Nella rassegna stampa di oggi:
1) IL RUOLO DEI CRISTIANI - C’È ANCORA UN «PONTE» IN LIBANO E IN MEDIO ORIENTE
2) Lourdes, il miracolo di fede che resiste alle confutazioni
3) Don Nicolò, vai avanti Tu devi fare il prete
4) Napoli, un aborto in solitudine - Sui fatti del Policlinico una campagna che rimuove il vero problema
5) Riflessione di monsignor Ravasi sulla nuova preghiera per gli ebrei
IL RUOLO DEI CRISTIANI - C’È ANCORA UN «PONTE» IN LIBANO E IN MEDIO ORIENTE
Avvenire, 15.2.2008
FULVIO SCAGLIONE
In tutti i drammi del Medio Oriente, la scena e la scansione degli eventi contano quasi quanto gli eventi stessi. Ed ecco, quindi, che l’uccisione a Damasco di Imad Mughniyeh, uno dei capi militari di Hezbollah, ideatore di alcuni dei più sanguinosi attentati degli ultimi decenni e da tempo nella lista dei più ricercati dai servizi di sicurezza Usa (le informazioni per catturarlo valevano 5 milioni di dollari), si sovrappone al terzo anniversario dell’uccisione dell’ex premier libanese Rafik Hariri. A Beirut, poi, due gigantesche manifestazioni, una per ricordare il terrorista caro all’Iran e l’altra per onorare il miliardario amico dell’Arabia Saudita, fanno per qualche ora temere scontri di piazza che potrebbero innescare un’altra guerra civile.
È un esercizio ozioso andare a tentoni alla ricerca della mano che ha eliminato Mughniyeh. Il cui prodest funziona poco per un eccesso di candidature. A parte Hezbollah, tutti gli altri sono sospettabili. Il mondo arabo punta il dito contro gli Stati Uniti e soprattutto Israele. La Cia? Il Mossad? Perché no? Ma perché non anche l’Iran o la stessa Siria, che osservano con irritazione la 'libanizzazione' di Hezbollah, trasformatosi in pochi anni da movimento sciita a partito a vocazione nazionalista?
Più utile è provare a capire che cosa potrebbe succedere in Libano. Da questo punto di vista è meglio che gli Usa e Israele non si facciano troppe illusioni. Hezbollah è un movimento che ha praticato e pratica il terrorismo, ma che non può più essere descritto e affrontato solo come un gruppo di terroristi. Basta avere una minima esperienza del Libano per saperlo. Per notare che il Paese intero celebra la Festa della Liberazione (il ritiro di Israele nel 2000) anche come un omaggio alla guerriglia di Hezbollah. Per vedere che la recente alleanza con il generale maronita Michel Aoun (l’ultimo ad arrendersi ai siriani alla fine degli anni Ottanta) ha saldato pulsioni che hanno lunghe radici, se è vero che tra i kamikaze impiegati proprio da Mughniyeh a Beirut nel 1982-1983 c’erano anche volontari cristiani. Non a caso ieri Saad Hariri, musulmano sunnita, figlio dell’ex premier assassinato tre anni fa e oggi leader della coalizione di governo, nel tentativo di alleggerire la tensione ha denunciato l’uccisione del terrorista sciita, invitando tutti i libanesi a riunirsi 'dietro al sangue versato durante la guerra del 2006 contro Israele'. Lo Stato ebraico, dunque, è dichiarato nemico del Libano, non del solo Hezbollah, persino dal più filo- americano dei politici arabi. Per parte sua, lo sceicco Nasrallah minaccia vendetta, ma sa di non poter premere troppo sul pedale della lotta armata. Come nel 2006, sarebbe il Paese intero a soffrirne e Hezbollah, proprio perché ambisce al potere, non può dare agli altri libanesi l’impressione di combattere una guerra privata. È la stessa ragione per cui il ramo politico del movimento evita di scardinare il Patto confessionale che regge il Libano e che ancora assegna ai cristiani un ruolo più ampio di quanto, oggi, vorrebbe la pura legge dei numeri.
