sabato 9 febbraio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:

1) La solidarietà entra in farmacia - BANCO FARMACEUTICO
2) Roma, a lezione dai gay contro l’omofobia. E i corsi sono obbligatori
3) INUTILE FAR FINTA DI NIENTE «L’INFERNO ESISTE ED È ETERNO», di Renato Farina
4) Lettera di Woytjla a Padre Pio: "Un legame spirituale, prova di fede", di Andrea Tornielli
5) Prima del Risorgimento? Niente
6) Il totalitarismo dell’indifferenza che soffoca il valore altrui, di Davide Rondoni
7) Sharia e leggi inglesi: l’Europa debole abbandona l’umanesimo
8) Il popolo del Family day in 134 piazze
9) GROSSMAN E GLI ORRORI DEL ’900
10) There Will Be Blood: «Io, spietato petroliere nella corsa all’oro nero»
11) Mondo e Missione, "Ho incontrato Cristo nella steppa"
12) Governo, enti locali, cittadini. Da questo modello ci guadagnano tutti, Giorgio Vittadini, Vita


La solidarietà entra in farmacia - BANCO FARMACEUTICO
Testimonial d’eccezione sono i protagonisti di Zelig, Paolo Cevoli e Claudia Penoni
DA MILANO GIUSEPPE MATARAZZO
«Condividere i bisogni per condividere il senso della vi­ta »: oggi in tutta Italia il Ban­co Farmaceutico propone la Giornata na­zionale di raccolta del farmaco. Un’ini­ziativa giunta all’ottava edizione, che si svolge sotto l’Alto Patronato della Presi­denza della Repubblica, con un obiettivo chiaro: donare un farmaco a chi ne ha bi­sogno. Aiutare chi oggi vive ai limiti della sussistenza. Una fascia di popolazione sempre più larga, che interessa nel nostro Paese, secondo i dati Istat del 2007, oltre sette milioni di persone.
Il Banco Farmaceutico, in collaborazione con la Federa­zione dell’Impresa Sociale - Compagnia delle Opere, da otto anni, a febbraio, si fa promotore di questa giornata che interessa 75 province e oltre 1.000 comuni con 2.800 farmacie che aderiscono all’iniziativa. Oltre 9.500 volon­tari accoglieranno i cittadini. Gli stessi farmacisti consi­glieranno il tipo di farmaco da banco di cui si avverte mag­giormente il bisogno: per la febbre, il raffreddore, l’influenza, antidolorifici, lassativi, colliri, fermenti lattici e disinfettanti. A beneficiarne saranno le oltre 270.000 persone che vivono al di sotto della soglia di povertà, assistite dai 1.050 enti assistenziali conven­zionati con il Banco Farmaceuti­co. Grazie al gesto concreto di mi­gliaia e migliaia di donatori, il Banco Farmaceutico ha potuto raccogliere, in 7 anni, oltre 1.000.000 di medicinali. «Inizia­tive come questa stupiscono – afferma Paolo Gradnik, presidente dell’Associazione Banco Farmaceutico Onlus – perché puntano, vincendo, sull’umanità di ciascuno. Accettare questa scommessa permette a chiunque vi si avvicini di iniziare un cambiamento, acquisire uno sguar­do nuovo capace di ridestare dal torpore, diventare di nuovo pro­tagonista. Una capacità di met­terci insieme per cercare rispo­ste che rendano più umana e de­gna la vita».
Fra i principali enti destinatari dei farmaci ci sono l’Opera San Francesco di Milano per im­migrati e senza fissa dimora, l’Opera malati poveri San Fe­dele di Milano, il Gruppo Abele di Torino, la comunità di recupero per tossicodipendenti San Patrignano di Rimi­ni, le Caritas di Roma e Salerno, il Poliambulatorio Irne­rio Biavati di Bologna, l’Ambulatorio pronta accoglienza per persone indigen­ti di Novara, l’Ambulatorio medico della Parrocchia Cattedrale di Bari.
L’Anifa (Associazione nazionale delle in­dustrie farmaceutiche dell’automedica­zione) fin dalla prima edizione contri­buisce concretamente a sostegno della giornata di raccolta. «È un’iniziativa di al­to valore sociale – dichiara Sergio Daniotti, presidente Anifa –. Il Banco farmaceuti­co promuove il diritto alla salute come un bene che deve essere accessibile a tutti, nessuno escluso, e in questo senso que­sta collaborazione tra volontariato e im­presa, nella solidarietà verso categorie di cittadini più bi­sognosi, rappresenta un caso di successo di sostegno al­le persone più sfortunate, che dovrebbe essere replicato e potenziato». Testimonial d’eccezione sono (a titolo gra­tuito) Paolo Cevoli e Claudia Penoni, direttamente dallo spettacolo televisivo di cabaret Zelig. «Ho incontrato il Banco nel 2001 – ha detto Cevoli – quando un mio ami­co farmacista, che fa questa cosa qui, mi ha detto: 'Sen­ti Paolo perché non vieni a vedere, ci dai una mano'. È da allora che sostengo questa bella iniziativa perché un po’ di solidarietà, con tutto quello che abbiamo avuto noi dalla vita, mi sembra il minimo che possiamo fare».
Oggi l’ottava giornata di raccolta dei medicinali: un gesto concreto per aiutare chi è in difficoltà a curarsi



