrison D, Loughnan P, Johnston L. Pain assessment and procedural pain management practices in neonatal units in Australia. J Paediatr Child Health 2006;42: 6–9.
5. Anand KJS, Craig, KD: New perspectives on the definition of pain. Pain 1996;67:3-6
6. Sabrine N, Sinha S: Pain in neonates. Lancet 2000;355:932-33
7. Cunningham W, Dovey S. Defensive changes in medical practice and the complaints process: a qualitative study of New Zealand doctors. N Z Med J. 2006 Oct 27;119(1244):U2283.
8. Brennan F, Carr DB, Cousins M: Pain Management: A Fundamental Human Right. Anesth Analg 2007;105:205-221
9. Bentham J. In: Burns JH, Hart HLA, eds. An Introduction to the Principles of Morals and Legislation. Oxford: Clarendon Press, 1996:343.
10. McCullough LB. Government intervention: “the Baby Doe rule”. New Physician. 1983 May;32(5):47-8
11. Wyatt J: End of life decisions. Quality of life and newborns. Acta Paediatr 2007;96:790-1
12. Håkansson S: Proactive Management Promotes Outcome in Extremely Preterm Infants: A Population-Based Comparison of Two Perinatal Management Strategies. Pediatrics 2004;114(1):58-64
13. Chow SMK, Lo SK, Cummins RA. Self-perceived quality of life of children and adolescents with physical disabilities in Hong Kong. Qual Life Res 2005; 14: 415–23.
14. Lemelle JL, Guillemin F, Aubert D, Guys JM, Lottman H, Lortat-Jacob S, et al Qual Life Res 2006; 15: 1481–92.
15. Saigal S, Stoskopf B, Pinelli J, Streiner D, Hoult L, Paneth N, et al. Transition of extremely low birthweight infants from adolescence to young adulthood. Pediatrics 2006; 118:1140–8
16. Firmino Rubaltelli in: Caterina Gioielli: Viva Erode? Ancora non sei nato e già ti dan per morto.Tempi 2006;11
17. Pedrotti D: È giusto o no assistere i nati a 23 settimane? Neonatologia Trentina, 2006;17(1-2):10
18. Barr P: Relationship of neonatologists’ end-of-life decisions to their personal fear of death Archives of Disease in Childhood - Fetal and Neonatal Edition 2007; 92:F104-F107
19. Pontiggia G: Genitori e insegnanti: due compiti diversi, un unico rischio. In: L’adulto alla prova. Ed la Carovana 2000:9-20
20. Cesana G: La famiglia: il primo soggetto educativo. In: L’adulto alla prova. Ed la Carovana 2000:21-31
21. Dolto F: Come allevare un bambino felice. Mondadori 1994
22. Hall M: But what do we tell the parents? Health Visitor 1987; 60:110-2


CHE STUPORE SCOPRIRE, NELLA MACELLERIA DELLA CRONACA E DELLA STORIA… 17.02.2008 Un nuovo “orgoglio cattolico”? Se ne sente parlare qua e là sui giornali. E di conseguenza prende vigore un nuovo anticlericalismo. Ma non c’è orgoglio. Semmai stupore e commozione. Guardiamo i santi che hanno toccato il cuore della nostra generazione: Karol Wojtyla, padre Pio, Madre Teresa, don Giussani, padre Kolbe, il cardinal Van Thuan, fratel Ettore.
Troviamo nel loro sguardo solo una sconfinata passione e compassione per tutti gli esseri umani. La Chiesa è questo. E’ strana. Vede tutto, pur avendo la luce negli occhi. O forse per questo. L’Onu e tanti altri organismi denunciano i drammi del mondo, ma la Chiesa è già lì, silenziosa, a prendersi cura delle vittime. Solo la Chiesa c’è sempre a caricarsi sulle spalle i più infelici. E solo la Chiesa riesce a guardare in faccia tutto l’orrore del mondo (senza censurare niente).

In questi giorni un convegno delle Nazioni Unite ha rivelato che le mafie internazionali hanno impiantato un nuovo businnes che supera i 32 miliardi di dollari (quasi raggiunge quello della droga): è il commercio di esseri umani. Circa 27 milioni di schiavi, soprattutto donne e bambini, usati come oggetti di consumo non più solo nei paesi del Terzo Mondo: almeno 600 mila persone sarebbero vendute ogni anno in Europa. E quasi la metà viene schiavizzato sui marciapiedi delle nostre città. Alla luce del sole. C’è poi un commercio più sanguinario. Si può “ordinare” un rene o un fegato o un cuore o un occhio. Che viene “prelevato” nei paesi del terzo mondo, da un poveretto, talora provocando la morte del donatore-vittima (e resta il giallo dei bambini che spariscono a centinaia). Un rene viene rubato o pagato al massimo 2 mila dollari, mentre viene rivenduto a 40 mila.

E’ un orrore, gestito dalle mafie internazionali, dalle dimensioni spaventose. L’ha tradotto in numeri – a Vienna, in questi giorni – l’Unigift, l’organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa del traffico mondiale di esseri umani. Si è scoperto che dei 66 mila trapianti di rene effettuati nel mondo l’anno scorso, circa il 10 per cento sarebbero illegali. Ma la cifra dovrebbe essere molto più alta perché in tanti paesi questo turpe mercato non è illegale. In Cina – secondo dati dell’Organizzazione mondiale della sanità riferiti ieri da Avvenire – nel 2006 sarebbero stati effettuati 11 mila trapianti con organi espiantati da condannati a morte (8 mila trapianti di rene, 3 mila di fegato e 200 di cuore).

