mercoledì 27 febbraio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Conferenza del Cardinale Bertone all’Università dell'Avana
2) GIULIANO HA GIÀ VINTO. ORA SI RITIRI
3) Ferrara, proposta 'affascinante'
4) Ue preme su Tehran: no alla morte per chi abbandona l'islam
5) ANGOSCIOSE DOMANDE AI BORDI DI QUELLA CISTERNA
6) Islam e cristiani 138 motivi per parlarsi chiaro


Conferenza del Cardinale Bertone all’Università dell'Avana
LA AVANA, martedì, 26 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della conferenza che il Cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone ha pronunciato lunedì pomeriggio nell’Aula Magna dell’Università dell'Avana sul tema La cultura e i fondamenti etici del vivere umano.

* * *
Magnifico Signor Rettore,
Onorevoli Autorità,
Signor Cardinale e Signori Vescovi,
Illustri professori,
Signori rappresentanti del mondo della cultura,
Signore e Signori, amici tutti.
Con gratitudine per il cordiale benvenuto che mi avete riservato, desidero iniziare questo pomeriggio ricordando con stima due grandi figure appassionate di Cuba e legate a questo luogo. Il primo è il Servo di Dio Félix Varela, padre della patria cubana, le cui spoglie riposano qui e del quale celebriamo oggi l'anniversario della morte. La seconda è il Servo di Dio Giovanni Paolo II, che ha parlato da questa stessa cattedra dieci anni fa. Pochi hanno saputo delineare così bene la figura di Padre Varela come ha fatto Papa Giovanni Paolo II nel discorso che ha pronunciato in questo stesso luogo. Entrambi i personaggi incarnano un modello egregio di umanità, essendo da riconosciuti come uomini di pace e di bene, anche da quanti non condividono i loro ideali e le loro credenze. Entrambi sono la conferma che non è necessario diluire la propria identità per instaurare un dialogo fecondo e creativo con tutti gli uomini.
L'avventura esistenziale di Padre Varela ci offre l'ambito ideale in cui inserire il tema che mi è stato affidato - la cultura e i fondamenti etici del vivere umano -, considerando in particolare la cultura cristiana come sostegno e ispirazione dell'etica.
Come si sa, il giovane sacerdote Félix Varela ottenne, vincendo un concorso, la prima Cattedra di Costituzione, stabilita nel Collegio di San Carlos nel 1821. È significativo il modo in cui l'esordiente accademico, nella sua brillante lezione inaugurale, definì la sua cattedra: questa, diceva, dovrebbe chiamarsi piuttosto «la Cattedra della libertà, dei diritti dell'uomo, delle garanzie nazionali,... la fonte delle virtù civiche, la base del grande edificio della nostra felicità» (Discorso nell'inaugurazione della Cattedra, 21.1.1821). Quella Cattedra gli offrì la migliore opportunità per riflettere sul modo di costruire una società, sui valori che devono essere alla base della convivenza fra gli uomini, fra i quali la libertà - «uno dei più preziosi doni che hanno dato agli uomini i cieli», con le parole di Don Chisciotte (II, cap. 58) - occupa il primo posto e, accanto ad essa, gli altri diritti dell'uomo e la rettitudine delle loro opere. La preoccupazione per la formazione dei giovani fu una costante in Padre Varela, consapevole che non sono le leggi a salvare i popoli, ma le loro virtù a livello personale e nel loro operato pubblico. Nella loro visione di una nuova patria cubana, Varela e, prima di lui Padre Agustín Caballero, e José Martí dopo, rivelano un cattolicesimo attento alla modernizzazione del Paese, ai diritti dell'uomo e alla libertà. Mostrano, in definitiva, che il cristianesimo e la modernità non sono incompatibili, ma che s'incontrano nella difesa della dignità dell'uomo. E il mondo ha bisogno di questa grande alleanza.
José Martí, cubano illustre, affermò che «essere istruiti è l'unico modo di essere liberi». Questa affermazione mi offre la possibilità di esaminare ora, più dettagliatamente, il rapporto fra la cultura e i fondamenti etici della vita dell'uomo.
Tutti gli uomini apprezzano la cultura come un bene importante. Tuttavia, perché la cultura è un bene? Giovanni Paolo II lo ha spiegato magistralmente quando ha ricordato che «l'educazione consiste in sostanza nel fatto che l'uomo divenga sempre più umano, che possa “essere” di più e non solamente che possa “avere” di più» (Discorso all'UNESCO, 2.6.1980). Per mezzo della cultura, in effetti, l'essere umano «affina ed esplica le molteplici sue doti di anima e di corpo; cerca di ridurre in suo potere il mondo stesso con la conoscenza e il lavoro; rende più umana la vita sociale» (Gaudium et spes, n. 53). Se la cultura è un bene, deve essere allora alla portata di tutti e non essere un lusso riservato ad alcune élites.
La cultura, tuttavia, è più di una semplice volontà individuale di acquisire nuove conoscenze. Possiede una fondamentale dimensione storica e comunitaria e si presenta a noi come un grande sforzo per offrire una visione che dia senso a tutta la vita, comprendendo ogni suo aspetto. A tale proposito, la cultura è sempre caratterizzata da una tensione che la porta a superare continuamente se stessa, in una duplice direzione: in senso orizzontale, verso le altre culture, con un arricchimento reciproco, e in senso verticale, verso la trascendenza, verso la fonte ultima della verità, la bellezza e il bene.
Possiamo dire, quindi, che la cultura è l'ethos di un popolo. È un modo di comportarsi e, al contempo, un ideale normativo, sebbene non sempre vissuto e rispettato. In tal senso, ethos ed etica sono strettamente vincolati, non solo per la loro etimologia, ma anche perché la cultura è il risultato della prassi dell'uomo e insieme condizione dell'operare umano. Non esiste cultura che non rimandi a un'etica, né un'etica senza riferimento a una cultura. Entrambe o si mantengono unite o decadono.
Una semplice osservazione pone tuttavia dinanzi al nostro sguardo il fenomeno della diversità culturale, uno dei tratti più caratteristici del nostro tempo, che provoca a volte un salutare cambiamento di costumi e obbliga a riesaminare convinzioni considerate immutabili. Può però provocare anche una dolorosa perdita d'identità, con conseguenze difficili da prevedere.
