martedì 12 febbraio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:

1) IL MIRACOLO DAVVERO PIÙ GRANDE QUI NON SI VEDE
2) Non c’è la Chiesa dietro alla temuta «ondata neoguelfa», di Ernesto Galli Della Loggia
3) La sfida di Casini: «Mettete la vita al primo punto dei programmi»


LOURDES, 150 ANNI DOPO
IL MIRACOLO DAVVERO PIÙ GRANDE QUI NON SI VEDE

MARINA CORRADI
Avvenire, 12.2.2008
Lourdes, sono passati 150 anni. 150 anni sono moltissimi per la me­moria e le passioni degli uomini. In questo stesso arco di tempo sono na­te, e tramontate, le ideologie più po­tenti della modernità. Rimane vivo invece il ricordo di una ragazzina a­nalfabeta che in un paese dei Pire­nei affermò l’incredibile: di avere vi­sto, di avere parlato, addirittura, con la Madonna.
Un secolo e mezzo dopo, milioni di persone continuano ad andare a Lourdes. E certo, a chiederne ragione a qualcuno dei maestri del laici­smo d’ordinanza, ti spiegherebbe con un sorriso di condiscendenza che di superstizione si tratta, alimentata dal bisogno e dal dolore degli uomini. C’è però un fatto, a Lourdes, che meriterebbe una spiegazione più attenta. Ed è che una molti­tudine di persone continui ad an­darci, e spesso a tornarci per tutta la vita. Come in un passarsi la parola, da 150 anni. Pur non avendo otte­nuto il miracolo di una guarigione e­clatante, tornano. Cosa che razio­nalmente non si spiega se non col fatto che a Lourdes hanno trovato qualcosa, per cui vale la pena di an­dare, e tornare.
Che cos’è questa cosa nascosta e po­tente che riempie ancora i treni dei pellegrini in viaggio nella notte at­traverso un’Europa secolarizzata? Non sono tutti malati. Ci sono ra­gazzi, c’è gente in perfetta salute che, ogni anno, ritorna. Per capire biso­gna guardare le facce alla mattina presto, in coda davanti alle piscine. Migliaia di donne e uomini venuti dai più lontani angoli del mondo: borghesi occidentali e contadine sla­ve, africani e indiani, ottuagenari e donne incinte. (Difficile, inquadrare sociologicamente questo popolo. Li si direbbe, guardandone le espres­sioni tranquille nell’attesa paziente, semplicemente uomini – come ri­dotti a una domanda comune e es­senziale).
Uomini e donne, venuti a domanda­re. Non necessariamente una guari­gione. Più spesso, la forza di andare avanti; un senso per cui valga la pe­na di andare avanti con tutte le pro­prie sofferenze, visibili o nascoste. Vengono a domandare speranza. Ciò che non si trova facilmente nelle no­stre città assordate di voci, nei nostri centri commerciali debordanti di o­gni oggetto di desiderio. A volte, nemmeno in molte delle nostre ca­se, dove di ciò che più importa si fa­tica a parlare.
Lourdes è in realtà come la mano te­sa di un mendicante – migliaia, mi­lioni di mani spalancate. Il miracolo quotidiano e umile di Lourdes è che tanti qui ritrovano speranza. Spe­ranza come un filo sottile ma forte – come il rosario stretto in pugno, qua­si ad aggrapparcisi, dalla gente nella basilica. Il miracolo più grande a Lourdes non si vede, e non vale una colonna sui giornali. È nella faccia di tanti che la sera se ne escono dal san­tuario, facce da uomini non ranco­rosi o disperati o cinici, ma fiducio­si. Facce di uomini in pace.
In questo posto la fede più facil­mente che altrove si fa – secondo la espressione di Benedetto XVI nella Spe Salvi – già hyparxin, già sostan­za di ciò che spera. Non un proten­dersi verso un futuro promesso e lon­tano, ma già il principio tangibile del­la promessa. Sostanza concreta, che già cambia la vita: in cui la giornata si apre in un altro respiro – così co­me nella attesa di un destino buono anche un presente duro si fa sop­portabile. È per via di questa 'so­stanza' che in milioni vanno a Lour­des, dove misteriosamente la spe­ranza si tocca come l’acqua della fon­te, con le mani. Si passano la parola, mandano i figli e i figli dei figli. E son passati centocinquant’anni, ormai.