Roma, a lezione dai gay contro l’omofobia. E i corsi sono obbligatori
L’assessorato alle Pari Opportunità del Comune di Roma ha deciso di mandare studenti, docenti e genitori a lezione di omosessualità. Il progetto coinvolge tre istituti superiori. L’obiettivo è combattere l’omofobia. Si comincia la prossima settimana e durerà fino ad aprile. Ma molte famiglie temono che ai ragazzi, nel delicato periodo dell’adolescenza, siano offerti dei modelli troppo alternativi rispetto a quelli tradizionali. Ed è già polemica.
Studenti, docenti e genitori a lezione dagli omosessuali per imparare ad accogliere le diversità. Con il patrocinio dell’assessorato Pari Opportunità del Comune di Romasta per partire in sei Istituti superiori romani il progetto «Smontiamo i bullismi, impariamo a convivere», promosso e realizzato dal circolo di cultura omosessuale Mario Mieli. Il progetto coinvolgerà un migliaio di ragazzi che, a partire dalla prossima settimana e fino ad aprile, frequenteranno circa 60 incontri nei quali saranno affrontate tematiche come il machismo e l’omofobia. Sei le scuole coinvolte: Seneca, Alberti, Faraday, Salvini, Sisto V e Anco Marzio. Le lezioni saranno tenute da operatori volontari assistiti da docenti, psicologi, tutor e assistenti sociali che fanno riferimento al circolo Mario Mieli. «I bullismi che vogliamo smontare non riguardano soltanto gli orientamenti sessualimatutte le differenze e gli stereotipi che possono generare discriminazioni e violenze verbali e fisiche», spiega uno dei coordinatori del progetto, Massimo Farinella del Mario Mieli. Fra gli obiettivi prioritari del progetto «la sensibilizzazione sulle difficoltà che i ragazzi incontrano durante la crescita, in relazione alla scoperta della propria identità affettiva e sessuale, in un contesto che generalmente non prevede o non accetta le diversità». Saranno i professori a scegliere le classi che dovranno frequentare i corsi. Una volta individuati gli studenti dovranno seguirli obbligatoriamente come qualsiasi altra iniziativa. Sembra che il progetto non abbia però ricevuto il gradimento del ministero dell’Istruzione, che non ha affiancato il proprio patrocinio a quello del Comune. Iniziative contro le discriminazioni e le violenze hanno sempre avuto il plauso di genitori e docenti. In questo caso però è già esploso il dissenso da parte di associazioni familiari e genitori. Nicola Giacobbe, presidente nazionale del Forum delle Famiglie confessa tutta la sua perplessità soprattutto di fronte alla scelta del Comune di patrocinare l’iniziativa. È chiaro che gli istituti si sentono comunque garantiti sulla serietà dell’iniziativa se c’è il Campidoglio a sponsorizzarla. «Ritengo quantomeno discutibile il patrocinio del Comune: gli omosessuali sono persone come tutte le altre ma non possono propagandare nelle scuole che esistono altri generi oltre quelli maschile e femminile», dice Giacobbe. Pure l’Associazione italiana genitori (Age) si dice contraria «a ogni forma di bullismo, ma prima del genere c’è il rispetto assoluto della persona», osservando che sarebbe stato meglio «organizzare un percorso per il rispetto di tutte le differenze a prescindere dalle appartenenze». Molto più duro il senatore Giuseppe Valditara, responsabile nazionale di Alleanza nazionale del settore scuola e istruzione: «Il tema è importante, ma deve essere affrontato da persone competenti e non da sedicenti associazioni ed usando criteri di equilibrio e non di parzialità. Con la crescita dei giovani non si può scherzare, queste sono iniziative velleitarie».
di Francesca Angeli
Il Giornale venerdì 08 febbraio 2008


INUTILE FAR FINTA DI NIENTE «L’INFERNO ESISTE ED È ETERNO» Di Renato Farina – 8 febbraio 2008
Papa dixit: «L'Inferno esiste ed è eterno, anche se non ne parla quasi più nessuno». Non si scherza con il suo fuoco. Bisogna finirla con la storia che possiamo badare soltanto ai nostri interessi e chise-ne-frega, massì, avanti popolo che la vita è breve, spassiamocela, la giovinezza dura poco, tanto alla fine Dio è misericordioso e ci tira tutti in paradiso, dove come minimo c'è il caffè Lavazza. La vita degli uomini è un caso serio.
Poi dicono che il Papa si occupa poco del mistero e delle cose ultime per dedicarsi alla politica. Vediamo se adesso i suoi critici sono contenti. Temo di sì, perché avranno gioco facile a dire che Ratzinger ci trascina di nuovo nel Medioevo, e che è un oscurantista anche nel settore post mortem. Ma si sbagliano. In fondo il discorso sul nostro destino, anche se espresso con parole antiche, è l'unica faccenda che interessa. Il resto - le immense questioni della matematica e della musica post dodecafonica e della fisica post-einsteiniana - sono bubbole per rendere più piacevole il nostro breve giro di giostra. Distrazioni per anime colte. Temi dimenticati
Ieri Benedetto XVI ha parlato a tutti e si è fatto capire da tutti su un tema che qualsiasi italiano conosce più delle tabelline. Peccato sia stato infilato anche da vescovi e sacerdoti in un cassettone da robivecchi e dimenticato in sacrestia. Il Papa ha incontrato i parroci di Roma, ed uno di loro gli ha chiesto se è ancora il caso di parlare dei "novissimi". Non si studiano più neanche a catechismo. Ma sono morte, giudizio, inferno e paradiso. Il Papa ha risposto. L'inferno esiste.
E non è soltanto un luogo ipotetico dove tanto non finirà nessuno: è una realtà, e una possibilità concreta. Benedetto XVI, con il suo sorriso da gatto dolce, ha graffiato via il cerone del luogo comune gentile e accomodante. Altre dichiarazioni papali di ieri: «La salvezza non è automatica e non arriverà per tutti. Anzi, l'inferno è una possibilità reale». Ancora. Il demonio ci ghermirà «se (gli uomini) non si pentiranno dei peccati e non chiederanno il perdono divino» è entrato anche in politica, ha attaccato i totalitarismi del secolo scorso (uno peraltro dura anche oggi e ci ha governato fino a ieri): «Nazismo e comunismo che volevano solo cambiare il mondo, lo hanno distrutto perché chi non lavora per il Paradiso, non lavora neanche per il bene degli uomini sulla Terra». Insomma, il papa ha ribadito il dogma dell'inferno. Incredibile ma vero: per il Papa il fatto che l'inferno ci sia, e ci si possa finire, è la prova non della terribilità di Dio, come ci è stato insegnato. Ma del fatto che ama la nostra libertà più della nostra salvezza. Ha detto ieri: «La fede cristiana è un annuncio, una offerta all'uomo, mai una imposizione». Ogni persona «se vuole può accettarla spontaneamente».
È come tra un uomo e una donna. Dio rispetta le creature, desidera che esse abbiano la possibilità di dirgli di no. L'inferno è la prova che l'uomo è libero, che nemmeno Dio è in grado di costringerci ad essere felici, a scegliere l'amore. Per questo, secondo Ratzinger, il paradiso e l'inferno cominciano nella vita terrena. Ed è un'esperienza di ciascuno. Il paradiso, almeno come inizio nella speranza, è già qui, anche se non ancora in pienezza: c'è quando noi riconosciamo la misericordia di Dio, e ci affidiamo ad essa costruendo anche le cose di questo mondo. L'inferno è la disperazione, il voler imporre un proprio disegno agli altri, e qui ci sta l'esempio politico di comunismo e nazismo. Ma nella nostra vita personale lo sappiamo bene cos'è il peccato, anche se uno non crede ad ogni riga del catechismo. Il peccato è spezzare qualcosa che sappiamo bene essere un bicchiere di cristallo dentro la nostra coscienza. I nostri gesti hanno un peso, anche una parola cattiva rimbomba nelle galassie.
Il cattolicesimo non è la religione del "tanto poi uno si confessa". Bisogna mettersi in ginocchio, chiedere il cambiamento. «Il nostro Padre misericordioso che è sempre pronto ad aiutarci, ad accoglierci, anche quando sbagliamo», aggiusta il cristallo, lo fa più bello di prima, cancella il male, sa che siamo fragili, ma dobbiamo domandarlo, bisogna dire di sì. Magari questo sì si è manifestato una volta sola nella nostra vita, con un gesto di bene, magari basta questo, ed avrà più peso dei mille no. Ma di certo il paradiso non è a buon mercato. Che cosa poi siano inferno e paradiso sappiamo che come scrive Dante nella Commedia - sono il buio e l'assenza di Dio, l'afflizione spaventosa per una solitudine gelata, l'arsura della sete senza una goccia d'acqua; e il paradiso il godimento pieno dell'amore. Insomma non ne sappiamo niente. Non sappiamo come sono, persino Ratzinger in una intervista disse che non sappiamo niente, è un mistero, ma io credo devono essere come ce li immaginavamo da piccoli. E come quando eravamo piccoli, vale quanto ci diceva la nonna: prega Gesù, male non fare, paura non avere.