Per alcuni, la diversità culturale e delle norme di comportamento porta inevitabilmente ad affermare l'esistenza di una norma morale comune e obiettiva. A partire dall'esperienza della diversità si deduce l'impossibilità di norme morali universalmente valide. Il relativismo morale sostiene che un'affermazione etica sarebbe vera solo nel contesto di una determinata cultura. Non vi sarebbero pertanto convinzioni né principi etici migliori di altri, e nessuno avrebbe diritto di dire ciò che è bene e ciò che è male.
Le tesi del relativismo culturale e del relativismo etico sono state rafforzate dallo sviluppo della ragione moderna, un processo descritto magistralmente da Papa Benedetto XVI nella sua lezione presso l'Università di Ratisbona. In estrema sintesi, questo processo è consistito nella riduzione della ragione a scienza sperimentale, che combina la verifica empirica con la formulazione matematica. Sarebbe razionale allora solo ciò che è suscettibile di sperimentazione e formulabile matematicamente. Tuttavia, le grandi questioni dell'esistenza dell'uomo, i problemi dell'etica e dell'estetica, la metafisica, e soprattutto il problema di Dio, restano fuori da ogni considerazione, in quanto pre-scientifici o ascientifici (cfr Discorso presso l'università di Ratisbona, 12.9.2006).
Ebbene, questo restringimento della ragione contemporanea conduce inevitabilmente sul piano etico al soggettivismo della coscienza. Nonostante i tentativi di Kant di mantenere una morale universale, dopo aver scartato la metafisica, affermando che l'unica conoscenza razionale possibile è quella della scienza, occorre confinare la morale all'ambito puramente soggettivo: non sarebbe possibile parlare di norme morali universalmente conoscibili. Ma allora, «il soggetto decide, in base alle sue esperienze che cosa gli appare religiosamente sostenibile, e la “coscienza“ soggettiva diventa in definitiva l'unica istanza etica» (Ibidem). La conseguenza è chiara: in questo modo l'ethos e la religione perdono la propria capacità di dare vita a una comunità e diventano una questione totalmente personale.
Il soggettivismo etico portato all'estremo conduce alla situazione paradossale di dover ammettere l'immoralità come moralmente buona. Visto che non vi è modo di determinare ciò che è bene e ciò che è male, bisognerebbe concludere che tutti i comportamenti sono ugualmente validi. Il senso comune si ribella a questa conclusione, a cui, tuttavia, si giunge necessariamente dalle premesse da cui si parte.
La logica di questo dinamismo porta a quella che Benedetto XVI ha chiamato la dittatura del relativismo. Vale a dire, dinanzi all'impossibilità di stabilire norme comuni, con validità universale per tutti, l'unico criterio che resta per determinare ciò che è bene e ciò che è male è l'uso della forza, sia essa quella dei voti, sia della propaganda o delle armi e della coazione. «Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura sola il proprio io e le sue voglie» (J. Ratzinger, Omelia nella Missa Pro Eligendo Romano Pontifice, 18.4.2005). A partire da questi presupposti, risulterebbe impossibile costruire o mantenere la vita sociale.
Esiste, pertanto, una distinzione fondamentale, dal cui riconoscimento dipende la sussistenza stessa della comunità umana. Questa distinzione è la linea di demarcazione fra il bene e il male. Senza tale distinzione non resta altra alternativa del regno dell'arbitrarietà.
È necessario, quindi, sovvertire l'assioma del relativismo etico e postulare con forza l'esistenza di un ordine di verità che trascende i condizionamenti personali, culturali e storici e che ha una validità permanente. Questo ordine è quello che la filosofia chiama legge naturale. Non intendo affrontare ora la problematica attorno a questo termine, ma sottolineare solo il fatto che con questa espressione si fa riferimento a un ordine previo all'uomo, che egli non si è dato, che nessun governo ha promulgato, e che esso può solo riconoscere. È la constatazione che, di fronte al diritto positivo, il quale può essere ingiusto, deve esserci un diritto che procede dalla natura stessa, dall'essere proprio dell'uomo. Questo diritto deve essere trovato e costituisce il correttivo per il diritto positivo.
L'idea di diritto naturale presuppone un concetto di natura strettamente associato a quello della ragione. Presuppone l'idea che la natura è permeata dalla ragione, che vi è in essa un logos che l'uomo con la sua ragione, partecipazione e immagine del Logos creatore, può riconoscere. La stessa scienza, alla quale dobbiamo incredibili progressi in tutti i campi, risulterebbe impossibile senza accettare una razionalità nella natura. Inoltre, se il mondo è un mero prodotto dell'irrazionale, la nostra stessa libertà è, alla fin fine, un'illusione.
La legge naturale appare così come una sorta di «grammatica» trascendente che permette il dialogo fra i popoli, ossia, un insieme di regole di attuazione individuale e di relazione fra le persone in giustizia e solidarietà, che è inscritta nelle coscienze, nelle quali si riflette il sapiente progetto di Dio.
La Chiesa non intende imporre la sua visione delle cose a tutti gli uomini, come se avesse l'esclusiva del discernimento morale. Non può però rinunciare alla profonda conoscenza che ha dell'uomo e della società. È esperta in umanità e desidera offrire rispettosamente il suo contributo alla creazione della società degli uomini fra i quali vive.
Su questo punto, alcuni teorici, come Jonh Rawis o Jürgen Habermas, hanno difeso la necessità del contributo delle confessioni religiose al dibattito pubblico (cfr Benedetto XVI, Discorso all'Università di La Sapienza, 17 gennaio 2008; J. Habermas, Vorpolitische Grundlagen des demokratischen Rechstaates? in J. Habermas - J. Ratzinger, Dialektik der Säkularisierung, n. 34). Queste, in definitiva, svolgono un ruolo sociale non solo come elementi di integrazione sociale, che prestano sussidiariamente servizi sociali alla comunità, ma anche come fonte di sapere e di conoscenza.
A tale proposito, Papa Giovanni Paolo II ha ricordato che il principio della libertà religiosa inteso nel senso più vasto, è come la prova degli altri diritti: «nello stesso modo in cui la società viene danneggiata quando si relega la religione alla sfera privata, anche la società e le istituzioni civili vengono impoverite quando la legislazione, in violazione della libertà di religione, promuove l'indifferenza religiosa, il relativismo e il sincretismo religioso, forse perfino giustificandoli attraverso una comprensione errata della tolleranza. Al contrario, tutti i cittadini ne traggono beneficio quando vengono apprezzate le tradizioni religiosi nelle quali ogni popolo è radicato e con le quali le popolazioni, generalmente, si identificano in modo particolare» (Discorso ai partecipanti all'Assemblea Parlamentare dell'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, 10.10.2003).
