domenica 24 febbraio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Papa: Dio ha sete della nostra fede e del nostro amore
2) Aborto, la bandiera segreta
3) Il programma serio della lista pazza
4) La sfida dell’Uomo-Montagna
5) Fede, ragione, università – discorso del Prof. Vittorio Possenti all’Università di Venezia
6) Rapporti Cina-Vaticano, fumo negli occhi per le Olimpiadi
7) Ragazzi, siate protagonisti della vostra crescita, Benedetto XVI
8) È POSSIBILE OGGI EDUCARE? - IL PROBLEMA, L’AUTOREVOLEZZA DEGLI ADULTI
9) Signori candidati, diteci l’antropologia di riferimento
10) SCIENZA E VITA - «AUTENTICO COLPO DI MANO SERVIREBBE UN REFERENDUM CONFERMATIVO»


24/02/2008 12:15
VATICANO
Papa: Dio ha sete della nostra fede e del nostro amore
Benedetto XVI commenta il dialogo fra Gesù e la Samaritana, il dono dell’acqua viva alla donna che coi suoi “cinque mariti” mostra “l’insoddisfazione esistenziale di chi non ha trovato ciò che cerca” e vive in modo “ripetitivo e rassegnato”. Appello per le popolazioni dell’Ecuador, colpite da inondazioni e da eruzioni vulcaniche. Appuntamento con gli universitari di Europa e America per la veglia mariana il 1° marzo.

Città del Vaticano (AsiaNews) – “Dio ha sete della nostra fede e del nostro amore. Come un padre buono e misericordioso desidera per noi tutto il bene possibile e questo bene è Lui stesso”: così papa Benedetto XVI ha riassunto il mistero racchiuso nel dialogo fra Gesù e la Samaritana (Gv 4, 5- 42), il cui racconto – uno dei “più belli e profondi della Bibbia” – viene proclamato nella liturgia della terza domenica di Quaresima.
Il papa era di ritorno da una visita pastorale alla parrocchia romana di Santa Maria Liberatrice nel quartiere di Testaccio ed è stato accolto da decine di migliaia di persone in attesa in piazza san Pietro.
Il racconto dice che Gesù “stanco del viaggio”, chiede da bere a una samaritana, andata ad attingere acqua dal pozzo. La donna si stupisce perché “era … del tutto inconsueto che un giudeo rivolgesse la parola a una donna samaritana, per di più sconosciuta”. Gesù le parla poi di “un’ ‘acqua viva’ capace di estinguere la sete e diventare in lei ‘sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna’”.
“Tutto questo – spiega il pontefice – a partire dall’esperienza reale e sensibile della sete. Il tema della sete attraversa tutto il Vangelo di Giovanni: dall’incontro con la Samaritana, alla grande profezia durante la festa delle Capanne (Gv 7,37-38), fino alla Croce, quando Gesù, prima di morire, disse per adempiere la Scrittura: ‘Ho sete’ (Gv 19,28). La sete di Cristo è una porta di accesso al mistero di Dio, che si è fatto assetato per dissetarci, così come si è fatto povero per arricchirci (cfr 2 Cor 8,9). Sì, Dio ha sete della nostra fede e del nostro amore. Come un padre buono e misericordioso desidera per noi tutto il bene possibile e questo bene è Lui stesso. La donna di Samaria invece rappresenta l’insoddisfazione esistenziale di chi non ha trovato ciò che cerca: ha avuto "cinque mariti" ed ora convive con un altro uomo; il suo andare e venire dal pozzo per prendere acqua esprime un vivere ripetitivo e rassegnato. Tutto però cambiò per lei quel giorno, grazie al colloquio con il Signore Gesù, che la sconvolse a tal punto da indurla a lasciare la brocca dell’acqua e a correre per dire alla gente del villaggio: ‘Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?’ (Gv 4,28-29)”.
Prima della recita della preghiera mariana, Benedetto XVI ha invitato i fedeli ad aprire “il cuore all’ascolto fiducioso della parola di Dio per incontrare, come la Samaritana, Gesù che ci rivela il suo amore e ci dice: il Messia, il tuo salvatore ‘sono io, che ti parlo’ (Gv 4,26). Ci ottenga questo dono Maria, prima e perfetta discepola del Verbo fatto carne”.
Popola preghiera, il papa ha lanciato un appello per la popolazione dell’Ecuador della costa, colpita da inondazioni, dopo essere stata segnata anche dall’eruzione del vulcano Tungurahua. “Mentre affido al Signore le vittime di tale calamità – ha detto il papa - esprimo la mia personale vicinanza a quanti stanno vivendo ore di angoscia e di tribolazione e invito tutti ad una fraterna solidarietà, affinché le popolazioni di quelle zone possano ritornare, quanto prima, alla normalità della vita quotidiana”.
Subito dopo Benedetto XVI ha invitato gli studenti universitari di Roma a partecipare alla veglia mariana che si terrà nell’aula Paolo VI il prossimo 1° marzo. Ad essa parteciperanno, in collegamento radio-televisivo, anche studenti di altri Paesi dell’Europa e delle Americhe. L’anno scorso, un appuntamento simile, è stato fatto in collegamento con alcune università d’Europa e dell’Asia. “Invocheremo - ha concluso il pontefice - l’intercessione di Maria Sedes Sapientiae, affinché la speranza cristiana sostenga la costruzione della civiltà dell’amore in questi due Continenti e nel mondo intero. Cari amici universitari, vi attendo numerosi!”.


23 febbraio 2008
Giuliano Ferrara
Aborto, la bandiera segreta
Qui si svela perché quasi tutti i progressisti non accettano il confronto
C’è da domandarsi: ma perché lo fanno? Perché “Giuliano il mammano”? Perché l’ossessivo “la 194 non si tocca”? Perché “le donne non sono assassine”? I progressisti, dal lancio della moratoria a fine dicembre e particolarmente ora che la moratoria per l’aborto si affaccia sulla scena o sceneggiata politica con una sua lista pazza, non hanno accettato un onesto confronto. Hanno lanciato anatemi, descritto per quel che non è e deformato fino al grottesco la posizione avversaria, si sono perfino inventati una montatura giornalistica sul caso dell’aborto di Napoli, che si è ritorta contro di loro. All’inizio si poteva pensare che tale reazione scomposta e abusiva potesse essere legata al fatto che ci eravamo spiegati male. Ma non si troverà, salvo la legittimità da noi liberalmente riconosciuta dell’opposizione di principio a qualunque legge abortista, una sola riga in cui non sia chiaro il sostrato necessario di ogni nostro pensiero e azione: nessuna donna può essere obbligata a partorire, nessuna donna deve essere perseguita penalmente perché rifiuta la maternità, tutte le donne devono essere libere di non abortire. Allora ci deve essere un’altra spiegazione. Abbiamo pensato in un secondo momento al panico. E qui siamo già più vicini a una diagnosi precisa. L’aborto è la grande rimozione della nostra epoca. E il rimosso incide nella forma della paura, dell’incubo, su chi lo pratica privatamente e pubblicamente. Qualche meccanismo mediatico di sostegno, ed ecco l’esplosione ideologica che porta il pensiero progressista alla fine della capacità di distinguere, argomentare in base a una lettura responsabile della cosa e delle diverse opinioni, in una deriva di propaganda generica che era evidente nell’ossessiva ripetizione di formule a tutela della donna offesa opposte dalla bella Daria Bignardi, nel suo programma della Milano chic, all’affermazione: “L’aborto è maschio”.
Purtroppo questo non spiega tutto. La verità finale è negli altri titoli, che Liberazione, il quotidiano del rimosso ideologico progressista e libertario-comunista, ha avuto il folle coraggio di pubblicare: “l’aborto non è un dramma” e “il feto non è vita”. Qui siamo al dunque. Nessuno dei progressisti osa confessarlo nemmeno più a se stesso, ma la verità dell’aborto, inteso non come soluzione contro la clandestinità dell’interruzione selvaggia delle gravidanze, bensì come pratica ormai moralmente indifferente, costume e vita quotidiana, è nel concetto di autodeterminazione e sovranità procreativa. La scelta è ideologica, è suggerita dalla furbizia del potere maschile, e consiste nell’idea che la donna è sovrana e sola nel decidere un atto che è di schiavismo genetico, nel decidere al posto di un altro e senza coinvolgere il maschio che con lei ha concepito il suo bambino. Non fosse così, i progressisti avrebbero trovato l’intelligenza e il coraggio di dire: la chiesa oggi riconosce che non si può tornare all’aborto clandestino e chiede di discutere le derive eugenetiche dell’aborto di massa, l’abortismo di stato in Asia e le politiche pubbliche tendenti a ridurre l’aborto a un modello di grado zero in occidente. Affrontiamo con serenità il problema, discutiamo e troviamo un compromesso. Solo poche leader femminili e progressiste (e la lettera di Franca Bimbi forse va in questa direzione come altri interventi di Claudia Mancina e Emma Fattorini, belli ma rari) hanno avuto questo impulso. Le altre no, perché del rimosso abortivo fa parte l’ideologia delle ragazze del secolo scorso, oggi diventata conformismo e pratica inconsapevole di massa con l’ausilio fattivo dei ragazzacci del secolo scorso.