Conformismo ghibellino e Italia con troppa politica
Non c’è la Chiesa dietro alla temuta «ondata neoguelfa»
Corriere della Sera
di Ernesto Galli Della Loggia
È una bella immagine quella dell' «ondata neoguelfa », uscita dalla penna di Aldo Schiavone in un articolo di qualche giorno fa su la Repubblica. A stare al quale nell'Italia di oggi, a causa del degrado della vita politica e dell'etica pubblica, starebbe andando ancora una volta in scena «un'antica tentazione» della nostra storia politica e intellettuale, vale a dire «la rinuncia allo Stato », percepito come qualcosa di fragile che «non ce la può fare», e la sua sostituzione con una sorta di «protettorato super partes» attribuito al Papa: fino al punto di fare del magistero della Chiesa «il custode più alto della stessa unità morale della nazione ». Insomma, un vero meccanismo di supplenza, alimentato dall'illusione che «una religione possa occupare il posto della politica e del suo discorso». L'analisi di Schiavone ha precedenti illustri. Che la statualità italiana da un lato, e la Chiesa e il cattolicesimo romano dall'altra, siano due termini sostanzialmente antitetici fu opinione corrente durante il nostro Risorgimento. Che non a caso si compiacque di riprendere l'antica esecrazione antichiesastica di Machiavelli e Guicciardini (puntualmente citata anche da Schiavone), additando altresì nella Controriforma una delle massime fonti della rovina d'Italia: «Quando a noi toccò la parrocchia — scrive anche il nostro autore — mentre gli altri, in Europa, costruivano gli Stati». Qualunque sia l'effettiva plausibilità di questa interpretazione della nostra storia, dubito assai che essa possa farci capire quanto sta accadendo nell'Italia attuale. Riportare sempre tutto, anche fenomeni palesemente e radicalmente nuovi (che dimostrano di essere tali, tra l'altro, proprio tendendo a ridisegnare secondo linee inedite gli schieramenti del passato), riportare sempre tutto, dicevo, come ama fare la maggior parte della cultura italiana, nell'ambito tradizionale delle dicotomie Stato-Chiesa, laico-clericale, conservatore-progressista, mostra solo quanto quella cultura sembri interessata più che alla realtà, più che a comprendere la novità dei tempi, a mantenere ad ogni costo saldo e credibile l'antico universo dei suoi valori e dei suoi riferimenti.
Com'è possibile, mi chiedo, non accorgersi che l'intera impalcatura ideologica otto-novecentesca — di cui le dicotomie italiane di cui sopra sono parte — sta oggi diventando un reperto archeologico? Non accorgersi che sotto l'incalzare di due grandi rivoluzioni — e cioè dell'effettivo allargamento per la prima volta dell'economia industriale- capitalistica a tutto il mondo, e dell'estensione della tecnoscienza alla sfera più intima del
bios — tutta la nostra vita sociale, a cominciare dalla politica, con le sue confortevoli certezze culturali e i suoi valori, deve essere ripensata e ridefinita?
Come non accorgersi che è per l’appunto questa pervadente crisi di senso, e dunque questo drammatico interrogativo sul futuro, a segnare l’attuale drammatico passaggio tra due epoche storiche? E che sono per l’appunto questi fatti, non altro, che rilegittimano potentemente la dimensione religiosa candidandola a occupare nuovamente, in tutto l’Occidente, uno spazio pubblico? Ma se le cose stanno a questo modo— mi domando ancora — chi potrà mai scandalizzarsi se in un Paese come il nostro, con la sua tradizione, il risveglio della dimensione religiosa implichi immediatamente anche il risveglio della voce e della presenza della Chiesa cattolica? Va bene, si obietta, ma si tratta di una voce e di una presenza assolutamente fuori misura. In realtà a me pare che l’impressione di un che di eccessivo, di strabordante, del discorso religioso specialmente sui temi etici (che poi sono anche politici e viceversa, come troppo spesso i denunciatori dell’«ingerenza » non vogliono vedere) è in grande misura favorita dal carattere intellettualmente pigro e ideologicamente conformista della nostra cultura, diciamo pure dalla sua assenza. Il rilievo non riguarda certo Aldo Schiavone che anzi con il suo Storia e destino (Einaudi 2007) ha rappresentato un caso di riflessione originale e coraggiosa sui grandi temi della rivoluzione tecnoscientifica in atto.