La parola chiave nel Libano odierno, e per transizione nella regione che comprende quasi tutta la Mezzaluna Fertile, è proprio questa: cristiani. In Libano (ma non solo) sono l’unico collante che impedisce una disastrosa frammentazione e una guerra permanente. Sono il ponte tra i due grandi blocchi islamici (sunniti e sciiti) e potrebbero diventare il grimaldello di una pace tra Libano e Israele. Su di loro, soprattutto in Libano, dovrebbero 'investire' le grandi potenze, se avessero davvero a cuore le sorti del Medio Oriente.
Lourdes, il miracolo di fede che resiste alle confutazioni
La storia di Bernadette nel libro-intervista a padre René Laurentin
di Antonio Gaspari
ROMA, giovedì, 14 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Era l’11 febbraio del 1858, quando a Lourdes, Bernadette Soubirons una giovane francese di 14 anni, tanto buona quanto povera, malata e non scolarizzata, disse di aver visto una “bella Signora” che diceva di essere “L’Immacolata Concezione”.
Nonostante l’incredulità della vicenda e i tentativi ripetuti di screditare Bernadette, da allora milioni di pellegrini si sono recati nella grotta di Massabielle e si sono bagnati nella fonte miracolosa che lì è sgorgata.
A 150 anni da quelle apparizioni, Lourdes è stata visitata da oltre 700 milioni di pellegrini. Sono 67 le guarigioni miracolose accertate. Quattro le basiliche dove si celebrano 50 Messe al giorno e da dove si elevano milioni di “Ave Maria”. Invocazioni di gente sofferente che commuove gli uomini e Dio.
Un luogo, ha affermato il noto scrittore Vittorio Messori dove “sembra davvero assottigliarsi lo spessore che divide Cielo e Terra; dove si fa sottile il confine tra realtà concreta e quotidiana, ed Enigma invisibile ed eterno”.
Ed è proprio in occasione del 150° anniversario delle apparizioni della Madonna a Lourdes, che Andrea Tornielli, vaticanista de “Il Giornale”, ha intervistato padre René Laurentin, il teologo che più di tutti ha studiato la vicenda legata a Bernadette Soubirous.
Dopo essersi incontrato diverse volte con padre Laurentin, negli ultimi mesi del 2007, Tornielli ha pubblicato il libro-intervista: “Lourdes, inchiesta sul mistero a 150 anni dalle apparizioni” (Edizioni ART, pp. 200, € 18,00).
In questo volume il teologo francese ripercorre i fatti avvenuti a Lourdes tra il febbraio e il luglio del 1858, e poi gli avvenimenti che hanno caratterizzato la vita di santa Bernadette, la sua vocazione alla vita religiosa, l’esperienza della sofferenza e della malattia che ne hanno segnato l’esistenza fin da piccola.
Intervistato da ZENIT, Tornielli ha raccontato di essere rimasto impressionato da padre René Laurentin, “il sacerdote che in occasione del centenario delle apparizioni, ormai mezzo secolo fa, su incarico del Vescovo di Tarbes e Lourdes, monsignor Pierre-Marie Théas, ha scovato, analizzato e pubblicato tutti i documenti disponibili sugli eventi del 1858”.
Padre Laurentin, figlio di un architetto di Tours, sacerdote della diocesi di Parigi, esperto di questioni mariologiche, all’epoca in cui gli è stato affidato l’incarico aveva 35 anni.
Secondo Tornielli, “è stato protagonista di un’inchiesta senza precedenti. Per questo, la sua persona e soprattutto i suoi scritti rimangono un punto di riferimento insostituibile per chi voglia accostarsi al mistero di Lourdes”.
