Nella rassegna stampa di oggi:
1) Papa: La Trasfigurazione e la via della Croce. Appello per il Libano
2) Il ricordo di don Giussani morto tre anni fa
3) S.E. Card. Carlo Caffarra: "Emergenza educativa, scuola e comunità cristiana"
4) UNA RAGAZZA CI INSEGNA COS’È L’IDEALE, di Davide Rondoni
5) I musulmani dei Balcani ci trascineranno in guerra, di Renato Farina
6) La vita umana non è un talk show
7) Discorso del Papa a conclusione degli esercizi spirituali per la Quaresima
8) Preservativo: panacea contro le infezioni sessuali?
9) Recensione di "Il petroliere"
10) Se il diavolo sguazza nell’oro nero, recensione di “Il petroliere”
17/02/2008 12:07
VATICANO – LIBANO
Papa: La Trasfigurazione e la via della Croce. Appello per il Libano
Benedetto XVI chiede ai politici della nazione libanese di trovare vie di riconciliazione e darsi un Capo di stato. Alla riflessione prima dell’Angelus, sottolinea la Trasfigurazione, come anticipo della resurrezione, che presuppone seguire Gesù sulla via della Croce.
Città del Vaticano (AsiaNews) – Nel suo primo momento pubblico, dopo la settimana degli esercizi quaresimali in Vaticano, Benedetto XVI ha lanciato un appello e una preghiera per il Libano dove dallo scorso novembre il parlamento non riesce a riunirsi per votare il nuovo presidente. Gli ostacoli formali vengono soprattutto dai partiti pro-siriani e dal gruppo degli sciiti di Hezbollah, ma vi sono stati anche assassini di parlamentari e autobomba che hanno alimentato paure e durezze.
“Seguo con preoccupazione – ha detto il pontefice - le persistenti manifestazioni di tensione in Libano. Da quasi tre mesi il Paese non riesce a darsi un Capo dello Stato. Gli sforzi per comporre la crisi e il sostegno offerto da numerosi esponenti di rilievo della Comunità internazionale, anche se non hanno ancora raggiunto un risultato, dimostrano l’intenzione di individuare un Presidente che sia tale per tutti i libanesi e porre così le basi per superare le divisioni esistenti. Purtroppo, non mancano anche i motivi di preoccupazione, soprattutto a causa di una inconsueta violenza verbale o di quanti addirittura pongono la loro fiducia nella forza delle armi e nella eliminazione fisica degli avversari”.
“Assieme al Patriarca maronita e a tutti i Vescovi libanesi – ha continuato il papa - vi chiedo di unirvi alla mia supplica a Nostra Signora del Libano, perché incoraggi i cittadini di quella cara Nazione, ed in particolare i politici, a lavorare con tenacia in favore della riconciliazione, di un dialogo veramente sincero, della pacifica convivenza e del bene di una Patria profondamente sentita come comune”.
Alla preghiera dell’Angelus in piazza san Pietro erano presenti almeno 30 mila fedeli. Con essi il pontefice ha commentato il vangelo del giorno, la seconda domenica di Quaresima, che racconta la Trasfigurazione di Gesù sul monte Tabor. “La montagna – il Tabor come il Sinai , ha spiegato il papa – è il luogo della vicinanza con Dio. E’ lo spazio elevato, rispetto all’esistenza quotidiana, dove respirare l’aria pura della creazione. E’ il luogo della preghiera, dove stare alla presenza del Signore, come Mosè e come Elia, che appaiono accanto a Gesù trasfigurato e parlano con Lui dell’"esodo" che lo attende a Gerusalemme, cioè della sua Pasqua. La Trasfigurazione è un avvenimento di preghiera: pregando Gesù si immerge in Dio, si unisce intimamente a Lui, aderisce con la propria volontà umana alla volontà di amore del Padre”.
“La trasfigurazione – ha continuato - è anticipo della risurrezione, ma questa presuppone la morte. Gesù manifesta agli Apostoli la sua gloria, perché abbiano la forza di affrontare lo scandalo della croce, e comprendano che occorre passare attraverso molte tribolazioni per giungere al Regno di Dio. La voce del Padre, che risuona dall’alto, proclama Gesù suo Figlio prediletto come nel Battesimo nel Giordano, aggiungendo: "Ascoltatelo" (Mt 17,5). Per entrare nella vita eterna bisogna ascoltare Gesù, seguirlo sulla via della croce, portando nel cuore come Lui la speranza della risurrezione. ‘Spe salvi’, salvati nella speranza. Oggi possiamo dire: ‘Trasfigurati nella speranza’".
Alla fine, dopo i saluti nelle varie lingue, Benedetto XVI ha salutato e assicurato la sua preghiera per i familiari degli italiani scomparsi in Venezuela, in seguito a un incidente aereo avvenuto il 4 gennaio.
Il ricordo di don Giussani morto tre anni fa
Avvenire, 17 febbraio 2008
Tre anni fa, il 22 febbraio 2005, moriva don Luigi Giussani, fondatore del movimento di Comunione e Liberazione (Cl). Nel terzo anniversario della scomparsa e nel 26° di riconoscimento pontificio della Fraternità di Cl, in tutta Italia e in varie città del mondo, si svolgono Messe in ricordo del sacerdote nato a Desio, in Brianza, nel 1922. «A tre anni dalla sua morte – ha scritto Julian Carron, presidente della Fraternità di Cl, in una lettera inviata agli aderenti al movimento – domandiamo a don Giussani di continuare a farci compagnia sulla strada che ci ha tracciato. Soltanto percorrendo quella strada possiamo veramente conoscere, attraverso il testimone, la realtà di cui parla la fede cristiana». Tante le celebrazioni eucaristiche nell’anniversario (per l’elenco completo consultare il sito www.clonline.org): domani a Milano il cardinale arcivescovo Dionigi Tettamanzi presiederà l’Eucaristia delle 21 in Duomo; venerdì 22 febbraio, festa della Cattedra di San Pietro, la funzione sarà celebrata dal cardinale vicario di Roma, Camillo Ruini, nella Basilica di San Giovanni in Laterano alle 19; mentre lunedì 25 febbraio l’arcivescovo di Genova e presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco, presiederà la Messa delle 20,30 nella chiesa di Santa Marta a Genova. Inoltre oggi nella Cattedrale di Imola alle 17,30, la Messa del vescovo di Imola, Tommaso Ghirelli; domani alle 18,30 nella chiesa di San Pio X a Trieste, la celebrazione del vescovo di Trieste Eugenio Ravignani; alle 19,30 nella chiesa di San Girolamo a Castrovillari, in provincia di Cosenza, Messa del vescovo di Cassano all’Jonio,Vincenzo Bertolone; infine alle 21, nella chiesa di Santa Chiara a Ferrara, celebrazione dell’arcivescovo di Ferrara-Comacchio, Paolo Rabitti.
Molti gli appuntamenti anche l’estero: domani a Mosca l’arcivescovo Mario Pezzi presiederà la Messa alle 19 nella chiesa di san Luigi di Francesi.
Paolo Pittaluga
S.E. Card. Carlo Caffarra: "Emergenza educativa, scuola e comunità cristiana"
Convegno Nazionale dei direttori diocesani degli uffici di pastorale scolastica
Villanova, 13 febbraio 2008
Ordinerò la mia riflessione nel modo seguente. Cercherò nel primo punto della mia relazione di dire in che cosa consista l’emergenza educativa in cui ci troviamo. Nel secondo punto cercherò di esporre la modalità con cui la scuola può rispondere all’emergenza educativa. Nel terzo ad ultimo punto cercherò di spiegare perché questa è una sfida lanciata alla comunità cristiana e come essa debba farvi fronte.
