sabato 2 febbraio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:

1) Mi sono nascosta in Dio per raggiungere tutti gli uomini
2) L’ANSIA DEL NULLA A BAGHDAD MAI COSÌ CHIARA
3) Quel tentativo non riuscirà ma dice molto delle sciempiaggini odierne
4) Figli senza padri La condanna dei bioeticisti - Anche gli esperti sono perplessi sulla fattibilità degli studi inglesi
5) Il partito del non voto tira la veste ai vescovi
6) Spagna, i vescovi «Pieno diritto a sottolineare i princìpi morali»
7) Educazione - Ma i bambini oggi nascono diversi?
8) Erba: Olindo e Rosa la banalità del male
9) Lettera aperta a Marcello Cini sul Metodo Scientifico



Mi sono nascosta in Dio per raggiungere tutti gli uomini
Avvenire, 2 febbraio 2008
ANNA MARIA CÀNOPI *
Oso intro­durmi nel discorso sulla vita consacrata con un ricordo d’infanzia che mi ha profondamente segnata. Avevo circa quattro anni.
Si celebrava la Pasqua e la chiesa del paese era gremita di gente che tra luci, suoni e canti esprimeva spontaneamente la sua gioia cristiana. Sulle braccia di mia madre, io guardavo l’altare, il prete con i paramenti festivi, i chierichetti in tunicelle bianche e rosse. Era il paradiso. Ecco, sono convinta che a partire da quell’esperienza infantile la liturgia ha cominciato a plasmare la mia anima, a farle sentire un trasporto d’amore verso Dio, a darle il gusto delle cose di Dio e il senso della Chiesa. La vocazione è un dono: Dio sceglie e chiama fin dal grembo materno. In me la vocazione si è manifestata già nella fanciullezza e ha preso consapevolezza nell’adolescenza. Quando, al termine degli studi, presi la decisione di compiere questo passo e mi venne consigliata una forma di consacrazione nel mondo, sentivo che non mi sarebbe bastata. Andò sempre più maturando in me la convinzione che per raggiungere tutti gli uomini era necessario dare se stessi, come Gesù, in un impeto di totale amore. La vita monastica mi apparve l’attuazione missionaria che Dio aveva scelto per me. Non dovetti far altro che acconsentire. Mi diventavano più chiare anche le parole di Gesù ai discepoli: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi…» ( Gv 15,16) e ancora: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» ( Gv 15,13).
Ecco, io mi sentivo chiamata a quel 'più grande amore' e il Signore mi indicava la via del 'martirio d’amore' che, in certo modo, è la vita monastica, la quale mi si è rivelata attraverso le Sacre Scritture ed è maturata alimentandosi ad esse. Ero colpita da quanto è detto del profeta Samuele – egli non lasciò andare a vuoto una sola delle parole del Signore ( cf. 1 Sam 3,19) – e desideravo fare altrettanto, per quanto mi fosse possibile con lo stesso aiuto di Dio.
Stabilita in un luogo, in una comunità monastica, da anni vado sperimentando con crescente stupore e gratitudine come sia vero ciò che un monaco dei primi secoli – Evagrio Pontico – affermava: «Monaco è colui che è separato da tutti per essere unito a tutti».
Effettivamente è così. Ogni monastero semplicemente con la sua presenza, con il suo modo di vivere, annuncia il Vangelo della salvezza e della gioia, testimonia l’amore infinito di Dio. Ho ormai quasi cinquant’anni di vita monastica e posso testimoniarne la bellezza e la fecondità, anche perché, trovandomi ormai da molti anni a compiere il servizio abbaziale nella mia comunità monastica, faccio una particolare esperienza di maternità spirituale. Ogni anno ho la gioia di accogliere nuove giovani attratte dalla vita contemplativa e desiderose di consacrarsi totalmente e per sempre al Signore, giovani che, accolte in seno alla comunità, sono da generare alla vita monastica, perché possano divenire delle 'madri di Dio', madri della Chiesa, madri dell’umanità. Anche oggi nella festa della Presentazione del Signore una giovanissima novizia della mia comunità fa la professione emettendo i voti secondo la Regola di san Benedetto. Penso che il valore e il fascino della vita consacrata nelle sue varie forme non si eclisserà mai nella Chiesa, perché in essa si esprime la fedeltà del Signore alla sua mistica sposa, chiamata ad essere segno escatologico, ossia segno visibile e anticipo delle realtà che rimangono in eterno, mentre «passa la scena di questo mondo» ( 1 Cor 7,31).
* Abbazia Benedettina 'Mater Ecclesiæ'


