Nella rassegna stampa di oggi:
1) Papa: Quaresima, combattere con Cristo il male che è noi
2) Preservare l’ampiezza tellurica di sommovimento delle coscienze
3) Andreoli: viaggio tra le sentinelle del sacro
4) Quale avvenire per il cristianesimo?
5) Il senso etico dello sport: la vicenda di Oskar Pistorius
6) «Gender, pretesa contro l’etica e contro la natura»
7) Algeria: Giro di vite sui cattolici: applicata la nuova norma sui culti
Papa: Quaresima, combattere con Cristo il male che è noi
Benedetto XVI esorta a “non scaricare il problema del male sugli altri, sulla società o su Dio, ma riconoscere le proprie responsabilità e farsene carico consapevolmente”. La coincidenza con il 150mo anniversario dell’apparizione della Vergine di Lourdes ed il suo invito alla conversione.
Città del Vaticano (AsiaNews) - Affrontare il male che è presente in ognuno, riconoscendo le proprie responsabilità, senza addebitarne agli altri le cause. Questo il vero senso dell’entrare in Quaresima che, nella prima domenica di questo tempo liturgico, è stato ricordato da Benedetto XVI nella riflessione rivolta alle 40mila persone presenti in piazza San Pietro per la recita dell’Angelus, in una giornata luminosa.
La lotta da affrontare insieme a Cristo contro il male, contro satana, che rappresenta dunque il significato della Quaresima, assume quest’anno un aspetto particolare in quanto cade a 150 anni dalla apparizione della Vergine di Lourdes. Quel suo messaggio, “convertitevi e credete al Vangelo, pregate e fate penitenza”, ha ricordato Benedetto XVI, echeggia quello di Gesù ed è la traccia da deguire in questo periodo.
Entrare in Quaresima, dunque, nelle parole del Papa “significa iniziare un tempo di particolare impegno nel combattimento spirituale che ci oppone al male presente nel mondo, in ognuno di noi e intorno a noi. Vuol dire guardare il male in faccia e disporsi a lottare contro i suoi effetti, soprattutto contro le sue cause, fino alla causa ultima, che è satana. Significa non scaricare il problema del male sugli altri, sulla società o su Dio, ma riconoscere le proprie responsabilità e farsene carico consapevolmente. A questo proposito risuona quanto mai urgente, per noi cristiani, l’invito di Gesù a prendere ciascuno la propria ‘croce’ e a seguirlo con umiltà e fiducia (cfr Mt 16,24)”.
“La ‘croce’, per quanto possa essere pesante - ha proseguito, con voce leggermente rauca - non è sinonimo di sventura, di disgrazia da evitare il più possibile, ma opportunità per porsi alla sequela di Gesù e così acquistare forza nella lotta contro il peccato e il male. Entrare in Quaresima significa pertanto rinnovare la decisione personale e comunitaria di affrontare il male insieme con Cristo. La via della Croce è infatti l’unica che conduce alla vittoria dell’amore sull’odio, della condivisione sull’egoismo, della pace sulla violenza. Vista così, la Quaresima è davvero un’occasione di forte impegno ascetico e spirituale fondato sulla grazia di Cristo”.
Benedetto XVI ha poi ricordato che quest’anno l’inizio della Quaresima “provvidenzialmente coincide con il 150mo anniversario delle apparizioni di Lourdes”. “Il messaggio che la Madonna continua a diffondere a Lourdes richiama le parole che Gesù pronunciò proprio all’inizio della sua missione pubblica e che noi riascoltiamo più volte in questi giorni di Quaresima: ‘Convertitevi e credete al Vangelo’, pregate e fate penitenza. Accogliamo l’invito di Maria che fa eco a quello di Cristo e chiediamoLe di ottenerci di ‘entrare’ con fede nella Quaresima, per vivere questo tempo di grazia con gioia interiore e generoso impegno. Alla Vergine affidiamo anche i malati e quanti se ne prendono amorevole cura. Si celebra infatti domani, memoria della Madonna di Lourdes, la Giornata mondiale del malato. Saluto con tutto il cuore – ha detto ancora - i pellegrini che si raduneranno nella basilica di San Pietro”. Un incontro al quale, ha spiegato, non sarà presente. Da oggi, infatti, il Papa comincia gli esercizi spirituali, che proseguiranno per tutta la settimana. In questi giorni, come di consueto, tutti gli incontri del Papa sono sospesi, compresa l’udienza generale di mercoledì.
LA MORATORIA CONTRO L’ABORTO NELLA PROSSIMA CAMPAGNA ELETTORALE
Preservare l’ampiezza tellurica di sommovimento delle coscienze
DAVIDE RONDONI
Avvenire, 10.2.2008
C’è un merito nella iniziativa di moratoria sull’aborto che, lanciata dal quotidiano Il Foglio, ha raccolto la pronta disponibilità di tantissimi che già la pensavano e operavano nello stesso senso, e ha allargato i confini di una inquietudine giusta dinanzi al delicatissimo tema del diritto alla vita. C’è il merito di aver fatto emergere in un momento in cui il dibattito pubblico sembrava interessato solo a faccende di faziosità e di bilancini partitici, una grande e drammatica questione razionale e morale. Una questione primaria. Di gran valore sociale. Una di quelle che graffiano la vita reale, il ventre, il cuore reali di tantissima gente.
Insomma il merito di aver indirizzato lo sguardo dove si formano i movimenti iniziali della coscienza, in quella penombra della libertà da cui dipende la qualità della vita personale e sociale, molto di più che dalle limature alle leggi elettorali o dalla organizzazione dei poli.
È un bell’esempio, come hanno sottolineato anche i pastori della Chiesa, di occuparsi del bene comune, senza i vecchi, barbosissimi e inutili steccati tra laico e cristiano. Perché è un modo di aiutarsi ad aprire meglio gli occhi. Un modo di braccare le ideologiche cecità. E di stanare l’accomodante ragionare che si tiene a distanza dai fatti e dalla realtà. Un’azione di quelle a cui erano inclini figure inquiete e realiste come Pasolini e Testori, e che ha raccolto un consenso ampio e vitale.