1. L’emergenza educativa.
Durante la cena pasquale ebraica, ad un certo punto il figlio doveva rivolgersi al padre dicendo: "perché diversa è questa notte da tutte le notti? Infatti tutte le notti noi mangiamo lievitato e azzimo; questa notte tutto quanto azzimo…". Il padre rispondeva: "schiavi fummo in Egitto del Faraone, e il Signore Dio nostro ci fece uscire di là con mano forte e con braccio disteso" [cit. da C. Girando, Eucarestia per la Chiesa, Gregorian University Press-Morcelliana, Roma-Brescia 1989, 134-135].
Questo testo assai antico ci aiuta a capire profondamente che senso ha parlare oggi di "emergenza educativa". Esso ci mostra come si può stringere un legame buono fra le generazioni: la generazione dei padri e la generazione dei figli.
La prima costatazione. Il legame è istituito dalla narrazione del fatto che ha fondato l’identità e quindi la libertà del popolo a cui il bambino appartiene. È stata la liberazione dalla schiavitù egiziana a dare origine ad Israele; è stato l’evento fondatore della sua identità.
La narrazione viene ripetuta ogni anno – ogni anno la Pasqua deve essere celebrata – perché si custodisca la memoria dell’evento fondatore "di generazione in generazione". La memoria deve essere custodita, perché quando si perde la memoria si perde la consapevolezza della propria identità; si è sradicati, spaesati, esiliati da se stessi. Dunque la narrazione che il padre fa al figlio impedisce a questi di ignorare la sua origine, di ignorare la sua dignità di uomo libero, e gli consente di sentire la propria libertà come un bene condiviso con gli altri.
In questo modo, mediante quella narrazione, il rapporto fra le generazioni non era solo biologico ma diventava pienamente umano. La generazione dei figli, già legata biologicamente a quella dei padri, entrava nello stesso universo dei padri: la stessa religione, la stessa legislazione, gli stessi valori. Si costituiva un popolo non solo in senso etnico, ma anche culturale. Israele è l’Israele di Dio e Dio è il "Santo di Israele".
Ma c’è un altro aspetto ancora più importante; anzi è il più importante di tutti. La risposta del padre al figlio si conclude nel modo seguente: "in ogni generazione e generazione ognuno è obbligato a vedere se stesso come essendo proprio lui uscito dall’Egitto" [ibid. pag. 111].
La narrazione del padre racconta l’evento fondatore non semplicemente come un fatto che definitivamente appartiene al passato, ma come un avvenimento che continua anche ora ad esercitare il suo influsso. Anche ora, ogni generazione di figli ha bisogno di sapere la sua origine, di accedere alla dignità di uomini liberi, di condividerla dentro una comunità di persone. La tradizione che si trasmette di generazione in generazione è una dimensione essenziale del presente, dal cui riconoscimento o negazione dipende la costituzione del proprio io. Ed è la generazione dei padri a testimoniare questa presenza, ed introdurre così il figlio nella vita.
Si potrebbero dire molte altre cose, ma mi fermo nella considerazione del rito ebraico. Vorrei farvi vedere come esso sia come il paradigma educativo di ogni vero rapporto educativo. Quando nelle vostre famiglie il rapporto padre-figli "funziona", anche in esse accade tutto ciò che accadeva la sera di Pasqua in ogni famiglia ebraica.
Parto da un episodio realmente accaduto in una famiglia. Essa fu colpita da un gravissimo lutto. La bambina di pochi mesi fu colpita da un tumore che la portò alla morte. Il fratellino di qualche anno di vita, dopo qualche giorno dal funerale, chiese a sua madre: "mamma, ma quando torna a casa Lucia?".
La risposta a questa domanda, una delle più radicali che l’uomo possa compiere, ha dato inizio in senso forte alla grande narrazione della vita che i genitori fecero al loro bambino.
Essi non partivano dal niente: dentro al niente si può cadere, ma dal niente non si può partire. Sono due sposi: il matrimonio è condivisione amorosa dello stesso destino. Sono due sposi radicati e fondati dentro l’avvenimento cristiano. Essi hanno risposto narrando quell’incontro che avevano fatto con Cristo risorto dai morti. Un incontro che in quel momento, mediante la testimonianza dei suoi genitori, accadeva anche per il bambino, rispondendo al bisogno di una presenza: la presenza della persona amata. La Tradizione cristiana mediante la testimonianza dei padri diveniva risposta adeguata al bisogno del cuore dei figli: questa è l’educazione.
Possiamo ora tentare come una definizione. L’educazione è la tradizione che diventa presenza dentro alla testimonianza che i padri ne fanno ai figli. Queste tre categorie, tradizione-presenza-testimonianza, costituiscono l’atto educativo. Ho chiamato questa presenza-testimonianza anche la narrazione della vita fatta di generazione in generazione.
A questo punto della nostra riflessione siamo in grado di capire che cosa significa emergenza educativa e perché noi ci troviamo dentro ad una vera e propria "emergenza educativa".
Proviamo a fare una serie di ipotesi, sempre considerando il rapporto fra le generazioni.
Se colui che deve trasmettere una visione della vita ed introdurre dunque il nuovo arrivato nell’universo di senso – diciamo: la generazione dei padri – si sradica dalla tradizione, non può non succedere che una delle seguenti due conseguenze. O si instaura un rapporto di permissivismo, caratterizzato da una sorta di scetticismo e di indifferentismo: non esiste una verità circa il bene della persona [scetticismo], e quindi tutto alla fine è permesso [indifferentismo], purché non ci si faccia del male. O si instaura un rapporto di egemonia e di autoritarismo: non si fa più nessuna proposta; si impone.
Prima di procedere oltre vorrei solo accennare al fatto che sia l’uno che l’altro esito è accompagnato da una mancanza di vera condivisione del destino dell’altro. Ma non abbiamo ora il tempo di approfondire questo aspetto della questione.
Che cosa significa "se la generazione dei padri si sradica dalla tradizione"? quando e come accade questo sradicamento? Richiamiamo alla memoria ancora una volta il rito ebraico e la domanda del bambino rimasto privo della sorellina.
Alla richiesta del figlio il padre non riuscirebbe a rispondere se avesse perso la memoria dell’evento fondatore oppure se non lo avesse ritenuto vero, realmente accaduto cioè. Smemoratezza e/o incredulità sradicano la generazione dei padri dalla tradizione. Non a caso il Signore attraverso i suoi profeti metteva in guardia Israele soprattutto contro due rischi: la perdita di memoria ["ricordati, Israele…", non dimenticare, Israele…"] e la sfiducia o incredulità ["se non crederete, non avrete stabilità"].
Alla richiesta del bambino la madre non avrebbe saputo rispondere se non in maniera inadeguata ["non può ritornare, perché è morta"], se non avesse in quel momento fatto memoria dell’evento fondatore di senso, la risurrezione di Gesù, e non lo avesse ritenuto un fatto vero.
In un caso e nell’altro la generazione dei padri o diventa una generazione di testimoni ["è accaduto un fatto, e questo fatto ti riguarda ora, poiché esso è il fatto che illumina la tua ragione, dona consistenza al tuo io, rende la tua libertà capace di grande rischi"] o diventa la generazione che apre la porta di casa della generazione dei figli all’ospite più inquietante, il nichilismo.
Possiamo finalmente dire in che cosa consiste l’emergenza educativa in cui ci troviamo. Essa è data da due fattori. Da una parte la generazione dei figli chiede – e non può non farlo – di entrare dentro ad un universo vero, buono, bello; dall’altra parte la generazione dei padri è divenuta straniera all’universo di senso: non sa più che cosa dire. L’emergenza educativa è l’interruzione della narrazione che una generazione fa all’altra: è l’afasia della generazione dei padri e l’incapacità della generazione dei figli di articolare perfino la domanda che urge dentro al loro cuore. I padri non rendono presente nessuna tradizione, perché ne hanno perso la memoria, e diventano testimoni del nulla e trasmettitori di regole. I figli si trovano a vagabondare in un deserto privo di strade, non sapendo più da dove vengono e dove sono diretti.