L'obiezione che s'intuisce immediatamente è che nella società attuale, le Chiese e le confessioni religiose devono limitare il proprio operato all'ambito puramente personale degli individui che desiderano aderire ad esse, ma non avrebbero alcun posto nella costituzione di un'etica sociale. Lo Stato moderno, si afferma, deve essere al di sopra delle religioni, le quali, in molti casi, non sono viste in modo positivo ed equilibrato.
La sana laicità comporta, naturalmente, la distinzione fra religione e politica, fra Chiesa e Stato. Credenti e non credenti trovano il fondamento di questa distinzione nelle parole stesse del Vangelo, quando Gesù ricorda che bisogna dare «a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22, 21). Questa stessa laicità non può però significare che Dio è un'ipotesi puramente privata ed escludere così la religione e la Chiesa dalla vita pubblica. La celebre frase di Hugo Grocio etsi Deus non daretur, interpretata erroneamente come li fondamento dell'ordinamento politico «come se Dio non esistesse», significò, per i giusnaturalisti del XVIII secolo, il bisogno di stabilire principi che avessero validità permanente, «anche nell'ipotesi in cui Dio non esistesse», ossia con validità permanente per tutti.
Come contributo dei cristiani alla costruzione della società, l'allora Cardinale J. Ratziger, dal suggestivo contesto di Subiaco, poco prima di essere eletto Successore di San Pietro, ha lanciato al mondo una proposta che mi permetto oggi di ricordare a tutti voi: «il tentativo, portato all'estremo, di plasmare le cose umane facendo completamente a meno di Dio ci conduce sempre di più sull'orlo dell'abisso, verso l'accantonamento totale dell'uomo. Dovremmo, allora, capovolgere l'assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell'accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse. Questo è il consiglio che già Pascal dava agli amici non credenti; è il consiglio che vorremmo dare anche oggi ai nostri amici che non credono. Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno» (J. Ratzinger, L'Europa nella crisi delle culture, Subiaco, 1 aprile 2005, ed. Cantagalli, Siena 2005. Edizione multilingue, con il testo spagnolo 75-84, qui, 83).
Giungiamo così al termine del nostro percorso e riprendiamo la domanda iniziale. Qual è il contributo della cultura cristiana al fondamento di un'etica del vivere umano?
La risposta potrebbe essere la seguente: presentandosi come la religione del logos e dell'amore, la Chiesa offre una sapienza millenaria, che mette a disposizione di tutti i popoli e di tutte le culture, convinta inoltre che un dialogo e un arricchimento reciproco siano possibili. In tal senso, si presenta dinanzi alla società come memoria e come ricordo dell'esistenza di un fondamento dei valori. Si presenta, in definitiva, come testimone di ciò che non perisce. Proponendo con rispetto la propria visione dell'uomo e dei valori, essa contribuisce alla crescente umanizzazione della società. La fede, pertanto, non distrugge nessuna cultura, bensì coopera alla purificazione di tutto ciò che intorpidisce la dignità, i diritti e lo sviluppo delle persone e di tutto ciò che si oppone all'umanizzazione della società. Se in una nazione crescono gli ambiti e gli atteggiamenti disumanizzanti, qualcosa è sostanzialmente leso nell'ethos di quel popolo. La fede contribuisce inoltre a dare pienezza a tutto ciò che è buono, vero e bello, schiudendo all'uomo una visione più elevata di se stesso e della sua convivenza nella società. Una convivenza senza valori è uguale a una cultura senza etica, è una cultura disumanizzata e disumanizzante che inverte la scala di valori e ribalta il mondo.
Proprio perché ogni autentica società si basa sul principio del valore supremo dell'uomo, della sua responsabilità dinanzi alla storia e dinanzi ai suoi simili, ha bisogno del richiamo permanente ai valori duraturi, che esistevano prima che ogni individuo esistesse e che continueranno a esistere dopo.
La società ha bisogno di persone che rivelino con la loro vita l'esistenza di alcuni valori fondamentali ed edificanti; ha bisogno di testimoni che con la loro esistenza lavorino per ricordare a tutti gli uomini il valore della coscienza, santuario di Dio nell'uomo, e della verità.
I cristiani, mediante figure come quella di padre Varela, e una moltitudine immensa di audaci persone simili a lui, non chiedono altro se non di poter rendere testimonianza di questa verità fra i loro contemporanei.
Distinte Signore e Distinti Signori, abbiamo riflettuto sulla cultura come sostegno e ispirazione per l'etica. La questione è trovare itinerari concreti affinché cultura ed etica, Chiesa e società, possano collaborare per costruire un mondo più umano, ancorato ai grandi valori della nostra storia: la libertà, la pace, la solidarietà, la giustizia e lo sviluppo integrale della persona, di ogni uomo e di tutti gli uomini.
Permettetemi di concludere con le parole finali che il Santo Padre aveva scritto per il suo discorso all'Università La Sapienza di Roma, che non ha potuto pronunciare di persona per motivi più che noti.
Il Papa, rivolgendosi agli universitari di Roma, ha risposto alla domanda: Che cosa ha da fare o da dire il Papa nell'Università?. Noi possiamo paragrafare questa domanda domandandoci: «Che cosa ha da fare o da dire la cultura cristiana come fondamento etico del vivere comune? La risposta che Benedetto XVI ha dato credo conservi tutta la sua validità per noi: Il Papa - la Chiesa cattolica, i cristiani potremmo dire -, «sicuramente non deve cercare d'imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà... In base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale, è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre e di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia e aiuta a trovare la via verso il futuro» (Allocuzione preparata per l'inaugurazione dell'anno accademico nell'Università La Sapienza di Roma, 17.1.2008).
Grazie a tutti.