23 febbraio 2008
Giuliano Ferrara
Il programma serio della lista pazza
Roma. I nostri candidati si impegnano a:
1. Promuovere legislativamente il dovere di seppellire tutti i bambini abortiti nel territorio nazionale, in qualunque fase della gestazione e per qualunque motivo. Le spese sono a carico del pubblico erario.
2. Vietare per decreto legge l’introduzione in Italia della pillola abortiva Ru486 e simili veleni capaci di reintrodurre la convenzione dell’aborto solitario e clandestino contro lo spirito e la lettera della legge 194 di tutela sociale della maternità.
3. Stabilire per via di legge che accoglienza, rianimazione e cura dei neonati sono un compito deontologico dei medici a prescindere da qualunque autorizzazione di terzi.
4. Emendare l’articolo 3 della Costituzione, comma 1. Dove è scritto “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge” aggiungere una virgola e la frase “dal concepimento fino alla morte naturale”.
5. Impegnare il governo della Repubblica a costruire un’alleanza capace di emendare la Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite all’articolo 3. Dove è scritto “ogni individuo ha diritto alla vita” aggiungere una virgola e la frase “dal concepimento fino alla morte naturale”.
6. Difendere la legge 40 sulla fecondazione medicalmente assistita, escludendo per via di legge e linee guida interpretative ogni possibilità, adombrata in recenti sentenze giudiziarie, di introdurre la pratica eugenetica della selezione per annientamento dell’embrione umano al posto della cura e della relativa diagnostica terapeutica. Introdurre nei primi cento giorni una moratoria per la ricerca sulle cellule staminali embrionali, sulla falsariga di quella europea abbandonata dal governo Prodi, e rafforzare la ricerca sulle staminali adulte o etiche.
7. Fondare in ogni regione italiana una Agenzia per le adozioni il cui compito specifico sia quello di favorire l’adozione, con procedura riservata e urgente, di quei bambini che possono essere sottratti a una decisione abortiva di qualunque tipo.
8. Adottare le modalità del “Progetto Gemma” sul sostegno materiale alle gestanti in difficoltà e alle giovani madri di ogni nazionalità e status giuridico per la prima accoglienza e educazione dei bambini, con l’erogazione di consistenti somme per i primi trentasei mesi di vita dei figli.
9. Applicare la parte preventiva e di tutela della maternità della legge 194. Potenziare in termini di risorse disponibili e di formazione del personale pubblico, valorizzando il volontariato pro vita, la rete insufficiente dei consultori e dei Centri di aiuto alla vita in ogni regione e provincia italiana.
10. Triplicare i fondi per la ricerca sulle disabilità e istituire una Agenzia di tutela e integrazione del disabile in ogni regione italiana.
11. Sostenere con sovvenzioni pubbliche adeguate l’attività dell’associazione di promozione sociale denominata Movimento per la vita.
12. Le risorse per il programma elettorale sono da fissare nella misura di mezzo punto calcolato sul prodotto interno lordo e verranno rese disponibili attraverso lo stanziamento di 7 miliardi di euro attualmente giacenti presso i conti correnti dormienti in via di smobilitazione e altri cespiti di entrata.



La sfida dell’Uomo-Montagna
Autore: Leonardi, Enrico
Fonte: CulturaCattolica.it
mercoledì 20 febbraio 2008
Le strategie delle partite a scacchi delle coalizioni e degli apparentamenti sollevano una cortina fumogena sulle vere questioni della politica: il bene comune, il “servizio del cittadino” (Vilma Bargigia), i problemi quotidiani della gente-gente. Non è che ogni tanto non affiori qua e là qualche parola d’ordine di programmi o intenzioni: riduzione delle tasse, giustizia, infrastrutture... Stupisce che, come ha notato Gianni Mereghetti in una lettera aperta, rimangano drammaticamente assenti finora dalle prime enunciazioni programmatiche (almeno dei due grandi partiti: PD e PDL), le vere emergenze che segnano la crisi del nostro popolo: in primis quella educativa.
“Prendo atto con grande amarezza che né per Veltroni né per Berlusconi la scuola è una delle questioni su cui si gioca il futuro dell’Italia! Si tratta di un grave errore, perché invece la scuola è una delle questioni serie del paese, e oggi ancor di più dopo anni di riforme mancate che non hanno lasciato la situazione in stallo, ma l’hanno aggravata. Tra l’altro la campagna elettorale si svolgerà mentre la scuola è impantanata, incapace di liberarsi dal fango in cui l’ha cacciata il ministro Fioroni con lo sciagurato decreto sui debiti scolastici e sulle impossibili attività di recupero. La scuola è allo sbando e i leader dei due partiti che si candidano al governo del paese si permettono di non considerare tra le priorità dei loro programmi l’emergenza educazione. VERGOGNA!”. La difficoltà dei leader ad affrontare complessi ma essenziali nodi problematici è emersa con evidenza anche nel caso-Ferrara. Il direttore de “Il Foglio” ha cominciato la sua battaglia per la vita in tempi non sospetti, ed ora ha deciso - con una scelta sicuramente opinabile dal punto di vista strategico - di porre a tema il rispetto della vita con una lista “monotematica”: “Aborto? No, grazie”. Certo è giusto che in campo politico la questione della vita sia nuovamente affrontata, e del resto la difesa della vita non è un monopolio della Chiesa, ma un gesto della ragione. Ben venga allora la salutare provocazione dell’Uomo-Montagna, erede dell’energia polemica con cui Gilbert Keith Chesterton combatteva per difendere la verità, e come lui tetragono a insulti, aggressioni verbali, scomposte reazioni al limite dell’isterico e del “talebano”. Non è forse vero che, come si dice sull’ultimo numero di “Tempi”, l’aborto “come un killer seriale e silenzioso di morti ne ha fatto un miliardo in cinquant’anni. E le migliori teste d’uovo dell’Occidente hanno detto: “Qui non è morto nessuno”. Guerre senza nemico, omicidi senza mandante”. Quale è il rischio, come bene ha notato Domenico Delle Foglie sull’“Avvenire” di martedì 19 febbraio 2008? “In sostanza c’è da temere che l’odio civile sia stato allontanato dalla contesa tra le due grandi forze in campo per essere incanalato sul terreno del diritto alla vita e dei suoi difensori”. Ossia che si riprenda la polemica del “muro contro muro” che nessun frutto ha arrecato negli ultimi decenni. Ha detto bene Assuntina Morresi in un articolo su “L’Occidentale”: “Ma nel riparlare di aborto dopo trent’anni e soprattutto dopo il referendum sulla legge 40, faremmo tutti un pericoloso salto all’indietro se si ritornasse al clima degli anni ’70, al muro contro muro di quegli anni, che non aiuta certamente al dialogo e soprattutto alla comprensione di quello che significa una maternità difficile, un figlio disabile, e di tutti quei problemi, più o meno materiali, più o meno risolvibili, che porta con sé una gravidanza non voluta. Niente guerre frontali, insomma, basta urlare. E’ ora di sedersi attorno a un tavolo e cominciare a parlare, tutti quanti”.


