Nella rassegna stampa di oggi:
1) «Il progresso scientifico sia rispettoso dell’uomo» - Il Papa: la fecondazione extracorporea infrange la dignità umana
2) Quell’ansia nichilistica di negare 'padre' e 'madre'
3) L’ossessione dell’omofobia
4) Qui Nairobi. Dai nostri inviati dal Vaticano
5) NELLA DISPERAZIONE IL KENYA ASSEDIATO
6) il Cardinale Bertone: senza mezzi la parità scolastica è fasulla - «Le scuole cattoliche devono avere un riconoscimento reale in quanto svolgono un servizio pubblico e sottostanno alle leggi e ai controlli più severi»
«Il progresso scientifico sia rispettoso dell’uomo» - Il Papa: la fecondazione extracorporea infrange la dignità umana
Avvenire, 1 febbraio 2008
DA ROMA
SALVATORE MAZZA
Per la Chiesa «è un dovere» ribadire quali siano «i grandi valori in gioco» nel campo della bioetica. Perché «promuovere la formazione della coscienza» fa parte della sua missione evangelizzatrice. Una vocazione, questa, che deve prevalere su ogni altra dimensione: e dunque «il riconoscimento di elementi di verità e bontà nelle religioni del mondo e della serietà dei loro sforzi religiosi, lo stesso colloquio e spirito di collaborazione con esse per la difesa e la promozione della dignità della persona e dei valori morali universali, non possono essere intesi come una limitazione del compito missionario della Chiesa, che la impegna ad annunciare incessantemente Cristo come la via, la verità e la vita». Denso e appassionato è stato ieri il discorso pronunciato da Benedetto XVI nell’udienza ai partecipanti alla Assemblea plenaria della Congregazione per la dottrina della fede, nel quale ha ribadito come il ministero del Successore di Pietro sia primariamente in funzione dell’unità della fede.
Discorso nel quale il Pontefice s’è particolarmente soffermato sulla dottrina della Chiesa e l’ecumenismo, sui principi dell’evangelizzazione, ma anche, e in particolare, sulle sfide poste ai cristiani dai progressi delle tecnologie biomediche. Tema, quest’ultimo, che come ha sottolineato il cardinale William Joseph Levada, prefetto del dicastero dottrinale, è stato al centro dell’Assemblea, durante la quale, in vista di un eventuale documento, le questioni della bioetica sono state esaminate «per trovare una conveniente soluzione morale, alla luce dei principi generali dell’antropologia cristiana». Nel suo intervento Papa Ratzinger, che dal 1981 al 2005 fu prefetto della stessa Congregazione, ha ribadito in proposito che il Magistero della Chiesa «non può e non deve intervenire su ogni novità della scienza, ma ha il compito di ribadire i grandi valori in gioco e di proporre» a tutti gli uomini di buona volontà dei principi etico-morali. A tale riguardo «i due criteri fondamentali per il discernimento morale in questo campo sono i due enunciati dall’Istruzione Donum Vitae del 1987, ossia «il rispetto incondizionato dell’essere umano come persona, dal suo concepimento fino alla morte naturale» e «il rispetto dell’originalità della trasmissione della vita umana attraverso gli atti propri dei coniugi». Se, ha ricordato il Pontefice, all’epoca molti criticarono il Magistero «denunciandolo come se fosse un ostacolo alla scienza e al vero progresso dell’umanità», è vero altresì che tutti «i nuovi problemi» che oggi si affacciano «mostrano chiaramente come, con la fecondazione artificiale extra-corporea, sia stata infranta la barriera posta a tutela della dignità umana». «Quando esseri umani, nello stato più debole e più indifeso della loro esistenza, sono selezionati, abbandonati, uccisi o utilizzati quale puro 'materiale biologico', come negare che essi siano trattati non più come un 'qualcuno', ma come un 'qualcosa', mettendo così in questione il concetto stesso di dignità dell’uomo?». Per questo la Chiesa, ha aggiunto, ««sente il dovere di illuminare le coscienze di tutti, affinché il progresso scientifico sia veramente rispettoso di ogni essere umano, a cui va riconosciuta la dignità di persona, essendo creato ad immagine di Dio, altrimenti non è un vero progresso». Quanto all’evangelizzazione, Benedetto XVI è tornato sui due documenti pubblicati dalla Congregazione nel 2007. Il primo dei quali ripropone «l’insegnamento del Concilio Vaticano II» e conferma che «l’una e unica Chiesa di Cristo ha la sua sussistenza, permanenza e stabilità nella Chiesa cattolica», richiamando inoltre l’attenzione «sulla differenza che ancora permane tra le diverse confessioni cristiane nei riguardi della comprensione dell’essere Chiesa in senso propriamente teologico».