Un altro aspetto della vicenda che ha molto colpito il vaticanista de “il Giornale” è la quantità di attacchi contro santa Bernadette al fine di cancellare il “fenomeno Lourdes”.
Tornielli ha spiegato a ZENIT che “non è stato facile per Lourdes affermarsi nella Francia dell’Ottocento, dove l’anticlericalismo era di casa. Fin da subito le apparizioni furono al centro di attacchi, critiche, tentativi di confutazione”.
Nel libro padre Laurentin racconta di come dopo le primissime apparizioni, ci fu chi ipotizzò che la “bella signora” vista da Bernadette fosse in realtà l’avvenente moglie del farmacista locale che aveva avuto un appuntamento clandestino con un ufficiale di cavalleria proprio nella grotta, e che si era vista costretta a “fare la Madonna”, per confondere le acque ingannando la ragazzina che l’aveva colta in flagrante adulterio.
La povera signora che secondo la fantasiosa ricostruzione avrebbe scelto come alcova una gelida grotta piena di immondizie, quell’11 febbraio era davvero a letto, ma a casa sua, dato che aveva partorito da appena due giorni il suo quinto bebè.
Lei stessa denuncerà e farà condannare i diffamatori, che su questa calunnia avevano scritto fiumi d’inchiostro per screditare Lourdes.
Tornielli rileva che anche il noto scrittore Émile Zola cercò di far passare “la povera Bernadette come una misera vittima dell’isteria e della malnutrizione”.
Giunto a Lourdes nel 1892, Zola ebbe la ventura di assistere a due guarigioni istantanee, che racconterà nel suo romanzo, intitolato “Lourdes”, sostenendo però che “le due miracolate erano morte di lì a poco e che dunque la presunta guarigione era stata breve e soprattutto illusoria”.
“Peccato – ha rilevato Tornelli – che una delle due donne guarite non si arrese e continuò a protestare sui giornali dicendosi viva e vegeta”.
“Pur di screditare Lourdes – ha raccontato Laurentin –, Zola arrivò al punto da andarla a trovare per offrirle del denaro in cambio del suo silenzio. Storie meschine, sulle quali la storia, quella vera, ha avuto la meglio”, ha commentato Tornielli.
Don Nicolò, vai avanti Tu devi fare il prete
Avvenire, 15.2.2008
MARINA CORRADI—
U n sacerdote, don Nicolò Anselmi, responsabile della Pastorale giovanile della Cei, a proposito di una scena di sesso in 'Caos calmo' di Nanni Moretti ha detto che attori e registi hanno una grande responsabilità educativa, e ha espresso il desiderio che non indulgano a un 'erotismo distruttivo'. E’ successo un mezzo finimondo. 'Censura', 'anatema', 'crociata', hanno titolato i giornali. E giù con la 'intromissione nella sfera laica delle persone', dagli con Dario Fo a ruota libera sui preti sessuofobi. E 'Bacchettoni', e l’'Autonomia dell’Arte', e 'Si è passato ogni limite'. Titoli in prima, paginate doppie. Esercizio di collettivo sgomento mediatico a questa ennesima impennata dell’Oscurantismo Cattolico. In fondo il più pacato è stato Moretti, che non si è molto stupito che alla Chiesa non piacesse quella scena, e ha parlato di 'polemica montata' e di 'sciatteria isterica dei media'.
In effetti. Un prete che si occupa di giovani fa una critica spinto da una preoccupazione educativa: gli dispiace che in un film d’ autore entri una scena di sesso dal gusto nichilista. Si appella a una 'passione educativa' di attori e registi. Come dire: mostrateci qualche volta anche qualcosa che vorreste dare ai vostri figli. Che scandalo, che interferenza con l’Arte. Quel sacerdote ha scritto come un uomo che ha cara la questione dell’educare, e del trasmettere un desiderio di continuarequestione oggi in Italia grave e urgente. La sua è la lettera di un prete che vede come i modelli dei media facilmente, sotto all’appagamento della pura istintività, tendono al nulla, a nessuno sbocco se non una sorta di sterile consumismo dell’altro.