Fede, ragione, università
ROMA, sabato, 23 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato dal professor Vittorio Possenti, docente di Filosofia politica presso l'Università di Venezia, intervenendo il 6 febbraio scorso all’Università “La Sapienza” di Roma, in occasione di un Seminario per analizzare la Lectio magistralis che Benedetto XVI non ha potuto pronunciare in quella università.
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Il tema che interpella è tra i più affascinanti; la sua straordinarietà è acuita dal riferimento al discorso non letto a ‘La Sapienza’ di Benedetto XVI (17 gennaio 2008), pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana col titolo significativo “Non vengo a imporre la fede ma a sollecitare il coraggio per la verità”. Non ne proporrò un commento analitico, ma lo terrò nello sfondo, ispirandomi ad esso nel mio cammino. Il testo del vescovo di Roma apre orizzonti inattesi e libera lo sguardo della mente per nuove domande che aprono al domani e invitano a meditare.
Fede e ragione: un rapporto necessario per entrambe
1. Fede e ragione si relazionano necessariamente poiché il loro scopo è l’attingimento del vero, e prendono entrambe risalto se sanno coltivare il coraggio per la verità. La sua questione è universale, ed anche la ragione pubblica di un Rawls non ne può fare a meno, venendo condotta a confrontarsi con la sfera della religione e con la domanda sulla fede. Questo movimento ‘nuovo’ è in atto in Occidente, e ne stabilisce il quadro spirituale di base, cui ripetutamente Benedetto XVI allude. Nello sfondo del discorso si percepisce l’assunto che l’epoca della secolarizzazione non sia un dato irreversibile e non costituisca quell’indiscutibile segno dei tempi al quale l’azione e la presenza dei cristiani dovrebbero adeguarsi. In merito il ritorno delle religioni nella sfera pubblica segnala che il carattere della secolarizzazione moderna sta cambiando pelle, e che nella società postsecolare (che non significa la società in cui ogni forma di secolarizzazione è scomparsa) si può camminare verso un rapporto più cordiale tra fede e ragione. Come già a Regensburg, la domanda cui Benedetto cerca di rispondere è: che cosa è la ragione? Domanda eminentemente ‘socratica’ e inderogabile per il carattere degli ascoltatori cui è indirizzata, i docenti e gli studenti che compongono l’universitas studiorum, quell’università che ruota interamente attorno ai compiti della ragione ed alla ricerca. L’altra grande domanda che innerva il discorso suona: “qual è la natura e la missione dell’università?” Su queste due questioni poggia la riflessione del Papa.
Con il compimento nella pienezza dei tempi (plenitudo temporum, cfr. Gal 4,4) della Rivelazione biblica nasce il permanente tema del nesso tra fede e ragione nel senso di un possibile incontro e reciproco riconoscimento. In questo atto, mai scontato, mai alle nostre spalle come evento acquisito, la ragione (e la filosofia) hanno una parola da dire, ed un ascolto da compiere, a partire dall’interrogativo sul vero e dal richiamo della coscienza. La ragione come suo primo movimento non si inginocchia dinanzi alla fede: le va incontro, la interroga, talvolta la accoglie, in tal caso cercando l’intesa e la cooperazione. Fede e ragione dovrebbero essere due amiche, certo diverse e perfino eterogenee, ma che si stimano e si riconoscono. Oltretutto il loro scopo è lo stesso, sebbene secondo diversi cammini: conoscere il vero, e trarne gioia e appagamento. Lo scopo della ragione è di conoscere la realtà, l’essere, e in questo movimento alla fine Dio. Essa arriva a coglierne l’esistenza, a conoscere qualcosa di lui, ma non lo può raggiungere: getta uno sguardo sull’oltre, che è ad un tempo il Trascendente e l’aldilà, ma non può portarci lì. Occorre che dall’ “altrove rispetto al mondo” venga qualcuno a prenderci per mano e farci compiere il viaggio.
In questa disposizione si concreterebbe l’atteggiamento di una ragione disposta ad ascoltare a pieno arco. Aperta è quella ragione che con procedimento razionale e controllabile si riconosce insufficiente ad offrire una visione completa; consapevole dei propri limiti, è spontaneamente inclinata a completare e vivificare con gli elementi della fede quelli raggiunti dalla ragione. Un simile atteggiamento di apertura e di dialogo non toglie autonomia al pensiero umano. Se per secoli molte obiezioni si sono appuntate sull’espressione non felice per cui la filosofia era considerata ancilla della teologia, vi è oggi da temere che la filosofia e più ampiamente la ragione non siano divenute ancillae scientiarum : sempre più spesso sono solo le scienze ad assegnare alla ragione i temi da pensare, il perimetro entro cui muoversi, il campo delle cose disputabili.
Che la ragione sia oggi identificata con quella scientifica e che il perimetro totale del sapere sia definito solo dalle scienze, è una tesi frequente che implica l’insignificanza conoscitiva della fede e della religione. Qualche giorno fa E. Boncinelli ricordava (Corriere della sera, 29 gennaio) che il compito delle religioni di spiegare l’origine e la natura del mondo non ha più oggi molta importanza conoscitiva e razionale, sottintendendo che il compito è adempiuto solo dalla scienza. A mio avviso si tratta di una tesi corriva, la quale impoverisce assai la domanda sulla verità, un esito che più di ogni altro l’uomo-essere pensante deve temere. Il senso ultimo del discorso di Benedetto XVI sta nel mantenere desta e viva la sensibilità per la verità.
In ciò appare un compito imprescindibile della fede, il suo porsi come pungolo nei confronti della ragione, perché non abdichi alle sue responsabilità. Sovviene qui un passo del libro di Tobia, uno dei più deliziosi della Bibbia (cfr. il cap. 6). La fede può essere per la ragione qualcosa di analogo a quanto operò nel viaggio di Tobia l’Arcangelo Raffaele: egli guidò nel cammino, neutralizzò i mostri marini, preparò un collirio per gli occhi, affinché fossero difesi da malattie e vedessero meglio. Incontrando la ragione, la Rivelazione la provoca ad essere se stessa, a purificarsi del peso soverchio degli interessi; può aiutare la ragione e al suo seguito l’intera università dal rischio di cedere al positivismo e allo scientismo. Un particolare messaggio è indirizzato alla filosofia cui si chiede di non degradarsi in positivismo, e alla teologia affinché non sia confinata nella sfera privata di un gruppo.
2. Indubbiamente viviamo in un contesto culturale in cui il relativismo, specialmente morale ma anche intellettuale, è spiccato. Si tratta di diagnosi ripetutamente riproposta, e non intendo certo negarne la validità, la quale tuttavia è parziale poiché la cultura di taglio illuminista che pervade l’Europa non è su molti punti una cultura relativista. Pensiamo all’estensione enorme dell’etica utilitaristica che non è relativistica ma che avanza la pretesa all’oggettivismo, addirittura attraverso un calcolo. Forse non è neppure appropriato parlare di relativismo antropologico dal momento che il materialismo a sfondo evoluzionistico e biologico tende ad affermare come unica realtà l’uomo senza volto né spirito, l’uomo risolto nel circolo della natura. Poniamo mente pure alla valanga di pubblicazioni che sostengono che l’unica verità possibile ci viene solo dalla scienza. Lo scientismo sostiene che la scienza è l’unica via per l’acquisizione di verità ferme, fondate sulla roccia della dimostrazione e della sperimentazione. Si incontra qui una compatta visione del mondo, per nulla relativistica, che avanza brandendo come una spada la ‘verità forte’ della scienza che come l’acqua ragia dissolve ogni altro vero, che mette in questione e talvolta deride le fondamentali tradizioni morali e religiose vedendo in esse quasi solo superstizione, soperchierie, tendenza al fanatismo ed ignoranza. E’ possibile che il Papa abbia dinanzi questa situazione quando invita a non gettare impunemente “nel cestino della storia delle idee” queste tradizioni sapienziali, in nome di una ragione decentrata dal reale e astorica.
Il rischio del nichilismo (giuridico)
3. Al tema della ragione umana e dei suoi compiti vorrei assegnare una declinazione specifica, chiamando in causa – anche in rapporto alla sede in cui siamo – la politica e il diritto. Me ne dà lo spunto una domanda decisiva di Benedetto XVI che non ha ricevuto l’attenzione che merita, pur segnalando la massima difficoltà politico-giuridica in Occidente: “come possa essere trovata una normatività giuridica che costituisca un ordinamento della libertà, della dignità umana, e dei diritti dell’uomo”. Tale interrogativo è elevato nella parte espressamente dedicata alla Facoltà di Giurisprudenza, e in rapporto alla relazione tra diritto e libertà e al fatto per cui “il diritto è presupposto della libertà, non il suo antagonista”. Per tale esito una carta costituzionale quale fonte di legalità e di partecipazione dei cittadini aperti ad un dialogo ragionevole tra loro, come sostiene Habermas, è qualcosa di grande e insieme di insufficiente, se vengono meno i fondamenti prepolitici della politica e del diritto. Anche in essi vi è bisogno di verità, altrimenti saremo sopraffatti solo dagli interessi. Il centro del discorso ratzingeriano è l’autonomia dell’università da ogni autorità politica o ecclesiastica e il suo legame esclusivo con l’autorità della verità.
Occorre reintrodurre il concetto di vero e di giusto nel dibattito pubblico, quale luogo sovraordinato ai partiti e ai gruppi di pressione, che mirano a conseguire maggioranze e a soddisfare specifici interessi che “però sono spesso particolari e non servono veramente all’insieme”. Bisogna ascoltare istanze diverse. Anche per questo scopo esiste l’università come luogo di autonoma ricerca del ‘chierico’ che non deve tradire (J. Benda). Nell’università medievale le facoltà di teologia e filosofia erano custodi dell’apertura alla verità. Nell’università dell’epoca dell’idealismo e del romanticismo lo stesso compito era assegnato alla filosofia. Oggi non sappiamo più a chi spetti fornire un asse di riferimento. Ora, se l’università perde la tensione al vero diventa un’istituzione non soltanto sensibile all’utile, ma al potere e all’ospite più inquietante fra tutti: il nichilismo anche nella sua variante di nichilismo giuridico.
4. In rapporto al diritto, prendiamo le mosse da due domande essenziali: 1) esiste un diritto/jus fondato nella ragione e nella natura umana, per cui non abbiamo a che fare soltanto con leggi, norme, codici arbitrari nel senso che il loro essere e valere si riduce a venire posti da singole volontà al momento potenti? 2) se invece così fosse, dobbiamo accettare questo stato di cose, abbandonando il diritto e la politica alla casualità, alla contingenza, alla potenza, consegnandoli alla volontà e all'arbitrio degli uomini?