2. Scuola ed emergenza educativa.
Per uscire dall’emergenza educativa in cui ci troviamo, la scuola ha un compito fondamentale: non se ne esce se non interviene, nel modo suo proprio, anche la scuola. La condizione dunque di questa istituzione deve essere una delle preoccupazioni fondamentali di chiunque abbia a cuore il destino della persona umana. Per almeno due ordini di ragioni.
È la scuola che in larga misura introduce in maniera sistematica la persone nell’universo del senso: in cui esse imparano la difficile arte di usar la loro ragione, e costruiscono l’ethos della loro vita.
È la scuola che ha la missione, a cui purtroppo può anche venir meno, di immunizzare la persona contro la tirannia del conformismo: di generare cioè persone veramente libere e liberamente vere.
Nel primo punto della mia relazione vi ho detto che l’emergenza educativa in cui ci troviamo, consiste nel fatto che si è interrotta la "narrazione della vita" che la generazione dei padri deve fare alla generazione dei figli.
La mia ipotesi di lavoro che vi presento è allora la seguente: la scuola ha la capacità di riprendere questa narrazione, di reinserire la persona dentro a questo grande racconto, mediante ciò che essa è e mediante gli insegnamenti [= le materie] che trasmette. Vorrei ora riflettere un poco su questa ipotesi.
Un grande professore ed educatore [ha educato Tommaso d’Aquino!], S. Alberto Magno, ha espresso mirabilmente questa ipotesi quando ha scritto: "in dulcedine societatis quaerere veritatem", cioè "nella dolcezza della vita comune cercare la verità". Ho detto che la scuola ha la capacità di farci uscire dall’emergenza educativa mediante ciò che è: una comunità [la "dulcedo societatis" di S. Alberto] e mediante ciò di cui dispone: gli insegnamenti o materie [il "quaerere veritatem" di S. Alberto].
Educare attraverso lo studio delle discipline: "quaerere veritatem". Inizio da questo punto, perché in un certo senso è quello più tipicamente scolastico.
Il punto di partenza è che dobbiamo avere una visione vera della persona umana. Essa ha una naturale, originaria, capacità di stupirsi di fronte alla realtà e quindi di interrogarsi circa essa. Essa è un "vivente" nel senso più alto del termine. Non solo re-agisce, ma agisce: si muove da se stessa e non é solo mossa. Non diamo troppo scontata questa visione vera della persona umana, immersi come siamo in un pensiero di riduzionismo antropologico.
Nella lezione che il S. Padre avrebbe dovuto tenere alla "La Sapienza", dice: "Di fronte ad una ragione a-storica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza umana come tale – la sapienza delle grandi tradizioni religiose – è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee".
Educare attraverso lo studio delle varie discipline significa trasmettere "la sapienza umana come tale", ma in modo che l’alunno sia risvegliato dagli insegnamenti dal "sonno della ragione", durante il quale egli non può che sognare e non incontrarsi colla realtà. La domanda di Socrate ad Eutifrone circa la tradizione religiosa: "dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?" [Eutifrone 6 C], è il paradigma con cui declinare ogni trasmissione di insegnamento attraverso le varie discipline.
Proviamo a farci una domanda: uno strumento di calcolo, una qualsiasi calcolatrice, ragiona? Penso che tutti siamo d’accordo nel rispondere negativamente. Per lo meno nel rispondere che non ragiona alla maniera umana: sa fare quello per cui è stata programmata.
Questo esempio mi serve per dire la stessa verità per contrarium. La trasmissione del sapere non ha alcuna analogia con la programmazione nel senso suddetto, poiché ha a che fare con un soggetto libero. Agostino ha scritto profondamente che Dio ha creato l’uomo perché si spezzasse il cerchio dell’eterno ritorno dell’identico: ogni uomo a causa della sua libertà è un inizio assoluto e sempre nuovo. Al bambino ebreo attraverso la narrazione della storia del suo popolo veniva chiesto di rivivere la stessa esperienza dei suoi padri nella notte della liberazione: di porsi all’inizio e di essere causa dell’inizio.
Non vorrei che pensaste che tutto questo è vero solo per le discipline umanistiche, negando o comunque sottovalutando il valore educativo delle discipline scientifiche. Non posso fermarmi a lungo su un punto di importanza fondamentale nell’emergenza educativa in cui ci troviamo: un punto sul quale oggi il ragazzo non raramente "gioca" la fede ricevuta. Mi limito a citare un testo di un’insegnante di matematica.
"Le discipline scientifiche hanno valore educativo non tanto per la quantità di informazioni che trasmettono, quanto per il fatto di introdurre i ragazzi al metodo scientifico. Questo è veramente un risultato che può diventare stabile e duraturo per la vita dell’allievo.
Attualmente l’informazione scientifica appare su molte riviste, in televisione, sui giornali. Volendo raggiungere conoscenze specifiche particolari ed accurate su qualche punto particolare, sono disponibili enciclopedie e testi divulgativi; mi sembra quindi che non abbia senso fare scienze a scuola solo per trasmettere informazione scientifica. C’è qualcosa di più!
La scienza è un modo di guardare la realtà con la curiosità di conoscerne i fenomeni, sia per godere della loro bellezza che per poterli controllare e per poter fare previsioni utili. Dunque entrare nel campo scientifico a scuola appropriandosi del metodo scientifico, permette di capire un atteggiamento con cui l’uomo si è posto e si pone davanti alla realtà. Iniziare in questo modo nella scuola elementare, vuol dire preparare a comprendere gli approfondimenti successivi della scuola media superiore, che saranno più metodici e ricchi di particolari. L’educazione scientifica riguarda non solo la futura attività professionale, ma la vita intera della persona. Chi conosce il metodo scientifico, riesce a porsi in modo critico e consapevole di fronte all’abuso di linguaggio scientifico che ci circonda, riconosce la divulgazione scientifica autentica distinguendola dalla pretesa di dare solo aspetto scientifico a fatti proposti per interesse economico o ideologico che sia. Per discriminare i messaggi dei mass media e le pressioni ideologiche, occorre sapere con chiarezza quali domande si possono fare alla scienza e quali garanzie possono avere i risultati scientifici. Una buona formazione scientifica deve condurre a saper riconoscere le domande a cui la scienza può rispondere, differenziandole da quelle a cui essa non può rispondere, sottolineando che queste domande non sono senza risposta (come afferma lo scientismo), ma che vanno affrontate in altro modo." [P. Bruno Longo].
Ma la scuola può farci uscire dall’emergenza educativa anche a causa di ciò che è: "in dulcedine societatis". È mediante la condivisione di vita fra educatore-insegnante ed alunno che si riprende la grande narrazione della vita.
Tempo fa, dopo la tragica uccisione di Raciti, un gruppo di ragazzi di un liceo di Catania scrisse agli insegnanti della loro scuola per chiedere, alla fine, che li aiutassero a trovare le ragioni per cui vale la pena vivere. La risposta fu che loro, gli insegnanti, erano pagati per insegnare non per offrire ragioni per vivere.
Il compito dell’insegnante è con-vivere col suo alunno: nel senso profondo del termine. Cioè: illuminare il cuore dell’alunno attraverso ciò che insegna, offrendo attraverso questo insegnamento la propria esperienza umana.
Non voglio prolungarmi ulteriormente: ho visto che questa tematica è ampiamente affrontata nei giorni seguenti. Voglio invece concludere questo secondo punto della mia relazione ponendo alla vostra attenzione un serio interrogativo.
Non è possibile una vera proposta educativa che non sia unitaria. Non conosco la verità ed il senso del frammento fino in fondo se non lo considero all’interno dell’intero. Io vedo l’insegnamento della religione in questa prospettiva.
3. Comunità cristiana ed emergenza educativa.
Sono così giunto alla terza parte della mia riflessione, nella quale vorrei rispondere alla domanda su come la comunità cristiana, più precisamente la Chiesa locale, si pone nel contesto dell’emergenza educativa.