Cosa che «lungi dall’impedire l’impegno ecumenico autentico, sarà di stimolo perché il confronto sulle questioni dottrinali avvenga sempre con realismo e piena consapevolezza degli aspetti che ancora separano le confessioni cristiane».
Quell’ansia nichilistica di negare 'padre' e 'madre' Avvenire, 1 febbraio 2008
MARINA CORRADI
N elle scuole britanniche non si potrà più dire 'mamma' e 'papà. Il ministero della Istruzione prepara una direttiva in questo senso. Si potrà dire soltanto 'genitori', per rispetto di quegli alunni che si trovino ad avere a casa una coppia di madri lesbiche, o una coppia di padri gay, o ogni altra di quelle declinazioni di 'famiglie', rigorosamente al plurale, di cui la Gran Bretagna è antesignana e maestra. Due anni fa andò sui tabloid inglesi la storia di una coppia gay in cui un partner, in procinto di diventare chirurgicamente donna, congelò il proprio seme per potere essere biologicamente padre grazie a una donna che 'prestasse' il suo utero. Una situazione ingarbugliata per il nascituro: papà e la donna che lui chiama mamma erano la stessa persona. Per evitare, in questa crescente complessità, traumi ai ragazzini dunque il Ministero taglia la testa al toro: di dice 'genitori', e basta, mai più padre e madre.
Ricordarsi di Huxley è inevitabile: quella parola, 'mamma', che ne 'Il mondo nuovo' genera pudichi gridolini di orrore - come di dame vittoriane davanti a qualcosa di sconveniente perché quel mondo nuovo i figli li fabbrica con una catena di montaggio, e l’idea di una procreazione carnale s’è fatta indecente. Ma l’editto del Ministero non ce l’ha solo o tanto con la mamma, ma anche e altrettanto con il papà.
Anzi, forse di più. Il padre, alla cultura del 'gender' - cioè della identità sessuale definita come pura scelta culturale, e non come dato originario - risulta ancora più antipatico della mamma. Il padre è archetipo di autorità e autorevolezza, e dunque di maschilismo. Il padre va spazzato via: concretamente - come in quel sito web inglese 'Man not included', 'Uomo non incluso', che vendeva on line seme anonimo per aspiranti madri autarchiche; e anche culturalmente, e perfino spiritualmente. La nuova versione del Nuovo testamento dell’Università di Oxford, - il faro della cultura occidentale - così trascrive il Padre Nostro: 'Padre/Madre nostra che sei nei cieli'. Oppure, Gesù ai genitori, nel Tempio: 'Perché mi cercate? Non sapevate che io ero nella casa del Padre/Madre?' La 'grida' del Ministero per l’Istruzione britannico può fare sorridere. E però, dietro l’idiozia di pensare di proibire ai ragazzi di dire 'mamma', sta, sotto le garbate apparenze del politically correct, una pretesa dura e brutale.
Non dite madre, non dite padre, questi sono stereotipi, ruoli imposti da una tradizione oscurantista. Nel nuovo mondo la cultura del 'gender' disfa tutto: le madri non sono necessariamente donne, i padri non sono obbligatoriamente uomini, e di padri se ne può avere due e di madri nessuna, o viceversa, a piacere - a piacere, si intende, non dei figli, ma di chi più o meno naturalmente li mette al mondo.
Dall’articolo 124 comma k della Piattaforma di Pechino: 'Adottare tutte le misure appropriate, soprattutto nel campo della istruzione, per modificare i modelli di comportamento di uomini e donne, e per eliminare i pregiudizi e le pratiche tradizionali', 'basate su ruoli stereotipati maschili e femminili'.