Ha chiesto che chi costruisce questi modelli così potenti pensi anche a come funzioneranno nella testa dei ragazzi che li guardano. È uno scandalo? Sì, è pensiero cattolico e dunque naturalmente 'crociata'. Se il Papa dice – come d’altronde è sua inveterata abitudine – che la vita umana va tutelata fin dal suo inizio, è 'crociata'. Se un sacerdote critica una scena di sesso dal sapore disperato, in un film che sarà visto da milioni, è 'anatema'. Domanda: c’è qualcosa di cui i cattolici possono parlare?
Di vita no, di educazione no, di politica men che meno. Di cosa dovrebbero parlare allora? Di taciti fioretti forse, in tempo di Quaresima; di catechismo magari, purché a bassa voce nei locali rigorosamente chiusi di un oratorio, e con l’attenzione a non dire nulla di politicamente scorretto. Come un’ansia di ghettizzazione nei media, di chiusura dei cattolici in un bel recinto. A leggere certi giornali, si direbbe che gli italiani si sentano inseguiti da torme di chierici intrusivi, maniacalmente intenti a censurare e vietare. Abbiamo un dubbio: è questa la realtà, o ne è una esagitata rappresentazione mediatica? Sembra attuale insomma la domanda di quel massmediologo americano che si chiedeva se i media descrivono la realtà,o se la fabbricano. Rappresentando una soffocante pressione clericale che non c’è. Stabilendo che ogni argomento – politica, vita, e quell’educazione che per la Chiesa è questione irrinunciabile – è 'interferenza'.
Sognando una Chiesa docilmente chiusa nei cortili delle parrocchie, e coscienze che limitino la loro attività all’area compresa fra il confessionale e l’altare. Soprattutto, una Chiesa che non si preoccupi di quel che ereditano i figli. Una comoda Chiesa: fuori dalla realtà, astratta dalla vita degli uomini, disincarnata – di tutte le pretese, la più inaccettabile.
LEGGE 194 E POLEMICHE
Un muro del secondo Policlinico di Napoli dove si è consumato il dramma dell’aborto in bagno.
Sull’accaduto ha fatto chiarezza la polizia dopo una denuncia telefonica
Napoli, un aborto in solitudine - Sui fatti del Policlinico una campagna che rimuove il vero problema
Avvenire, 15.2.2008
DI FRANCESCO OGNIBENE
D’accordo, riconosciamolo: quello che è successo a Napoli è scandaloso, inaccettabile. Ma lo è per un motivo diverso da quello inalberato come uno slogan polveroso da chi – con oggi sono tre giorni – su tutti i media disponibili non fa che gridare all’attentato contro la 194, tanto immaginario quanto stancamente ripetuto come una citazione obbligata.
Il vero scandalo dell’aborto al II Policlinico di Napoli per una diagnosi di difetto cromosomico non è infatti l’intervento della polizia per capire com’erano andate le cose: un atto dovuto, realizzato – a quanto va emergendo – con rispettosa cautela, e in presenza di una grave denuncia. È scandaloso che, nella fretta di usare il caso e dare la colpa al 'clima di intolleranza', nessuno si sia accorto della paura, la solitudine, l’angoscia e alla fine le condizioni disumane nelle quali si è compiuta la tragedia di una donna che desiderava con tutto il cuore il suo bambino e che poi ha scelto di abortirlo per il timore profondo e umanissimo di non farcela a reggere la sofferenza e la fatica che i medici le avevano prospettato, senza indicarle alcuna alternativa. Perché se una donna appena uscita dalla sala operatoria dove ha completato la via crucis di una separazione dal suo bambino che difficilmente si può immaginare più traumatica – con l’aborto consumato da sola in un bagno d’ospedale – dichiara che «non c’era altra scelta», vuol dire che qualcosa di decisivo nel sistema che avrebbe dovuto accompagnarla e sostenerla è stato tragicamente assente. Ed è quello lo scandalo di cui occuparsi, non altro, quello il motivo per il quale pretendere risposte e soluzioni proporzionate alla realtà, evitando campagne condite di slogan sorpassati dalla storia. Perché un’altra scelta dev’esserci sempre, non si può mai lasciare una donna spalle al muro davanti al bivio dell’aborto. Ma di questo nelle piazze e sui giornali non s’è sentito parlare: si è invece tentato di rendere incandescente il clima alimentando incidenti e creando un altro caso mediatico, proprio mentre la ricostruzione dei fatti di Napoli faceva affiorare più di un dubbio sulla versione sbrigativa della prima ora.