Preciso subito questa tematica vastissima, ricordandovi che stiamo parlando di emergenza educativa; lo stiamo facendo in rapporto alla scuola. Dunque potremmo formulare la domanda nel modo seguente: come si pone la comunità cristiana in ordine ad una scuola che voglia farci uscire dall’emergenza educativa in cui ci troviamo?
Dobbiamo in primo luogo partire dall’affermazione che la Chiesa ha "titolo" per entrare in questo contesto. Direi anzi: ha titolo speciale. Lo ha ricordato anche il S. Padre nella già citata lezione.
La Chiesa è il soggetto vivente di una tradizione che costituisce un elemento essenziale, anzi l’elemento essenziale di quella grande "narrazione della vita" che ha forgiato il nostro popolo. La stoltezza di dover risolvere il problema reale della pluralità che caratterizza sempre più anche la nostra società con una sorta di azzeramento di tutte le identità, è dal punto di vista educativo devastante.
La pluralità delle "visioni della vita" è un dato che non può più essere negato. Ignorarlo genera una società di "estranei morali" nella quale la persona umana non può vivere. Risolverlo mediante "regole" neutrali di fronte ad ogni visione [= laicità escludente] è praticamente impossibile, socialmente dannoso: non esiste nessuna regola capace di farmi osservare le regole. È ugualmente contro la dignità dell’uomo risolverlo imponendo un visione della vita contro le altre: le più grandi tragedie del XX secolo – nazionalsocialismo e comunismo – sono nate da questa decisione.
Esiste una sola via: entrare nel dibattito pubblico esibendo le ragioni che dimostrano la verità e la bontà della visione cristiana della vita. Più precisamente, per il nostro tema: l’interpretazione cristiana della vita può e deve essere offerta dentro la scuola – intendo dire quella gestita dallo Stato – come ipotesi educativa sulla quale l’alunno possa compiere la verifica della sua vita. Mi dispiace di dover essere molto telegrafico a causa del tempo che ho a disposizione.
Voglio dire che quanto ho esposto nella seconda parte della mia relazione, può e deve assumere la forma della proposta cristiana. Intelligentibus loquor: nonostante … l’età, non ho ancora perso completamente l’uso della ragione; e quindi non sto proponendo la … matematica, la biologia, la fisica cristiana! È qualcosa di più profondo che sto dicendo.
Se ciò che ho detto nella seconda parte è vero. Se cioè la scuola può farci uscire dall’emergenza educativa, purché: (a) educhi mediante l’insegnamento delle materie; (b) educhi mediante una vera condivisione della esperienza scolastica fra insegnanti e studenti; (c) sia proposta una ipotesi unitaria di vita. Allora la presenza della proposta cristiana dentro la scuola, nelle condizioni proprie di una società plurale e a democrazia procedurale, non può essere emarginata o eliminata.
E vengo così alla seconda ed ultima riflessione. Come si realizza questa presenza?
In due modi fondamentali: l’insegnamento della religione cattolica; i docenti cristianamente formati ed orientati.
Non dico nulla sulla prima modalità: nei prossimi giorni ne parlerete diffusamente. Vorrei dire qualcosa sulla seconda, e così terminare.
Ho indicato due qualità. La prima è la "formazione cristiana". Non in senso generico, ma specifico. Esiste una dottrina cristiana sull’educazione, perché esiste una esperienza cristiana dell’educazione. L’assimilazione di quella dottrina è fondamentale. Anche in questo campo si scontrano colla visione cristiana visioni metafisiche ed antropologiche che non rendono difficile l’atto educativo: lo rendono impraticabile perché lo rendono impensabile.
La seconda qualità è l’orientamento cristiano del proprio operare. Non sto facendo il discorso morale sulle virtù e sulla deontologia professionale: questa è morale razionale. L’orientamento cristiano significa che il "maestro" cerca di realizzare le tre condizioni appena richiamate in modo cristianamente orientato. E qui si aprono questioni importanti e molto precise sulle quali rifletterete nei giorni prossimi.
Conclusione
Concludo con la lettura di una pagina della letteratura patristica.
"Egli ci accolse fin dal primo giorno: il primo, effettivamente, e devo dirlo, il più prezioso di tutti. Infatti, allora, per la prima volta cominciò per me a risplendere il vero sole. Noi, da principio, alla maniera di bestie selvatiche, pesci, uccelli, che caduti nei lacci, nelle reti, tentano di sgusciarne fuori, fuggire via, desideravamo allontanarci … Egli, pertanto, si adoperò con tutti i mezzi a legarci a sé … Soprattutto egli con grande abilità trattava argomenti che valessero a scuoterci nell’intimo, giacché mostravamo di trascurare quello che, come egli afferma, è il più importante dei nostri beni, la ragione" (Gregorio il Taumaturgo, Discorso a Origene, ed. Città Nuova, Roma 1983, pag. 64-65).
Di che si tratta? Un giovane di nome Gregorio al termine dei suoi studi superiori, oggi si direbbe terminata l’Università, vuole fare una descrizione dell’esperienza vissuta negli anni della sua formazione accademica, parlando del rapporto vissuto col suo maestro, Origene. Siamo negli anni 232/233 – 238 d.C.. E’ possibile oggi che un giovane possa ancora rivivere l’esperienza di Gregorio? Dire con tutta verità che "effettivamente (il giorno) più prezioso di tutti" è stato l’incontro con i propri maestri, cominciando in quell’incontro "a risplendere il vero sole"? e che ciò accade perché si vive come uno "scuotimento nell’intimo", poiché si "cessa di trascurare quello che … è il più importante dei nostri beni, la ragione"? O forse non è neppure più necessario vivere nella vita una tale esperienza dal momento che ciascuno deve semplicemente vivere "come gli pare e piace"?
La risposta a queste domande la può dare non un insegnante, ma un maestro. Quale è la diversità? L’insegnante trasmette regole, il maestro testimonia la verità. Il primo chiede di imparare, il secondo persuade a verificare.
Platone ha scritto: "La conoscenza di queste cose non è affatto comunicabile come le altre conoscenze ma dopo molte discussioni fatte su queste cose, e dopo una comunanza di vita, improvvisamente, come luce che si accende da una scintilla che si sprigiona, essa nasce nell’anima e da se stessa si alimenta" [Lettera VII, 341 C].
LA FIGLIA DEL MARESCIALLO UCCISO
UNA RAGAZZA CI INSEGNA COS’È L’IDEALE
Avvenire, 17 febbraio 2008
DAVIDE RONDONI
Poi arriva Giusy, che ha solo diciott’anni e un dolore che non si può capire. Perché le hanno ammazzato il padre mentre faceva il soldato. Arriva lei e con addosso un dolore che non si può capire dice una cosa che invece si capisce benissimo. Arriva con addosso un amore che non si può capire e dice una cosa che si capisce benissimo. Dice cos’è un ideale. Dice 'non ti voglio ricordare in una bara'. Dice 'continuerò il tuo lavoro'. Dice cose così umane da mettere quasi paura. Perché ormai siamo così rattrappiti nel cuore e nella mente da pensare che cose così esistano solo nei film o nei momenti speciali. E invece questa è l’Italia, questa è Giusy.
In piedi signori presidenti, signori professori, signori dei signori di questo Paese che troppo spesso avete ridotto nei vostri pensieri prima ancora che nelle vostre azioni a selva di retorica e di giochi di potere, a noia, a banalità. Deve arrivare ancora una ragazza a dirci cosa è l’ideale. Che è cosa diversa dall’emozione. Diversa dal sogno. E diversa dall’ideologia. L’emozione non basta a far parlare così. I sogni passano col tempo, l’ideale invece in lei è cresciuto nel tempo, anche grazie a quel padre vicino e lontano. L’ideologia vuole capire e possedere il mondo, l’ideale invece vuole servire. Per ideologia si diventa potenti o intellettuali. Per ideale si diventa soldati, servitori con la maiuscola.