Lettera di Woytjla a Padre Pio: "Un legame spirituale, prova di fede", di Andrea Tornielli
Il Giornale – 9/09/02/2008
Roma - «Le date sono sorprendenti. Due settimane dopo quella richiesta di preghiere e di aiuto spirituale, monsignor Wojtyla è nominato arcivescovo di Cracovia…». Don Francesco Castelli, docente di Storia della Chiesa contemporanea all’Istituto superiore di scienze religiose «Guardini» di Taranto e collaboratore della postulazione della causa di beatificazione di Giovanni Paolo II, si è ritrovato tra le mani la lettera inedita del futuro Papa a Padre Pio.
Che significato ha questa missiva?
«Sta a dimostrare che sul rapporto esistente tra Karol Wojtyla e Padre Pio c’è ancora molto da scoprire. La nuova lettera mostra l’esistenza di un rapporto epistolare più fitto di quanto avevamo immaginato, perché apprendiamo che le richieste di preghiere e intercessioni erano più d’una – fino ad oggi conoscevamo solo quella per la dottoressa Wanda Poltawska – e sono state tutte esaudite».
Nel testo si cita il caso del figlio di un avvocato, ammalato dalla nascita. Si sa qualche cosa di più? «Sappiamo solo che il vescovo ricorda anche la guarigione di quest’ultimo. Dobbiamo ipotizzare che esista una lettera con la quale Wojtyla chiedeva l’intervento di Padre Pio per questo caso, e con tutta probabilità un’altra missiva con la quale ringraziava per l’intercessione. Chi è questo figlio di avvocato? Dove si trovano le altre lettere inviate dal futuro Papa al frate stimmatizzato? Furono spedite o recapitate a mano come avvenne per la prima missiva? Domande ancora senza risposta».
In questa lettera il futuro Papa chiede anche preghiere per sé…
«Si tratta di un altro dato nuovo: chi ha fede sa bene che questo chiedere preghiere per sé implica un legame spirituale. E qui ci troviamo di fronte al legame spirituale tra un giovane vescovo di una Chiesa dell’Est, molto provata, e un frate stimmatizzato che quel vescovo aveva già riconosciuto come un vero uomo di Dio».
Wojtyla parla di «ingenti difficoltà». Appena due settimane dopo quel messaggio inviato da Roma a Padre Pio, ecco arrivare la nomina ad arcivescovo di Cracovia.
«È davvero sorprendente la coincidenza delle date. Sappiamo già dalla precedente richiesta, quella della guarigione della dottoressa Poltawska, che ricevendo la prima lettera del vescovo Wojtyla, Padre Pio disse: «A questo non si può dire di no!». Sembra proprio che non abbia detto di no neanche alle altre richieste compresa quella relativa alla persona e alle difficoltà del vescovo, che reggeva da un anno e mezzo la diocesi come amministratore apostolico, in una situazione non facile. Le preghiere di Padre Pio vengono accolte in modo molto concreto: appena due settimane dopo, ecco l’annuncio della nomina ad arcivescovo di Cracovia. Una designazione destinata a lanciare Karol Wojtyla sulla scena mondiale. Meno di quattro anni dopo, nel 1967, l’arcivescovo sarà creato cardinale e undici anni dopo sarà eletto Papa».