Ma un caso raro. È un fatto che invece la cultura laica italiana si è perlopiù abituata oramai a sposare in modo sostanzialmente acritico tutto ciò che abbia a qualunque titolo il crisma della scienza. Non ne parliamo poi se la novità ha modo di presentarsi come qualcosa che possa rientrare nella sfera di un diritto quale che sia. Una sorta di idolatria della scienza opportunamente insaporita da un libertarismo da cubiste è così divenuto la versione aggiornata e dominante del progressismo e del politicamente corretto nostrani. Invano, da noi, si cercherebbe un Habermas, un Gauchet, un Didier Sicard che animano di dubbi e di domande la discussione in altri Paesi. I fari dello spirito pubblico italiano sono ormai Umberto Veronesi e Piergiorgio Odifreddi. Tutto il resto è silenzio. In questa stupefacente condizione di resa intellettuale ai tempi, non c’è da meravigliarsi se la dimensione religiosa e la Chiesa, rimaste di fatto le sole voci significative a obiettare e a parlare una lingua diversa, raccolgano un’attenzione e un ascolto nuovi da parte di chi pensa che esistano cose ben più importanti della scienza. E che anche per ciò, dunque, esse sembrino assumere contorni di particolare rilievo superiori alla loro effettiva realtà.
Inevitabilmente nel silenzio ogni sussurro sembra un grido. Tutto ciò ha poco a che fare con qualche supposto vuoto di politica e di Stato che caratterizzerebbe l’Italia di oggi, secondo quello che invece mostra di credere Schiavone. Se infatti il punto realmente critico della condizione italiana, come a me pare, è l’assenza da parte della nostra cultura di vera discussione pubblica intorno ai grandi temi del Paese e dell’epoca, nonché l’appiattimento conformistico di quella medesima cultura, ebbene allora una parte non piccola di responsabilità ne porta proprio non già il vuoto, ma l’eccesso di politica, in cui siamo stati fino ad oggi immersi. È stata la crescente, spasmodica, politicizzazione del discorso pubblico, di qualunque discorso pubblico, che ha imprigionato l’intellettualità italiana riducendola oggi, checché se ne dica, a una delle meno vivaci e meno interessanti d’Europa.
Facendone altresì, da sempre, in mille ambiti, e tranne pochissime eccezioni, un’articolazione di fatto del sistema politico e della sua ideologia, e dunque rendendola incapace di alimentare la politica stessa di valori e di punti di vista nuovi. Questo corto circuito politica-cultura viene da lontano. Risale alla nascita stessa dello Stato italiano, alla cui origine vi fu una supplenza decisiva: quella per l’appunto rappresentata dalla necessaria iperpoliticizzazione (allora «rivoluzionaria », ma non solo allora) di alcune minoranze—e tra queste la cultura e gli intellettuali furono come si sa in prima fila — al fine di ovviare ad un vuoto decisivo: l’assenza dell’anima profonda del Paese e del suo consenso generale, l’assenza della nazione. È stata altresì questa iperpoliticizzazione—diciamo così—originaria della compagine statale italiana la responsabile immediata dell’ipertrofia statalista che ci accompagna dal 1861. Per potersi esercitare su una società riluttante e lontana di cos’altro poteva servirsi la politica, infatti, se non dello Stato? Insomma, in un implacabile gioco di rimandi, solo all’apparenza contraddittori, il deficit di Stato nazionale ha reso inevitabile l’ipertrofia dello Stato. Ma di uno Stato che non ha potuto essere, nella sostanza, che uno Stato politico-amministrativo: per giunta quasi sempre monopolio politicamente di una parte e amministrativamente quasi sempre inefficiente.