Non prendete in giro Giusy, non trattatela come se fosse un 'bel momento di retorica'. I suoi diciotto anni non sono per nulla retorici. Il taglio doloroso di essere rubata in tal modo del padre non è retorica, è vita durissima. E l’ideale è fatto della stessa pasta della vita. Ma non si conosce cosa è l’ideale se non si conoscono uomini che ne vivono davvero.
Giusy conosceva suo padre. Come lo conosceva sua madre, che ha chiesto venisse avvolta nel tricolore la bara. E non per consuetudine retorica o militaresca, ma 'perché lui lo amava'. Fermiamoci un attimo, un attimo prima della campagna elettorale, prima di guardare fuori dalla finestra, un attimo prima di dire il nome delle persone che ci sono care, dei luoghi che ci sono cari. Per guardare cosa c’è dentro queste frasi di figlia e di madre. Cosa c’è dentro questo ritratto di padre e marito. E di donna e di ragazza. Se non si considera quanto pesa, e quanto s’innalza la natura dell’ideale, se non si considera quanto bene e quanta giustizia e quanta verità il cuore di queste persone ha visto e vede in un ideale, non si capisce più niente dell’Italia. Se non si onora questo ideale, si finisce per disprezzare tutto.
Giusy ha capito di più l’Italia di tanti politici, di tanti presidenti, di tanti analisti economici o sociali. Ha capito che la vita di un uomo è innanzitutto il suo ideale. Cioè l’obbedienza a quel che il cuore desidera veramente. Non il suo conto in banca, non quante tasse paga, non che tipo di contratto ha. Ha capito che la vita di suo padre ha un anticipo di infinito già ora perché ha vissuto un ideale. E che se non si nutre, se non lo si continua, se non lo si assume come responsabilità la vita sa già di morte, come l’Italia di tanti tromboni della politica o della cultura o della tv sa già di mummia. Giusy è arrivata senza orgoglio a dire queste cose. Ha chiesto aiuto, perché l’ideale non lo si sostiene da soli. Ha chiesto a suo padre di starle vicino. Anche ora che non è in un lontano Afghanistan, ma così vicino come quando abbracci una persona e non la vedi più.
I musulmani dei Balcani ci trascineranno in guerra
Stavolta con Belgrado ci sarà Putin. Si rischia lo scontro globale...
di Renato Farina
Venti torbidi da est tornano. Il cuore musulmano dei Balcani, che solo la nostra stupidità ha reso presuntuoso e temerario, batte il tam tam delle armi. I nomi sono familiari, perennemente legati a guerre: Serbia e Kosovo. Già nel 1999 ci coinvolsero nei loro guai. Il governo D'Alema, con la supervisione di un Kossiga più che mai con la kappa di amerikano, senza voto del Parlamento, senza consenso dell'Onu chiamò l'Italia a parteciparvi nelle file della Nato. Era stato Clinton a volere l'intervento. La guerra durò tre mesi, senza truppe di terra: bombardamenti missilistici, duetremila morti. Il Kosovo ora sta per proclamare probabilmente domenica prossima - la sua indipendenza dalla Serbia, che non ne vuole sapere, e si opporrà con ogni mezzo. Si era proposto a Belgrado uno scambio: ingoiate il rospo e noi vi ammettiamo con procedura d'urgenza nell'Europa Unita. Hanno risposto: noi non vendiamo i nostri figli, lì ci sono le nostre radici. E hanno pure ragione. Sarebbe come dare l'indipendenza a Roma perché col tempo la maggioranza degli abitanti è diventata musulmana-marocchina. In Kosovo-Metohija il popolo cristiano-serbo ha cercato di resistere agli ottomani. A Kosovo Polje, nel 1389, fu sconfitto. Così pure il secolo dopo. I serbi venerano quel luogo come la terra dei loro eroi. Ci hanno costruito monasteri. Con il tempo gli albanesi sono diventati maggioranza. Per come si sono messe le cose, ora ci toccherà sostenere l'indipendenza del Kosovo. L'America che ha già strizzato l'occhio ai turchi, ora lo rifà con gli albanesi. Speriamo nella diplomazia, altrimenti non sarà come nel 1999. Non sarà stavolta un conflitto locale. Germania, Francia, Regno Unito e Italia riconosceranno il Kosovo per bloccare le velleità armate della Serbia. Ma se dovessero muoversi i carri armati di Belgrado l'intervento della Nato non sarà automatico. Se accadesse questa volta si allargheranno incendi spaventosi. Infatti la Russia non è più lo Stato affranto e ancora fragile di Eltsin. Ora lo zar Putin è alla testa di un Paese tornato ricco, con l'arma dell'energia con cui ricattare l'Europa. Sorveglia, non può permettere che il principio di autodeterminazione etnica, fatto valere dagli albanesi kosovari, contagi Abkhazia, Ossezia, Cecenia. Per far intendere che musica è pronto a suonare ha minacciato l'uso dei missili contro Kiev se l'Ucraina dovesse entrare a far parte della Nato. Non gli dispiace affatto poter allargare la sua sfera di influenza esplicita fino a un passo dal Mediterraneo. I serbi di recente hanno scelto leader sicuramente democratici. Ma per loro farsi tagliar via il Kosovo è impossibile, nazionalisti o no che siano i capi. Certo un Paese che perde una guerra paga pegno, e nel 1999 la sconfitta fu sonora. Ma è anche vero che i patti sono patti, e la perdita della sovranità non era prevista nelle carte. Oltretutto allora i bombardamenti della Nato furono legittimati da rapporti che a distanza di anni appaiono manipolati dalla volontà di intervento. La Serbia allora unita al Montenegro stava davvero praticando pulizia etnica nei confronti degli abitanti della sua provincia meridionale abitata in maggioranza da albanesi? Più probabile che fosse in corso una guerriglia capeggiata proprio da quell'Hashim Thaci propenso a farsi fotografare da sempre con il kalashnikov in mano. A quel tempo tutti accettammo tranquillamente l'idea che Milosevic, il presidente comunista, fosse l'orco. Orco senz'altro: ma forse non quella volta lì e non con gli albanesi. I quali erano e restano egemonizzati da una banda di guerriglieri o terroristi, l'Uck, di stampo marxista-musulmano. Come dire: il peggio del peggio. Non a caso oggi questa regione è la Mecca infame di corrieri di droga e trafficanti di schiavi. Dove lo sport preferito è la caccia al cristiano (serbo) e la trasformazione dei monasteri ortodossi in cloache. Ora in quella terra, sotto l'egi da dell'Onu, ci sono i soldati italiani. Cercano di difendere i pochi serbi che hanno resistito alla vera pulizia etnica scatenatasi dopo la sconfitta militare. Su 2.400.000 abitanti kosovari i serbi sono circa 70-80mila. Càmpano rinchiusi in territori vigilati dai nostri militari. Prima erano mezzo milione, ma sono dovuti scappare. A noi toccherà dar guerra per difendere ancora una base di terrorismo internazionale islamico e mafioso a un passo da casa nostra? Aveva ragione Cossiga, preso in giro da tutti, a prevedere per questi mesi una montagna di problemi.
LIBERO 16 febbraio 2008
La vita umana non è un talk show
Avvenire, 17.2.2008
MARINA CORRADI
G iuliano Ferrara si è sottratto a un dibattito televisivo sull’aborto con Marco Pannella. Ha detto che non discuterà della vita umana come fosse un’opinione con gli altri candidati in tv, perché la tv «è antiveritativa». Un dibattito televisivo, dice il direttore del 'Foglio', è un bel mezzo, rispettabile, per discutere di Ici o legge elettorale, ma «sulla vita umana vale la solitaria e pubblica ricerca della verità». Una verità che «non è giusto esporre alla futilità delle opinioni a confronto in un dibattito in tv». Invece, ha proposto a Pannella, confrontiamoci in un teatro, quando vuoi.