Queste finestre sull’orrore normalmente non vengono aperte. Non si vuol vedere, non si vuol sapere in che mondo viviamo. Meglio intontirsi facendosi abbacinare da ore di televisione dell’irrealtà. Del resto la geografia dell’orrore, col quale conviviamo spensieratamente, è molto più vasta.

Ci sono pure 850 milioni di persone che vivono al limite della sopravvivenza. E 30 mila esseri umani che ogni giorno muoiono di fame. Con i tantissimi bambini che muoiono nel Terzo Mondo per cause banali come la dissenteria e il morbillo che da noi si curano con pochi spiccioli. Negli ultimi 50 anni ammonterebbe a mezzo miliardo il totale degli creature umane morte per fame. In Corea del Nord, a causa del regime comunista, ne sono morti a milioni in pochi mesi senza che i mass media e i governi se ne curassero molto. Davanti al mare di vittime del comunismo, all’orrore di tirannie di questo genere (oggi comuniste o islamiche), dove i diritti umani vengono quotidianamente calpestati, le nostre classi dirigenti appaiono assolutamente impari. Balbettanti. Spesso cinicamente indifferenti o affaccendati in traffici commerciali. E gli intellettuali? Hegel spiegava che la storia è una macelleria. Prendeva atto. Spesso gli intellettuali hanno portato pure il loro contributo a ideologie macellaie. C’è infine nel mondo l’orrore rappresentato dai 50 milioni di aborti l’anno contabilizzati dall’Oms (negli ultimi 30 anni più di 1 miliardo di vite innocenti spazzate via). Un genocidio censurato di bimbi e di donne. Oltretutto in Cina si tratta di aborto obbligatorio che spesso viene accompagnato da inusitate violenze sulle mamme che si rifiutano. Ma non se ne parla. Si elude.

Marcel Proust nel Temps retrouvé notava: “Da tempo non si rendevano più conto di ciò che poteva avere di morale o di immorale la vita che conducevano, perché era quella del loro ambiente. La nostra epoca senza dubbio, per chi ne leggerà la storia tra duemila anni, sembrerà immergere certe coscienze tenere e pure in un ambiente vitale che apparirà allora come mostruosamente pernicioso e dove esse si trovavano a loro agio”. La tragedia resta incompresa. Neanche l’enormità dei numeri sembra essere colta. Perché – come diceva il cinico Stalin – dieci morti sono una tragedia, cento morti un orrore e un milione di morti solo una statistica. Del resto tutto è organizzato da noi per distrarre dall’orrore, per evitare lo sguardo della Medusa che potrebbe impietrirti.

Solo la Chiesa non distoglie lo sguardo e vede tutto. Solo la Chiesa c’è. Sempre. Dappertutto. Come può. Pietosa, eroica, inerme, spesso con poveri mezzi, ma con un amore senza confini. C’è da venti secoli, a chinarsi su tutte le miserie del mondo. L’unica luce nelle tenebre del mondo. C’è oggi in ognuno di questi inferni. Non come crocerossina della storia (non è un’agenzia umanitaria). Ma perché è il misterioso Corpo di Gesù nei secoli. E’ lui il Buon Samaritano che si china su quell’uomo riverso per terra, mezzo morto. E’ Gesù che lo soccorre, lo cura, se lo mette sulle spalle, lo porta al sicuro e paga per lui.

La tragedia più grande è proprio non accorgersi di questo Dio presente, misericordioso, che è venuto per noi. E questa cecità provoca la tragedia davvero universale, quella di chi soffre nell’anima, perché è la nostra condizione umana che è ammalata e derelitta in sé. Bisognosa dell’unico Medico che sa guarirla. Ma quello di cui tutti – anche laici, agnostici o atei – devono accorgersi è almeno lo spettacolo che, in tutto il mondo, i cristiani sono oggi “per gli uomini e per gli angeli”. Come fece, nelle tenebre del paganesimo nazista e della Seconda guerra mondiale, il grande scienziato esule Albert Einstein, che scrisse su “Time Magazine” nel dicembre 1940: “Essendo un amante della libertà, quando avvenne la rivoluzione in Germania (il nazismo, nda) guardai con fiducia alle università sapendo che queste si erano sempre vantate della loro devozione alla causa della verità. Ma le università vennero zittite. Allora guardai ai grandi editori dei quotidiani che in ardenti editoriali proclamavano il loro amore per la libertà. Ma anche loro, come le università, vennero ridotti al silenzio, soffocati nell’arco di poche settimane. Soltanto la Chiesa si oppose pienamente alla campagna di Hitler mirante a sopprimere la verità. Non avevo mai avuto in precedenza un interesse particolare per la Chiesa, ma ora sento verso di essa una grande ammirazione, poiché la Chiesa sola ha avuto il coraggio e la perseveranza di difendere la verità intellettuale e la libertà morale. Devo dunque confessare: ciò che un tempo disprezzavo, ora io lodo incondizionatamente”.

Sigmund Freud in due lettere al figlio del 1938 espresse sentimenti analoghi. Di solito oggi non si ha questa lealtà. Se non raramente. Domina una sorda ostilità. Un odio pregiudiziale. Non si perdona alla Chiesa neanche la più piccola imperfezione degli uomini di Chiesa. Non si ammette che essi abbiano i difetti dei figli di questo mondo. Il mondo pretende dai cristiani tutta la perfezione che esso non ha. E così, involontariamente, rende il più grande omaggio alla Chiesa. Perché svela che solo lei non è cosa di questo mondo e le si può chiedere la perfezione, l’amore totale e assoluto. Che noi cristiani non abbiamo, ma che ha Lui, Gesù di Nazaret.

Antonio Socci

Da “Libero” 16 febbraio 2008