E ora occorre a mio avviso stare in guardia perché una grande provocazione alla libertà e alla ragione non divenga faccenda di schieramento partitico. Non diventi palla o straccio da gettarsi in faccia l’uno schieramento con l’altro, l’un partito con l’altro. Occorre preservarne l’ampiezza tellurica di sommovimento, la ferita traversante, il morso dell’esperienza contro le vecchie e nuove ideologie. Il che non significa chiudere questa faccenda nel limbo dei dibattiti, o peggio nel libro dei richiami e delle buone intenzioni senza seguito operativo. C’è chi si sta chiedendo come trasferire il sommovimento della moratoria sull’aborto nel campo diretto dell’azione politica. È una sacrosanta, inevitabile conseguenza. È giusto che tale domanda sia posta e discussa da più parti. Infatti sul 'come' occorre stare attenti, tantopiù in un momento in cui la rapida evoluzione di una crisi di governo e il ridisegnarsi delle aggregazioni in vista delle elezioni rischia di appiattire tutto, e di confondere le intenzioni e gli effetti. E di far diventare anche le più serie intenzioni carne da macello in un dibattito tutto spostato sul fronte immediato delle elezioni. Lì dove tutti sono impegnati a scavarsi trincee, nidi di mitraglia, postazioni sicure.
Intorno alla moratoria c’è un sapore di libertà e di inquietudine salutare. Si può chiamarlo sommovimento educativo. C’è qualcosa che va fatto crescere. Le scelte in campo politico a volte possono aiutare a limitare le barriere invece che a erigerle. Il popolo che ha trovato voce nella moratoria è fatto di gente in gran parte abituata a darsi da fare. Che sa rischiare anche in pubblico la faccia, e non solo, a causa dei propri convincimenti. Non è una razza di tiepidi. Né una comitiva di filosofi in gita nei territori della morale o della politologia. È gente che sa che ad ogni giudizio o segue un azione conseguente, o si è inutili e ridicoli.
Il modo con cui portare il gran sommovimento della moratoria nel campo dell’azione politica ha dunque da esser saggio e adeguato allo scopo, fantasioso e pieno di futuro.
Una grande provocazione alla ragione non divenga schieramento partitico
CHIESA E SOCIETA’ Sacerdoti - Andreoli: viaggio tra le sentinelle del sacro
Avvenire, 10.2.2008
LO PSICHIATRA
Il prete aiuta a rispondere alla domanda inevasa di trascendente. È essenziale che qualcuno se ne occupi prima che la ricerca prenda le strade dell’irrazionale e dell’evasione.
C’è chi ne sminuisce la figura, per una reazione laicista a una Chiesa che va al cuore dell’umano
IL PARROCO
Ognuno di noi deve convivere con le proprie fragilità. La grazia lo attrezza ad affrontarle, ma non gli evita di farci i conti ogni giorno. (...). Il Papa ha centrato un problema cruciale: essenzialmente oggi c’è bisogno di speranza e il sacerdote può offrirla
DI FRANCESCO OGNIBENE
Vittorino Andreoli ha di nuovo la valigia pronta. Dentro stavolta ci ha messo una sfida in grado di far impallidire quelle, pur ambiziose, affrontate sinora insieme ai lettori di Avvenire nei suoi precedenti viaggi, il più recente quello domenicale dei «Principia» dentro il male oscuro che fa traballare i cardini della nostra civiltà. Adesso il celebre psichiatra ha in mente di condurre una meticolosa esplorazione attorno alla figura del prete, ma nella sua valenza sociale. Per quel risvolto della vita del prete che riguarda noi. E come sempre non vuole partire da solo: chiede infatti che a ogni passo ci siano lettori che gli rispondono, replicano, sottolineano questo o quello, rilanciano, obiettano... Perché la sua idea è che i preti siano oggi più necessari che mai a una società smarrita e che invece sembra far di tutto per ridimensionarli. E volendo spiegare la rotta che ha in mente ha chiesto che – prima di partire da mercoledì ogni settimana in questa nuova avventura intellettuale – a dialogare con lui ci fosse proprio uno di loro, un semplice parroco, come a voler testare la sua intuizione. E don Gilberto Donnini, prevosto di Varese, già parroco di Somma Lombardo e per alcuni anni portavoce del cardinale Martini, ha accettato di verificare le carte del viaggio, quasi a nome di tutti i lettori, a partire dai suoi confratelli.
Li abbiamo fatti incontrare nella redazione milanese di Avvenire, lo psichiatra infervorato per coinvolgere nelle sue idee e il navigato parroco, incuriosito e affabile. Questa è la sintesi del loro intenso colloquio.
ANDREOLI: «Ho in mente di focalizzare la mia attenzione sul sacerdote. Preciso subito che voglio scrivere di lui non per farne l’anatomia ma perché lo vedo – laicamente – come una figura chiave della società di oggi, un personaggio interessante, pieno di legami. Mi appare tanto significativo da farmi desiderare di parlarne non come un’entità a se stante ma in relazione a 'noi': tutti noi, nessuno escluso. In una civiltà che a me pare minacciata dal disfacimento dei grandi princìpi che l’hanno sin qui sostenuta l’uomo tocca una radice che gli è indispensabile: il sacro. Mai come in questa società, nella quale assistiamo al disgregarsi della ragione e di concetti base a lungo dati per ovvi, vedo un grandissimo bisogno di sacro. Tutto ciò che è razionale suscita la curiosità di capire ma non richiede alcuna partecipazione emotiva. La sacralità, viceversa, chiama in causa i nostri sentimenti. Veder crollare la ragione getta l’uomo contemporaneo nella paura e nella solitudine, facendolo sentire in balìa di forze misteriose e riconducendolo verso il sacro, che lo mette in grado di percepire il senso della vita. La risposta a questa domanda di sacro, avvertita da tutti, è presente nella religione. Per questo affermo che il sacerdote è un personaggio centrale, e lo è per chiunque. Ma ho già parlato troppo, don Gilberto: sono curioso di sapere cosa ne pensa».
DONNINI: «Il suo discorso contiene una verità profonda. Proprio perché si trovano davanti a una cortina fatta di realtà ed esperienze sempre più inspiegabili, le persone che incontro nel mio ministero elaborano due tipi di reazioni. La prima è quella che li porta a cercare sempre il 'colpevole' proprio per spiegarsi quel che gli appare indecifrabile, riconducendolo a categorie semplici per poi poterlo rimuovere. Una seconda reazione è il tentativo di esorcizzare la realtà incancellabile per eccellenza, la morte, oggi sempre più esclusa dall’orizzonte esistenziale e sociale. Ma sono sforzi senza esito, operazioni ingenue. Su una cosa però non sono del tutto d’accordo con lei: la ricerca del sacro, che pure c’è, porta molti fuori pista. Davanti all’inspiegabile in tanti prendono la strada della magia e non quella del prete...».
ANDREOLI: «E lei, da sacerdote, come vede oggi la figura del sacerdote? ».
DONNINI: «Il prete è un uomo del suo tempo, vive dentro tutte le situazioni che lei ha descritto, e condivide le difficoltà della gente. Da tempo mi sono convinto che solo chi va a leggere i problemi e le fatiche del prete riesce a capire qualcosa in più della realtà di oggi».
ANDREOLI: «È verissimo, ecco perché dico che è un vero 'personaggio' della realtà di oggi».