GIULIANO HA GIÀ VINTO. ORA SI RITIRI
La sua candidatura ha messo sotto i riflettori il tema dell’aborto: splendido risultato. Adesso, meglio fare un passo indietro per chiedere ai candidati di sostenere la moratoria...
di ANTONIO SOCCI
Caro Giuliano, dopo averti dato il mio appoggio, dalle colonne del Corriere della Sera, voglio darti ora un consiglio, anch'esso non richiesto: annuncia di non presentare più la tua lista perché hai già vinto la battaglia. Puoi cestinare questo invito all'istante. Ma ti prego almeno di ascoltare e rifletterci. Sai che ho applaudito con entusiasmo la tua (la nostra) bella battaglia culturale e morale contro il flagello del XX secolo, perché non è più possibile che la nostra generazione spazzi via un miliardo di vittime innocenti (50 milioni all'anno) facendo finta di nulla, volgendo la faccia dall'altra parte come se si trattasse di bazzecole (se non temiamo il giudizio di Dio, dovremmo almeno temere quello dei posteri, dei nostri pronipoti, che potranno avere vergogna o orrore di noi). Intelligente e generosissima è stata anche la tua idea della lista "pro life" per evitare che la campagna elettorale facesse sparire il dibattito sulla moratoria per la vita. Di fatto sei riuscito in un'operazione temeraria e splendida: imporre finalmente al centro del vaniloquio politico e mediatico un dramma vero, che gronda lacrime e sangue.
SUCCESSO PERSONALE
Il risultato l'hai raggiunto. Splendidamente. La tua vittoria, anche personale, l'hai conseguita. Infatti oggi tutti - da Destra a Sinistra - ripetono di volere "la piena attuazione della legge 194" (anche nelle parti dov'è prevista la tutela della maternità e l'aiuto alle donne in difficoltà). Che poi è esattamente quello che vuoi tu. In effetti - qualora tu presentassi la lista - sarebbe assurdo che tu non chiedessi di cancellare o cambiare la 194: in Parlamento si va per questo, per modificare o fare le leggi. Siccome tu non dici e non vuoi questo, chiedere una rappresentanza parlamentare per volere ciò che vogliono tutti (la piena applicazione della 194) non avrebbe senso. Ci può essere un altro obiettivo prezioso: fare il ministro della Salute. Non so se tu davvero lo voglia, non so quanto sia una provocazione, ma di certo è un obiettivo raggiungibile e sarebbe molto utile per dare davvero piena attuazione alla legge. Però tu sai bene che - a questo punto - è più facile ottenere questo incarico (dai tuoi amici di centrodestra) ritirando la lista. Presentarla probabilmente sarebbe controproducente, farebbe saltare la cosa. Tu potresti fare questo discorso chiaro: «Signori, ho le firme per presentare le mie liste e i miei candidati. Quindi non cambio idea facendo come la volpe all'uva. Potevo benissimo presentare tutte le liste. Se ora invece non lo faccio più, è perché sono già riuscito nel mio obiettivo di farvi aprire gli occhi su questa tragedia e di farvi prendere un impegno politico a tutela della maternità, della civiltà e del nostro futuro. Inoltre presentare adesso la lista sarebbe controproducente: non solo per l'eventuale incarico di ministro della Salute, con il quale voglio personalmente lavorare per questa riscossa della vita, ma anche perché il risultato della lista (nel migliore dei casi l'1 per cento, ma diciamo pure il 4 per cento) potrebbe essere strumentalizzato da chi, all'indomani del voto, indicherà in quella piccola cifra il totale di coloro che sono contrari all'aborto. Così non è, ovviamente. Il popolo della vita è molto più vasto del risultato elettorale di una lista monotematica. Per evitare equivoci a questo punto non la presenterò. Come dicevamo nel 2005, in occasione del referendum sulla legge 40, «sulla vita non si vota». Io voglio evitare - ora che ho vinto la battaglia - di regalare alla cultura abortista un argomento formidabile. Sarebbe del tutto controproducente. Rischierei di fare un grave danno alla causa della vita che invece voglio sostenere. Anzi, visto il consenso trasversale che la nostra battaglia ha guadagnato, trasformeremo la nostra iniziativa in una lobby di candiddati e parlamentari, di tutti gli schieramenti, disposti a sottoscrivere la nostra moratoria e a battersi per essa in parlamento.
UN IMPEGNO DI VALORE
Potresti anche chiedere, caro Giuliano, che questi candidati, una volta eletti, si impegnassero con un tot mensile a sostegno dei centri di aiuto alla vita a cui devolvere anche una sottoscrizione di chi avrebbe voluto sostenere la lista. Ricordo che sono i "centri di aiuti alla vita" del Movimento per la vita e della Caritas che in questi ultimi 30 anni hanno aiutato circa 80 mila donne in difficoltà permettendo a 80 mila bambini di nascere e vivere. Devolvere anche una piccola parte dei soldi che sarebbero stati spesi per la campagna elettorale a questi benemeriti centri, fatti da volontari e poveri di mezzi, certamente salverebbe più vite di quante ne salva una lista elettorale. D'altra parte la Chiesa stessa - che non ha mai rinunciato a dire la verità sull'aborto e a raggiungere l'obiettivo "zero aborti" - sa che la strada per arrivarci è innanzitutto questa dell'aiuto alla vita e alle donne. Non è la politica che risolverà questo dramma, ma un lungo sommovimento delle coscienze. Come quello che - dopo la venuta di Gesù, Figlio di Dio - portò, con il tempo, alla sparizione della schiavitù dalla terra. È un realismo faticoso, ma umile e autentico. Significa - per dirla alla maniera del tuo amico Sofri - capire che c'è un nodo da sciogliere con pazienza e non un chiodo da piantare con un colpo spettacolare. È ciò che, in politica, oppone il riformismo al massimalismo. È la pazienza del lavoro quotidiano. Perché la performance spettacolare non risolve il problema e talora rischia di aggravarlo. La "bella morte" è un mito della cultura nichilista, come la provocazione dannunziana. Per tanti di noi, anni fa, fu illuminante il discorso che l'allora cardinale Ratzinger tenne ad alcuni politici cattolici del suo Paese. Era un elogio del compromesso, contro integralismi e fanatismi. «Il primo servizio che la fede fa alla politica» disse Ratzinger «è dunque la liberazione dell'uomo dall'irrazionalità dei miti politici, che sono il vero rischio del nostro tempo. Essere sobri ed attuare ciò che è possibile e non reclamare con il cuore in fiamme l'impossibile, è sempre stato difficile; la voce della ragione non è mai così forte come il grido irrazionale. Il grido che reclama le grandi cose ha la vibrazione del moralismo; limitarsi al possibile sembra invece una rinuncia alla passione morale, sembra il pragmatismo dei meschini. Ma la verità è che la morale politica» concludeva Ratzinger «consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell'umanità dell'uomo e delle sue possibilità. Non è morale il moralismo dell'avventura, che intende realizzare da sé le cose di Dio. Lo è invece la lealtà che accetta le misure dell'uomo e compie, entro queste misure, l'opera dell'uomo. Non l'assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell'attività politica». La tua intelligenza e la tua generosità, caro Giuliano, hanno già conseguito una vittoria straordinaria. Tanti di noi ti sono e ti saranno grati, fra i laici come fra i credenti, se vorrai continuare insieme a noi questa bella avventura (hai potuto constatare quanto il popolo cattolico ti circondi di affetto e stima). Adesso prendi la decisione giusta e avrai fatto un autentico capolavoro.
www.antoniosocci.it
LIBERO 26 febbraio 2008