Prima del Risorgimento? Niente
Di Angela Pellicciari
Il manifesto del Partito democratico aveva inizialmente omesso ogni riferimento alla Resistenza. Rimediato l’errore, Emilio Gentile sul Sole 24 ore di domenica esorta a non dimenticare il Risorgimento: «il momento fondante dell’unità nazionale italiana fu il Risorgimento, che pose, con la creazione dello Stato unitario, le condizioni per una convivenza civile e democratica».
Per motivare la propria tesi Gentile rispolvera le parole d’ordine del mito risorgimentale. Peccato che la concreta realtà economica e sociale, culturale e religiosa dell’Italia sabauda, sia anni luce distante dalla vulgata liberale.
Gli uomini del Risorgimento erano convinti che l’Italia dovesse risorgere dai quindici secoli di «schiavitù» (così si era espresso Napoleone), caratterizzati dalla capillare diffusione della religione cattolica. Per giustificare l’urgenza di questa ripartenza, gli uomini del Risorgimento dovevano dimostrare che la presenza della cattedra di Pietro sul suolo italiano fosse una sciagura. Dovevano cioè riscrivere la storia a partire dai propri desiderata ignorando i fatti. Ecco cosa scrive Leone XIII nel 1883 nella Saepenumero considerantes: «la scienza storica sembra essere una congiura degli uomini contro la verità […] la menzogna si snoda audacemente tra i ponderosi volumi e negli agili libri, fra i fogli volanti dei giornali e nei seducenti apparati del teatri. Troppi vogliono che il ricordo stesso degli avvenimenti passati sia complice delle loro offese».
Sia Pio IX che Leone XIII non si stancano di far riferimento ai fatti: la presenza del papato in Italia è all’origine di una lunga serie di primati. Nel 1887, rivolgendosi al neoeletto Segretario di stato, cardinal Mariano Rampolla, Leone XIII scrive: «Questa guerra [contro la chiesa] al presente si combatte più che altrove in Italia, dove la religione cattolica ha gittato più profonde radici […] Per l’Italia la perdita sarebbe altresì più sensibile. Le sue maggiori glorie e grandezze, per cui tra le più colte nazioni ebbe per lungo tempo il primato, sono inseparabili dalla religione; la quale o le produsse, o le ispirò, o certo le favorì, le aiutò e diede ad esse incremento.
Per le pubbliche franchigie parlano i suoi Comuni; per le glorie militari parlano tante imprese memorande contro nemici dichiarati del nome cristiano; per le scienze parlano le Università che fondate, favorite, privilegiate dalla Chiesa, ne furono l’asilo e il teatro; per le arti parlano infiniti monumenti d’ogni genere, di cui è seminata a profusione tutta Italia; per le opere a vantaggio dei miseri, dei diseredati, degli operai parlano tante fondazioni della carità cristiana, tanti asili aperti ad ogni sorta d’indigenza e d’infortunio, e le associazioni, e corporazioni cresciute sotto l’egida della religione».
Gentile pensa anche che il Risorgimento «diede alle popolazioni che abitavano nella penisola, per la prima volta nella loro storia, la coscienza di formare una nazione». Le cose non stanno così: la stessa lingua italiana mostra con inconfutabile chiarezza che la nazione italiana non ha atteso la metà dell’Ottocento per avere coscienza della propria esistenza. Di più: l’unità culturale e linguistica italiana ha preceduto, e di molto, quella delle nazioni europee.
Dalla Scuola Siciliana in poi «l’italiano gode di una continuità unica fra le lingue letterarie d’Europa», scrive Piero Boitani sul Sole di qualche tempo fa. E prosegue: «la continuità linguistica dell’italiano è un fatto culturale e politico di prima grandezza». L’Italia non era, come diceva Metternich, un’espressione geografica, ma «un’espressione culturale, e soprattutto letteraria. Qualunque europeo di buona cultura sapeva benissimo che la pittura, la scultura, la musica provenivano dall’Italia». Per secoli la letteratura italiana «ha rappresentato l’avanguardia culturale del mondo occidentale».
L’esaltazione del Risorgimento (che ha comportato, vale la pena di ricordarlo, la trasformazione degli italiani in un popolo di emigranti), ha avuto come conseguenza la perdita della nostra memoria storica. Persa questa, non siamo più stati in grado di conoscere, e difendere, la nostra identità.
Sta di fatto che la regione rossa per eccellenza, l’Emilia Romagna, si è data uno Statuto il cui preambolo specifica che la regione «si fonda sui valori della Resistenza al nazismo e al fascismo e sugli ideali di libertà e unità nazionale del Risorgimento». Della Ravenna, splendida capitale dell’Impero Romano d’Oriente, è scomparsa ogni traccia così come della cattolica Bologna, prima università di giurisprudenza al mondo.
Un filo rosso lega la mitizzazione dell’evento risorgimentale alla smemorata e folle pratica di governo di un’altra regione passata alla sinistra da molti anni. Nel 2004 la Regione Campania ha finanziato con cinquantamila euro la pubblicazione di una «Agenda della Pace» dalla quale è scomparso ogni riferimento alle festività cristiane. No a Pasqua, Pentecoste e Natale. Sì all’egira ed al capodanno cinese.
La Campania è finita sotto una montagna di rifiuti. Chissà se la mancata specificazione del Risorgimento e della Resistenza nel manifesto del PD non sia stata segno di un’iniziale di resipiscenza.


SI MOLTIPLICANO I GESTI OSTILI CONTRO GLI EBREI
Il totalitarismo dell’indifferenza che soffoca il valore altrui

Avvenire, 9.2.2008
DAVIDE RONDONI
avanti alla pubblica­zione D on line di una lista di docenti indicati come ebrei e accusati di fare lobby accademica non basta, anche ora che il sito è oscurato, accusare questo gesto come uno dei tanti che la 'rete' rende più facili e incontrollabili. E non basta nemmeno fermarsi al giusto sdegno già espresso in queste ore da esponenti autorevoli delle Istituzioni. Occorre guardare diritto in faccia il problema: viviamo in una cultura che fa della differenza motivo di accusa. Agli ebrei tocca sempre di esser vittime tra le prime ogni volta che un pensiero totalitario cerca di imporsi. E ciò non accade a quel livello che potremmo chiamare 'popolare' ma sempre a quel livello dove entra in gioco la cultura. Non a caso è una lista nera di professori, e non una lista di idraulici.
Probabilmente gli estensori di tale obbrobrio non sono dei ragazzacci di qualche borgata. Del resto, l’altro grave episodio contro cui come scrittore insieme ad altri ho firmato un appello, è la recente richiesta di boicottaggio alla Fiera del Libro di Torino dedicata alla letteratura d’Israele. E in alcune università italiane, e non solo, si sono avuto episodi di spregevole censura di figure del mondo ebraico. È dunque un problema che riguarda innanzitutto la sfera della cultura prima ancora che la stupidaggine dei grossolani. Bisogna guardare negli occhi quale sia la cultura che favorisce l’insorgere di certi atti odiosi. Da un lato i motivi dell’odio affondano spesso in atteggiamenti culturali e politici precisi, segnati da ideologie e da interessi che si distinguono per un’avversione accanita a tutto ciò che viene da Israele. Ma, dall’altro, tali atteggiamenti trovano fertile terreno e rilancio in una cultura che chiamerei del totalitarismo dell’indifferenza. Non intendo solo la viltà di chi chiude gli occhi, ma anche e soprattutto quell’atteggiamento, altrimenti detto relativistico, che giudica tutto uguale, tutto pari, di uguale valore. In tale contesto che riduce le differenze a zero, e che astrattamente annulla le caratteristiche peculiari di ogni storia e di ogni cultura in nome di poche, vaghe e banalissime parole d’ordine, gli ebrei e coloro che esprimono una identità speciale vengono sentiti con fastidio. Con una insofferenza che può generare una reazione rabbiosa.
Ci sono identità che non sono riducibili ai luoghi comuni. Che non sono restringibili a quel che si vorrebbe. Sfuggono all’impero degli slogan che leggono la vita e la storia umana come minime variazioni sulla piattaforma data da poche banali caratteristiche. La storia è più ricca.
L’uomo non è un animale che si accontenta di mangiare, di aver potere, e di qualche invito al 'volemose bene'. Cos’avrebbero i 162 della lista nera che non si armonizza con il ritratto che ci impone l’impero del luogo comune e dell’indifferenza? Che cosa li marchia? Li segna un dato di appartenenza, li 'sfigura' agli occhi di chi li odia il fatto che appartengono a qualcosa che sfugge le categorie del pensiero politico o del potere. Agli ideologi dell’indifferentismo l’identità di un uomo e di un popolo da fastidio. In un tempo ombroso, oltre a vigilare contro odiosi gesti, occorre che tutti coloro che si costituiscono intorno a una identità siano radicali e liberi, disposti alla testimonianza di ciò che di buono e di grande segna in modo speciale la loro esistenza. Sia che si tratti di una eredità del sangue, come nel caso dei nostri fratelli maggiori ebrei, o una eredità di fede come nel caso di noi cristiani. Così che la differenza sia una festa dell’umano, un invito al vero a cui convertirsi sempre tutti, e non un motivo di odio.