E ci siamo, il Pechino-pensiero s’affaccia nelle scuole. Il nemico vero da abbattere è l’idea che uomo e donna, e dunque padre e madre siano identità originarie e anteriori. Qualcosa di 'dato' da un ordine creatore. Che ci sia un 'prima' a definirci, e non solo la cultura e la storia e le scelte personali. L’ostilità al 'dato', scrisse Hannah Arendt, è un segno distintivo della modernità. E quindi l’ansia rancorosa di negare quel 'Maschio e femmina li creò'. Ora istruiscono i bambini: mamma e papà, non si dice. Sarà difficile però educarli bene fin da piccoli. A cinque anni, hanno ancora scritta addosso chiara una domanda. Di una madre, di un padre, di un disegno, di crescere - di continuare.
L’ossessione dell’omofobia
Il ministro inglese per la scuola e per l’infanzia Ed Balls (nomen omen) ha deciso di vietare ai bambini delle elementari l’utilizzo dei termini «mamma» e «papà», i quali sarebbero gravemente offensivi nei confronti degli omosessuali…
di Michele Brambilla
Gilbert Keith Chesterton diceva che «il guaio dell’uomo moderno non è quello di avere perso la fede, ma quello di avere perso la ragione». Basterebbe questa battuta per liquidare l’idiozia di un altro molto meno illustre cittadino inglese, il ministro per la scuola e per l’infanzia Ed Balls (nomen omen) che ha deciso di vietare ai bambini delle elementari l’utilizzo dei termini «mamma» e «papà», i quali sarebbero gravemente offensivi nei confronti degli omosessuali.
Poiché in teoria - ma solo in teoria - dovrebbe esserci un limite all’imbecillità umana, il lettore può pensare che abbiamo capito male, e che le cose non stanno proprio così. E invece stanno proprio così, anzi un po’ peggio. Cito testualmente dall’agenzia: «L’espressione “mamma e papà” lede infatti i diritti dei genitori omosessuali e favorisce le tendenze omofobiche, diffondendo l’idea che esista solo una famiglia tradizionale». Fantastico. Secondo questo ministro - che è riuscito nella titanica impresa di farci rivalutare i nostri, di ministri - quella che i bambini nascano da una mamma e da un papà sarebbe «un’idea», e non un dato di fatto. Viceversa, Balls parla di «genitori omosessuali» come se, quelli sì, fossero un dato di fatto. Ora, il sottoscritto sarà anche un becero reazionario, ma se l’etimologia ha ancora un senso «genitore» vuol dire «colui che genera, che procrea, che dà la vita». Tutte cose che una coppia omosessuale non può né potrà mai fare, e non perché glielo impedisca qualche pretacchione: è la natura a frapporre qualche non marginale impedimento.
È dunque la realtà, e non una chiesa o un partito politico, a mostrarci che dire «mamma» e «papà» non è un’offesa per nessuno, ma la cosa più naturale del mondo. Balls segue però, evidentemente, il metodo hegeliano secondo il quale «se la realtà non coincide con la teoria, tanto peggio per la realtà».
Non è solo un problema di un qualsiasi Balls. Questa mentalità si sta sempre più diffondendo, anzi è l’unica accettata e riverita in quel patetico mondo del politically correct che ammorba parlamenti e redazioni dei giornali. Badate bene: la tutela degli omosessuali non c’entra nulla. Provvedimenti come quello del ministro inglese, o come tante altre norme cosiddette anti-omofobia, non vietano solo le offese ai gay (il che è sacrosanto): vietano anche che si possa dire «mamma» e «papà», vietano perfino - è scritto nel demenziale diktat inglese - che a scuola si possa parlare di «maschi» e di «femmine». Con il pretesto di tutelare alcuni, si nega il diritto di esistere a molti altri, direi a quasi tutti. Soprattutto, si nega il diritto di guardare in faccia alla realtà.