LE ABIEZIONI DEL TERRORISMO
L’ANSIA DEL NULLA A BAGHDAD MAI COSÌ CHIARA

Avvenire, 2 febbraio 2008
MARINA CORRADI
Il portavoce delle operazioni di sicu­rezza a Baghdad, Qassim Alta, ha di­chiarato che le due donne che si sono fatte esplodere ieri tra la folla dei mer­cati di Baghdad (oltre 70 morti, 100 fe­riti) erano disabili mentali dalla nascita. Si sapeva dell’arruolamento di un nu­mero crescente di donne nelle fila dei kamikaze, spesso convinte al sacrificio per recuperare un 'onore' perduto in famiglia. Si sapeva dei ragazzini di do­dici anni. La variabile delle incapaci di intendere usate come bombe – l’esplo­sione è stata azionata da un telecoman­do, da lontano - è nella sua abiezione i­nedita. Che il mostruoso attentato, arri­vato dopo un periodo di relativa dimi­nuzione delle stragi, sia stato fatto spin­gendo nei mercati due poverette, po­trebbe suffragare la tesi secondo cui di kamikaze «ideali» – volontari, motivati e uomini – si fa oggi più fatica in Iraq a trovarne. I reclutatori sembrano dover ri­correre a quei soggetti deboli che nella loro forma mentale considerano un nul­la: donne appunto, ragazzini, handi­cappati. E tuttavia, il bilancio della stra­ge, il luogo, e proprio l’avere mandato al martirio le creature più inermi, svela, di quella che ancora alcuni chiamano 'Re­sistenza' irachena, l’anima più oscura e bestiale.
Immaginiamoci – sforziamoci di im­maginare – la mattina di ieri, a Baghdad. In una casa come tante. Qualcuno che sorveglia, da fuori, la strada affollata del venerdì mattina, del giorno della festa e del riposo. Dentro, ci sono uomini che aspettano. L’esplosivo è per terra, pron­to. Qualcuno entra sospingendo due donne del popolo avvolte nello chador. «Eccole», annuncia –, come un mercan­te che consegni la mercanzia promessa. Le due entrano docili, senza guardarsi intorno. Non parlano, non fanno do­mande. Forse non sanno neppure par­lare. Le hanno condotte lì, e hanno ob­bedito. «Sei certo che non capiscano niente?», domanda quello che sembra il capo al reclutatore. «Stai tranquillo, non sanno neanche come si chiamano», lo rassicura il compare.
Chi procede a nascondere l’esplosivo sotto le vesti nere? Una donna, forse? Un martirio non può macchiarsi di impu­rità. E poi il congegno, i fili, il detonato­re, piccola scatola nera. Lavora veloce il tecnico, è del mestiere. Le due, calme, as­senti. Sono come due bambine piccole. Forse han promesso loro qualcosa, del pane, una moneta, per andare a pas­seggiare al mercato? Due poveracce co­me queste, a Baghdad, si contentano di poco.
Ed ecco vanno. Seguono chi le guida fi­duciose, a passi lenti per via di quella strana cintura pesante che le ingoffa. Piccoli passi sotto il chador nero, gonfio come se fossero gravide. Gravide infat­ti, ma di morte, quella di tanti innocen­ti e la loro. Non sanno. Vanno, forse con­tente, nei grandi bazar del venerdì a Ba­ghdad, pieni di cibo e dolci e di ogni mer­canzia.
Una mano le spinge in mezzo alla calca, poi le abbandona. Cercano forse la ma­no che le ha accompagnate? Ora sono sole, smarrite fra la folla. Ignare e docili – come pecore condotte al macello. L’e­splosione deflagra, sangue e urla di stra­zio nella festa. Bambini a terra schiac­ciati da chi scappa, e madri come im­pazzite. Le due kamikaze più innocenti di Baghdad hanno compiuto la loro mis­sione. Chi ha azionato il telecomando, compiaciuto, sta a guardare.
Ci possono essere ancora dubbi sulla natura di questo terrorismo? Quale Re­sistenza, che combatta per il suo popo­lo, colpisce con questa ferocia la propria gente, mandando avanti due inermi u­sate come bombe che camminano? An­dré Glucksmann ha detto che il terrori­smo iracheno è puro nichilismo. Di­struggere gli acquedotti perché non ci sia più acqua, massacrare i propri figli. Scegliere i più deboli, e farne delle cose per dare la morte. L’ansia del nulla a Ba­ghdad non si è mostrata mai chiara, as­soluta come ieri.