Lo scontro a Saxa Rubra – col grande vecchio dei radicali che inseguiva il laico pro life urlandogli «vecchio comunista» – ha destato fra giornalisti e politici un certo sbalordimento. Come sarebbe, che la tv è antiveritativa? Intanto lo stesso Ferrara conduce ogni sera un dibattito in tv. E poi, da vent’anni la tv non è il luogo principe per le verità che vogliono emergere? Dai dibattiti politici ai talk show, la tv non è proprio il luogo migliore per dire e dirsi e mostrare tutto, per la dialettica e il contraddittorio, non è il gran nostro tribunale collettivo e domestico per l’accertamento del vero?
Sul dizionario della lingua italiana Devoto-Oli, 'veritativo' è «ciò che conduce alla verità». Diverso da 'veritiero', che vuol dire sincero. Ciò che Ferrara dice non è che la tv mente, ma che sulla questione della vita «non è veritativa», non conduce a verità. L’accusa è al mezzo. Ci sarebbe dunque sotto le telecamere, nei tempi imposti dalla regia, nella fretta di un media che costringe, e soprattutto nei dibattiti elettorali, a parole brevi e slogan a effetto, qualcosa che crea quasi necessariamente una futilità e superficialità obbligata. Come se le regole e la concitazione delle parole contate e dei minuti che corrono portassero a un appiattimento e equivalenza di ogni tesi. Il dibattito televisivo come il luogo consacrato di un relativismo in cui ogni opinione equivale all’altra, e non si tende tanto a cercare la verità, ma il consenso – ciò che riscuote maggior consenso, è vero.
Che c’è di diverso in un teatro, o in una piazza? C’è che si è fuori da questa scatola virtuale che allinea e equipara ogni ragione. C’è un pubblico in carne e ossa – la stanza non è chiusa – e le ragioni e la passione dei contendenti sono libere di dirsi pienamente e di mostrare la loro statura senza il conto avaro dei minuti, ciascuno prendendosi il tempo che la propria vis polemica comanda. Al contrario, si ha spesso, in certi affollati talk show, il dubbio che gli invitati siano lì in realtà per 'esserci' e mostrare dunque che la trasmissione è pluralista, ma senza poter dire niente – niente almeno di ciò che non pensa il conduttore. Un discutere così sembra più un rito mediatico politicamente corretto, che un confronto 'veritativo'.
Dentro alla sua iniziativa di una lista pro life, sulla cui opportunità politica si possono avere dubbi, Ferrara ha detto che la questione di cui vuole parlare è troppo grande per sottostare al rito catodico del contraddittorio in par condicio, della rissa più o meno educata, dei concetti strozzati in tre parole per dare «la linea al tg». Ciò che ritiene di avere capito e vuole comunicare è cosa troppo rilevante per farne oggetto di cronometrata dialettica, di tre minuti a testa di parole affannate. Ci vuole una solitaria o pubblica ricerca fra uomini, davanti a altri uomini, in piena libertà reciproca di dirsi, senza restringersi in una scatola che disincarna, un frullatore che omogenizza ogni ragione. La questione della vita, di ciò che siamo, sta stretta nella forma dei meccanismi di formazione del consenso mediatico. Vuole, ed è una sfida nuova, una ricerca 'veritativa', cioè che conduca a verità, appassionata e senza cronometri, tra gli uomini.
Discorso del Papa a conclusione degli esercizi spirituali per la Quaresima
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 17 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa ha pronunciato questo sabato, nella Cappella Redemptoris Mater, in Vaticano, a conclusione degli esercizi spirituali della Curia Romana, guidati dal Cardinale Albert Vanhoye, S.I.
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Cari fratelli,
alla fine di questi giorni di Esercizi spirituali vorrei dire di tutto cuore grazie a Lei, Eminenza, per la Sua guida spirituale offerta con tanta competenza teologica e con tanta profondità spirituale. Dal mio angolo di visuale ho sempre avuto davanti agli occhi l'immagine di Gesù in ginocchio davanti a San Pietro per lavargli i piedi. Attraverso le Sue meditazioni questa immagine ha parlato a me. Ho visto che proprio qui, in questo comportamento, in questo atto di estrema umiltà si realizza il nuovo sacerdozio di Gesù. E si realizza proprio nell'atto della solidarietà con noi, con le nostre debolezze, la nostra sofferenza, le nostre prove, fino alla morte. Così ho visto con occhi nuovi anche le vesti rosse di Gesù, che ci parlano del suo sangue. Lei, Signor Cardinale, ci ha insegnato come il sangue di Gesù era, a causa della sua preghiera, "ossigenato" dallo Spirito Santo. E così è divenuto forza di risurrezione e fonte di vita per noi.
Ma non potevo non meditare anche la figura di San Pietro con il dito alla fronte. È il momento nel quale egli prega il Signore di lavargli non solo i piedi ma anche la testa e le mani. Mi sembra che esprima — al di là di quel momento — la difficoltà di san Pietro e di tutti i discepoli del Signore di capire la sorprendente novità del sacerdozio di Gesù, di questo sacerdozio che è proprio abbassamento, solidarietà con noi, e così ci apre l'accesso al vero santuario, il corpo risorto di Gesù.
In tutto il tempo del suo discepolato e, mi sembra, fino alla sua propria crocifissione, San Pietro ha dovuto ascoltare sempre di nuovo Gesù, per entrare più in profondità nel mistero del suo sacerdozio, del sacerdozio di Cristo comunicato agli apostoli e ai loro successori.
In questo senso, la figura di Pietro mi pare come la figura di noi tutti in questi giorni. Lei, Eminenza, ci ha aiutato ad ascoltare la voce del Signore, ad imparare così di nuovo che cosa è il suo e il nostro sacerdozio. Ci ha aiutato ad entrare nella partecipazione al sacerdozio di Cristo e così anche a ricevere il nuovo cuore, il cuore di Gesù, come centro del mistero della nuova Alleanza.
Grazie per tutto questo, Eminenza. Le Sue parole e le Sue meditazioni ci accompagneranno in questo tempo di Quaresima nel nostro cammino verso la Pasqua del Signore. In questo senso auguro a tutti voi, cari fratelli, una buona Quaresima, feconda spiritualmente, perché possiamo realmente arrivare nella Pasqua ad una sempre più profonda partecipazione al sacerdozio del nostro Signore.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Preservativo: panacea contro le infezioni sessuali?
Molte campagne di promozione ottengono il risultato opposto
di Padre John Flynn, LC
ROMA, domenica, 17 febbraio 2008 (ZENIT.org).- La questione della distribuzione di massa dei preservativi è nuovamente sulle prime pagine della stampa. Nei giorni precedenti alle celebrazioni del carnevale in Brasile, le autorità hanno annunciato la distribuzione gratuita di 19,5 milioni di profilattici, secondo quanto riportato dalla Reuters il 28 gennaio.
Recentemente, una rivista britannica di medicina, il Lancet, ha criticato la Chiesa per la sua opposizione all’uso dei preservativi. Un editoriale pubblicato sull’edizione del 26 gennaio rimprovera a Benedetto XVI di non voler cambiare la linea della Chiesa per consentire ai cattolici di far uso del preservativo al fine di evitare l’eventuale contagio con il virus dell’HIV/AIDS.
Tuttavia, il presupposto secondo cui il preservativo sarebbe la soluzione contro le malattie sessualmente trasmesse si sta dimostrando sempre di più infondato. Il British Medical Journal ha pubblicato, nell’edizione del 26 gennaio, un forum sulla questione del preservativo, in cui figurano articoli sia a favore sia contro.
Ma anche gli articoli di Markus Steiner e Willard Cates, a favore dei preservativi, ammettono che, in aggiunta all’uso del profilattico, è necessario adottare comportamenti volti ad evitare o ridurre i rischi di contagio. Fra tali misure gli autori citano la tardiva iniziazione all’attività sessuale e la fedeltà reciproca dei partner.