Qualche tempo fa su Rai Tre, al programma Gaia il pianeta che vive, un geologo ha mostrato un amplesso omosessuale dipinto in una tomba etrusca per documentare come simili pratiche fossero del tutto normali nelle civiltà antiche, prima che arrivassero quegli omofobi dei cristiani; si è però guardato bene, il geologo, di aggiungere che a fianco di quel dipinto - che è nella tomba detta «dei Tori» a Tarquinia - ce n’è uno di accoppiamento eterosessuale, e il toro, simbolo del dio della fertilità, è raffigurato mentre si compiace del rapporto uomo-donna ma carica furiosamente quello omosex. Nelle civiltà antiche l’omosessualità era a volte anche serenamente accettata, ma mai nessuno si è sognato di equiparare per legge la famiglia eterosessuale a quella omosessuale; né tantomeno ha mai vietato di parlare di differenze tra i sessi, o impedito di pronunciare i nomi di «mamma» e «papà».
Certe idiozie fanno proseliti, dicevo, e infatti ieri sera, sul sito del Corriere della Sera, nel sondaggio lanciato sul caso-Balls si registrava un 15 per cento di «sì» all’incredibile cancellazione dei termini «mamma» e «papà». Lo stesso sito del Corriere, giustamente, nel titolo parlava di «ossessione omofobia». Esatto: ormai è un’ossessione. Della quale anche gli omosessuali finiranno per fare le spese. È con le esagerazioni, con gli estremismi, con gli oltraggi alla ragione e al buon senso che si finisce poi con il provocare reazioni di segno opposto, con il favorire il ritorno di quelle discriminazioni che ormai da tempo erano del tutto, o quasi del tutto, giustamente scomparse.
Il Giornale 31 gennaio 2008, 09:03
Qui Nairobi. Dai nostri inviati dal Vaticano
Sul conflitto scoppiato in Kenya l'analisi più approfondita è apparsa su "L'Osservatore Romano", scritta da un missionario impegnato sul campo. I veri perchè di questa guerra fratricida tra cristiani
di Sandro Magister
ROMA, 1 febbraio 2008 – In Africa la regione equatoriale che va dall'Oceano Atlantico all'Oceano Indiano è tra le più cristianizzate. Lì, da nord, l'espansione dell'islam si è fermata, salvo che lungo la costa orientale. La Chiesa cattolica vi ha una presenza cospicua.
Eppure questi stessi paesi sono teatro da molti anni di eccidi e di guerre tra le più sanguinose. In Rwanda, in Burundi, nella Repubblica Democratica del Congo i massacri hanno fatto milioni di morti. Ora i conflitti sono esplosi anche in Kenya. Gli scontri non hanno moventi religiosi, ma nemmeno le chiese sono un rifugio per le popolazioni in fuga. Il 7 gennaio a Eldoret più di cinquanta persone inermi, tra cui donne e bambini, hanno perso la vita in una chiesa data alle fiamme.
La mattina di sabato 26 gennaio è stato ucciso padre Michael Kamau Ithondeka, 41 anni, sacerdote della diocesi di Nakuru, vice rettore del seminario maggiore "Mathias Mulumba" a Tindinyo. Sulla strada tra Nakuru ed Eldama, nella Rift Valley, è stato bloccato, strappato dalla macchina e finito a colpi di pietre e machete. La sua colpa era di essere di etnia kikuyu, prevalente nella zona, mentre gli aggressori erano kalenjin. Tra queste e altre comunità etniche è ormai guerra aperta. Padre Kamau tra il 1998 e il 2002 aveva vissuto a Roma, dove aveva studiato al Pontificio Istituto Biblico. Lo ricordano come "un bravo insegnante e un grande conoscitore delle Sacre Scritture: una conoscenza che desiderava trasmettere ai suoi studenti". Dopo l'assassinio, il vescovo di Nakura, Peter J. Kairo, ha dovuto evacuare dieci parrocchie, le più minacciate.