Ferrara, proposta 'affascinante'
Autore: Buggio, Nerella
Fonte: CulturaCattolica
lunedì 25 febbraio 2008
Le sue parole in tema di vita hanno il fascino della verità.
Parola che fa inorridire certe giornaliste che credono si tratti di presunzione, invece la verità di cui parla Ferrara non è un’opinione, ma l’evidenza del vero.
Ferrara e la sua lista per la vita sono davvero affascinanti.
Chi è davvero giovane o chi non ha perso la giovinezza del cuore, l’entusiasmo per le grandi battaglie, la voglia di lottare per ciò che davvero conta, chi è stufo di chi dichiara che la famiglia è importante, ma poi l’ammazza a forza di tasse, chi non ne può più di dichiarazioni di principio che non hanno attuazione pratica, non può non essere tentato di consegnare il suo voto nelle mani di Ferrara.

Le sue parole in tema di vita hanno il fascino della verità.
Parola che fa inorridire certe giornaliste che credono si tratti di presunzione, invece la verità di cui parla Ferrara non è un’opinione, ma l’evidenza del vero.

Come fai a dirgli che si tratta di una sua opinione, quando dice che in certi paesi si eliminano le bambine con aborti di Stato e il mondo tace, lo stesso mondo che giustamente s’indigna ed ottiene, la moratoria contro la pena di morte.
Come fai a dargli torto quando dice che quel feto di 21 settimane era un bambino, malato ma un bambino.
Come fai a non ammettere che dica il vero, quando dice che l’aborto è diventato un contraccettivo e non la soluzione estrema a casi irrisolvibili con altre scelte.

Se cos’ì fosse, e a tutti gli aborti effettuati dopo i 90 giorni corrispondesse una diagnosi di malformazione grave e pericolosa per la salute della madre, dovremmo chiederci cosa sta accadendo nel nostro paese, possono essere così tanti i casi previsti dall’art. 6 della Legge che ammette l’aborto dopo i 90 giorni nei casi in cui:
a) la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
b) siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.

Ferrara ha squarciato il velo.
L’omertà di questi trent’anni e la difesa senza se e senza ma, di questa legge hanno perso ogni valore, per chi ha un’onestà intellettuale che gli permette di guardare alle cose e di giudicarne gli effetti.