Fra gli autori “contro” vi è Stephen Genuis che scrive chiaramente: “Anzitutto, il preservativo non può essere considerato come la risposta definitiva al contagio sessuale perché esso assicura una protezione insufficiente contro la trasmissione di molte malattie comuni”.
Genius sottolinea anche che: “La ricerca epidemiologica ha dimostrato ripetutamente che la diffusa familiarità con il preservativo e la maggiore consapevolezza sui rischi infettivi di fatto non comporta l’adozione di scelte sessuali più sicure”.
Rincarare la dose
Di fronte a simili constatazioni, sui limiti delle campagne di educazione sessuale e di diffusione del preservativo, la reazione spesso è quella di rincarare la dose. Un classico esempio di questo tipo di reazione viene dall’Australia, dove risulta che il 60% delle donne che hanno avuto gravidanze non programmate stavano facendo uso della pillola contraccettiva o del preservativo.
Secondo il servizio apparso il 30 gennaio sul quotidiano Age di Melbourne, le organizzazioni per la pianificazione familiare rispondono a tale situazione promuovendo un rafforzamento dei programmi di educazione sessuale.
Tuttavia, nel citato articolo apparso sul British Medical Journal, Genius sottolinea l’inefficacia di tale strategia. Con riferimento al preservativo e alle campagne di “sesso sicuro”, l’autore afferma: “L’incessante aumento della diffusione di malattie sessualmente trasmesse, a fronte di un livello senza precedenti nell’educazione e promozione dell’uso del preservativo, dimostra tutti i limiti di tali politiche”.
“In molti studi di ampia portata, gli sforzi concertati, diretti a promuovere l’uso del preservativo, hanno regolarmente mancato di arginare i tassi di infezioni sessualmente trasmesse, persino nei Paesi con programmi avanzati di educazione sessuale come il Canada, la Svezia e la Svizzera”.
D’altra parte, in quei Paesi come la Tailandia e la Cambogia in cui le infezioni sessualmente trasmesse sono diminuite, un attento esame dei dati rivela che le cause di tale riduzione sono da attribuire non al maggior uso del preservativo, ma a cambiamenti nei comportamenti sessuali, afferma Genius.
“Moltissimi adolescenti, bombardati da un’educazione sessuale incentrata sull’uso del profilattico, non sono in grado di soddisfare le proprie esigenze umane fondamentali e finiscono per contrarre malattie a trasmissione sessuale”, conclude Genius.
L’esperienza in Africa
Un libro pubblicato lo scorso anno critica l’eccessivo affidamento al preservativo nella lotta all’AIDS in Africa. L’autrice del libro “The Invisible Cure: Africa, The West, And the Fight Against AIDS”, (Farrar, Straus, and Giroux), Helen Epstein, esprime riserve anche per le campagne sull’astinenza sessuale, ma ammette in ogni caso l’importanza del cambiamento nel comportamento sessuale.
Nel tentativo di trovare le cause dell’alto tasso di infezione in Africa, i ricercatori hanno riscontrato che una percentuale relativamente elevata di uomini e donne africani intrattenevano contemporaneamente più rapporti sessuali. Rispetto alla diffusa monogamia dei Paesi occidentali, i rapporti multipli aumentano notevolmente il rischio di una rapida diffusione delle malattie sessuali.
Epstein critica fortemente le campagne contro l’AIDS, gestite dagli occidentali. Organizzazioni come Population Services International, Family Health International e Marie Stopes International, sono state tra le prime a promuovere il controllo demografico, osserva l’autrice. Più di recente, la loro attività di campagne promozionali dell’uso del preservativo si sono rivelate delle forme di pubblicità che di fatto hanno promosso la diffusione dell’attività sessuale, e in alcuni casi hanno “sconfinato nella misoginia”, aggiunge Epstein.
Il messaggio che da queste campagne viene fuori è che il sesso casuale non è un problema fintanto che si usa il preservativo. In più, oltre a promuovere comportamenti che di fatto alimentano il contagio, secondo Epstein, esse spesso contrastano con le sensibilità locali in tema di morale e rispetto della persona.
Cambiare il comportamento
Epstein critica le organizzazioni e le Nazioni Unite anche per la loro tendenza a minimizzare l’importanza dell’infedeltà nella diffusione dell’AIDS. Al riguardo l’autrice racconta la sua esperienza in cui, ad una conferenza internazionale sull’AIDS che si è svolta a Bangkok, i ricercatori che presentavano dati sull’importanza della fedeltà nella prevenzione contro il contagio sono stati “praticamente fischiati via dal palco”.
Anche un altro libro pubblicato lo scorso anno, “The AIDS Pandemic: The Collision of Epidemiology With Political Correctness” (Radcliffe Publishing), sottolinea la necessità di promuovere il cambiamento nel comportamento sessuale, piuttosto che fare esclusivo affidamento sull’uso del preservativo.
James Chin, professore di epidemiologia presso l’Università della California a Berkeley, dedica un’ampia parte del libro ad un’analisi sul numero delle persone infette dal virus dell’AIDS, sottolineando come spesso i dati sono ampiamente gonfiati.
Chin sostiene anche che i timori di un contagio su larga scala nella popolazione sono infondati, dato che il comportamento della maggioranza delle persone non espone a cadere vittima dell’AIDS. Il rischio maggiore del contagio si colloca fra gli omosessuali e fra coloro che hanno partner molteplici e simultanei, spiega l’autore.
Il contributo positivo che la religione può dare nel processo di cambiamento del comportamento sessuale è stato riconosciuto in uno studio della RAND Corporation, pubblicato lo scorso anno. Le persone sieropositive che affermano di considerare la religione come una parte importante della propria vita risultano avere meno partner sessuali e minori probabilità di diffondere il virus, secondo questo studio dal titolo “Religiosity, Denominational Affiliation and Sexual Behaviors Among People with HIV in the U.S.”.
“La religiosità è una risorsa poco usata nella lotta all’HIV e all’AIDS, e dovrebbe essere considerata con maggiore attenzione”, ha osservato Frank Galvan, autore principale dello studio, in un comunicato stampa del 3 aprile sul rapporto.
La sessualità cristiana
La visione della Chiesa relativa al preservativo non si fonda sulla sua valenza a fini di prevenzione delle malattie. La sessualità, spiega il n. 2332 del Catechismo della Chiesa cattolica, esercita un’influenza sull’intera persona umana, fatta di corpo e anima. Essa concerne l’affettività, la capacità di amare e di procreare, e di intrecciare rapporti di comunione con altri.
La sessualità è veramente umana e personale quando è integrata in un rapporto da persona a persona; un rapporto che consiste nel dono reciproco, totale e illimitato nel tempo, tra un uomo e una donna, osserva il Catechismo (n. 2337).
Benedetto XVI ha affrontato il tema dell’AIDS anche in alcuni discorsi pronunciati di recente in occasione della presentazione delle credenziali dei diplomatici accreditati presso la Santa Sede. Il 13 dicembre, rivolgendosi al nuovo ambasciatore della Namibia, Peter Hitjitevi Katjavivi, il Papa ha riconosciuto l’urgente necessità di arginare la diffusione delle infezioni.
“Assicuro il popolo del suo Paese che la Chiesa continuerà ad assistere quanti soffrono di AIDS e a sostenere le loro famiglie”, ha affermato il Papa.
Il contributo della Chiesa all’obiettivo di sradicare l’AIDS, ha proseguito il Pontefice, “non può che trarre ispirazione dalla concezione cristiana dell’amore e della sessualità umani”. Tale visione considera il matrimonio come comunione di amore totale, reciproca ed esclusiva fra un uomo e una donna, ha spiegato Benedetto XVI.