Il nichilismo giuridico sussiste quando si risponde negativamente al primo interrogativo e positivamente all’altro. Nel nichilismo giuridico accade una specifica forma di oblio: oblio del giusto e della giustizia nel loro procedere dalla ragione, di modo che la legge di ogni tipo ed ordine è espressione di volontà e non possiede altra ragion d'essere che il puro volere del legislatore. Non esistono né giusto né ingiusto in sé, ma giusto ed ingiusto cominciano a valere solo dopo la decisione della volontà positiva del legislatore, la quale è normata solo da se stessa, e perciò può avere qualsiasi contenuto e ospitare qualsiasi scelta. Il diritto non è (più) portatore di razionalità, ma manifesta l’emergere di una volontà che vuole se stessa e che con statuizione eminentemente imperativa stabilisce cosa è diritto e che cosa è giustizia.
Nel nichilismo giuridico si manifesta la vittoria del positivismo giuridico assoluto, che separa il diritto dal giusto, identifica loi (positive) e droit sostenendo che niente si può contro la legge, ma tutto si può con la legge, dal momento che questa può avere qualsiasi contenuto.
A mia conoscenza F. Nietzsche non ha fatto ricorso al lemma ‘nichilismo giuridico’. Tanto più significativo che ne abbia indicato ante litteram con chiarezza meridiana il contenuto reale: “Ma l’elemento più decisivo, quel che la suprema potestà fa e attua contro la strapotenza dei sentimenti avversi e pervicaci – così fa sempre, non appena è in qualche modo abbastanza forte per questo – è la statuizione della legge, la chiarificazione imperativa di quel che deve in generale valere ai suoi occhi come permesso e legittimo e di quel che invece deve valere come proibito e illegittimo.. Conformemente a ciò, solo a partire dalla statuizione della legge esiste ‘diritto’ e ‘torto’…Parlare in sé di diritto e torto è cosa priva di ogni senso… Un ordinamento giuridico pensato come sovrano e generale, non come strumento nella lotta di complessi di potenza, bensì come strumento contro ogni lotta in generale… sarebbe un principio ostile alla vita, un ordinamento e disgregatore dell’uomo, un attentato all’avvenire dell’uomo, un indice di stanchezza, una via traversa verso il nulla” (1).
Alla domanda di Benedetto, e di ogni uomo, su “come possa essere trovata una normatività giuridica che costituisca un ordinamento della libertà, della dignità umana, e dei diritti dell’uomo”, Nietzsche risponde con chiaro e impietoso no. L’esito di tale diniego è la vittoria della volontà di potenza più potente, e il tracollo di ogni diritto e dei diritti umani. Il nichilismo o antiumanesimo giuridico, appunto, che fanno rientrare giustizia e diritto nell’area della potenza. In L’homme révolté A. Camus lo disse chiaramente: senza un valore che la trasfiguri, la storia è soggetta alla legge dell’efficacia e della potenza.
Su tale cammino Nietzsche era stato preceduto da Hobbes, seppure con minore virulenza: “Da questa guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo consegue [nello stato di natura] anche che niente può essere ingiusto. Le nozioni di diritto e torto, di giustizia e di ingiustizia non hanno luogo qui. Laddove non esiste potere comune, non esiste legge, dove non vi è legge, non vi è ingiustizia” (2).
5. Il nichilismo giuridico è momento notevole della crisi che attraversa il pensiero occidentale e che nasce originariamente dalla pressione dell’ideologia, intendendo con questo termine il rifiuto del principio di realtà e la sua sostituzione con la falsa coscienza, col desiderio elevato a regola assoluta, con la volontà che si libera di ogni misura. Elevandoci al livello del concetto, la pressione dell’ideologia prende nella dottrina filosofica della conoscenza il nome di antirealismo: il cammino da non prendere, da cui ci libera la strada maestra del realismo. Questa crisi non ancora risolta ha avuto e forse ha ancora il suo epicentro nelle università (3). Una parte della razionalità giuridica attuale si pone come largamente storica, terrena, non disponibile a rinviare ad una misura stabile di giustizia, ad un diritto naturale che nel suo contenuto essenziale vale dovunque. Tanto la decisione politica è un decisione posta da una volontà, altrettanto il diritto positivo è solo un diritto posto, che non si richiama ad un diritto superiore né lo imita, ma che sta in solitudine e riposa solo sulla volontà degli uomini. Gli scopi stabiliti da singole volontà subiettive non possiedono il carattere della necessità o almeno della stabilità: possono andare in mille direzioni ed essere aperti a tutte le soluzioni. Come ad un certo momento sono stati introdotti nell’esistenza da una volontà dotata di potere, così possono più avanti scomparire in virtù di una volontà più forte che ne ponga altri, ugualmente segnati dalla casualità e dalla contingenza del volere.
Con tali opzioni viene smarrito il carattere umano e sapienziale del diritto: quel diritto ‘pensato rettamente’, che si china con attenzione e partecipazione sui fatti e relazioni tra gli uomini, cercando di inserirvi una misura di giustizia, una sapienza pratica che certo non esaurisce l’edificio della sapienza ma che è necessaria alla vita perché la sorregge, la rassicura, la corregge.
Il compito dell’università
6. Nel discorso di Benedetto chiara è la simpatia per la formazione delle nuove generazioni, per un nuovo umanesimo che prenda slancio nelle università. In realtà deve essere così, poiché l’istanza o la verticale più seria concerne oggi più l’uomo che Dio, più lo svanire dell’uomo che l’ateismo. Qui il Papa parla come “una voce della ragione etica dell’umanità”, depositaria di una tradizione responsabile “nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza della vita”, superando la ragione astorica e centrata su se stessa che spesso taglia via da sé il rapporto col bene e si volge in mero raziocinio disincarnato.
Ma non è soltanto l’etica il problema, ma “la brama di conoscenza che è propria dell’uomo. Egli vuol sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole verità”, per raggiungere “la conoscenza della verità intera. Poteva, anzi doveva così, nell’ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l’università”. Essa è nata nell’Europa cristiana con un compito specifico, con una missione, che non si esauriva in uno scopo utile. Trattando dell’università medievale il Papa cerca di “far trasparire la natura permanente dell’università e del suo compito”.
A che cosa serve ultimamente l’università? Il suo fine si esaurisce nel servire ad uno scopo utile e volto al mercato, o è ad essa richiesto qualcosa di più? Se ci si imbarcasse in un’inchiesta sociologica per rilevare opinioni sul compito dell’università, la risposta più frequente suonerebbe all’incirca così: l’università si giustifica in quanto prepara nei vari campi personale qualificato, dotato di moderne e indispensabili conoscenze specialistiche per la gestione tecnico-economica della vita e per le relative pratiche sociali, senza di cui nessuna società potrebbe durare. Il compito del docente si risolverebbe soprattutto nell’elaborare e trasmettere conoscenze del tipo indicato, e quello dello studente nell’apprenderle e nel trarne vantaggio in ordine all’inserimento nella grande macchina sociale e nella organizzazione del lavoro. In breve: lo studente frequenta l’università per apprendere i rudimenti di una professione, e il docente è colui che è socialmente abilitato a fornirglieli.
Senza negare questi termini, sono dell’opinione che per certi aspetti l’università debba essere ‘inutile’, non servire a nulla. Essa infatti con una parte di se stessa appartiene ad una sfera che è al di sopra dell’utile, al quale soltanto si applica la categoria del servire o del non servire, del mostrarsi utile o inutile. A rigore, la ricerca del vero non serve a nulla, perché appartiene all’ordine dei fini, non dei mezzi; e solo i mezzi servono. Essa, in quanto è al di sopra dell’utile, è un’attività terminale, non mediale o strumentale. Non di solo pane vive l’uomo, ma anche di ragioni, verità e valori. Ascendendo verso l’ordine di ciò che è ultimo e supremo, la ricerca stimola in noi il desiderio di una conoscenza pura e disinteressata su quegli oggetti (la natura delle cose, l’essere, l’uomo, Dio, lo spirito) che sono indipendenti e superiori al nostro fare.
7. Digressione sulle metamorfosi dell’università. Le università che iniziano a costituirsi nell’Europa del XII secolo nei chiostri dei conventi e attorno alle cattedrali designano una comunità di maestri e di scolari, uniti dal desiderio di conoscere, non da un progetto che avesse anticipatamente misurato il suo apporto alla sfera dell’utile e delle attività in senso lato produttive. Anche se volgiamo lo sguardo verso un passato ancora più lontano, verso cioè l’antica Grecia dell’Accademia platonica e del Peripato aristotelico, e poi verso la scuola di Plotino in Roma, si incontrano eloquenti esempi di istituzioni votate alla ricerca del vero e talvolta, come nel caso dell’Accademia e forse della Scuola di Plotino, dotate anche di un carattere a suo modo religioso.
Il carattere fondamentale dell’università medievale riposa su tre intuizioni reggenti: l’unità non solo metodologica-formale del sapere, ma appunto anche contenutistica; la superiorità del sapere teoretico su quello “tecnico” e applicato; una gerarchia delle discipline costituite in base al rango dell’oggetto, nel senso che le discipline più alte vertono sugli oggetti più nobili ed universali, sino a culminare nelle discipline che si occupano di Dio. Conseguentemente già dall’inizio prende corpo una suddivisione della ricerca in alcune facoltà, la più importante delle quali è la facoltà di teologia (Sacra dottrina). Al centro dell’Università medievale sta appunto questa facoltà, il cui insegnamento si volge verso la rivelazione quale autocomunicazione di Dio all’uomo. Dio, Verità e Bene sembrano costituire le parole chiave dell’università medievale, la cui vita si prolunga attraverso alti e bassi, ma con un progressivo declino, sino al Rinascimento. Successivamente si verificò una ripresa aggiornata del progetto originario con l’intensa opera di fondazione di molte università in Europa e altrove da parte dei Gesuiti. Questi riformarono la ratio studiorum, incrementarono il numero degli studenti, tennero conto a partire dalla fine del ‘500 del più accelerato sviluppo delle matematiche e della fisica. Difficilmente si potrebbe sostenere però che mutassero radicalmente il modello dell’università medievale, di cui cercarono anzi di onorare e riprendere le intuizioni centrali di cui si è detto.