Se ad ogni aborto nelle prime dodici settimane, corrispondesse una situazione tragica e disperata della donna costretta a rinunciare a suo figlio per cause di forza maggiore, dovremmo chiederci ma che uomini e donne siamo se non riusciamo ad essere di supporto a queste donne, se lasciamo che si disfino di quel bambino, per paura, per fame, per disagio sociale, senza che nessuno dica: “Dallo alla luce, dagli la vita me ne prendo cura io”. Oppure, “mettilo al mondo, se è il problema è economico, lo Stato ti garantirà sostegno”

Se invece come sosteneva – Liberazione – il giornale del partito comunista, qualche tempo fa, “l’aborto non è un dramma, il feto non è un essere umano”, allora bisogna ripensare all’uomo, alla vita, al futuro, bisogna ammettere che non è vero ciò che vedo, ma ciò che voglio vedere.

Ferrara con la sua mole pachidermica, si siede davanti a Lucia Annunziata che lo definisce “l’animatore di una delle più efficaci campagne culturali”e tu capisci che è molto di più, che ha sdoganato pensieri che sino a qualche mese fa erano le “stigmate” dei centri di aiuto alla vita.

Ferrara si fa intervistare da Daria Bignardia LE INVASIONI BARBARICHE e capisci che la brava Daria sembra seduta su una poltrona di carboni ardenti, vorrebbe fargli dire cose che lui non ha detto, pecca di presunzione, perde la sua verve ironica, cerca di sostenere tesi logore sino al limite del ridicolo, sostiene che le immigrate abortiscono non per mancanza di sostegno economico, non per paura di perdere il posto di lavoro, ma perché il figlio impedirebbe loro di realizzarsi come donne, come lavoratrici… suvvia Bignardi, a chi la racconta?

Ferrara dice che non è contro l’aborto, non vuole abolire la Legge 194, non è contro la donna che abortisce, ma contro chi la mette in condizione di farlo.
Leggi i 12 punti del suo programma e sono tutti di “buonsenso”, come dargli torto.

E allora perché non stare con lui?

E allora perché non votare la sua lista?

Spero ancora che il PdL gli apra le porte, perché altrimenti mi toccherà inneggiare a Ferrara e al suo coraggio, alla sua idea geniale di sdoganare il tema dell’aborto (è vero che ne parlano anche al bar, sabato ne parlavano dal parrucchiere) e votare PdL.

Perché voglio ancora sperare che Ferrara difenda la vita obbligandoci a guardarla in faccia e il PdL con leggi che non facciano della Vita un "caso a sè", leggi che permettano ai figli di non essere un lusso, all’educazione di non essere un costoso macigno, alle tasse di non essere un disincentivo per fare famiglia.

Attendo con ansia che le tasse vengano pagate in base al quoziente familiare, che l'educazione sia una libera scelta, che la vita venga difesa dal concepimento alla morte naturale, credo insomma sia ancora possibile una politica umana.


27/02/2008 11:23
UE - IRAN
Ue preme su Tehran: no alla morte per chi abbandona l'islam
L’Unione europea chiede all’Iran di abbandonare il progetto di legge che per la prima volta nella storia del Paese introduce nel codice penale la pena di morte per chi abbandona l’islam. La bozza è in discussione al Parlamento.

Bruxelles (AsiaNews/Agenzie) - L’Unione europea chiede all’Iran di abbandonare il progetto di legge, che, per la prima volta nella storia del Paese, introdurrebbe nel codice penale la sentenza capitale per il reato di apostasia. Il testo è in discussione al Parlamento e stabilisce la stessa pena anche per eresia e stregoneria.
In un comunicato, la presidenza slovena dell’Unione denuncia che il progetto “viola chiaramente gli impegni della Repubblica islamica dell’Iran a rispettare le convenzioni internazionali sui diritti umani”. La Ue si appella alle autorità iraniane, governo e parlamento, “per modificare il disegno di legge”. Il documento spiega poi che in passato la condanna a morte è stata emessa ed eseguita in alcuni casi di apostasia, ma mai era stata inserita nella legislazione del Paese. L’Ue - conclude la dichiarazione - guarda con “forte preoccupazione” la notizia del disegno di legge. Di solito l’Iran respinge al mittente critiche di questo tipo, su diritti umani e soprattutto sul suo programma nucleare.
L’Istituto sulle politiche religiose e pubbliche, con sede a Washington, che ha reso noto giorni fa l’iniziativa, spiega che il testo in esame stabilisce la morte per l’apostata-uomo e il carcere per l’apostata-donna. Verranno poi individuati due tipi di apostasia: innata o di origine parentale. Nel primo caso, l’apostata ha genitori musulmani, si dichiara musulmano e da adulto abbandona la sue fede di origine; nel secondo, l’apostata ha genitori non musulmani, diventa musulmano da adulto e poi abbandona la fede. La punizione nel caso di apostasia innata è la morte; nel caso parentale la punizione è sempre la morte, ma è previsto che dopo la sentenza finale, il condannato ha tre giorni per “riabbracciare l’islam” e sarà incoraggiato a ritrattare. In caso di rifiuto, la condanna a morte verrà eseguita.