Il 28 gennaio nella capitale Nairobi è stato ucciso in un agguato Mugabe Were, deputato dell'Orange Democratic Movement, il partito di Raila Odinga, il leader dell’opposizione che contesta la vittoria del presidente Mwai Kibaki alle elezioni del 27 dicembre 2007. L'agenzia Fides della congregazione vaticana per l'evangelizzazione dei popoli ha riferito che Were era "un cattolico molto impegnato nelle baraccopoli e nel centro per i giovani creato a Nairobi da padre Adelmo, un missionario comboniano che ora si è ritirato in Etiopia come eremita". Alla notizia della sua uccisione "sono scoppiati tumulti a Kibera e a Mathare, due delle maggiori baraccopoli ddi Nairobi. A Kibera la linea del fronte è la ferrovia che attraversa lo slum e che divide i kikuyu dagli altri".
Conflitto politico tra i due maggiori partiti del paese? Conflitto tra le etnie? Se il movente non è religioso, perché questa guerra fratricida tra cristiani? I media internazionali si limitano a riferire sul Kenya, quasi ogni giorno, notizie di nuovi massacri, sullo sfondo dello scontro politico tra i due leader rivali. Sotto questo profilo, gli organi di informazione della Santa Sede appaiono molto più informati. Sui fatti e soprattutto sui moventi.
Ne è una prova l'articolo riprodotto qui sotto, pubblicato su "L'Osservatore Romano" del 30 gennaio 2008. Esso riconduce il conflitto, con acutezza di analisi, al "seme terribile del tribalismo". Più forte dell'opera di conciliazione tentata dalla Chiesa cattolica e dalle altre confessioni cristiane.
Stando all'edizione del 2003 dell'Annuario Statistico della Chiesa, in Kenya i cattolici sono 8 milioni su 32 cioè un quarto della popolazione, i vescovi 25, i sacerdoti 1.962, le religiose 3.747, i missionari laici 903, gli alunni dei seminari maggiori 1.502, i catechisti 9.107, le parrocchie 708, i centri di missione 4.234.
Nel concistoro del 24 novembre 2007 Benedetto XVI ha fatto cardinale l'arcivescovo di Nairobi, John Njue. E poco prima, il 19 novembre, aveva ricevuto tutti i vescovi del Kenya in visita ad limina. Nel discorso tenuto dal papa nell'occasione, nessun accenno faceva presagire l'imminente esplosione del conflitto.
L'autore dell'articolo è un missionario comboniano che opera in Kenya da 16 anni:
Le radici della violenza
di Giuseppe Caramazza
Sulla stampa internazionale, le violenze che stanno scuotendo il Kenya vengono ancora definite in rapporto alla vertenza elettorale, apertasi alla fine di dicembre nel paese africano. In realtà non si dovrebbe confondere la protesta politica con le uccisioni che avvengono soprattutto nella Rift Valley, la regione che spacca il paese in due, da nord a sud. Né si dovrebbe far dimenticare le centinaia di persone uccise e gli oltre 250.000 sfollati interni, per lo più ospitati da parrocchie e conventi. È peraltro vero che un nesso tra crisi politica e violenze esiste.
Durante la campagna elettorale, l'opposizione politica ha spesso detto che, una volta al potere, avrebbe dato vita alla politica del majimbo. È questo un termine swahili che potremmo tradurre con regionalizzazione. La Chiesa cattolica, come altre confessioni cristiane, si è subito detta contraria. Perché?
Al tempo del colonialismo, gli inglesi hanno diviso il paese secondo linee tribali, non sempre in linea con i territori davvero controllati dalle varie etnie. Si è arrivati così a una rigida divisione territoriale che è stata poi adottata dalla nascente repubblica del Kenya. Non va dimenticato che quando gli inglesi hanno preso il controllo del Kenya, essi hanno voluto vedere nella società africana una realtà ferma da secoli, mentre c'erano popolazioni in movimento e, in alcuni casi, territori comuni che venivano sfruttati in maniera diversa da due o più gruppi etnici.
Non va poi dimenticato che la popolazione del Kenya di duecento anni fa era una piccola frazione di quella odierna. I confini di ieri sarebbero improponibili oggi. Con l'indipendenza, l'amministrazione centralizzata inglese è continuata, e anzi si è rafforzata durante gli anni della semidittatura del presidente Daniel Toroitich Arap Moi.