Un primo consistente distacco dal modello medievale si verifica con l’Illuminismo, segnato dall’idea della prevalenza del sapere morale su ogni altro e dalla “conversione” verso le conoscenze tecnico-scientifiche utili. Il primo di questi due aspetti è teorizzato da Kant nell’opuscolo Il conflitto delle facoltà, dove si sostiene la centralità della facoltà di filosofia (rispetto a quella di teologia) e in essa della filosofia pratica, al posto di quella teoretica ormai spodestata dalla rivoluzione kantiana. Tuttavia l’università nell’epoca dell’illuminismo non sembra essersi ispirata ad un modello univoco e ad un tempo chiaramente formulato. Influì in questi elemento anche il fatto che l’illuminismo fu un movimento vasto, ma diffuso perlopiù nei circoli dei philosophes, operanti al di fuori delle istituzioni universitarie. Voltaire, Diderot, d’Alembert ed altri non occuparono mai una cattedra. Pur con queste riserve sembra lecito asserire che le tre le premesse fondative dell’università medievale tendono a venire abbandonate: l’unità non solo metodologica del sapere è sostituita da un’unità di tipo enciclopedico-addittivo: il sapere teoretico rimpiazzato da quello pratico; e la gerarchia delle discipline non più misurata in base alla nobiltà degli oggetti, i più alti dei quali indietreggiano verso l’area dell’in sé non conoscibile.
Incontriamo un nuovo modello, omogeneamente e rigorosamente pensato, nella università prussiana di Humboldt, in cui si solidifica un consapevole laicizzazione dello schema medievale, pur nella continuità di alcune intuizioni di fondo, quali il valore dell’unità del sapere e la superiorità di quello teoretico. La laicizzazione si concreta nell’assegnare alla facoltà di filosofia il compito centrale. In virtù del concetto idealistico di filosofia e di religione, si pensa che la prima conosca nella maniera più perfetta le verità esposte in forma solo rappresentativa dalla seconda. Tale modello fu perlopiù limitato dalla sola area di cultura germanica e non durò molto a lungo, soprattutto se rapportato al paradigma precedente.
Intanto irrompono le scienze naturali e quelle storico-umanistiche che cambiano il volto dell’università, e rendono più ardua – quasi al limite dell’impossibile – la ricerca di un ordinamento unitario dei saperi. Il motivo principale della difficoltà non risiede, come talvolta si pensa, nella moltiplicazione delle discipline e neppure nel severo metodo perseguito nella ricerca scientifica e storico-umanistica, fatto di protocolli rigorosi e accertabili: tutto ciò è solo da ammirare. Pesa invece la perdita di coraggio rispetto alla conoscenza dell’intero, la volontà di stare entro il frammento senza uscirne e talvolta anche l’illusione di scambiare il frammento per il tutto.
Dal lato dei saperi tecnico-scientifici verso la fine del XVIII secolo si assiste in Francia alla fondazione e al potenziamento delle écoles polytechniques, antesignane di un’espansione delle università, specialmente nelle facoltà scientifiche ed economiche, che accade alla fine dell’800 e nel ‘900 in maniera crescente. Una parte di tali facoltà è figlia della frantumazione della filosofia pratica aristotelica, che nella sua unità tripartita comprendeva etica, politica ed economia. Nascono le facoltà di Scienze economiche e di Scienze politiche, talvolta con l’intento di autonomizzarsi dall’etica a favore di una fondazione wertfrei (Weber). Molte facoltà si assimilano al modello delle scuole politecniche, indirizzate a formare tecnici e professionisti. Nel contempo le facoltà di filosofia rinunciano a dare indicazioni sui fini e la totalità. Conseguentemente nell’università non sembra quasi più esistere una sede dove possa esser posta la domanda sull’uomo, sul bene e sul vero, e dove possa esser nutrito l’impulso disinteressato verso il conoscere.
L’’educazione liberale’ e il nuovo umanesimo
8. L’università è denotata secondo Benedetto XVI dalla “ricerca e dalla formazione delle nuove generazioni”, ossia da uno scopo conoscitivo, riassunto forse nel compito infinito di assicurare l’unità del sapere; e da uno scopo antropologico, costituito dal compito di promuovere la formazione del giovane alle virtù e discipline intellettuali, introducendolo al giusto rapporto tra conoscere e agire, teoria e prassi. Questi scopi non sono indipendenti uno dall’altro, perché nel primo rientra la domanda su chi e che cosa sia l’uomo, senza di cui il momento dell’educazione della persona non potrebbe avanzare. Esso fra le altre cose richiede l’esercizio del dialogo e più profondamente la costituzione di un’autentica comunità di ricercanti, che rappresenta forse, insieme alla comunità familiare, la più reale comunità tra gli esseri umani, quella di coloro che cercano la verità e si sforzano verso la conoscenza, ossia la totalità delle persone nella misura in cui desiderano conoscere.
Uno dei massimi compiti, forse il principale, dell'educazione umanistica o “liberale” (uso il termine con le virgolette, perché viene assunto nel senso classico delle artes liberales, e non in riferimento alla cultura politica del liberalismo) è di mirare alla formazione-educazione dell'uomo, quale essere potenziale che mira oltre se stesso e che cerca di conquistare se stesso. La perdita o l’eclissi della paideia e dello scopo educativo incammina verso una visione angusta, in cui il processo educativo forma specialisti più che soggetti dotati di una solida istruzione generale e di sapienza. Tra l’utilità e la sapienzialità, che non si oppongono e povrebbero convivere, gli abbandoni educativi cui cediamo, optano per il primo criterio e tralasciano il secondo
Un’educazione “liberale” aiuta lo studente a cercare la risposta alla domanda: che cosa è l'uomo? Essa riveste valore per coloro che, desiderando vivere autonomamente, non si fanno condizionare dai facili modelli proposti dal mercato o dalle risposte più scontate. Nell'educazione “liberale” attraverso la lettura dei grandi testi letterari, poetici, filosofici, scientifici, religiosi, politici, viene cercato il tutto nel frammento; vengono scoperte le più alte possibilità umane, e trovate risposte che sfuggono a coloro che non ne conoscono che una o poche. Ma, ahimè, oggi l'università non fa molto per stimolare e soddisfare il desiderio di un'educazione “liberale”. Essa “fiorì quando preparò la strada alla discussione di una visione unificata della natura e del posto dell'uomo in essa” (4). Da ciò si intuisce quale compito dovrebbe esplicare l'università se rimanesse fedele alla sua vocazione: la ricerca dell'unità del sapere e la superiorità del sapere disinteressato su quello utile, cui si lega la superiorità della sapienza sulla scienza (5). Ma questo è ancora lo scopo morale dell'università, o invece essa si limita a dotare gli studenti di abilità e competenze necessarie nelle molteplici pratiche sociali? In tal modo prosegue lo spostamento, iniziato con l'illuminismo, dello scopo educativo dalla formazione dell'uomo alla formazione dello specialista. Al compito dell'università di nutrire l'impulso disinteressato verso la conoscenza e la verità, essa risponde in modo che i giovani non incontrano quasi più una sede dove possano esser poste le domande che contano.
Così solo per un'illusione continuiamo a chiamare università l'università, perché in essa prevalgono l'anarchia delle discipline e i comandi imperiosi di molteplici specializzazioni non illuminate da un sapere unificato. L’università è nata nello e con lo spirito socratico, che non si stanca di chiedere: che cosa è la giustizia? il bene? l'essere? la conoscenza? E che cosa è superiore o inferiore? La crisi della paideia possiede un’origine intellettuale, non in primo luogo sociale, politica ed economica. “La crisi dell'educazione liberale è un riflesso di una crisi al vertice dell'insegnamento, un'incoerenza e un’incompatibilità tra i primi principi con cui interpretiamo il mondo, una crisi intellettuale della più grande ampiezza, che costituisce la crisi della nostra civiltà” (6). Una delle sue maggiori conseguenze è il declino dell'educazione “liberale” dell'uomo politico e dello statista, che fino ad un passato non lontanissimo ha costituito il loro tipo specifico di educazione.
Congedo
L’intima origine dell’università sta nel desiderio di conoscenza, impulso connaturale all’uomo che si concreta nel moto della mente verso il vero e nel moto della volontà verso il bene. In questo movimento è interessato lo strato fondamentale dell’umano: e perciò non in omaggio ad un imperativo di fede ma in virtù di tale impulso ed inclinazione radicali i docenti di qualsiasi convinzione e di qualsiasi università – pubblica, privata, religiosa – non possono non perseguire nella libertà la ricerca del vero e del bene, considerandolo il loro primo obbligo.
Ritengo che l’illuminismo in senso originario, ossia l’illuminismo della ragione/logos, sia cosa buona. Aggiungo che ancor meglio è un illuminismo della ragione (scienze e filosofia) che dialoga con la fede e la teologia. Per tale esito i ricercanti dei vari campi dovrebbero occuparsi anche dei saperi che non praticano direttamente: per esemplificare, i teologi delle scienze e gli scienziati di filosofia e teologia, senza cedere al pregiudizio secondo cui dall’altra parte vi sia molto di inutile e poco di interessante. L’illuminismo della ragione nutrita dalla Bibbia ha condotto i credenti nel Cristo a separarsi dal mythos e a scegliere per il logos, nella scoperta di Dio contemplato con la mente e amato col cuore. Nessun irenismo sdolcinato in queste espressioni, che non ignorano la lotta: lotta sì, ma per la verità, non per il potere. Spesso purtroppo accade il contrario: entro uno schema di lotta per la supremazia si collocano frequentemente in Italia le relazioni tra il ‘partito’ laicista e quello religioso. Una quota non piccola del laicismo nostrano risulta più anticlericale e antiecclesiale che veramente laica; un laicismo insomma che si è laicizzato nella contrapposizione alla chiesa stabilita più che attraverso un processo di crescita autonoma.
Il problema autentico è quello ‘socratico’: non distogliersi dalla ricerca e restare in cammino accompagnati dalla domanda sul vero e sul bene.
NOTE
(1) Genealogia della morale, II Dissertazione, Adelphi, Milano 1988, p. 65s; il corsivo è mio.
(2)Leviatano, CDE, Milano 1996, cap. XIII, p. 103.
(3) Per un chiarimento di questi punti decisivi rinvio a Nichilismo e metafisica, 2° ed., Armando, Roma 2004.
(4) A. Bloom, The Closing of the American Mind, New York, Simon and Schuster,
1988, pp. 346-347.
(5) Secondo Maritain il più alto scopo dell'educazione liberale consiste nel dare al giovane il possesso delle basi della sapienza. Cfr. L'educazione al bivio, La Scuola, Brescia 1958, p. 101.
(6) A. Bloom, The Closing of the American Mind, cit., p. 346.
[Tratto dal sito web dell'Osservatorio Internazionale "Cardinale Van Thuân" sulla dottrina sociale della Chiesa: www.vanthuanobservatory.org]