ANGOSCIOSE DOMANDE AI BORDI DI QUELLA CISTERNA
Avvenire, 27.2.2008
MARINA CORRADI
Li avevano cercati per mesi nei ca­solari della Murgia. E poi per tutta la Puglia, e anche in Romania. I due ragazzini scomparsi a Gravina quasi due anni fa erano così vicini, invece. E viene in mente quel passo dei 'Pro­messi sposi' in cui una conversa del monastero di Monza era improvvisa­mente sparita. E di cui «si fecero gran ricerche» in città e nei dintorni; e poi, avendo cercato ovunque da cima a fondo, si disse che doveva essere an­data lontano, lontano, in Olanda, si sussurrava. Ma, scriveva Manzoni, «se ne sarebbe potuto saper di più, se, in­vece di cercar lontano, si fosse scava­to vicino».
Se si fosse cercato vicino. È questa la frase che torna e ritorna in bocca a tut­ti, a Gravina e fuori. Li avevano dav­vero cercati, in quella cisterna? Con u­na punta di angoscia insostenibile, per via di un dubbio forte e atroce. Per­ché, in qualsiasi modo laggiù siano fi­niti Salvatore e Francesco – caduti, o spinti – la posizione in cui sono stati trovati i corpi fa pensare che non sia­no morti subito. Non erano nello spa­zio angusto della verticale del pozzo in cui è precipitato l’altra sera un bam­bino, ma più in là, in una cisterna a­diacente; e, dice chi li ha visti, rannic­chiati su se stessi, le scarpe di uno tol­te e ordinatamente appaiate. Come se – caduti, o spinti – avessero avuto la forza per trascinarsi qualche metro più in là; oppure, entrati o costretti a entrare per un altro pertugio in quel­la antica cisterna, a lungo avessero at­teso di morire. Ciò che pare incredibile è che le loro urla non siano state sen­tite da nessuno, mentre squadre di uo­mini setacciavano il paese in lungo e in largo. Ed è possibile che nessuno abbia pensato a una casa abbando­nata dove da sempre giocano i ragaz­zi del posto? L’atteggiamento in cui sono stati ritrovati i corpi, raggomito­lati su se stessi come fanno i bambini quando hanno paura, e uno, sembra, con un dito in bocca, fanno pensare all’addormentarsi di chi stremato, senza più speranza, si abbandona.
Giugno era, quel giorno, e faceva già caldo. I due vengono trovati dal padre ancora in piazza a giocare alle nove di sera, come accade nei paesi del Sud. E poi, poi più nulla. Il padre di Salva­tore e Francesco resta in carcere; cer­te telefonate intercettate sono, per gli inquirenti, «indizi consistenti». «Non dire a nessuno dove stanno i bambi­ni », avrebbe detto l’uomo un giorno alla sua convivente. Ma, se si può ar­rivare a immaginare che in uno scat­to d’ira un padre padrone uccida i suoi figli, quello che sarebbe successo a Gravina no, pare troppo. Condurli a una nascosta prigione, gettarceli e an­dar via, sapendo che moriranno di se­te e di fame nel buio. Troppo, anche per il peggiore degli uomini.
E così davanti alla tv ci si dice che, for­se, i bambini nel pozzo sono caduti da soli. Magari inscenando una fuga do­po i rimproveri del padre, e irragione­volmente, a notte fatta, tornando sul luogo dei giochi con gli amici. Maga­ri uno precipitando, e l’altro anche, nel tentativo di portare soccorso al fra­tello. Magari. E speri che quelle scar­pe da ginnastica tolte siano state, nel buio, il tentativo di disperatamente convincersi d’essere a casa, quando si va a letto e ci si toglie le scarpe per dor­mire. Come se tutto fosse stato solo un brutto sogno. Speri che siano sprofondati nel sonno, Salvatore e Francesco, certi che li sarebbero ve­nuti a salvare.
L’idea di una terrifica punizione, di un padre che ti condanna a morte e se ne va, è insostenibile. La ferocia di un padre può essere di un istante, ma non di giorni, impassibile, opaca. Perché se così invece fosse, ancora una volta la realtà ci costringerebbe a guardarci in faccia con una non dicibile paura. Chiedendoci cosa sono gli uomini, e di che cosa possiamo essere capaci.