I fautori del majimbo vogliono restituire alle regioni il diritto di amministrare le proprie risorse. Il governo non ha accettato questa tesi. Le Chiese si sono schierate contro l'idea perché nasconde il seme terribile del tribalismo.
Già nel passato l'ex presidente Moi ha usato questa carta per rafforzare la sua posizione presso le etnie della Rift Valley. Ogni volta che ha voluto impaurire i residenti non originari della zona, li ha minacciati proprio con il majimbo. Il messaggio era chiaro. Chi non è originario di un luogo non ha il diritto di vivervi e di avervi delle proprietà. Questo va contro il dettame costituzionale che vede il Kenya come un paese unitario e che dà ai kenyani il diritto di vivere ovunque all'interno dei confini della nazione. Si tratta di principi non facilmente recepiti da molti che ancora oggi percepiscono come luogo d'origine il territorio ancestrale quale era stato delineato dall'amministrazione coloniale.
Dopo il pasticcio delle elezioni presidenziali del 27 dicembre scorso, in varie zone della Rift Valley alcuni membri delle etnie locali hanno visto la possibilità di cacciare gli "stranieri" e impossessarsi delle loro terre e altri beni. È chiaro che l'etnia più colpita sia quella dei kikuyu. Essi sono il gruppo etnico più grande, il loro territorio ancestrale è inadeguato per accoglierli tutti, e così molti kikuyu hanno acquistato terreni nella Rift Valley e li hanno trasformati in fattorie modello.
Ma non si tratta solo di kikuyu. I luya sono stati presi di mira nella zona di Eldoret, i kamba vicino a Nakuru, i kisii a Kipkelion. Non ci si poteva aspettare che i kikuyu rimanessero con le mani in mano e infatti ci sono state violenze a Nakuru e Naivasha, città a maggioranza kikuyu.
Non va dimenticato come i fatti peggiori siano accaduti proprio dove da anni si vive l'insicurezza. Gli scontri di Londiani, Molo, Cherengani hanno oggi un che di sinistro, dopo che in queste zone ci sono state violenze simili quasi continuamente negli ultimi cinque anni. Non si tratta quindi di una nuova tensione, ma dell'esplosione di una violenza che ha radici antiche.
Negli ultimi giorni, inoltre, il gruppo di difesa dei diritti umani Human Rights Watch ha pubblicato un rapporto in cui afferma che i politici dell'Orange Democratic Movement, il partito di opposizione, hanno fomentato l'odio etnico in molte zone, hanno raccolto fondi per l'acquisto di armi e hanno chiesto ai residenti di scacciare i membri di altre etnie dalle loro terre. Nuove investigazioni faranno più luce su queste accuse. È chiaro però che il majimbo è stato invocato dall'opposizione e che questa ha un debito di coscienza sulle violenze degli ultimi giorni.
A Nairobi le manifestazioni politiche sono rientrate, per dare spazio a varie iniziative di mediazione. Le baraccopoli, che su meno del 10 per cento del territorio urbano ospitano la maggioranza della popolazione, sono tenute sotto controllo. Finora, non si è riusciti a portare governo e opposizione allo stesso tavolo. L'ex segretario generale dell'ONU Kofi Annan ha lavorato seriamente nei giorni scorsi ed è riuscito a far aprire spiragli di dialogo. I vescovi hanno incoraggiato Kofi Annan a continuare sulla strada intrapresa e hanno invitato il presidente Mwai Kibaki e il leader dell'opposizione Raila Odinga a dare spazio al dialogo.
Il dialogo tra le parti in causa è sempre stato la soluzione adottata dai kenyani per dirimere questioni tra due rivali. Tuttavia, le violenze e le pubbliche accuse scambiatesi tra le due parti rischiano di frenare il processo e di togliere lucidità ai contendenti. Qualunque sia la soluzione politica, è chiaro che i grandi temi su cui si dovrà lavorare sono quelli irrisolti durante il precedente governo di Kibaki: distribuzione equa delle terre e accesso di tutti alle risorse del paese, crescita del senso civico della popolazione e suo diritto a partecipare al dibattito politico.