Lo stesso giorno, di fronte al nuovo ambasciatore del Gambia presso la Santa Sede, Elizabeth Ya Eli Harding, il Papa ha ribadito che la medicina e, in particolare, l’educazione hanno un importante ruolo da svolgere nella lotta all’AIDS: “Una condotta sessualmente promiscua è la causa radicale di numerosi mali morali e fisici e deve essere superata promuovendo la cultura della fedeltà coniugale e dell’integrità morale”.
Recensione di "Il petroliere"
A cura di Sentieri del Cinema
Il petroliere (There Will Be Blood)
(2008, USA)
Genere: drammatico
Durata: 156'
Regia di: Paul Thomas Anderson
con Daniel Day-Lewis, Paul Dano, Ciaran Hinds
California: negli anni a cavallo tra ‘800 e ‘900, Daniel Plainview diventa ricco trovando il petrolio prima degli altri, spesso abbindolando comunità di ingenui. Con la sua feroce determinazione e il suo odio per il prossimo, si scontra nella cittadina di Little Boston con un predicatore spregiudicato che non vuol perdere il controllo sul “gregge”…
Molti hanno visto in Daniel Plainview, protagonista de “Il petroliere”, richiami a quel Charles Foster Kane, magnate della stampa, raffigurato in “Quarto potere” di Orson Welles; anche a partire da una definizione data di lui nel film: «È facile fare un sacco di soldi, se l’unica cosa che interessa è fare un sacco di soldi». Ma, se possibile, il personaggio di Daniel Plainview è ancora più estremo. Tratto da un romanzo degli anni ’20 di di Upton Sinclair e diretto da Paul Thomas Anderson, il film si apre con la scena di un uomo, agli inizi del 1900, intento a estrarre argento con pala e piccone. Solo e ostinato al punto che quando cade in una fossa e si rompe una gamba, da solo riemergerà e andrà avanti senza chiedere aiuto a nessuno e rimanendo zoppo per tutta la vita. Su questa tenacia, che non guarda in faccia a nessuno, Plainview costruirà il suo impero basato su un’interminabile processione di fusti di greggio. Ma sarà sempre un uomo che non ha amici né soci, amori o affetti familiari. Unico legame quello con un figlio adottivo, trattato però come un oggetto, buono giusto per far intenerire e trarre vantaggio dagli stupidi. Plainview (interpretato da Daniel Day-Lewis con impressionante bravura), è come un toro furioso, che considera nemici tutti gli uomini e Dio stesso. Troverà sulla sua strada, nella polverosa cittadina di Little Boston, un predicatore ambiguo e spregiudicato (Paul Dano, che si rivelò in “Little Miss Sunshine”), con cui si scontra fin dall’atto di vendita di un terreno brullo ma nelle cui viscere scorrono fiumi di petrolio. Tra i due l’odio divampa ben presto, per il controllo sulle persone soggiogate dalle rispettive personalità: una competizione sanguinosa e violenta, fino all’epilogo.
Quasi fosse l’anima nera del sogno americano, il desiderio di benessere e felicità diventano lungo il corso degli anni avidità, violenza e sopraffazione (che lo porteranno nel tempo a una disperata solitudine). Ne fanno le spese tutti quelli che si trovano a ostacolarlo, provocarlo, ingannarlo. Ma ne fa le spese anche il figlio adottivo, menomato da un incidente che lo rende sordo e abbandonato per alcuni anni in un ricovero. Un figlio che lo ama più di quanto sia amato.
“Il petroliere” (ma com’era più evocativo il titolo originale: “There will be blood”, ovvero ‘scorrerà del sangue’…) è un film epico, potente e appassionante, visivamente splendido, che alterna reminiscenze dal cinema classico ma sapendolo innovare in profondità (parte come un film muto, senza alcun dialogo; esplode in vari momenti con musiche – composte da Jonny Greenwood, chitarrista dei Radiohead – che parte da rumori anche dissonanti e aspri, come nel precedente film di Anderson “Ubriaco d’amore”). Giustamente, è il grande favorito ai prossimi premi Oscar con le sue 8 nomination (tra cui miglior film, miglior regia e miglior attore protagonista). Sicuramente resterà una pietra miliare del cinema americano. E il suo autore Paul Thomas Anderson, rivelatosi in “Boogie Nights” e acclamato nello splendido “Magnolia” (un film che, come questo, non si vergogna di parlare del Male) prenota uno spazio importante nel futuro di quest’Arte.
Beppe Musicco
Tematiche: avidità, ricchezza, petrolio, padre-figlio, rivalità, superstizione
Target: adulti (qualche scena di violenza)
Se il diavolo sguazza nell’oro nero
cineprime
Avvenire, 17 febbraio 2008
Nel «Petroliere» con Daniel Day Lewis c’è la cruda lotta tra il bene e il male in un mondo invaso dalla corsa al successo
DI FRANCESCO BOLZONI
«Dove mettere il demonio?», chiese Pier Paolo Pasolini con una delle sue inattese provocazioni a un convegno ad Assisi. Lui lo tenne a bada a lungo. Poi lo lasciò libero nel suo film più tormentato: Salò o le 120 giornate di Sodoma. Il diavolo, da allora, ha fatto alcune apparizioni (secondarie) al cinema. Eccolo, adesso, che ritorna sotto mentite spoglie nel film Il petroliere, che pare raccontare solamente di un cercatore d’argento che diventa in California un boss petrolifero alla fine dell’800. Ritorna in un film crudele, spietato, candidato a otto premi Oscar, diretto dal bravissimo regista di Magnolia Paul Thomas Anderson e interpretato da un superbo Daniel Day-Lewis e dal suo convincente antagonista, Paul Dano, un film che rappresenta una lotta indomabile tra le forze del male. Capro espiatorio il ragazzo H.W., figlio di Daniel Plainview. Il film di Anderson , il più incisivo di questa stagione, è aperto a varie direzioni, a molteplici interpretazioni. Esamina, sì, i costi pagati dall’iniziale capitalismo.
Con realismo crudele, alla Erich von Stroheim di Greed, evoca un minatore, Daniel ( Daniel DayLewis), che quasi per caso scopre un giacimento di petrolio ed è tanto abile e astuto da procurarsi i finanziamenti per sfruttarlo. Con un viso molto ottocentesco (fisionomia da volpe, il naso diritto, i folti baffi, una bocca che non sorride mai) Daniel ha il dono di convincere il suo prossimo. Promette ai componenti di una piccola e povera comunità di procurarle il benessere in cambio della cessione di terreni aridi, buoni solo per il pascolo delle capre. Ma nella zona trasuda il petrolio. Un mare di oro nero. Il regista nei capitoli iniziali sta a ridosso del protagonista.
Poi lo colloca all’interno di paesaggi selvatici, tra gli operai che arrivano e si mettono al lavoro, le macchine trivellatrici e la torre per l’estrazione, la ferrovia e i concorrenti che vorrebbero impadronirsi del giacimento petrolifero.
Ma Daniel non cede anche quando la fortuna pare voltargli le spalle: il pozzo esplode (sequenza di molta forza espressiva), H.W. rimane sordo.
Questa disgrazia risveglia in Daniel – la cui assenza di scrupoli non era stata fin qui nascosta – le forze del male che lo conducono a decisioni infami: abbandona il figlio, uccide l’uomo che si era finto suo fratello, accetta di convertirsi a una setta religiosa pur di far passare su un terreno non suo dei tubi che conducano il petrolio al mare. Gli si oppone il predicatore protestante , Ely Sandy (Paul Dano) che lui aveva umiliato e che, adesso, lo umilia costringendolo a un battesimo che Daniel disprezza. È una lotta terribile all’interno di un cono d’ombra dove ardono le forze del male che finiscono per annientare i due avversari. Chi ha vinto è il demonio evocato con lucidità impressionante in un film di grande potenza che rappresenta, sulla traccia del romanzo Petrolio! di Upton Sinclair, l’origine del capitalismo ma anche, si è visto, altro.