22/02/2008 12:01
VATICANO – CINA
Rapporti Cina-Vaticano, fumo negli occhi per le Olimpiadi

di Bernardo Cervellera

Voci di miglioramenti nei rapporti, di inviti per le Olimpiadi sembrano essere una campagna pubblicitaria per nascondere la vergogna di Pechino dopo il rifiuto di Steven Spielberg di lavorare per le Olimpiadi. Ma vi è anche di più: vacillano le poltrone del capo dell’Ufficio affari religiosi e del vice-presidente dell’Associazione patriottica.

Roma (AsiaNews) - I questi giorni continuano a girare voci di un’imminente miglioramento dei rapporti fra la Cina e il Vaticano, tanto da poter pensare a una visita di Benedetto XVI a Pechino, magari per le Olimpiadi. Le fonti cinesi citate per questi apprezzamenti sono nientemeno il direttore dell’Amministrazione statale per gli affari religiosi, Ye Xiaowen e il vicepresidente dell’Associazione patriottica dei cattolici, Antonio Liu Bainian. Durante il suo viaggio a Washington, Ye ha detto che “la distanza fra le due parti sta diventando sempre minore”; Liu viene citato per aver detto spesso di sognare il papa che celebra messa a Pechino.
Personalità vaticane contattate da AsiaNews confermano invece che all’orizzonte non si vedono grandi segnali di miglioramento dei rapporti, né della libertà religiosa nel Paese. Almeno 2 vescovi della Chiesa non ufficiale (mons. Giacomo Su Zhimin, di Baoding; mons. Cosma Shi Enxiang di Yixian) e uno della Chiesa ufficiale (mons. Martin Wu Qinjing, di Zhouzhi , Shaanxi) sono scomparsi nelle mani della polizia rispettivamente da 11 anni, 6 anni e un anno. Vi sono poi vescovi sotterranei in isolamento forzato, vescovi ufficiali controllati, vescovi morti in prigionia, sacerdoti condannati al lager… Giustamente un’anonima personalità vaticana ha dichiarato due giorni fa a Reuters: “Se non si arriva a un livello decente di libertà religiosa, cosa può fare il papa a Pechino?”.
La domanda che ci poniamo è: come mai si creano così tante “buone notizie” sui rapporti Cina-Santa Sede, tanto che perfino nei ristoranti cinesi si parla del “prossimo viaggio del papa in Cina”?
Abbiamo girato la domanda a nostre fonti in Cina. Le risposte sono molto significative: la grande enfasi sull’avvicinamento fra Cina e Vaticano è scoppiata pochi giorni dopo lo schiaffo morale ricevuto da Pechino per il rifiuto di Steven Spielberg a partecipare alla preparazione alle Olimpiadi.
Mettere in mezzo il Vaticano e accennare a miglioramenti è un modo per distogliere l’attenzione alla condanna internazionale contro l’operato della Cina nel Darfur, che significa bollarla ancora come uno Stato-paria nel rispetto dei diritti umani. Far girare la voce che il papa sarebbe pronto ad andare a Pechino per le Olimpiadi o che c’è un ammorbidimento, è un tentativo di mettersi sotto un ombrello morale, al riparo dalla pioggia di critiche, che accusa la Cina di immobilismo, di non cambiare nulla soprattutto sui diritti umani.
Quanto agli apprezzamenti di Ye e Liu Bainian, essi sembrano l’estremo tentativo di salvarsi da una imminente purga nelle Associazioni patriottiche e nel ministero degli affari religiosi. Sia Ye che Liu sono da decenni a capo delle organizzazioni di controllo delle religioni e della Chiesa cattolica. E sono ormai presi di mira dagli stessi membri delle loro organizzazioni: anzitutto perché le loro cariche stanno durando più di quella del presidente della Repubblica popolare cinese (6 anni) e poi perché in questi anni essi hanno sempre acuito la tensione in Cina e nei rapporti col Vaticano.
Proprio Liu, nell’estate scorsa, ha fatto una campagna contro la Lettera di Benedetto XVI ai cattolici cinesi, accusandolo di “ignoranza” e di voler far ritornare la Chiesa in Cina a una situazione di “colonialismo”. Ye, invece, continua a difendere “l’indipendenza” della Chiesa cinese, contro “l’ingerenza” della Santa Sede nelle nomine dei vescovi.
È probabile che i rapporti fra Cina e Vaticano miglioreranno. Ma forse solo dopo che questi due andranno in pensione.