ISLAM – EUROPA
Sharia e leggi inglesi: l’Europa debole abbandona l’umanesimo

Samir Khalil Samir, sj
Fa discutere la proposta di Rowan Williams, primate anglicano, di inserire parti della sharia nella legislazione britannica. Per integrare i musulmani in Europa, meglio la pratica dell’ospitalità. Gli europei sembrano abbandonare gli ideali umanisti che invece attraggono molti musulmani e non.


Il Cairo (AsiaNews) - Il Primate della Chiesa d’Inghilterra, l’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams, ha deciso di festeggiare i 60 anni della Dichiarazione universale dei diritti umani in un modo insolito: ha suggerito di inserire alcuni aspetti della sharia nella legislazione britannica, a fine di favorire l’integrazione dei musulmani. A me sembra che questi suggerimenti mostrino una volta di più l’indebolimento dell’identità cristiana europea e l’abbandono di un vero umanesimo.
Una strana intervista alla Bbc
Due giorni fa, giovedì 7 febbraio, riferendosi ai musulmani, Williams ha detto alla radio Bbc 4: "Bisogna prendere atto che alcuni dei nostri cittadini non si riconoscono pienamente nel sistema legale britannico… Credo sarebbe pericoloso sostenere che esiste un'unica legge per tutti e che qualunque altra cosa richieda fedeltà e rispetto sia del tutto irrilevante nei procedimenti giudiziari". Allo stesso tempo, egli ha aggiunto: "Nessuno sano di mente vorrebbe vedere in questo Paese l'inumanità che alle volte viene associata con la pratica della legge in alcuni stati islamici, come le punizioni estreme o l'atteggiamento verso le donne. E in nessun caso, essa precederebbe i diritti che si hanno come cittadini. Ma dire che c'è una legge per tutti, è un po' pericoloso".
Insomma, un cittadino inglese di religione musulmana, che non si riconosce pienamente nel sistema legale britannico, ha pieno diritto di seguire un altro sistema legale, quello stabilito all’inizio del VII° secolo in Arabia. Però, siccome è “sano di mente” non vuole vedere in Gran Bretagna alcuni aspetti di questo sistema legale che un cittadino musulmano britannico ha pieno diritto di voler veder applicato; perché in nessun caso quel sistema precederebbe i diritti che ha come cittadino.
In conclusione, pretendere “che c'è una legge per tutti, è un po' pericoloso".
L’intervista di Williams sembra essere una risposta al vescovo anglicano di Rochester, Michael Nazir-Ali, pakistano di nascita, che, a fine gennaio, aveva scritto sul Sunday Telegraph: “L'estremismo islamico ha trasformato alcune comunità in zone dove i non-musulmani non possono entrare”, e aveva criticato severamente il modello multiculturale britannico. In seguito a quest’articolo ha ricevuto minacce di morte, chiedendogli di smettere di criticare l’islam. E il Consiglio musulmano del Comitato interreligioso britannico aveva scritto all’arcivescovo di Cantorbury riguardo alle dichiarazioni del vescovo anglo-pakistano.
Il 1° febbraio, il vescovo Michael Nazir-Ali aveva scritto sul suo sito: “Il modo migliore di accogliere e d’integrare i nuovi immigrati è la visione cristiana dell’ospitalità, non la politica secolare del multiculturalismo, che ha delle conseguenze disastrose”. E aveva aggiunto: “Se non diagnostichiamo il motivo del malessere che c’invade tutti, non troveremo mai il rimedio”.
Legge britannica o sharia?
Forse il lettore non è riuscito a cogliere la logica del ragionamento del Primate della Chiesa d’Inghilterra: esso relativizza il sistema legale britannico in nome della tolleranza verso tutte le opinioni, anche a costo di tollerare l’intolleranza!
Stando così le cose, diviene impossibile parlare dell’ “inumanità che alle volte viene associata con la pratica della legge in alcuni stati islamici, come le punizioni estreme o l'atteggiamento verso le donne”. Chi decide se una pratica è umana o disumana? Come si può affermare che una Legge [stabilita da Dio, secondo i musulmani] può essere disumana? Sarebbe una blasfemia!
Di fronte a queste affermazioni che fanno sussultare, il Times, nel suo editoriale di venerdi’ 8 commenta: "Ciò che rende questo Paese una democrazia liberale e pacifica è che viviamo sotto la stessa legge, che siamo cittadini uguali di fronte alla legge. Questo è un paese cristiano, anche se (incredibile!) l'arcivescovo si augura che non lo sia. Ognuno è autorizzato ad adottare la religione che crede, o nessuna religione, purché resti sotto la legge e le tradizioni britanniche. Queste, fortunatamente, includono una grande tolleranza per gli altri, l'accoglienza, la generosità di spirito… Questi valori non sono astratti, sono radicati nella storia e nella pratica di questo Paese come nazione cristiana. C'è tutta una serie di Paesi nel mondo in cui la gente può vivere secondo la sharia. Questo non è uno di quelli. Né dovrebbe diventarlo".
Per il Daily Telegraph, “l’arcivescovo di Canterbury … ha approfittato di un intervento alla Royal Courts of Justice per proporre che la legge della sharia sia applicata in determinate circostanze”.
E il quotidiano londinese aggiunge: “Nell'opinione pubblica, la sharia è associata con punizioni brutali, come l'amputazione delle mani per il furto o la lapidazione per l'adulterio e l'apostasia. Inoltre, è vista come repressiva nei confronti delle donne”.
Forse il Primate della Chiesa d’Inghilterra pensava a questo quando parlava dell'inumanità di alcune pratiche.
La “divina” sharia è meglio delle leggi occidentali
Ma i nostri radicali della sharia rispondono che queste leggi, oltre ad essere dettate da Dio stesso, sono più efficace delle leggi occidentali per reprimere gli abusi: furti, adulterio, apostasia, ecc.