intervista Alla vigilia dell’incontro tra esponenti musulmani e Santa Sede, parla l’esperto gesuita Khalil Samir
Islam e cristiani 138 motivi per parlarsi chiaro
«La 'lettera dei saggi' è una novità importante, ma le difficoltà restano.
Il problema infatti non è teorizzare il comune amore per Dio e tra gli uomini, ma capire come vivere insieme rispettando principi universali quali la dignità della persona e la libertà religiosa.
È questo il vero nervo scoperto del Corano»Avvenire, 27.2.2008
DI GIORGIO PAOLUCCI
Lui l’islam lo conosce bene. Lo studia da cinquant’anni e ci convive da sempre: nato in E­gitto, da 22 anni risiede a Beirut do­ve insegna islamologia alla Saint-Jo­seph University. Nel 2006 Benedet­to XVI lo invitò a Castelgandolfo per tenere una lezione in occasione del­l’annuale incontro con i suoi ex a­lunni del Ratzinger Schülerkreis. Col gesuita Samir Khalil Samir parlia­mo delle prospettive aperte dallo scambio di lettere tra i 138 saggi i­slamici e la Santa Sede, che tra qual­che giorno sfocerà in un primo col­loquio tra una delegazione vaticana e una musulmana e, più avanti, nel­l’incontro con il Papa.
L’incontro programmato per il 4 e 5 marzo in Vaticano sarà una «pri­ma volta»: cosa è legittimo sperare e su cosa è meglio non nutrire ec­cessive illusioni?
«Anzitutto va chiarito che l’immi­nente riunione tra le due delega­zioni serve per definire alcuni a­spetti procedurali, non entra anco­ra nel merito ma punta a focalizza­re gli argomenti da affrontare in fu­turo. Essendo la prima volta, non si può andare molto lontano perché si devono calibrare le rispettive po­sizioni. Che, vorrei ricordare, non sono 'solo' due: all’interno delle de­legazioni coesistono atteggiamenti e sensibilità diversi».
Una certa concezione di dialogo tende a mettere tra parentesi ciò che divide per enfatizzare ciò che unisce. È questo il senso della po­sizione della Santa Sede, espressa nella risposta del cardinale Berto­ne alla «lettera dei 138»?
«Nella risposta della Santa Sede la posizione è chiarissima: 'Senza i­gnorare o sminuire le nostre diffe­renze in quanto cristiani e musul­mani, possiamo e quindi dovrem­mo guardare a ciò che ci unisce'. È una posizione all’insegna del reali­smo e della ragionevolezza: quando si dialoga bisogna guardare l’inter­locutore nella sua interezza, non im­maginarlo come ci piacerebbe che fosse. Faccio un esempio: se dico che l’islam ha grande stima di Ge­sù, lo considera un grande profeta e il Corano ne racconta i miracoli, dico qualcosa di vero ma di parzia­le. Devo infatti aggiungere che il Co­rano accusa i cristiani di avere ele­vato Gesù alla dignità divina, di a­vere inventato la Trinità, di avere fal­sificato i Vangeli. Benedetto XVI ci invita ad andare a fondo, a non fer­marsi alla parte positiva e a non far­si frenare da quella negativa: questo significa dialogare nella verità».
Tra gli elementi comuni, quali so­no a suo giudizio quelli su cui il con­fronto può produrre passi avanti?
«Il rispetto della dignità di ogni per­sona è certamente il più importan­te perché pone le basi della convi­venza e dell’etica. La recente aper­tura dell’arcivescovo anglicano di Canterbury all’introduzione di ele­menti della sharia nella società in­glese è figlia dell’idea che ognuno può venire giudicato a partire dalla sua fede religiosa, mentre si deve riaffermare che tutti siamo tenuti al rispetto di principi inderogabili u- niversalmente ammessi, come ap­punto la dignità della persona. E dentro questa affermazione sta an­che la libertà religiosa, che a sua vol­ta comprende la possibilità di ade­rire a una fede diversa da quella in cui si è stati educati. Questo è un nervo scoperto nel mondo musul­mano, dove chi esce dalla comunità viene accusato di apostasia e rischia la morte, la persecuzione o la di­scriminazione ».
Dunque non basta affermare che crediamo nell’unicità di Dio e nel­una l’amore per il prossimo, come vie­ne solennemente affermato nel do­cumento dei 138 saggi musulmani?
«È un’affermazione importante ma va declinata nel concreto, altrimenti rischia di restare un vago auspicio. Cosa significa concretamente l’a­more per il prossimo? Posso amare il nemico? Posso amare il peccato­re, chi ha tradito la legge divina? E posso amare chi ha cambiato reli­gione, l’apostata? Sono interrogati­vi non secondari, con i quali ci si de­ve misurare».
Un altro nodo fondamentale a cui la lettera della Santa Sede fa riferi­mento è la necessità di una cono­scenza oggettiva della religione del­l’altro. Cosa la rende possibile?
«Oggi prevale una conoscenza ba­sata su stereotipi o sulle aspettative che si nutrono nei confronti del­l’interlocutore. A questo deve su­bentrare una conoscenza basata su ciò che l’altro dice di sé. In questo senso è fondamentale, ad esempio, rivedere le approssimazioni e le ve­re e proprie menzogne contenute nei libri di testo scolastici, sia cri­stiani che musulmani, che alimen­tano ostilità preconcette e semina­no veleni sulla strada di un incon­tro possibile».
Qualcuno ha definito deludente il documento dei 138 perché non af­fronta un nodo centrale per l’islam contemporaneo: la sovrapposizio­ne tra religione e politica. Che ne pensa?
«Obiezione condivisibile. Il proble­ma non è, lo ripeto, teorizzare l’a­more per Dio e tra gli uomini, ma piuttosto capire come possiamo vi­vere insieme restando diversi, co­me accettare la differenza senza de­monizzarla (magari in nome di Dio), come amare chi ha una posi­zione opposta alla mia. E questo è certamente un nervo scoperto nel mondo musulmano contempora­neo, sul quale molte autorità reli­giose si pronunciano in maniera strumentale. Arrivando a usare ver­setti del Corano per dare una moti­vazione teologica a posizioni poli­tiche, fino alla giustificazione degli attentati kamikaze. Altri arrivano a usare versetti della Bibbia per dare motivazione teologica a posi­zioni politiche, fino a giustificare il possesso di una terra, o la necessità di fare guerra a un popolo».
La pluralità dei firmatari (sunniti, sciiti, ismailiti, sufi, appartenenti a 43 nazioni) è una garanzia del con­senso che il documento riscuote nel mondo islamico, o resta co­munque aperto il problema di una religione che non ha una gerarchia universalmente riconosciuta?
«I firmatari appartengono a 43 na­zioni ma non le rappresentano. Molti sono personalità autorevoli e prestigiose, però, come sempre nel mondo musulmano, non possono parlare a nome di una collettività. Qualcuno, in nome dell’islam, po­trebbe sempre obiettare a ciò che dicono. A questo va aggiunto che, come mi è stato raccontato da qual­cuno dei firmatari, c’è chi ha sotto­scritto il documento senza neppu­re averlo letto. Si sono fidati del­l’autorevolezza dei proponenti, che come noto fanno riferimento alla prestigiosa casa reale (Aal al-Bayt) di Giordania».
Insomma, ci sono molti motivi per essere scettici...
«Dobbiamo essere realisti, come ci chiede il Santo Padre. Realisti e fi­duciosi nella buona volontà degli uomini e nell’opera dello Spirito che non mancherà di illuminarli. Pur senza nascondersi irenicamente le difficoltà, la novità dell’evento è in­discutibile e non va sottovalutata: è la prima volta che un gruppo di sa­pienti musulmani si esprime manifestando più di un motivo di sintonia con il cristianesimo. E la risposta della Santa Sede non è stata una semplice 'ricevuta'. Speriamo e preghiamo che si possa fare un pezzo di cammino insieme. L’importante non è discutere un documento, né farne uno nuovo, ma decidere d’incontrarsi regolarmente (almeno una volta all’anno) per trattare insieme argomenti concreti preparati in anticipo con serietà e responsabilità. Si deve iniziare un legame duraturo, non occasionale».