Ragazzi,siate protagonisti della vostra crescita
Pubblichiamo il discorso che Benedetto XVI ha pronunciato ieri in piazza San Pietro, dove, davanti a migliaia di fedeli, ha presentato e consegnato alla diocesi di Roma la «Lettera sul compito urgente dell’educazione», firmata il 21 gennaio scorso.
Cari fratelli e sorelle, vi ringrazio di aver accolto, tanto numerosi, l’invito a questa speciale Udienza, nella quale riceverete dalle mie mani la Lettera che ho indirizzato alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione. Saluto con affetto ciascuno di voi: sacerdoti, religiosi e religiose, genitori, insegnanti, catechisti ed altri educatori, fanciulli, adolescenti e giovani, compresi coloro che seguono l’Udienza attraverso la televisione. Saluto e ringrazio, in particolare, il Cardinale Vicario e tutti coloro che hanno preso la parola in rappresentanza delle varie categorie di persone partecipi della grande sfida educativa.
Siamo qui riuniti, infatti, perché ci muove una comune sollecitudine per il bene delle nuove generazioni, per la crescita e per il futuro dei figli che il Signore ha donato a questa città. Ci muove anche una preoccupazione, la percezione cioè di quella che abbiamo chiamato «una grande emergenza educativa». Educare non è mai stato facile e oggi sembra diventare sempre più difficile: perciò non pochi genitori e insegnanti sono tentati di rinunciare al proprio compito, e non riescono più nemmeno a comprendere quale sia, veramente, la missione loro affidata. Troppe incertezze e troppi dubbi, infatti, circolano nella nostra società e nella nostra cultura, troppe immagini distorte sono veicolate dai mezzi di comunicazione sociale. Diventa difficile, così, proporre alle nuove generazioni qualcosa di valido e di certo, delle regole di comportamento e degli obiettivi per i quali meriti spendere la propria vita.
Siamo qui oggi, però, anche e soprattutto perché ci sentiamo sostenuti da una grande speranza e da una forte fiducia: dalla certezza, cioè, che quel «sì», chiaro e definitivo, che Dio in Gesù Cristo ha detto alla famiglia umana (cfr 2 Cor 1,19­20), vale anche per i nostri ragazzi e giovani, vale per i bambini che oggi si affacciano alla vita. Perciò anche nel nostro tempo educare al bene è possibile, è una passione che dobbiamo portare nel cuore, è un’impresa comune alla quale ciascuno è chiamato a recare il proprio contributo.
Siamo qui, in concreto, perché intendiamo rispondere a quella domanda educativa che oggi avvertono dentro di sé i genitori, preoccupati per il futuro dei propri figli, gli insegnanti, che vivono dal di dentro la crisi della scuola, i sacerdoti e i catechisti che sanno per esperienza quanto sia difficile educare alla fede, gli stessi ragazzi, adolescenti e giovani, che non vogliono essere lasciati soli di fronte alle sfide della vita. E’ questa la ragione per la quale vi ho scritto, cari fratelli e sorelle, la lettera che sto per consegnarvi.
In essa potete trovare alcune indicazioni, semplici e concrete, sugli aspetti fondamentali e comuni dell’opera educativa.
Oggi mi rivolgo a ciascuno di voi per offrirvi il mio affettuoso incoraggiamento ad assumere con gioia le responsabilità che il Signore vi affida, affinché la grande eredità di fede e di cultura, che è la ricchezza più vera di questa nostra amata città, non vada smarrita nel passaggio dall’una all’altra generazione, ma al contrario si rinnovi, si irrobustisca, sia di guida e di stimolo nel nostro cammino verso il futuro.
I n questo spirito mi rivolgo a voi, cari genitori, per chiedervi anzitutto di rimanere saldi, per sempre, nel vostro reciproco amore: è questo il primo e grande dono di cui hanno bisogno i vostri figli, per crescere sereni, acquisire fiducia in se stessi e fiducia nella vita e imparare così ad essere a loro volta capaci di amore autentico e generoso.
Il bene che volete ai figli deve poi darvi lo stile e il coraggio del vero educatore, con una coerente testimonianza di vita ed anche con la fermezza necessaria per temprare il carattere delle nuove generazioni, aiutandole a distinguere con chiarezza il bene dal male ed a costruirsi a loro volta delle solide regole di vita, che le sostengano nelle prove future. Così farete ricchi i vostri figli dell’eredità più preziosa e duratura, che consiste nell’esempio di una fede quotidianamente vissuta.
Con il medesimo animo domando a voi, docenti dei diversi ordini di scuole, di avere un concetto alto e grande del vostro impegnativo lavoro, nonostante le difficoltà, le incomprensioni, le delusioni che troppo spesso sperimentate. Insegnare, infatti, significa andare incontro a quel desiderio di conoscere e di capire che è insito nell’uomo e che nel bambino, nell’adolescente, nel giovane si manifesta in tutta la sua forza e spontaneità. Il vostro compito, perciò, non può limitarsi a fornire delle nozioni e delle informazioni, lasciando da parte la grande domanda riguardo alla verità, soprattutto a quella verità che può essere di guida nella vita. Siete infatti, a pieno titolo, degli educatori: a voi, in stretta sintonia con i genitori, è affidata la nobile arte della formazione della persona.
In particolare, quanti insegnano nelle scuole cattoliche portino dentro di sé e traducano in azione quotidiana quel progetto educativo che ha al proprio centro il Signore Gesù e il suo Vangelo.
E voi, cari sacerdoti, religiosi e religiose, catechisti, animatori e formatori delle parrocchie, dei gruppi giovanili, delle associazioni e movimenti ecclesiali, degli oratori, delle attività sportive e ricreative, cercate di avere sempre, verso i ragazzi e i giovani che accostate, gli stessi sentimenti che furono in Gesù Cristo (cfr Fil 2,5). Siate dunque quegli amici affidabili nei quali essi possano toccare con mano l’amicizia di Gesù per loro, e al tempo stesso siate i testimoni sinceri e coraggiosi di quella verità che rende liberi (cfr Gv 8,32) e che indica alle nuove generazioni la via che conduce alla vita.
L’educazione però non è soltanto opera degli educatori: è un rapporto tra persone nel quale, con il crescere degli anni, entrano sempre più in gioco la libertà e la responsabilità di coloro che vengono educati. Perciò, con grande affetto, mi rivolgo a voi, fanciulli, adolescenti e giovani, per ricordarvi che voi stessi siete chiamati ad essere gli artefici della vostra crescita morale, culturale e spirituale.
Sta a voi, dunque, accogliere liberamente nel cuore, nell’intelligenza e nella vita il patrimonio di verità, di bontà e di bellezza che si è formato attraverso i secoli e che ha in Gesù Cristo la sua pietra angolare. Sta a voi rinnovare e sviluppare ulteriormente questo patrimonio, liberandolo dalle tante menzogne e brutture che spesso lo rendono irriconoscibile e provocano in voi diffidenza e delusione.
Sappiate comunque che in questo non facile cammino non siete mai soli: vi sono vicini non soltanto i vostri genitori, insegnanti, sacerdoti, amici e formatori, ma soprattutto quel Dio che ci ha creato e che è l’ospite segreto dei nostri cuori.
Egli illumina dal di dentro la nostra intelligenza, Egli orienta al bene la nostra libertà, che spesso avvertiamo fragile e incostante, Egli è la vera speranza e il fondamento solido della nostra vita. Di Lui, anzitutto, ci possiamo fidare.
Cari fratelli e sorelle, nel momento in cui vi consegno simbolicamente la Lettera sul compito urgente dell’educazione, ci affidiamo dunque, tutti insieme, a Colui che è il nostro vero e unico Maestro (cfr Mt 23,8), per impegnarci insieme a Lui, con fiducia e con gioia, in quella meravigliosa impresa che è la formazione e la crescita autentica delle persone. Con questi sentimenti ed auspici a tutti imparto la mia Benedizione.