Come impedire la poligamia, quando Dio l’ha autorizzata fino a quattro moglie simultanee? Attualmente, Sayed Pervez Kambakhsh, 23 anni, studente di giornalismo, è stato giudicato colpevole di blasfemia da un tribunale di Mazar-i-Sharif, nel Nord dell’Afghanistan, per aver scritto un articolo sui diritti delle donne, facendo riferimento al Corano e mettendo in discussione la pratica della poligamia. Ma i familiari sostengono che l’articolo non era suo, ma solo scaricato da Internet.
E come impedire il ripudio della moglie (per prenderne un’altra, ad esempio) da parte del marito, se Dio l’ha autorizzato in certe circostanze? E chi potrebbe impedire al marito di battere, in modo moderato, la moglie che gli disobbedisce, se il Corano l’autorizza a farlo? Vale la pena ricordare la sentenza della giudice tedesca di Francoforte che l’anno scorso riconosceva a un tedesco musulmano il diritto di battere sua moglie in nome della sua religione. In tutti questi casi, dov’è l’uguaglianza giuridica tra uomo e donna?
Pochi giorni fa, il governo britannico ha deciso di aumentare i sussidi pubblici per i mariti che hanno più di una moglie a carico. Subito dopo, Hamza Piccardo, ex-segretario dell’Ucoii, ha dichiarato che questa decisione era giusta. Non vale per i cittadini inglesi perchè il diritto di questo Paese non prevede la poligamia.
Le reazioni ai discorsi dell’arcivescovo
Le reazioni all’intervista dell’arcivescovo di Canterbury non hanno tardato ad arrivare. Il ministro della Cultura, Andy Burnham, ha commentato dicendo: “Non si possono far funzionare insieme due sistemi legislativi. Sarebbe la ricetta per il caos”. Anche un altro ministro ha definito la sua proposta “una ricetta per il caos”. Il Sun, maggiore tabloid inglese, ha scritto: “In realtà, questa proposta è una pericolosa minaccia alla nostra nazione”.
Certamente, l’arcivescovo voleva facilitare l’integrazione dei circa 2 milioni di musulmani su 60 milioni di cittadini britannici. Dal luglio 2005, quando quattro mussulmani inglesi si sono resi autori di attentati suicidi al sistema di trasporti della capitale, uccidendo 52 persone, l’integrazione è al centro del dibattito pubblico in Gran Bretagna. Ma questa misura, l’introduzione della sharia, faciliterà l’integrazione? Il vescovo Nazir-Ali pretende il contrario, e sa di che cosa parla essendo nato pakistano musulmano. Anche il parlamentare laburista Khalid Mahmood non ha dubbi sulla posizione da assumere: “Io, insieme alla grande maggioranza dei musulmani inglesi, mi oppongo a ogni mossa per introdurre qui la sharia. La legge inglese fa invidia a tutto il mondo”.
Anche il Consiglio musulmano della Gran-Bretagna, un'organizzazione non sempre moderata, si oppone ad un sistema legislativo doppio.
La sharia rifiutata dai musulmani in nome dell’umanesimo europeo
1. L’intenzione del Primate è certamente buona: aiutare i mussulmani ad integrarsi in Inghilterra mantenendo le loro tradizioni. Ma è anche certamente sbagliata. Chi viene in un Paese sa che va incontro ad un’altra cultura. Se non è capace di vivere nella cultura ambiente è meglio cercare un'altra patria. Non si può chiedere a 60 milioni di britannici di rinunciare alla loro tradizione millenaria a causa di 2 milioni. E non si può avere due leggi opposte nello stesso Paese.
2. Il principio esposto da Williams sembra di buon senso. Ma il buon senso va spesso dimenticato quando si tratta di religione. In nome della libertà religiosa si pretende mettere le leggi religiose al di sopra della costituzione. Ciò mi sembra profondamente sbagliato. Soprattutto quando si sa che questa pretesa legge divina (qualunque essa sia) non è in vigore nella maggioranza dei Paesi a tradizione mussulmana. In realtà, la sharia islamica pone più problemi che soluzioni, perché rispecchia usanze antiche che non corrispondono alla concezione odierna dei diritti umani.
3. I diritti umani ben intesi (e anche criticati) sono l’espressione moderna dei valori più nobili. Sono spesso la secolarizzazione dell’ideale umano più alto, quello del Vangelo. Non si tratta qui di preferire la legge del Vangelo a quella del Corano; si tratta di scegliere la legge più umanistica, per costruire insieme una società umana rispettosa delle scelte di ogni persona umana. Non è in nome del Vangelo che si adoperano i diritti umani, ma in nome dell’uomo. La vera laicità positiva non può considerare le leggi religiose in quanto tali.
4. In tutta questa faccenda, la cosa più sorprendente è che la proposta sia stata fatta dalla più alta autorità religiosa d’Inghilterra… per favorire una legge da lui stesso riconosciuta come parzialmente disumana! Purtroppo non è la prima volta che si vedono vescovi cristiani difendere norme musulmane che gli stessi musulmani più aperti cercano di abbandonare. Vogliamo essere più papisti del papa? Ho talvolta l’impressione che l’Occidente, non avendo più radici profonde, difende usanze di chi è considerato come “più debole”, oppure difende “lo straniero” in quanto straniero. Si tratta di difendere i valori, anzi di difendere l’uomo.
Lo scopo del cristiano non è di difendere il musulmano o il cristiano. Lo scopo è difendere l’uomo, indipendentemente dalla sua religione. Se il cristianesimo mi aiuta a difendere l’uomo, allora è benvenuto! Se è il mio ateismo che mi aiuta a difendere l’uomo, allora è esso il benvenuto! La religione non ha bisogno di essere difesa, ma solo l’uomo! É quest’umanesimo che ha attirato lo sguardo di milioni di musulmani e non, e che ha fatto dell’Europa un modello di società per tanti di noi … fino ad alcuni decenni fa. Oggi si ha l’impressione che quest’umanesimo sia perso, e che si preferisce la cultura dell’altro semplicemente perché è altro, magari a cause di una sfiducia nella propria cultura!