In questo clima fattosi ieri quasi irrespirabile, di Silvana – la protagonista, suo malgrado, della triste vicenda – ai fautori del 'diritto' di abortire non sembra interessare granché, se non per usarne il nome e la storia come arnese polemico. Rileggendo quel che è davvero accaduto, è allora il caso di chiedersi: per questa madre mancata e ferita, sbattuta su tutti i giornali nel momento più duro della sua esistenza, sono peggio le domande della giovane agente di polizia presentatasi in borghese per capire con il massimo tatto possibile se la sua dignità e la legge 194 fossero state violate, e tutelarne il diritto più elementare al rispetto in un’ora di sofferenza, o questo uso spregiudicato della sua storia nel dibattito politico, nell’informazione, nelle piazze? Brandire Silvana contro qualcuno: questa è la vera vergogna, che si aggiunge a un’altra domanda sinora senza risposta: dove sono i difensori a oltranza della 194 come presidio di un presunto «diritto di abortire» – che la legge certo non prevede – quando una donna chiede aiuto di fronte alla diagnosi infausta sul bambino a lungo cullato nel suo grembo? Chi la accoglie incoraggiandola, senza mai volerla giudicare, per dirle che ce la può fare, se vuole, e che le sarà accanto nei primi passi, e che anche dopo ci sarà qualcuno che può condividere la sua fatica? Chi le garantisce che si batterà perché a farsi carico di lei e del suo bimbo forse 'imperfetto' ci sia anche lo Stato? Uno Stato, beninteso, che sappia non farsi prendere in ostaggio da qualche piazza dilatata dalle riprese in campo stretto delle tv e dai toni accesi di cronisti compiacenti...
Il risultato ottenuto con dichiarazioni al limite dell’isteria e una campagna mediatica con punte di violenza verbale da lasciare senza fiato – certo non giustificabili col clima di campagna elettorale – è stato di esacerbare gli animi e convincere anche un piccolo gruppo di donne scese in piazza ieri a Roma che fosse una buona idea dare addosso alla polizia schierata per controllarle.
I fatti di Napoli – che ricostruiamo qui accanto – dicono che il magistrato e gli agenti sono chiaramente intervenuti proprio per verificare che la 194 non venisse violata. Il polverone sollevato in seguito è servito solo a nascondere questa realtà che, dopo raffiche di parole sparate nel mucchio, appare persino paradossale davanti a chi evoca roghi e mammane. Ora però si lascino da parte i furori ideologici e si inizi finalmente a discutere del vero scandalo: la solitudine spesso assoluta in cui si compiono scelte estreme, e la paura così spaventosamente diffusa dentro le pieghe di una società che non sa più accogliere i propri figli quando nella loro vita appena sbocciata appare la macchia di un possibile difetto.
Clima pesante costruito sui media attorno a una vicenda che mostra il volto nascosto di un dramma sociale
Riflessione di monsignor Ravasi sulla nuova preghiera per gli ebrei
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 14 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la riflessione dell'Arcivescovo Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, circa la modifica, voluta da Benedetto XVI, alla preghiera per gli ebrei che si recitava nella liturgia del Venerdì Santo prima del Concilio Vaticano II.