Benedetto XVI


È POSSIBILE OGGI EDUCARE? - IL PROBLEMA, L’AUTOREVOLEZZA DEGLI ADULTI
Avvenire, 24.2.2008
GIUSEPPE SAVAGNONE
La consegna, da parte di Benedetto XVI, della Lettera sull’educazione, da lui indirizzata un mese fa alla diocesi e alla città di Roma, sollecita la nostra attenzio­ne su un problema che, ormai da tempo, inquieta non solo gli addetti ai lavori, ma perfino l’opinione pubbli­ca più distratta: è ancora possibile educare?
Non si tratta solo dell’allarme destato, recentemente, dai ripetuti episodi di bullismo o di violenza che hanno avuto come protagonisti giovani 'normali', che avreb­bero potuto essere i nostri figli. Ma più profondamen­te, osserva il Papa, di una 'frattura fra le generazioni', che rivela la 'mancata trasmissione di certezze e di va­lori' e dà luogo oggi a una vera e propria 'emergenza e­ducativa'.
Davanti agli 'insuccessi a cui troppo spesso vanno in­contro i nostri sforzi per formare persone solide, capa­ci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla pro­pria vita', non si può evitare, talora, un senso di sco­raggiamento. 'Viene spontaneo, allora, incolpare le nuo­ve generazioni' e guardare con nostalgia al passato.
In realtà, il problema educativo va ben al di là dei con­fini delle singole istituzioni. Se esso oggi è così com­plesso, le cause vanno cercate innanzitutto nel clima complessivo in cui la famiglia, la scuola, la Chiesa, si tro­vano a svolgere il loro delicato compito: 'Troppe incer­tezze e troppi dubbi, infatti, circolano nella nostra so­cietà e nella nostra cultura, troppe immagini distorte sono veicolate dai mezzi di comunicazione sociale. Di­venta difficile, così, proporre alle nuove generazioni qualcosa di va­lido e di certo, delle regole di com­portamento e degli obiettivi per i quali meriti spendere la propria vita'.
Legato a questo, c’è però, aggiun­ge Benedetto XVI, un altro ordine di difficoltà: 'non pochi genitori e insegnanti sono tentati di rinun­ciare al proprio compito, e non riescono più nemmeno a com­prendere quale sia, veramente, la missione loro affidata'. Il proble­ma educativo, insomma, non ri­guarda solo i giovani, come spes­so vorremmo credere, ma anzi­tutto proprio noi, gli adulti. Il venir meno di un oriz­zonte di valori condivisi, la difficoltà di credere ancora nella verità e nel bene, non colpisce solo i figli e gli alunni, ma i padri e i maestri, che non riescono più ad essere tali.
Da qui la necessità di ribadire con forza, come fa il Pa­pa, che 'anche nel nostro tempo educare al bene è pos­sibile'. In realtà, i nostri ragazzi 'non vogliono essere la­sciati soli di fronte alle sfide della vita' e, dietro la loro apparente disinvoltura, sta un disperato bisogno di pun­ti di riferimento, che non trovano più né in famiglia, né a scuola né, a volte, nella Chiesa stessa.
Perciò il primo dono di cui hanno bisogno è quello, che solo la famiglia può dare, di un clima di autentico amo­re. Di qui può scaturire un serio impegno, da parte dei genitori, nell’indicare con chiarezza ai figli dei criteri per distinguere il vero dal falso, il bene dal male, non­ché la fermezza nel farli rispettare nella pratica.
Quanto agli insegnanti, Benedetto XVI sottolinea l’e­norme importanza del loro ruolo, troppo spesso sotto­valutato, che 'non può limitarsi a fornire delle nozioni e delle informazioni, lasciando da parte la grande do­manda riguardo alla verità'. Una scuola che si riduces­se a trasmettere delle conoscenze tradirebbe il suo com­pito educativo, volto non soltanto a una maggiore pre­parazione, ma alla crescita globale delle persone.
Anche la comunità cristiana è chiamata a rinnovare il suo impegno in questo senso. Il Papa in particolare richia­ma all’urgenza che in essa tutti coloro che hanno un ruolo formativo sappiano essere per i giovani 'amici af­fidabili' e 'testimoni sinceri'. Nulla può sostituire il rap­porto personale tra l’adulto e il giovane, purché sia fon­dato sull’autorevolezza.
Anche agli educandi il Papa rivolge il suo invito: sap­piano essere, in libertà, artefici della propria crescita morale, culturale e spirituale. Ma forse siamo soprat­tutto noi, gli educatori, che dovremmo riflettere a lun­go su queste parole di saggezza.


Signori candidati, diteci l’antropologia di riferimento
FRANCESCO D’AGOSTINO
Avvenire, 24.2.2008
Come elettore, mi interessa ben poco quale sia la percentuale dei 'cattolici' che entreranno nelle liste elettorali per la competizione dell’ormai prossimo aprile: ben più mi interessa sapere quali siano i programmi e i progetti politici dei loro partiti di riferimento. Come convinto fautore di una laicità cristiana (che cioè dia a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio) e mi aspetto da ciascun partito un programma serenamente 'laico' (non alterato né da pretese ideologiche, né da pulsioni confessionali), che individui con intelligenza quelle dimensioni del bene comune umano che appaiono oggi particolarmente bisognose di tutela e di promozione pubblica. Come cittadino, voglio onestamente collaborare con tutti gli altri cittadini, in un contesto che garantisca la libertà di tutti: su quei punti sui quali la collaborazione politica possa apparire non possibile, per insanabili divergenze in merito o all’individuazione dei beni da tutelare o alle migliori modalità per tutelarli, penso che sia doveroso rimettersi ai risultati della dialettica maggioranza/minoranza, che è in sé e per sé molto povera, ma è politicamente risolutiva. Se la mia parte resterà in minoranza, mi batterò perché in futuro possa essere più convincente presso gli elettori e possa conquistare la maggioranza dei suffragi; se si troverà in maggioranza, essa dovrà gestire il consenso ottenuto con equilibrio e equanimità. Tutto qui? Certo: la democrazia è semplice e ragionevole. Ad una condizione però: che gli elettori siano messi in condizione di conoscere senza reticenze e senza ambiguità i programmi dei partiti che chiedono il loro voto. Mai come in una campagna elettorale l’onestà intellettuale appare come un valore primario. Eppure mai come in questa campagna, almeno fino ad ora, ombre, reticenze, ambiguità sembrano occupare il palcoscenico. Di programmi si sta parlando ben poco. Ma di candidature si è già parlato abbastanza e le candidature possono fornire indirettamente indicazioni programmatiche molto precise. Esistono candidati 'senza storia': sono quelli che non hanno ancora un volto pubblico. Ma esistono anche candidati che hanno un volto, che hanno una densa storia, anche parlamentare, alle loro spalle; candidati la cui visione del mondo è stata esplicitata innumerevoli volte, attraverso dichiarazioni, pratiche politiche, libri, conferenze. È impossibile ignorare ad esempio la visione libertaria (e non liberale, come viene spesso arbitrariamente presentata) di chi ha sempre militato nel Partito radicale. È impossibile ignorare quale sia l’antropologia di Umberto Veronesi. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Da visioni antropologiche 'riduzionistiche' (come quella radicale o come quella di Veronesi), derivano inevitabilmente ampie conseguenze sul piano delle scelte politiche, non solo per quel che concerne i temi che oggi vengono definiti 'eticamente sensibili' (dalla procreazione assistita all’eutanasia), ma anche per temi di ancor più ampio rilievo sociale, primi tra tutti quelli del matrimonio, della famiglia e delle adozioni. Non è l’identità confessionale che deve rilevare politicamente per l’elettore, ma l’antropologia di riferimento dei candidati e dei partiti. Non ci servono indicazioni tecniche o minuziose: ma l’esplicitazione di pochi e non equivoci principi di fondo. L’elettorato merita rispetto: perciò prima del voto dovrà essergli spiegata con la massima onestà che posizione assumerà ogni partito, quando verranno in discussione temi antropologicamente rilevanti. Anche i singoli candidati ovviamente meritano rispetto, purché però sappiano conquistarselo. Hanno un unico modo per farlo: dichiarare in modo limpido e chiaro i loro progetti politici e soprattutto come essi pensano di poterli promuovere nel contesto 'reale' del partito in cui militano.
Alcuni dicono che la chiarezza fa perdere voti. Non so se sia vero; ma so che l’intenzionale rinuncia alla chiarezza fa perdere, e a volte definitivamente, la dignità.


SCIENZA E VITA - «AUTENTICO COLPO DI MANO SERVIREBBE UN REFERENDUM CONFERMATIVO»
Avvenire, 24.2.2008
«Dinanzi al colpo di mano messo in atto dalla Federazione degli Ordini dei medici, non c’è altra possibilità per i medici italiani che quella di far sentire forte la propria voce e chiedere all’organismo di rappresentanza di sottoporre le sue conclusioni ad un referendum confermativo». Così reagisce l’associazione Scienza & Vita che tutela la vita umana dal concepimento alla morte naturale dinanzi al documento della Federazione degli Ordini dei medici che, «in un colpo solo, giudica la legge 194 la migliore legge possibile anche sotto il profilo morale (almeno questo avrebbero potuto risparmiarselo…), sdogana la diagnosi preimpianto, la pillola del giorno dopo e l’aborto chimico mediante la RU 486. In coda, poi, concede che sarà opportuno garantire assistenza ai feti abortiti, qualora vi sia possibilità di vita autonoma. Ci sarebbe da non credere ai propri occhi, ma evidentemente il clima preelettorale mette le ali ai pensieri e alle previsioni più azzardate».
«Del resto - prosegue l’Associazione - se un grande medico, ma anche un sostenitore entusiasta dell’eutanasia come Veronesi (per inciso ricordiamo che l’eutanasia è un reato per il nostro ordinamento), viene candidato al Senato con tutti gli onori, c’è davvero da temere sulla tenuta di una categoria importantissima come quella medica. Ma noi siamo certi che i medici che difendono la vita si faranno sentire e chiederanno ragione ai propri rappresentanti di quella che si configura, a tutti gli effetti, come una fuga in avanti e che certamente non rappresenta il comune sentire della stragrande maggioranza dei medici italiani».