Il popolo del Family day in 134 piazze
Il 2 marzo le associazioni del Forum si mobilitano per un «fisco a misura di famiglia»
Il presidente Giacobbe: una politica giusta dovrebbe rendere deducibile dall’imponibile il minimo vitale per ogni familiare a carico
Avvenire, 9.2.2008
DA ROMA PIER LUIGI FORNARI
Il prossimo 2 marzo il Familiy day 2 si moltipli­cherà in almeno 134 città italiane, dove saran­no allestiti banchetti per la raccolta di sottoscri­zioni alla petizione del Forum delle Associazioni fa­miliari per «un fisco a misura di famiglia».
«Nel Family day la famiglia italiana ha dimostrato di sapersi impegnare, superando, nel numero delle pre­senze, le più rosee aspettative – ha esordito il presi­dente del Forum, Giovanni Giacobbe nella confe­renza stampa di presentazione –, la petizione è la proiezione operativa di quell’evento, con riferimento all’aspetto fiscale, che è essenziale per avviare una politica organica in favore della famiglia».
L’evento si focalizzerà a livello mediatico in sei città diverse per collocazione geografica, per grandezza e anche per il tipo di amministrazione che le regge: Roma, Milano, Napoli, Parma, Verona e Assisi. È pre­visto che a firmare per primi siano i sindaci. Saran­no accompagnati da testimonial del mondo della cultura, dello spettacolo e dello sport. Per quanto ri­guarda Roma, «il sindaco Veltroni per quel giorno sarà dimissionario, ma sappiamo che il vicesindaco Mariapia Garavaglia sarà presente per firmare», ha detto il vicepresidente del Forum Giuseppe Barba­ro.
L’intera mobilitazione si concluderà il 15 maggio, giornata internaziona­le della famiglia, con un appunta­mento che vedrà riunite a Roma an­che le principali associazioni euro­pee impegnate nella tutela della 'cellula fondamentale della società'.
In quella giornata le adesioni rac­colte saranno presentate al presi­dente della Repubblica, Giorgio Na­politano.
La petizione del Forum chiede di rendere deducibile dall’imponibile fiscale il minimo vitale per ogni fa­miliare a carico. «Un sistema che dà al genitore la sovranità sulle sue risorse – ha spiega­to la vicepresidente Paola Soave –, invece di trasfor­marlo in un assistito attraverso la erogazione degli assegni familiari, dopo averlo tassato senza tener conto dei figli». La erogazione dell’assegno ('impo­sta negativa') è valida solo nel caso in cui la famiglia sia incapiente (cioè non paghi in tutto o in parte l’I­re).
Anche la coincidenza del clou dell’iniziativa, avvia­ta a fine ottobre, con l’avvio della campagna eletto­rale si presta ad uno sviluppo positivo, come ha e­videnziato il presidente Giacobbe, perché la peti­zione per il fisco diviene il «portale» di alcuni punti essenziali che il 'cartello' delle famiglie chiederà di inserire nei programmi delle forze politiche. Per que- sto il Forum ha domandato un incontro a tutti i se­gretari dei partiti. «Proprio l’attuale trattamento fiscale dei genitori con figli – ha aggiunto la Soave –, fa capire che la fa­miglia non è considerata un soggetto sociale, ma so­lo un soggetto privato. Il soggetto tributario è l’indi­viduo ed è tassato indipendentemente dal numero dei carichi che mantiene». Si tratta di superare, quin­di, una logica di interventi «assistenzialistici», mi­sure «palliative se non propagandistiche».
Il punto centrale da prendere in considerazione quando si parla di capacità contributiva della fami­glia, dunque, non è solo il reddito, ma il numero del­le bocche che con quelle entrate devono essere man­tenute. Infatti come dimostrano molte indagini l’a­vere prole diviene in Italia causa di povertà. «I figli devono essere considerati un investimento – ha in­sistito la Soave –, il cui lavoro pagherà le pensioni di domani. Inoltre la famiglia è tutelata dalla Costitu­zione, la petizione popolare, quindi, non fa altro che risvegliare la consapevolezza dei suoi diritti, diritti che non vengono rispettati».
Nel sistema vigente è garantita l’equità verticale dal­la progressività dell’aliquota per cui chi più guada­gna, paga più tasse. Non è invece assicurata l’equità orizzontale, per cui chi ha dei carichi familiari non può pagare le stesse tasse di chi non li ha. Ecco quindi la proposta di ren­dere deducibile dall’imponibile il minimo vitale per ogni familiare a carico.
«Con questa conferenza stampa ini­zia la campagna elettorale del Fo­rum non per eleggere dei candidati ma per ottenere questa importante modifica del sistema fiscale», ha det­to l’altro vicepresidente, Barbaro. In­fatti le famiglia italiane e le associa­zioni che le rappresentano certa­mente non considereranno «inin­fluente » il fatto che un partito rece­pisca o meno questa proposta.
Nel momento in cui si avvia la campagna elettora­le, comunque il 'cartello delle famiglie ci tiene a pre­cisare la sua indipendenza. «Rimaniamo assoluta­mente autonomi da un punto di vista politico e par­titico, non siamo collaterali a nessun partito o mo­vimento », ha sottolineato Giacobbe, tant’è che par­lamentari che condividono le proposte delle fami­glie sono presenti in partiti dei diversi schieramen­ti. Nelle elezioni del 2006, di essi 110 hanno sotto­scritto il manifesto programmatico del Forum.
A sostenere la mobilitazione sono più di settanta tra associazioni familiari e realtà del mondo cattolico, tra cui cinquanta sono membri del Forum. Partico­larmente attivi nella raccolta delle firme saranno i 20 comitati regionali del 'cartello' delle famiglie.
Il presidente Giacobbe: una politica giusta dovrebbe rendere deducibile dall’imponibile il minimo vitale per ogni familiare a carico