DONNINI: «Mi lasci dire qualcosa in più, da parroco. Con l’ultima enciclica, il Papa ha centrato un problema cruciale: essenzialmente oggi c’è bisogno di speranza. Il prete può essere l’uomo della speranza, che sa offrire cioè la risposta alla ricerca di sacro. Attenzione però a non banalizzare: di speranze nella vita ne abbiamo molte, ma l’esperienza mostra che hanno il fiato corto, e spesso sono tanto fragili da far pensare che ci debba essere una speranza più grande. Per quanto nobili siano – la famiglia, il lavoro – sono un segno che rimanda ad altro: la speranza definitiva cui il nostro cuore è chiamato. Ecco: oggi il prete è tra la gente per dire che questa speranza c’è».
ANDREOLI: «Ha ragione! Ma vorrei dirle di non deprezzare le 'piccole speranze', alle quali l’uomo si attacca. È vero, sono segni, come dice lei. Ma anche la speranza più grande, pur essendo già una risposta, è essa stessa mistero perché rimanda a Dio. E qui veniamo a un punto chiave: in questa fase storica credenti e non credenti hanno in comune la non accettazione dell’ateismo, opzione che nega una dimensione alla quale ci rimanda la stessa vita quotidiana. I credenti hanno avuto il dono di incontrare Dio, chi non crede – come me – lo sta cercando. Vedo i segnali di un grande bisogno di Dio che, da possibilità ancora vaga per qualcuno, diventa reale e vera per tanti. In una società sperduta come la nostra c’è un baricentro sicuro: ed è il sacro. Mi pare indispensabile che ci sia qualcuno che se ne preoccupa prima che la sua ricerca scomposta prenda le strade dell’irrazionale, dell’evasione, dello stordimento. E questo qualcuno è il prete. Eppure, vedo interpre- tazioni che ne sminuiscono anche pesantemente la figura e il ruolo, magari per una forma di reazione laicista a una Chiesa che parla chiaro e va al cuore della cultura e dell’umano...».
DONNINI: «Quando celebra la Messa il prete compie un gesto che dà senso a tutto. Ai bambini della prima comunione leggo la pagina evangelica dei discepoli di Emmaus. La sera di Pasqua camminavano tristi, delusi. Sembrava tutto finito. Tra la gente incontro spesso questo stato d’animo: si pensa che il Signore se ne sia andato, che ci abbia lasciati soli. Solo nell’Eucaristia arriva il momento in cui lo si riconosce: Gesù è ancora qui, e ci accompagna in tutti i passi della vita. Celebrando la Messa sono chiamato a rendere presente il Signore come nella cena di Emmaus. I due discepoli che corrono verso Gerusalemme di notte con le fiaccole accese sono la commovente fotografia del cristiano: l’hanno ri- trovato, devono dirlo a tutti».
ANDREOLI: «Sa che questa scena riassume il senso del viaggio che ho in mente? Quando Dio si nasconde, il bisogno del sacro diventa impellente, e si fa largo la tristezza. Il prete è colui che fa riconoscere Dio quando si era pensato di averlo perso di vista».
DONNINI: «Lo dico con semplicità: il sacerdote facendo questo non si sente chissà chi, ma solo un pover’uomo che a un certo punto, inspiegabilmente e senza merito, è stato chiamato a realizzare questa cosa grande e che non è assolutamente in grado di compiere da solo. Se nella mia vita di prete avessi portato avanti un discorso personale, una mia idea, interessi propri, avrei mollato subito. Se sono arrivato a quarant’anni di Messa è perché quello che dico e faccio non è mia proprietà: qualcuno mi ha chiamato, e io sono qui per lui, non per me. Questo mi dà fiducia anche nelle situazioni più difficili: se mi ha chiesto proprio questo, mi darà anche la forza per farlo, no? Questa è la vocazione!».
ANDREOLI: «Immagino la domanda dei lettori, e forse anche la sua, don Gilberto: 'Ma come, Andreoli dice di essere un non credente, e ci vuole parlare di preti?'. Eppure per me questo è un punto di forza. Anche perché interrogandomi sul percorso che ho in mente mi sono trovato a capire che io ai preti voglio un gran bene, davvero. E poi, ho qualcosa in comune: come loro, mi occupo delle persone più fragili, i malati, gli adolescenti... Se parlo del sacerdote, dopo aver studiato le figure più diverse della società, è perché forse può essere utile un punto di osservazione differente da quello 'interno'. Vorrei essere ancora più chiaro. Immagino che il desiderio di un vescovo sia di vedere tutti i propri sacerdoti santi. Io dico che vorrei vedere tutti i preti sereni, persino felici. Non credo infatti che siano le condizioni ambientali a determinarne lo stato d’animo, ma qualcosa di più profondo. E la società stessa sarebbe più felice se tenesse in maggiore considerazione questa che è tra le figure oggi più necessarie».
DONNINI: «Un punto di vista come il suo può essere utile, ad esempio può aiutarci a essere testimoni credibili di quel che diciamo. Ogni prete, come ogni uomo, deve convivere con le proprie fragilità. La grazia lo attrezza ad affrontarle, ma non gli evita di farci i conti ogni giorno. Ricordo una conversazione quaresimale del cardinale Martini sull’ordine sacro: i preti, diceva, tante volte sono in difficoltà perché la gente gli fa domande che non hanno niente a che vedere con il loro ministero. Si cerca di far fronte a qualsiasi cosa, ma in una grande parrocchia come la mia sono costretto a fare tante cose che appartengono a professioni civili. E questo può finire col mettere a disagio un sacerdote, che sa di essersi fatto prete per ben altro».
ANDREOLI: «In realtà lei conferma che c’è spazio per la mia riflessione. Quando parlo agli insegnanti dico che non voglio spiegargli come esercitare il loro mestiere ma solo comunicare cosa so dei giovani. Mai mi rivolgerei ai preti per dir loro cosa fare! Mi impressiona una società che apparentemente snobba il prete, quando non mostra persino fastidio, indifferenza o disprezzo per quello che considera un fallito, e che allo stesso tempo esprime autentica cattiveria davanti a un sacerdote che palesa qualche lato di debolezza umana. Lo dico con chiarezza: ci sono preti il cui comportamento è apparso inaccettabile. Certe loro mancanze vanno però inserite nelle categorie del patologico, pedofilia inclusa: gesti gravi sono compiuti per un disturbo del comportamento. Ma la società che abitualmente rimuove il prete all’improvviso torna a trovarlo interessante quando fa scandalo, solo per giudicarlo e farlo a pezzi, senza muovere un solo dito per aiutarlo. La verità è che il sacerdote oggi viene lasciato solo. Ma io gli voglio bene proprio perché è un uomo, con tutte le mie fragilità. Oggi vorrei dire che questa persona va rispettata, da tutti, perché dà speranza anche a me».