Tutt’altra cosa cioè dallo Stato della nazione, capace invece di incarnare una dimensione realmente rappresentativa di istanze comuni a tutti i cittadini nonché di un’etica pubblica diffusa. Insomma, appellarsi oggi in astratto, come è tentato di fare Schiavone, allo Stato e alle culture politiche come dimensioni in quanto tali salvifiche — per resistere all’«ondata neoguelfa», così come per qualunque altro scopo — serve solo a nascondere il vero dramma dell’Italia, la quale cela proprio nell’ambito dello Stato e della politica le contraddizioni sempre più paralizzanti della sua storia.
12 febbraio 2008


PROPOSTA DEL MPV

Il presidente del Movimento per la vita chiede un impegno preciso a Udc e Rosa bianca
La sfida di Casini: «Mettete la vita al primo punto dei programmi»
DI PAOLO VIANA
Avvenire, 12.2.2008
Mettere la di­fesa della vita al pri­mo punto del programma e­lettorale: è que­sta la sfida lan­ciata da Carlo Casini ai partiti che dichiarano di avere delle radici cristiane.
Il leader del Movimento per la vita va ben oltre la 'provo­cazione' di Giuliano Ferra­ra, che nelle scorse settima­ne ha auspicato la nascita di una formazione e­lettorale tutta incentrata sul diritto alla vita. Le regole eletto­rali rendono impraticabile quella via, la semplificazione del quadro politico archivierà ogni forma di trasversalismo e l’esperien­za dell’Unione insegna che un programma equivoco sui temi bioetici si trasforma presto in una zavorra pesantissima per qualsiasi esecutivo. Quindi, non serve una 'lista di scopo', ma uno 'scopo' dichiarato per tutte quelle liste che aspirano a catturare il voto dei cattolici. È precisamente ciò che Casini propone in una lettera indirizza­ta al direttore de Il Foglio e ai lea­der dell’Udc e della Rosa bian­ca, i due partiti che si richiama­no alla dottrina sociale della Chiesa e per i quali, annota, «è fuori discussio­ne la difesa del­la vita intesa nel­la sua massima ampiezza».
Casini non dissi­mula la propria storia né le rela­tive apparte­nenze: già eu­roparlamenta­re con l’Udc, da trent’anni e più al vertice della più importante organizzazione pro-life del Paese, in prima fila in tutte le battaglie bioe­tiche, il magi­strato fiorentino getta un pon­te tra il partito di Pierferdi­nando Casini e quello nascen­te di Savino Pezzotta. I due in­terlocutori del popolo della vi­ta sono stati scelti anche per e­sclusione. Casini parla di una «insuperabile difficoltà a so­stenere partiti di sinistra» per via del «loro rigido e talora ag­gressivo muro di incompren­sione rispetto alle tematiche della vita nonostante la con­traddizione con le parole di so­lidarietà che pronunciano». Può darsi, ammette, che in fu­turo «tale incomprensione possa essere mitigata, ma in­tanto sono in gioco - subito, o­ra - vite umane, discrimina­zione, degrado culturale. Tale deriva può essere fermata an­che dalla politica. Non solo la politica, ma anche dalla poli­tica, dai partiti e dai voti».