L'articolo è apparso su “L'Osservatore Romano” del 15 febbraio.
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di Gianfranco Ravasi
Un giorno Kafka all'amico Gustav Janouch che lo interrogava su Gesù di Nazaret rispose: "Questo è un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi". Il rapporto tra gli Ebrei e questo loro "fratello maggiore", come l'aveva curiosamente chiamato il filosofo Martin Buber, è stato sempre intenso e tormentato, riflettendo anche la ben più complessa e travagliata relazione tra ebraismo e cristianesimo. Forse sia pure nella semplificazione della formula è suggestiva la battuta di Shalom Ben Chorin nel suo saggio dal titolo emblematico Fratello Gesù (1967): "La fede di Gesù ci unisce ai cristiani, ma la fede in Gesù ci divide".
Abbiamo voluto ricreare questo fondale, in realtà molto più vasto e variegato, per collocarvi in modo più coerente il nuovo Oremus et pro Iudaeis per la Liturgia del Venerdì Santo. Non c'è bisogno di ripetere che si tratta di un intervento su un testo già codificato e di uso specifico, riguardante la Liturgia del Venerdì Santo secondo il Missale Romanum nella stesura promulgata dal beato Giovanni XXIII, prima della riforma liturgica del Concilio Vaticano II. Un testo, quindi, già cristallizzato nella sua redazione e circoscritto nel suo uso attuale, secondo le ormai note disposizioni contenute nel motu proprio papale Summorum Pontificum dello scorso luglio.
All'interno, dunque, del nesso che unisce intimamente l'Israele di Dio e la Chiesa cerchiamo di individuare le caratteristiche teologiche di questa preghiera, in dialogo anche con le reazioni severe che essa ha suscitato in ambito ebraico. La prima è una considerazione "testuale" in senso stretto: si ricordi, infatti, che il vocabolo textus rimanda all'idea di un "tessuto" che è elaborato con fili diversi. Ebbene, la trentina di parole latine sostanziali dell'Oremus è totalmente frutto di una "tessitura" di espressioni neotestamentarie. Si tratta, quindi, di un linguaggio che appartiene alla Scrittura Sacra, stella di riferimento della fede e dell'orazione cristiana.
Si invita innanzitutto a pregare perché Dio "illumini i cuori", così che anche gli Ebrei "riconoscano Gesù Cristo come salvatore di tutti gli uomini". Ora, che Dio Padre e Cristo possano "illuminare gli occhi e la mente" è un auspicio che san Paolo già destina agli stessi cristiani di Efeso di matrice sia giudaica sia pagana (1, 18; 5, 14). La grande professione di fede in "Gesù Cristo salvatore di tutti gli uomini" è incastonata nella Prima lettera a Timoteo (4, 10), ma è anche ribadita in forme analoghe da altri autori neotestamentari, come, ad esempio, il Luca degli Atti degli Apostoli che mette in bocca a Pietro questa testimonianza davanti al Sinedrio: "In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati" (4, 12).
A questo punto ecco l'orizzonte che la preghiera vera e propria delinea: si chiede a Dio, "che vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità", di far sì "che, con l'ingresso della pienezza delle genti nella Chiesa, anche tutto Israele sia salvo". In alto si leva la solenne epifania di Dio onnipotente ed eterno il cui amore è come un manto che si allarga sull'intera umanità: egli, infatti si legge ancora nella Prima lettera a Timoteo (2, 4) "vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità". Ai piedi di Dio si muove, invece, come una grandiosa processione planetaria, che è fatta di ogni nazione e cultura e che vede Israele quasi in una fila privilegiata, con una presenza necessaria. È ancora l'apostolo Paolo che conclude la celebre sezione del suo capolavoro teologico, la Lettera ai Romani, dedicata al popolo ebraico, l'olivo genuino sul quale noi siamo stati innestati, con questa visione la cui descrizione è "intessuta" su citazioni profetiche e salmiche: l'attesa della pienezza della salvezza "è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti; allora tutto Israele sarà salvato come sta scritto: Da Sion uscirà il liberatore, egli toglierà le empietà da Giacobbe. Sarà questa la mia alleanza con loro quando distruggerò i loro peccati" (11, 25-27).