DONNINI: «Il prete è solo e, allo stesso tempo, non lo è: c’è la sua comunità, una rete di amicizie, ma certo non ha quei legami e affetti che altri hanno. Avere amici per un prete è molto importante, così come vanno viste con interesse quelle esperienze di condivisione pastorale che oggi ci vengono prospettate. I preti sono pressati da un’infinità di urgenze... Lo dico a tutti, e anche a me stesso: in mezzo alla tempesta devo salvare un tempo per il silenzio e lasciare spazio al Signore. Otterrò di rimettere ordine nella mia vita, senza essere schiavo delle cose e restituendo un senso a tutto ciò che faccio. Io per primo faccio fatica, e capisco la difficoltà di chi non ce la fa. Ma proprio perché è faticoso è ancor più necessario farlo».
ANDREOLI: «Ecco perché vorrei che i giovani capissero che occuparsi del sacro non è buttar via il proprio tempo! Il fatto che il sacerdote sia un uomo che vuole imitare Cristo per me è già una cosa meravigliosa. Perché mai non si deve ammirare uno che per impegno ha preso l’imitazione di Gesù di Nazaret, uomo stupendo e, per il prete, Dio stesso fatto uomo? So anche che si tratta di un obiettivo tanto ambizioso da apparire irrealizzabile, ma ammiro il sacerdote perché si impegna per riuscirci. E propongo di riflettere su di lui, su una figura verso la quale ci deve essere rispetto anche da parte dei non credenti».
DONNINI: «È vero. Ogni volta che ho lasciato una parrocchia per assumere nuovi incarichi pastorali ho sempre ringraziato tutti, perché sono convinto che un prete è anche ciò che la sua gente lo aiuta a essere...».
ANDREOLI: «Mi permetta di aggiungere dentro la 'sua gente' chi, come me, non fa pare della comunità cristiana. Il sacerdote non è riservato ai credenti, così come non lo è Cristo. Il prete interessa anche me. E desidero parlare di lui».
DONNINI: «Allora la seguirò con attenzione, professore».
Dunque buon viaggio, a tutti.
Quale avvenire per il cristianesimo?
ROMA, sabato, 9 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'intervento pronunciato da monsignor Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, in occasione del dibattito-incontro su "L’avvenire del Cristianesimo", tenutosi il 24 gennaio al Centre Culturel Saint Louis de France di Roma.
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Nel corso di cinque settimane (fra Novembre e Dicembre 2007) il quotidiano La Croix si è interrogato sull’avvenire del cristianesimo in Occidente, rilevando motivi di inquietudine e ragioni di speranza. L’inchiesta offre un quadro, con cui sarà utile che si confronti chiunque abbia a cuore il futuro della causa del Vangelo, specialmente nei paesi di antica cristianità. Vorrei riflettere su questo quadro anzitutto allargando l’orizzonte di lettura e mostrando la singolare coincidenza di alcuni giudizi emergenti dall’inchiesta con diversi modelli interpretativi della crisi dell’Occidente, proposti nel Novecento. Vorrei quindi chiedermi - anche in vista del superamento di questa identificazione assoluta del cristianesimo con la cultura occidentale - quale compito si profili come il più urgente per i cristiani nell’immediato avvenire e quali priorità emergano per l’azione pastorale della Chiesa. Presenterò le mie riflessioni in un dittico: da una parte, la tavola “Occidente e Cristianesimo”, dedicata al conflitto delle interpretazioni e alla rilevanza della “riserva escatologica” della fede; dall’altra, la tavola delle “priorità per l’avvenire della coscienza cristiana”, dove toccherò le vie della “diakonìa”, della “koinonìa” e della “diakonìa”.
1. Occidente e Cristianesimo: il conflitto delle interpretazioni e la “riserva escatologica” della fede
Il destino dell’Occidente si è prestato alle interpretazioni più diverse, spesso tra loro in conflitto. Fra le metafore utilizzate non poche si muovono in direzione di un giudizio tragico, come ad esempio quelle di “tramonto” e di “naufragio”. È Oswald Spengler a privilegiare la categoria di “tramonto”: nata in opposizione alla modernità decadente, la sua opera Il tramonto dell’Occidente [1] ne è in realtà un estremo epigono. Essa intende dimostrare le tendenze dissolvitrici insite nella modernità occidentale, leggendo il processo in atto sotto il segno di un inevitabile declino: le due anime del Faust, la tecnica e la tragica, sono polarizzate a scapito della seconda. La svolta non può essere data per Spengler dalla democrazia, mera dittatura del denaro, né dalle ideologie del progresso schiave della tecnica, come il socialismo, ma da una tensione tragica, che riconcili storia e natura in un nuovo inizio. Non è difficile constatare come queste analisi abbiano potuto produrre terribili frutti, legati a letture ideologiche e violente tanto di destra, quanto di sinistra.
Ben diversa è l’origine della metafora del “naufragio”, scelta da Hans Blumenberg nella sua opera Naufragio con spettatore [2] come chiave di comprensione della condizione attuale dell’Occidente. Punto di partenza è il testo in cui Lucrezio presenta lo spettatore che dalla riva assiste rassicurato a un naufragio [3]: la contrapposizione tra la sicurezza della terraferma e il mare in tempesta, esprime la condizione “classica” dell’esistenza, certa di un punto di appoggio da cui poter guardare la scena della vita e del mondo. È questa certezza che si perde nel tempo della modernità: “Vous êtes embarqué”, dirà Pascal [4]. Il naufrago è ormai lo stesso spettatore: non c’è più lo stabile punto di vista a partire dal quale ci si possa porre come spettatori distaccati. L’onda, sulla quale andiamo alla deriva nell’oceano, siamo noi stessi. La condizione post-moderna, cui è approdato il viaggio dell’Occidente, consiste insomma nel nuotare da naufraghi in mezzo al mare della vita, cercando di costruire una zattera su cui rifugiarci.
I modelli interpretativi della crisi dell’Occidente, che ho voluto richiamare, presentano una convergenza impressionante con molti dei giudizi raccolti dall’inchiesta de La Croix sulla condizione del cristianesimo occidentale oggi: se all’idea di Occidente si sostituisce in essi quella di cristianesimo, la convergenza appare evidente. Ecco solo alcuni esempi di valutazioni, registrate dall’inchiesta a proposito del presente e dell’avvenire della vicenda cristiana: “déclin annoncé”, “pessimisme lancinant”, “enfouissement”, “glissement d’identité”… Sembra quasi che per non pochi Occidente e Cristianesimo si identifichino “tout-court” nella loro parabola di grandezza e di caduta: in questo senso, l’inchiesta ha colto un luogo comune presente in modo pervasivo in molti degli interpreti dell’attuale vicenda cristiana. È giusta, però, questa identificazione assoluta? Ed è giusto trarne la conseguenza che “declino dell’Occidente” significhi senz’altro “declino del cristianesimo”? O, invece, la “riserva escatologica” della fede non comporta sorprese che non sono quantificabili nei termini di un semplice giudizio storico o di una valutazione di processi culturali puramente mondani?