Insomma, «crollerà il muro, ma per ora bisogna guardare all’essenziale» e questo 'es­senziale' è racchiuso nella for­mula che lui stesso ha vergato su Avvenire il 7 febbraio scor­so: «Questo partito riconosce il diritto alla vita di ogni essere u­mano fin dal concepimento e ritiene suo dovere giuridico primario proteggerlo». In po­che righe c’è tutta la storia del Movimento per la vita e delle sue battaglie, fino alla legge 40 e alle recenti polemiche sulla pillola abortiva. Questa frase, spiega Casini, dovrebbe cam­peggiare all’inizio del pro­gramma elettorale delle for­mazioni politiche che si impe­gnano a difendere fattivamen­te il diritto alla vita. Il proposi­to, dichiarato, è vincolarne i candidati e soprattutto gli e­letti, caratterizzando la propo­sta politica in modo inequivo­cabile, indicando una rotta a prova di 'indecisi' e quindi e­vitando i ripensamenti e le po­lemiche che hanno indeboli­to, forse in modo decisivo, il governo Prodi. A quanti, anche nel mondo cattolico, pur pro­fessando gli stessi principi, po­trebbero non considerare cru­ciale questa sfida, Casini repli­ca che «la questione è la prio­rità del diritto alla vita rispet­to ad ogni altro problema. Non la solitudine, ma la priorità». E a coloro che potrebbero teme­re una deriva integralista, chia­risce come da questo patto, parta «una nuova nobile visio­ne della laicità. Qui, oltre ogni apparenza, è ontologicamen­te la premessa di un incontro, non tattico, ma profondo tra la ragione cristiana e la ragione laica» scrive.
Il 'patto per la vita' targato MpV non è dissimile da quel­lo ipotizzato da Ferrara con la 'lista di scopo'. Quell’idea per Casini «è in sé grandiosa an­che perché colloca la radice questione antropologica nella dimensione planetaria ed e­pocale e sottolinea la respon­sabilità dell’Italia rispetto al­l’Europa e al mondo. Essa è molto suggestiva, specie te­nendo conto della larghissima fascia degli scontenti della po­litica che in una lista per la mo­ratoria troverebbero una ra­gione unica ma semplice e chiara per il loro voto». Il de­stinatario del progetto ferra­riano era tuttavia Berlusconi, il quale, appoggiando la pro­posta di moratoria dell’aborto lanciata dal Foglio, ha dato tut­to quel che poteva dare. Casi­ni lo sa bene e infatti punta il faro sui centristi e offre loro un 'gene' capace di marcare in modo inequivocabile il loro D­na e garantire agli elettori, con un pronunciamento program­matico e per ciò stesso valido erga omnes, che alle dichiara­zioni ideali corrisponda un comportamento di assoluta coerenza dei gruppi parla­mentari. Al lordo, ovviamente, di clamorosi voltafaccia dei singoli eletti.
«I programmi elettorali - chie­de - promettano prima di tut­to l’uguale dignità di ogni es­sere umano fin dal concepi­mento e considerino l’effetti­va realizzazione di un tale i­deale con coerenza in ogni ambito. Il resto, il 'come' del­la protezione in equilibrata at­tenzione alle condizioni di tut­ti si vedrà dopo. Ma un patto per la vita mi sembrerebbe og­gi essenziale. Da qui prende concretezza la dottrina socia­le cristiana». È chiaro che Ca­sini si aspetta che il 'suo' Udc accolga la proposta, coronan­do una storia «senza screpola­ture in favore del diritto alla vi­ta sia nei voti, sia nelle inizia­tive »: il popolo della vita - sot­tolinea la lettera aperta - non dimentica la Legge 40, varie mozioni, la commissione di in­dagine sulla 194, l’impegno per contrastare in Europa la devastante posizione di Mus­si sulle cellule staminali em­brionali ed inoltre la vicenda dei pacs, del testamento bio­logico, ecc. Anche la Rosa Bianca, però, non dovrebbe sottrarsi, secondo il Mpv, in quanto «essa non sussistereb­be senza l’iniziativa di Pezzot­ta » e il sindacalista bergama­sco, pur al termine di una lun­ga carriera nella Cisl, è «emer­so vastamente nell’opinione pubblica» dopo il Family day e in quanto «rappresentante del popolo della vita e della fami­glia ». Anche sul suo conto Ca­sini non ha dubbi: pur essen­do convinto che la formazio­ne centrista pagherà un prez­zo elevato sull’altare della («i­niqua ») legge elettorale, che ai cattolici convenga contenere «l’eccessiva frammentazione» e che l’alleanza sulla vita non possa produrre «una fusione o un’incorporazione» tra i due partiti, il leader del MpV si di­ce certo che «la 'Rosa bianca', se riuscirà ad avere una rap­presentanza in Parlamento di­fenderà il diritto alla vita».