Un'orazione, quindi, che risponde al metodo compositivo classico nella cristianità: "tessere" le invocazioni sulla base della Bibbia così da intrecciare intimamente credere e pregare (è un'interazione tra le cosiddette lex orandi e lex credendi). A questo punto possiamo proporre una seconda riflessione di indole più strettamente contenutistica. La Chiesa prega per aver accanto a sé nell'unica comunità dei credenti in Cristo anche l'Israele fedele. È ciò che attendeva come grande speranza escatologica, cioè come approdo ultimo della storia, san Paolo nei capitoli della Lettera ai Romani (capitoli 9-11) a cui sopra accennavamo. È ciò che lo stesso Concilio Vaticano II proclamava quando, nella costituzione sulla Chiesa, affermava che "quelli che non hanno ancora accolto il Vangelo in vari modi sono ordinati ad essere il popolo di Dio, e per primo quel popolo al quale furono dati i testamenti e le promesse e dal quale è nato Cristo secondo la carne, popolo in virtù dell'elezione carissimo a ragione dei suoi padri, perché i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili" (Lumen gentium, n. 16).
Questa intensa speranza è ovviamente propria della Chiesa che ha al centro, come sorgente di salvezza, Gesù Cristo. Per il cristiano egli è il Figlio di Dio ed è il segno visibile ed efficace dell'amore divino, perché come aveva detto quella notte Gesù a "un capo dei Giudei", Nicodemo "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, e non lo ha mandato per giudicare il mondo ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui" (cfr Giovanni, 3, 16-17). È, dunque, da Gesù Cristo, figlio di Dio e figlio di Israele, che promana l'onda purificatrice e fecondatrice della salvezza, per cui si può anche dire in ultima analisi, come fa il Cristo di Giovanni, che "la salvezza viene dai Giudei" (4, 22). L'estuario della storia sperato dalla Chiesa è, quindi, radicato in quella sorgente.
Lo ripetiamo: questa è la visione cristiana ed è la speranza della Chiesa che prega. Non è una proposta programmatica di adesione teorica né una strategia missionaria di conversione. È l'atteggiamento caratteristico dell'invocazione orante secondo il quale si auspica anche alle persone che si considerano vicine, care e significative, una realtà che si ritiene preziosa e salvifica. Scriveva un importante esponente della cultura francese del Novecento, Julien Green, che "è sempre bello e legittimo augurare all'altro ciò che è per te un bene o una gioia: se pensi di offrire un vero dono, non frenare la tua mano". Certo, questo deve avvenire sempre nel rispetto della libertà e dei diversi percorsi che l'altro adotta. Ma è espressione di affetto auspicare anche al fratello quello che tu consideri un orizzonte di luce e di vita.
È in questa prospettiva che anche l'Oremus in questione pur nella sua limitatezza d'uso e nella sua specificità può e deve confermare il nostro legame e il dialogo con "quel popolo con cui Dio si è degnato di stringere l'Antica Alleanza", nutrendoci "della sua radice di olivo buono su cui sono innestati i rami dell'olivo selvatico che siamo noi Gentili" (Nostra aetate, n. 4). E come pregherà la Chiesa nel prossimo Venerdì Santo secondo la liturgia del Messale di Paolo VI, la comune e ultima speranza è che "il popolo primogenito dell'alleanza con Dio possa giungere alla pienezza della redenzione".
(©L'Osservatore Romano - 15 febbraio 2008)