In realtà, è abbastanza facile osservare come proprio dalla dimensione religiosa e trascendente dell’esistenza umana siano nati alcuni dei processi più radicali di trasformazione e di crisi degli universi totalizzanti delle ideologie, che avevano occupato la scena centrale del “secolo breve” in Occidente. Il cristianesimo, lungi dall’identificarsi con la parabola della modernità ideologica, ne è stato spesso la più forte riserva critica. Così, Dietrich Bonhoeffer - il teologo morto martire della barbarie nazista - esprime sulla parabola dell’Occidente negli ultimi due secoli un giudizio estremamente importante per valutare la differenza cristiana. Il fallimento epocale delle ideologie cederà il posto secondo lui a un relativismo devastante, a una vera e propria “décadence”, dove, poiché non si ha fiducia nella verità, la si sostituisce con i sofismi della propaganda. La decadenza priva l’uomo della passione per la verità, lo spoglia di quelle motivazioni forti che l’ideologia ancora sembrava offrirgli. A trionfare è il nichilismo, in forza del quale gli uomini sfuggono al dolore infinito dell’evidenza del nulla, fabbricandosi maschere, dietro cui celare la tragicità del vuoto. Questa, però, è anche la situazione in rapporto alla quale Bonhoeffer propone la centralità del Dio sofferente e il Vangelo del cristianesimo non religioso, in chiaro e forte contrasto con altre risposte teologiche, a suo avviso ancora malate di ideologia e compromesse con la malia dello spirito moderno.
Analogamente, e nello stesso contesto (Berlino, 1939), il pensatore cattolico Romano Guardini, costretto dal regime nazional-socialista a lasciare l’insegnamento, svolge un ciclo di conferenze su Le cose ultime (1940) [5], che si offre come una testimonianza straordinaria di “scrittura in codice” - o “scrittura reticente” - , che in un linguaggio apparentemente estraneo alle vicende dell’ora veicola un potenziale critico ben comprensibile agli uditori del tempo. Davanti a una visione del mondo che presume di abbracciare l’intero orizzonte della realtà, il messaggio della fede circa le cose ultime si offre come irriducibile ad una spiegazione soltanto intramondana, come quella “riserva escatologica” che funge da campanello di allarme nei confronti di ogni pretesa esclusiva dell’ideologia. Il primato riconosciuto al Dio personale e trascendente, è confutazione dell’obbedienza assoluta predicata al “Führer”. È a Dio solo, giudice dell’uomo e della storia, che va data fiducia ed obbedienza, in vita come in morte. Lungi dal declinare parallelamente al tramonto dell’Occidente, il cristianesimo potrà rigenerarsi nella sua natura evangelica, centrata sulla buona novella del Dio crocifisso e risorto per noi.
È qui che le voci di Bonhoeffer e di Guardini rivelano la loro forza profetica, che le rende significativa testimonianza del ruolo svolto dalla fede cristiana nell’effettivo sviluppo dei processi critici del XX secolo in Occidente: nello scarto fra potere e valore, essi non esitano a scegliere il valore, come hanno fatto i martiri e quanti nella storia hanno opposto resistenza al potere in nome dell’obbedienza a Dio solo. C’è un primato inalienabile del bene e del vero, cui nessun potere di questo mondo ha diritto di sostituire altri primati: e se questo era inquietante e profetico nella crisi europea di sessant’anni fa, non lo è di meno per la cultura debolista e rinunciataria della nostra cosiddetta post-modernità, che con l’abbandono delle sicurezze ideologiche entrate in crisi abbandona sovente la passione della verità e il senso di un orizzonte più grande, capace di fondare l’impegno per la giustizia e il bene e la responsabilità verso altri. Queste voci cristiane ci aiutano così a cogliere la straordinaria rilevanza che il Dio vivo e trascendente ha anche per noi, eredi del naufragio della cultura ideologica dominante fino a pochi anni fa, e bisognosi di una speranza che ci porti oltre le nostre solitudini ed oltre ogni disimpegno possibile.
Sarà questo il compito del cristianesimo prossimo venturo nelle culture dell’Occidente? Sembrano rilevarlo non pochi segnali dell’inchiesta de La Croix: “Le passage d’un christianisme transmis de génération en génération, par une sorte d’appartenance passive, à une foi de libre choix, vécue comme une démarche délibérée d’adhésion, marque aujourd’hui les pays occidentaux hier encore dits ‘de chrétienté’” - “Par dizaines de milliers, dans la plupart des pays concernés, des adultes sont en route pour devenir chrétiens. Ils ne demandent pas le baptême pour adopter un corps de doctrines, mais pour adhérer à une personne qu’ils ont rencontrée comme vivante et source de vie dans leur existence: Jésus, découvert dans les Évangiles, à travers des chrétiens ou à l’occasion d’un moment fort de l’existence”... La diagnosi si condensa dunque in un compito, che tocca ogni credente, come la Chiesa nel suo insieme, e su cui si gioca l’avvenire del cristianesimo in Occidente: “Croire plus, croire mieux”. Era peraltro la sfida intuita più di quarant’anni fa dal Concilio Vaticano II nella Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes: “Legittimamente si può pensare che il futuro della umanità sarà riposto nelle mani di coloro che saranno capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza” (n. 31).
2. Un ordine di priorità per l’avvenire della coscienza cristiana: “martoria” – “koinonia” – “diakonia”
Come vivere e trasmettere queste ragioni di vita e di speranza? Come credere di più e credere meglio, affinché il mondo creda? Alcune priorità si profilano per la fede cristiana alle soglie del terzo millennio in Occidente: esse sembrano emergere, peraltro, in vari modi dall’insieme dell’inchiesta condotta da La Croix. Con una terminologia al tempo stesso antica e significativa per l’oggi vorrei ricondurle alle tre urgenze della “martyrìa”, della “koinonìa” e della “diakonìa”.
La via della “martyrìa” corrisponde a una rinnovata esigenza di spiritualità emersa nel compiersi della parabola dell’epoca moderna. La modernità aveva contrapposto la verità universale e necessaria della ragione e la verità contingente della vita, favorendo quel divorzio fra riflessione e spiritualità, che aveva reso spesso il discorso su Dio piuttosto arido e intellettualistico, caratterizzando al contempo la spiritualità in senso piuttosto sentimentale ed intimistico. L’epoca post-moderna spinge a superare questo fossato: l’alternativa che la fede oppone alle ideologie sta precisamente nella possibilità di sperimentare un rapporto personale con la Verità, nutrito di ascolto e di dialogo con il Dio vivo.