NELLA DISPERAZIONE IL KENYA ASSEDIATO
Avvenire, 1 febbraio 2008
GIULIO ALBANESE
Le notizie che provengono in queste ore dal Kenya sono assolutamente allarmanti. La sensazione diffusa è che il Paese sia ormai sull’orlo della guerra civile. Anche l’uccisione, avvenuta ieri, di David Too, deputato dell’opposizione, pur se attribuita a motivi passionali, rappresenta un fattore altamente destabilizzante non solo lungo la Rift Valley, dove è avvenuto il delitto, ma per l’intera nazione. Sta di fatto che soprattutto tra i ceti meno abbienti - poco importa che si tratti di coloro che vivono nelle baraccopoli di Nairobi o nelle zone rurali - vi è un diffuso senso di malessere che precipita in quello che gli esperti di sociologia definiscono 'estremo identitarismo etnico', una sorta di immedesimazione ad oltranza con il proprio gruppo di appartenenza, quasi che ogni forma di alterità rappresentasse l’origine e dunque la causa dei disastri che assillano il Paese. Una strategia messa a punto furbescamente da una sedicente classe politica che guarda solo e unicamente al proprio tornaconto, secondo spregiudicate logiche di potere.
E mentre la recalcitrante opposizione non perde occasione per stigmatizzare i brogli perpetrati dall’avversario politico, l’attuale classe dirigente non è affatto disposta a rinunciare ad alcun privilegio di sorta.
Sta di fatto che i due principali protagonisti di questa angosciosa vicenda – il leader dell’opposizione Raila Odinga e il presidente Mwai Kibaki – danno l’impressione d’essere pronti a tutto pur di prevalere contro chiunque attenti ai loro reali o possibili privilegi.
Ma il pasticcio, è bene rammentarlo, si complica soprattutto per la connivenza di potentati stranieri. Non è un caso se, prima che fosse avviata la campagna elettorale, decine e decine di milioni di dollari sono stati versati da lobby internazionali sui conti bancari dell’opposizione; un fenomeno riscontrato peraltro anche sul versante dell’attuale forza di governo, anche se in misura più ridotta ma comunque consistente. In effetti, nella storia del Kenya non si era mai verificato che i candidati potessero godere di una copertura mediatica decisamente inconsueta per un Paese in cui oltre il 50% della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno. Detto questo viene spontaneo tornare indietro con la moviola della storia, a quando, proprio un anno fa, si svolse a Nairobi il 'Social Forum' con delegazioni provenienti da mezzo mondo. Allora si parlò a squarciagola di giustizia sociale e di pace e per l’occasione venne organizzata una maratona nelle baraccopoli della capitale con l’intento dichiarato di diffondere il verbo della pace in mezzo a tanta umanità dolente. Oggi, quelle stesse contrade, attraversate un tempo dai tedofori della non-violenza, sono calpestate da bande di giovinastri armati di machete e spranghe, pronti a soffocare chiunque non parli la loro stessa lingua.
C’è da chiedersi che fine abbia fatto la società civile, quella realtà composita fatta di associazioni, gruppi e movimenti, impegnati strenuamente nella difesa dei diritti umani e delle libertà civili, a volte anche sotto la spinta di forzature ideologiche. Di quella presenza fatta di tanti uomini e donne provenienti da ogni continente, oggi rimane solo lo stendardo dell’arcobaleno con incisa la parola 'amani' che significa 'pace' in swahili. Una bandiera appesa all’ingresso della missione cattolica di Kariobangi, a poca distanza dalla baraccopoli di Korogocho. Chissà, forse sarebbe auspicabile che qualche casco blu di Dio, a parte i missionari che hanno fatto la scelta di rimanere sul campo, scendesse in quei gironi danteschi dell’inferno dei poveri; soprattutto coloro che credono nel Vangelo della pace, proprio ora che ce n’è più che mai bisogno.