Quel tentativo non riuscirà ma dice molto delle sciempiaggini odierne
Avvenire, 2 febbraio 2008
CARLO CARDIA
L e parole più comuni e più belle, usate dai bambini di tutto il mondo, corrono il rischio di essere archiviate con provvedimenti coattivi.
Riportano i giornali che in Gran Bretagna il governo avrebbe avviato una campagna di informazione e di pressione nelle scuole perché in luogo di papà e mamma si insegni ai bambini e ai ragazzi ad usare il termine indistinto di genitore. Ciò per non creare disagio a quanti si trovano in una situazione diversa da quella della famiglia naturale.
Qualcosa del genere è già avvenuto in Spagna, dove negli atti ufficiali sembra si utilizzino appunto i termini genitore 1 e genitore 2 per indicare coloro che hanno dato vita ai loro figli. In Gran Bretagna la questione scivola dagli atti ufficiali ad una pressione sociale perché le parole papà e mamma siano cancellate dalla vita quotidiana, dal lessico familiare, dalle abitudini delle nuove generazioni. Al di là della questione giuridica, veramente di scarsa importanza, ci troviamo di fronte ad una forma di violenza antropologica che cerca di cancellare parole che hanno un suono e un significato profondo per tutti gli esseri umani. Tutti conoscono la trepidazione e la gioia con cui in una famiglia si attende il giorno in cui il bambino pronunci per la prima volta la parola mamma, e poi la parola papà. È un sentimento di gioia che investe i genitori, si estende ai fratelli e alle sorelle, a tutti i parenti stretti. Ed è un momento in cui la parola esprime il legame umano primordiale, il rapporto fisico e spirituale che unisce il bambino ai genitori, alla famiglia, al primo (per lui unico) nucleo di appartenenza. È il momento in cui nel bambino l’umanità si fa parola, la parola trasmette felicità, la felicità chiude il circolo degli affetti nei quali egli è avvolto e dai quali sarà circondato per lungo tempo. Quando il bambino cresce le parole papà e mamma vengono pronunciate con una consapevolezza diversa, e crescente. La certezza del proprio io, che scaturisce dal rapporto con chi ci ha generato, fa pronunciare quelle parole come si trattasse di un patrimonio prezioso. Esse sono gridate nei momenti di gioia, e in quelli del dolore, sono sussurrate nei momenti di abbandono e di riconoscenza, sono pronunciate con orgoglio all’esterno quando il bambino parla (con amici, nei compiti a scuola, con altri) della propria famiglia. Ma esse mantengono un significato forte, forse più grande, anche nell’età adulta quando sono il segno di una ascendenza, o della protezione che il figlio vuole esprimere verso il padre e la madre anziani, di un sentimento che ormai riassume e unisce vite intere che si sono sviluppate insieme in un rapporto indissolubile. E mantengono una attrattiva formidabile in chi attende o spera di essere chiamato un giorno papà o mamma dai propri figli. Chiunque sa che cambiare queste parole con altre (genitore 1 e genitore 2) cancella in primo luogo la differenza tra il padre e la madre, e bisognerà aggiungere un aggettivo per far capire di chi si sta parlando. Ma soprattutto cambiare quelle parole vuol dire sopprimere una nota comune a tutti i viventi, distruggere un suono nel quale, come nelle musiche più armoniose, si racchiudono sentimenti, ricordi, speranze, a cui nessuno vuole o può rinunciare. Si potrebbero fare tante considerazioni sulla dissennatezza di questo tentativo. Si potrebbe dire che esso non riuscirà nel suo intento, anche perché la letteratura, la poesia, i libri di tutto il mondo, sono pieni di quelle parole e nessuno potrà mai cancellarle. Che si tratta di una imposizione pazzesca perché, alla fin fine, esiste il diritto naturale di usare quelle parole e di declinarle come solo i bambini sanno fare (babbo, mamma, papino, mammina e via di seguito). Che dunque è una bizzarria che non avrà seguito. Tuttavia, si tratta della iniziativa di un governo di un nobile Paese europeo. E allora, sarà pure opportuno ricordare che quando si chiede di tutelare la famiglia nella sua identità, o si afferma che negando i suoi fondamenti ci si avvia su una strada che non si sa dove porta, non si dicono cose astratte, non si esprimono timori eccessivi.
Semplicemente si vuole ricordare che la mortificazione di alcuni principi etici elementari conduce prima o poi ad una invadenza coercitiva nella sfera più intima, quella degli affetti e dei sentimenti più radicati, che può assumere profili grotteschi come quelli che caratterizzano il provvedimento inglese. Al grottesco si può opporre soltanto l’umanità in tutta la sua semplicità e grandezza.