Lungi dall’apparire come fuga dal mondo, secondo la critica di moda negli anni dell’ideologia rampante, la dimensione contemplativa della vita e l’esperienza spirituale sembrano offrirsi come riserva di integralità umana e di autentica socialità. Concretamente, ciò significa che di fronte alla caduta dei grandi racconti dell’ideologia, propri della modernità, i credenti sono chiamati a testimoniare con la vita che ci sono ragioni per vivere e per vivere insieme e che queste ragioni ci sono state offerte in Gesù Cristo. Si tratta di ritornare al primato di Dio, riconosciuto nella preghiera e celebrato nella liturgia. C’è bisogno di cristiani adulti, convinti della loro fede, esperti della vita secondo lo Spirito, pronti a rendere ragione della loro speranza. Anche in base a queste considerazioni, si può supporre che l’avvenire del cristianesimo o sarà più marcatamente spirituale e mistico o potrà ben poco contribuire al superamento della crisi e al cambiamento in atto nel mondo. Con le parole di André Malraux, fatte proprie da Karl Rahner: “Il cristianesimo del XXI secolo o sarà più mistico o non sarà!”.
Accanto alla via della “martyrìa”, quella della “koinonìa” appare non meno necessaria: essa corrisponde alla nostalgia di unità che, sia pur in forma ambigua e complessa, si affaccia nei processi di “globalizzazione” del pianeta. In particolare, in Europa la disgregazione seguita al crollo del muro di Berlino e l’emergere violento dei regionalismi e dei nazionalismi sfidano le Chiese a porsi come segno e strumento di riconciliazione fra loro e al servizio dei loro popoli. La “folla delle solitudini” è il prodotto tipico del nichilismo della postmodernità: in rapporto ad essa ai cristiani è chiesto di testimoniare la possibilità dell’essere insieme, tutti responsabili nella Chiesa, del volersi comunione, rendendo la comunità accogliente, attraente, dove ci si senta amati, rispettati, riconciliati nella carità. Il mondo uscito dal naufragio dei totalitarismi ideologici ha come mai bisogno di questa carità concreta, discreta e solidale, che sa farsi compagnia della vita e sa costruire la via in comunione. In questo contesto, emerge una nuova attenzione alla “cattolicità”, intesa sia secondo il suo significato di universalismo geografico, reso più che mai attuale dai processi di “globalizzazione” del pianeta, sia secondo il senso di pienezza e totalità, che rimanda all’integralità della fede e della attualizzazione piena della memoria del Cristo: si può pertanto osare l’affermazione che il cristianesimo futuro o sarà più “cattolico”, e quindi pienamente ecclesiale e comunionale, o rischierà la totale irrilevanza in ordine alla proposta del Vangelo e alla salvezza del mondo.
Infine, la “diakonìa”, la carità vissuta nell’impegno per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato, appare come la terza grande priorità per il cristianesimo agli inizi del terzo millennio. L’intreccio delle sfide della giustizia sociale con quelle dei rapporti internazionali di dipendenza e con la questione ecologica appare con grande chiarezza quando si considerino i processi in atto nell’ottica della “globalizzazione”: i cristiani, presenti nei contesti più diversi del pianeta, sono certamente protagonisti privilegiati per tener desta una coscienza critica attenta a difendere la qualità della vita per tutti e capace di farsi voce specialmente di chi non ha voce e di fronteggiare le logiche esclusivamente egoistiche di molte delle grandi agenzie di potere economico e politico sul piano mondiale. In questo impegno, i credenti non dovranno contare su altri mezzi che su quelli della loro testimonianza e della vitalità della loro fede ed operosità evangelica. Non meno urgente appare il risveglio della coscienza della responsabilità ecologica e l’approfondimento di una spiritualità che tenga insieme l’impegno per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato.
I cristiani saranno insomma sempre più chiamati a farsi servi per amore, vivendo l’esodo da sé senza ritorno nella sequela dell’Abbandonato, costruendo la via in comunione, solidali specialmente ai più deboli e ai più poveri dei loro compagni di strada. L’avvenire del cristianesimo o sarà sempre più marcato dal primato della carità, e quindi dall’impegno per la giustizia e per la pace, o non sarà. Certo, questo stile di condivisione e di servizio solidale comporterà - sul piano del pensiero, come su quello della vita vissuta - la necessità di prendere posizione e di denunciare l’ingiustizia e il peccato, che ad essa soggiace: amare concretamente gli uomini significa anche capovolgere il loro modo di agire. Si tratta in ogni caso di mettere al primo posto non un interesse mondano o un calcolo politico, ma l’esclusivo interesse alla causa della verità di Cristo e della sua giustizia; si tratta in nome di questo di giocare la vita, compromettendola con la testimonianza, se necessario portando la croce, cercando sempre con tutti la via in comunione. Alla fede vissuta e pensata dei cristiani è chiesta, allora, l’audacia di idee e di gesti significativi ed inequivocabili nella sequela dell’Abbandonato della Croce: il cristianesimo del terzo millennio o sarà più credibile nella testimonianza della fede, della carità e della speranza, o avrà ben poco ascolto nel cuore dei naufraghi del “secolo breve”, che restano - nonostante tutto - alla ricerca del senso perduto, capace di dare sapore alla vita e alla storia, come Cristo nel suo crocifisso amore ha saputo fare per ciascuno, per tutti...
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1. Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeshichte, 2 vol.: 1918, 1922; nuova edizione 1923 (la traduzione italiana è di Julius Evola 1957; riedizione Parma 1991).
2. Schiffbruch mit Zuschauer. Paradigma einer Daseinsmetapher, Frankfurt am Main 1979 (traduzione italiana: Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, Bologna 1985).
3. Cf. Lucrezio, De rerum natura, II, 1-4.
4. Pensées, in Oeuvres complètes, éd. J. Chevalier, Paris 1954, n. 451 (= 233 Brunschvigc). Blumenberg pone questa frase in esergo al suo libro.
5. Die letzten Dinge, Mainz 19896 (traduzione italiana: Le cose ultime, Brescia 1997).
Il senso etico dello sport: la vicenda di Oskar Pistorius
ROMA, domenica, 10 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l'intervento di Carlo Valerio Bellieni, Dirigente del Dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Universitario "Le Scotte" di Siena e membro della Pontificia Accademia Pro Vita.
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La vicenda di Oskar Pistorius (v. video), l'atleta sudafricano che vuole partecipare alle Olimpiadi pur essendo disabile, ci chiede due osservazioni etiche.