il Cardinale Bertone: senza mezzi la parità scolastica è fasulla - «Le scuole cattoliche devono avere un riconoscimento reale in quanto svolgono un servizio pubblico e sottostanno alle leggi e ai controlli più severi»
«Come don Bosco, dobbiamo difendere le nostre posizioni ma avere capacità di dialogo Lui convinse Rattazzi...»Avvenire, 1 febbraio 2008
DI PAOLO VIANA
Il metodo è collaudato, visto che funzionò persino con il laicissimo Urbano Rattazzi, e non per via delle comuni radici monferrine. «Don Bosco andava come prete nei palazzi dei principi, dei ministri, difendeva e motivava bene le sue posizioni» ma aveva «anche capacità di dialogo». Questo binomio, ha ricordato ieri il cardinale Tarcisio Bertone in un’intervista durante la trasmissione quotidiana d’informazione religiosa Mosaico su Sat 2000 gli valse l’aiuto discreto dei governi sabaudi «per salvare la proprietà degli istituti religiosi davanti alle leggi» del nascente Regno d’Italia, che erano «eversive » ma non erano accompagnate «dall’acredine » che oggi pervade «certe fasce anticlericali» e «che spaventa», ha commentato il porporato.
Il cardinale Bertone si è soffermato sulla questione educativa e sui rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica nel corso di un’intervista all’emittente cattolica dedicata alla figura di San Giovanni Bosco, un «pioniere anche di fronte ad avversari scaltri», forte di un «profondo e vasto radicamento popolare». Insomma, un «modello» da imitare secondo il cardinale, piemontese e salesiano come il Santo dei ragazzi. Il cui carisma ha segnato la vita del Segretario di Stato: «Mio nonno e mia nonna mi raccontavano di averlo conosciuto, i miei antenati lo andavano a trovare a Torino. Un giorno, durante la siccità, don Bosco era venuto vicino al mio paese e ha promosso una preghiera. Al termine, è caduto un abbondante acquazzone e questo fatto è ricordato nella chiesa di San Rocco a Strambino, un chilometro dal mio paese, Romano Canavese».
Santo e taumaturgo, ma soprattutto educatore e fautore di un progetto che si poggiava su tre pilastri: ragione, religione, amorevolezza. I quali sono «sommamente attuali», ha commentato il Segretario di Stato richiamando la recente lettera di papa Benedetto XVI alla diocesi di Roma sull’emergenza educativa e rivendicando «a fronte di una legge sulla parità scolastica, già esistente in italia, anche il supporto economico e finanziario ». Secondo il Segretario di Stato, infatti, in assenza di questo supporto, «la parità è fasulla, inconsistente ». Il Cardinale ha sottolineato come le scuole cattoliche «non coprono grandi fasce di giovani ma sono incisive» e devono avere «un riconoscimento reale» in quanto «svolgono un servizio pubblico, sono scuole pubbliche non statali che svolgono un servizio pubblico» e «sottostanno alle leggi dello Stato, e a controlli a volte molto più severi che non le scuole statali». Quindi, il focus dell’intervista si è spostata sul clima politico. Nell’Italia ottocentesca di Rattazzi e don Bosco c’era una maggiore sensibilità al valore sociale delle istituzioni educative promosse dalla Chiesa. Si riconosceva, ad esempio, che personalità come don Bosco facevano «cultura popolare ». Del resto, il santo piemontese, ha ricordato Bertone, «è stato seguito e difeso dalle masse, che lui ha beneficato con gli oratori, con le sue iniziative socio-educative, con i suoi istituti di formazione professionale ». Certo, don Bosco «non aveva paura, non si nascondeva, era un uomo coraggioso, un pioniere anche di fronte ad avversari scaltri», però «sapeva anche dialogare», ha soggiunto il cardinale, ricordando il rapporto con Rattazzi e con altri politici del tempo, che «lo hanno aiutato a camminare nei meandri delle leggi di allora, anche delle leggi massoniche che volevano la soppressione degli istituti religiosi».
Il fondatore di Valdocco non era un interlocutore remissivo - «Don Bosco andava a trovare come prete, nei palazzi, i principi, i ministri, difendeva e motivava bene le sue posizioni» - e anche a quell’epoca la lotta politica era «molto dura», ha sottolineato il porporato, eppure «alcuni aiutarono don Bosco perché riconoscevano il valore delle sue opere». Rispetto a quei tempi, oggi «c’è un’acredine specialmente in certe fasce di anticlericali, che spaventa» ha concluso.