GROSSMAN E GLI ORRORI DEL ’900
Avvenire, 9.2.2008
PIGI COLOGNESI
«Ancora una volta siamo di fronte al mondo e a noi stessi, a farci le domande più difficili'. Così, senza preamboli e senza sfumature, il regista russo Lev Dodin annuncia il suo spettacolo «Vita e destino», tratto dal capolavoro di Vasilij Grossman, in scena al Piccolo di Milano dal 12 al 16 febbraio.
Non sarà facile partecipare ad un evento tanto fulmineo e per di più recitato in russo con sovratitoli in italiano. Ma sono d’incitamento la nota maestria di Dodin e alcune manifestazioni di contorno: due incontri con studiosi e con lo stesso regista e, soprattutto, la splendida mostra già approntata a Torino in occasione del centenario della nascita di Grossman. A tutti resta il suggerimento di prendere in mano il grande romanzo della battaglia di Stalingrado. È lì, nelle fitte pagine di «Vita e destino», che siamo posti 'di fronte al mondo e a noi stessi, a farci le domande più difficili'. Quali?
Ne scelgo tre. Qual è il criterio adeguato per leggere la storia?
Grossman era perfettamente fornito dell’armamentario ideologico comunista per a leggere l’immane scontro di Stalingrado in termini di buoni (i sovietici) da una parte e cattivi (i nazisti) dall’altra. Non fece confusione tra aggressori e aggrediti, tra invasori che avrebbero ridotto l’umanità a un lager e eroi russi che difendevano la patria e la possibilità di un futuro umano. Ma si accorse che questo non dava ragione di tutti gli elementi. Scoprì, infatti, che un’ombra malvagia accomunava l’odio nazista a quello bolscevico. L’ombra dell’ideologia, cioè dell’assoluto non rispetto della realtà, interpretata ed usata (compresa quella umana) come pura materia per la 'realizzazione dell’idea'. Che faccia abbia l’idea-idolo non è rilevante per la vittima il cui sangue viene immolato a quel simulacro. Altre due domande le traggo dal titolo del romanzo. Cos’è la vita? Sembra quasi impudico affidare alla labile pagina di un quotidiano un simile quesito. Che del resto viene sempre più ributtato indietro in lontananze tanto intime da diventare irraggiungibili, in penombre così confuse che finiscono per spegnerlo.
Grossman, invece, ce lo mostra ad ogni pagina del romanzo.
Tutti i suoi personaggi hanno esplicitamente od implicitamente nel cuore e spesso sulle labbra la 'più difficile' delle domande: cos’è la vita? Non il servizio all’ideologia, non il pensiero corretto, non la capacità intellettuale e, almeno nell’accezione romantica, neanche l’amore. La vita è bontà. Termine desueto, sempre a rischio di melensaggine. Eppure è lei, la bontà, la forza per cui il mondo non crolla nel caos totale. Per la bontà la vecchia contadina russa salva la vita al soldato tedesco morente, per lei il capitano si sacrifica perché due giovani innamorati possano amarsi, in lei si può trovare il coraggio di non piegarsi davanti al potere o, se lo si è fatto, di rialzarsi. Potere; ecco la terza domanda: il destino ha il volto di un potere cieco che travolge tutto? La risposta di Grossman, che avrebbe avuto tutte le ragioni per una simile amara conclusione, è semplice: no.


There Will Be Blood: «Io, spietato petroliere nella corsa all’oro nero» Avvenire, 9.2.2008
DA BERLINO VINCENZO SAVIGNANO
U na cosa è certa: è gia storia del cinema la faccia spigolosa grondante petrolio di Daniel Day- Lewis. È l’immagine simbolo di There Will Be Blood, il film presenta­to ieri in concorso alla Berlinale. Da­niel Plainview, il protagonista, inter­pretato dall’attore londinese, osserva un pozzo che sta bruciando; la tele­camera si sofferma sul suo viso defor­mato dalla rabbia e dalla fatica e sol­cato da petrolio misto a sangue. E proprio il binomio petrolio-sangue a caratterizzare tutto il film: «spesso il petrolio è stato definito il sangue del­la terra – ha spiegato il regista e sce­neggiatore della pellicola, Paul Tho­mas Anderson – e il protagonista è pronto a tutto anche a far scorrere sangue pur di raggiungere il suo o­biettivo: trovare petrolio sotto la Ca­lifornia ». Plainview è un minatore ambizioso e spietato dell’America d’inizio 900. Dopo aver tentato vanamente la cac­cia all’oro, intuisce il grande affare dell’oro nero. Con pale, picconi e sec­chi inizia a scavare la terra per cerca­re petrolio. Il regista Anderson mo- stra anche i pericoli e il lavoro este­nuante a cui si sottoponevano i pri­mi cercatori.
Ha toccato con mano la durezza del­la vita di un minatore e dei primi cer­catori di petrolio l’attore Daniel Day­Lewis che in conferenza stampa ha raccontato di essersi rotto una co­stola mentre girava un scena in cui doveva cadere in un pozzo. Lewis ha anche ammesso che interpretare Plainview è stata una delle parti più difficili e faticose della sua carriera. «Non è stato facile calarsi in quei pan­ni – ha aggiunto – Perché Plainview è un uomo violento, ambizioso. Ma sic­come sono convinto che per recitare la vita di un altro bisogna bisogna vi­verla, mi sono trasformato in un es­sere brutale». Plainview infatti si ar­ricchisce calpestando e imbroglian­do chiunque gli capiti a tiro, in parti­colare la povera gente di alcuni vil­laggi che convince a vendere la loro terra ricca di petrolio per pochissimi soldi. Plainview è anche un uomo so­lo. Le uniche persone con cui ha un legame sono il figlio H.W e il fratellastro Henry, ma nel corso della vicenda rinnegherà il primo ed ucciderà il secondo. Parte della critica ha già descritto There Will Be Blood, che uscirà a febbraio nelle sale italiane con il titolo Il Petroliere, come un film che tenta anche di raccontare la famiglia e la religione negli Stati Uniti all’inizio del XX secolo. Il coprotagonista è il giovane e bravo Paul Dano che interpreta la figura ambigua di un giovane pastore evangelico che inizialmente tenta di redimere Plainview per poi rivelarsi anch’egli assetato di denaro. There Will Be Blood è stato candidato ad otto Oscar, anche alla Berlinale è in lizza per l’Orso d’Oro. Ma questa pellicola prima di tutto ha confermato che Daniel Day-Lewis, già insignito del Golden Globe per questa interpretazione, è un attore in grado di trasformare in eroe, positi­vo o negativo che sia, qualunque per­sonaggio interpreti.



Febbraio 2008, Mondo e Missione, Ho incontrato Cristo nella steppa" Chiara Zappa


15.02.2008, Governo, enti locali, cittadini. Da questo modello ci guadagnano tutti, Giorgio Vittadini, Vita