La prima riguarda il valore dello sport nella società occidentale. Per questo rimandiamo al bellissimo documento: "Beyond therapy: biotechnology and the pursuit of happiness" del President's Council of Bioethics, di cui sottolineiamo la parte che riguarda lo sport. Quale è infatti il senso etico dello sport, per cui vale la pena gareggiare e impegnarsi? Sicuramente non il gusto della vittoria fine a se stessa, perché questa, pur desiderabile, può essere frutto di una visione egocentrica e supponente della competizione. Che oltretutto porta a vedere come "fallimento" il semplice non vincere.
Lo stesso dicasi per l'ottenimento di record, e tanto più per l'accumulo di denaro. Infatti c'è qualcosa di più nello sport che supera tutto questo, pur comprendendolo, e che ne determina la nobiltà. E' la ricerca continua, determinata e ragionevole del miglioramento di sé. Questo implica l'affermazione che migliorare le proprie prestazioni fisiche non è in antitesi al migliorare le proprie attitudini spirituali, anzi - in taluni sport in modo più evidente - migliorare le une aiuta a migliorare le altre: la capacità di disciplina, di sacrificio, di solidarietà con i compagni di squadra che emergono nello sport ben fatto sono un valore di cui la società non si può privare.
Certo, questo ha come presupposto che i risultati vengano ottenuti esprimendo al fondo le proprie capacità umane, non barando con l'aiuto di doping, steroidi o di una tecnologia che renda superfluo lo sforzo umano. Tutto questo è presente nello sforzo di Oskar Pistorius, che a buon motivo chiede di poter gareggiare a Pechino. Si può obiettare che lui usa uno strumento tecnico (una protesi) che altri atleti non hanno. Ma certamente questo non fa venir meno tutte quelle condizioni cui abbiamo ora accennato (impegno, solidarietà, disciplina) e ha come scopo quello di metterlo alla pari degli altri atleti.
Certo, gli altri atleti non corrono con strumenti meccanici. Ma, restando ancora da dimostrare che questi diano un vantaggio ad un atleta che non ha le gambe, qualora lo dessero è più importante decidere chi arriva primo al traguardo o favorire uno sport che vince i limiti della natura, esaltando l'umano, la possenza fisica, l'indomita volontà? Per questo chiediamo assolutamente di permettere a questo atleta di gareggiare a Pechino.
Sembra poi che le gesta di Pistorius abbiano incentivato la diffusione tra i ragazzi di un facsimile delle sue protesi, in una forma che può essere utile a chi invece ha entrambe le gambe, a scopo di divertimento, per fare corse in libertà e ad alta velocità. Non sappiamo se l'apparecchio esistesse da prima, ma dal record di Pistorius ha avuto un boom, e prevediamo un impulso nella ricerca di un miglioramento dell'attrezzo stesso.
Già: se la scienza non disdegna di approfondire la ricerca pregiudizialmente, perché pensa che alcuni malati semplicemente è meglio non considerarli, può trovare delle soluzioni utili per tutti proprio dall'impegno nella ricerca di soluzioni per i malati.
In altre parole, dagli studi sui disabili possono venire vantaggi per l'intera società. Bruno Nibbi, istruttore di Judo, racconta nel libro "La risorsa Down" (SEF Ed.) come l'inserire negli allenamenti accanto agli atleti normodotati degli atleti disabili abbia portato i primi a imparare tantissimo: l'autocontrollo, la disciplina, lo spirito di squadra.
Dalla cura e non dall'abbandono dei malati si sono trovati strumenti per la cura del dolore di tutti, delle medicine per tutti, delle soluzioni per la vivibilità delle città a vantaggio di tutti. E' una sfida che la nostra società, incline a lasciare le briciole a chi non è "normale" (e intendiamo per "non normale" non solo quelli che hanno gravi malattie, ma anche gli obesi, bassi, scarsi a scuola...) deve raccogliere: tutti siamo una risorsa.
BENEDETTO XVI E LA FAMIGLIA
«Fermiamo chi pretende di introdurre questo concetto non solo nelle leggi ma anche nei manuali scolastici. In Belgio già succede»
«Gender, pretesa contro l’etica e contro la natura» L’allarme dell’antropologa Margherite Peeters: «Un inganno culturale, vittime donne e giovani»
Avvenire, 10.2.2008
DA ROMA ANGELA NAPOLETANO
M argherite Peeters, direttrice dell’Istituto per le dinamiche del dialogo interculturale di Bruxelles, rilegge a voce bassa le parole pronunciate da Benedetto XVI nell’udienza che ha concluso i lavori del convegno organizzato dal Pontificio Consiglio dei laici per il 20° anniversario della Mulieris Dignitatem. «Ecco, ecco - esclama - il Papa è chiaro, anche se nel suo discorso quel termine non compare ». La parola a cui allude Peeter è 'gender': «quel processo di decostruzione antropologica e culturale contro Cristo e contro la Trinità - spiega - sempre più diffuso nelle nostre società».
Come definirebbe l’ideologia del 'gender'?
Di 'gender' si è cominciato a parlare nel 1995 durante la Conferenza internazione sulla donna, a Pechino. E non lo chiamerei ideologia perché, in genere, le ideologie presuppongono l’esistenza di un maestro. Come tutti i concetti post-moderni non ha una definizione chiara. Del resto, caratteristica principale della post modernità è proprio l’ambivalenza.
Come lo descriverebbe, allora?
Il 'gender' è la punta dell’iceberg della rivoluzione culturale femminista occidentale. Sotto questa punta c’è l’intera post modernità. Tutto è nato negli anni 70 quando il femminismo ha voluto distinguere il sesso dal 'gender', la diffe- renza biologica dai ruoli sociali. Era una rivolta contro la natura e l’identità sessuale. Il concetto di 'gender', oggi, indica infatti la possibilità di scegliere la propria identità sociale liberata da tutte le norme religiose, morali e naturali. Quindi anche sessuali.
Cosa provoca il concetto di 'gender' sull’uomo?
La distruzione della struttura antropologica che ci è stata data dal Creatore. Struttura trinitaria, fatta per la comunione nella differenza.
Essendo, come lei dice, il frutto di una rivoluzione occidentale, 'il gender' riguarda solo alcuni Paesi o ha portata globale? Risparmia, per esempio, l’Africa?
Diciamo che è un frutto della rivoluzione culturale occidentale, quella del maggio 1968, che però stiamo imponendo ad altre culture, e in Africa in particolare. È una sorta di neocolonialismo molto aggressivo, che minaccia di cambiare rapidamente anche le culture non occidentali delle quali abbiamo bisogno per riscoprire la nostra anima, se pensiamo, per esempio, che in Africa hanno mantenuto un senso della vita, della maternità, della complementarietà uomodonna e della comunità umana che l’individualismo e l’edonismo radicale occidentale hanno cancellato.
Chi, nella società, è particolarmente esposto a questa ideologia?
I giovani, prima di tutto. Perché è un concetto che si inserisce nelle politiche, nelle leggi ma anche nei manuali scolastici. È nelle scuole, come per esempio avviene in Belgio, che si insegna ai bambini la possibilità di scegliere il proprio orientamento sessuale. Poi ci sono le donne. Il 'gender' esprime una rivolta contro la maternità, attacca lo stato di sposa di ogni donna.
Quanta consapevolezza c’è del fenomeno e dei suoi effetti?
C’è un’ignoranza abissale. Dopo la conferenza di Pechino, il concetto è stato adottato a livello sovranazionale ma nei singoli Paesi è mancato il dibattito. Le cose si sono fatte in modo sottile, nascosto, senza cercare il consenso. Siamo tutti influenzati da questa ideologia ma non ci preoccupiamo, per esempio, di seguirne gli sviluppi a livello internazionale o di studiarne gli effetti sui giovani.
Cosa contribuisce allo diffusione del concetto di gender nella società?
I media, non c’è dubbio. Questi fanno parte di una strategia articolata. In 'Gender trouble', opera del 1990, Judit Butler invita a usare i media, il più possibile, proprio per moltiplicare i gender, per aprire l’uomo a tutte le possibilità di scelta.
Come e cosa può contrastare questo 'meccanismo d’ingegneria sociale', come lo ha definito nella sua relazione di venerdì?
Prima di tutto ci vuole informazione. Dobbiamo essere coscienti del fatto che l’ingegneria sociale c’è. Che 'gender' non è un concetto isolato: la sfida è tutta la cultura post moderna. E dobbiamo studiarla. Solo così possiamo essere più attenti ai suoi effetti. Poi, bisogna passare alla formazione. L’evangelizzazione passa anche attraverso la sensibilizzazione all’esistenza del problema. Dobbiamo sapere chi siamo, come cristiani. Come diceva il patriarca Bartolomeo, dobbiamo tornare alla chiesa primitiva, riscoprire la nostra identità cristiana, senza lasciarsi manipolare. Niente è perduto. Lo Spirito Santo è sempre lì a condurre l’umanità lungo la sua strada.
RELIGIONI E POLITICA
È stato sanzionato con 24 mesi di reclusione anche un medico per aver usato farmaci di un presidio ospedaliero pubblico «Ma le medicine erano state pagate regolarmente dalla Caritas»
Algeria, prete condannato Ha recitato una preghiera
Giro di vite sui cattolici: applicata la nuova norma sui culti
Il tribunale di Orano ha inflitto al sacerdote un anno di prigione con la condizionale per aver «officiato un rito in un luogo non riconosciuto dal governo»
Avvenire, 10.2.2008
DI CAMILLE EID
Un prete cattolico è stato condannato dal tribunale di Orano (400 chilometri a ovest di Algeri) ad un anno di prigione con la condizionale per aver «officiato una cerimonia religiosa in un luogo non riconosciuto dal governo». Padre Pierre Wallez – questo il nome del sacerdote – è la prima vittima della legge approvata nel marzo 2006 «sull’esercizio delle pratiche di culto non musulmano» nel Paese nordafricano. Parlando ai microfoni di Radio Vaticana, l’arcivescovo di Algeri, Henri Antoine Marie Teissier, ha detto che «la cosa che più sorprende è che la condanna è stata emessa perché il sacerdote aveva solo fatto visita ad un gruppo di cristiani del Camerun. Non aveva celebrato una Messa, ma aveva soltanto recitato insieme a loro una preghiera. Era il 29 dicembre, subito dopo Natale».
«Adesso ci sono molte difficoltà sul proselitismo – sottolinea ancora il prelato – , ma bisogna anche dire che il sacerdote non è stato condannato ad un anno di carcere effettivo: non è stato, dunque, incarcerato».
«Naturalmente – osserva ancora Teissier – tutti noi siamo molto scossi per la decisione che è stata presa contro il nostro fratello. Bisogna però fare anche un distinguo tra la decisione presa in un contesto particolare e quello che è il nostro impegno per il bene comune della società algerina, all’interno della quale abbiamo molti amici». Insieme a padre Wallez (di origine francese) anche un giovane medico musulmano è stato condannato ad una pena più pesante (due anni senza condizionale), ufficialmente per aver utilizzato farmaci dell’ambulatorio pubblico da lui diretto nella baraccopoli dei migranti di Maghnia.
«Medicinali regolarmente pagati dalla Caritas», spiegano fonti dell’arcivescovado di Algeri che non esitano a denunciare «le gravi difficoltà che la comunità cattolica ha dovuto e continua ad affrontare ormai da mesi».
«Vengono sistematicamente rifiutati i visti di ingresso ai nostri ospiti – precisa l’Arcivescovado – e in novembre è stato ritirata la residenza a quattro giovani preti brasiliani, qui per lavorare con gli immigrati africani di lingua portoghese». In Algeria l’islam è religione di Stato, e la libertà di culto è garantita dalla Costituzione. Secondo quanto proclamato a suo tempo dalle stesse autorità algerine, la nuova legge che regola le attività di culto doveva offrire «un quadro giuridico per garantire il consolidamento del principio della libertà di culto previsto dalla Costituzione, e dai patti internazionali». Anche la stampa locale aveva fatto l’elogio di un testo che «consacra la tolleranza, la convivenza interreligiosa e la protezione statale del culto non islamico nel quadro del rispetto dei diritti e libertà altrui». Ma il vero obiettivo del nuovo testo normativo, come aveva ammesso un responsabile del ministero degli Affari religiosi, era quello di «contrastare le campagne di proselitismo cristiano clandestino». Lo conferma anche l’arcivescovo di Algeri, Teissier, che indica dei «nuovi gruppi di evangelici, che hanno creato un po’ di rumore per la conversione di alcuni fedeli». La legge, composta da diciassette articoli, vieta l’esercizio del culto non islamico al di fuori degli edifici adibiti all’uopo e subordina questi edifici all’ottenimento di una previa autorizzazione. Un articolo prevede una multa da 500 mila a un milione di dinari (da 5 a 10 mila euro) e una pena carceraria da due a cinque anni contro «chiunque cambi la funzione originaria dei luoghi di culto» oppure «inciti o costringa o usi mezzi persuasivi per costringere un musulmano ad abbracciare un’altra religione».
Stesse pene contro chi «produce o immagazzina o distribuisce pubblicazioni o cassette audio e video o altri mezzi volti a minare la fede nell’islam».