SCIENZATI FUORI ROTTA
Commenti preoccupati da parte della Accademia pro Vita, dell’Amci, di Scienza&Vita e del Sir
Figli senza padri La condanna dei bioeticisti - Anche gli esperti sono perplessi sulla fattibilità degli studi inglesi
Avvenire, 2.2.2008
DA MILANO ENRICO NEGROTTI

Sono perlopiù negative le valutazioni della notizia che gli scienziati britannici tenteran­no di dar vita a esseri umani facen­do a meno dell’apporto maschile, trasformando cellule del midollo os­seo delle donne in spermatozoi. Mentre qualche ricercatore si dice dubbioso sulla fattibilità dell’espe­rimento, i bioeticisti sono molto cri­tici.
«L’embrione prodotto all’interno di una donna con il proprio ovulo e con il proprio spermatozoo ha i suoi stessi geni – osserva il vescovo Elio Sgreccia, presidente della Pontificia Accademia pro Vita, intervistato da Radio Vaticana –. Quindi, sarebbe un figlio adatto ad essere medicamento, ad essere banca di prelievo per tessuti istocompatibili con il fratello, la sorella e tutti i discendenti di quella stessa persona. Un’ingegneria che porta lontano – una specie di delirio – verso la produzione dell’uomo come uno lo vuole e nello stesso tempo la trasformazione della sessualità e l’abrogazione della famiglia ». La notizia, osserva il presi­dente dell’Associazione medici cattolici italiani Vincenzo Saraceni «dimostra che la scienza, quando non trova al suo interno un’etica di orientamento, smarrisce la sua vera vocazione di servizio all’umanità e può diventare un ostacolo allo sforzo degli uomini di progredire nello sviluppo della loro realtà creaturale ».
Analoghe riserve vengono espresse da «Scienza&Vita»: «Una nuova tappa nel processo di clonazione, con l’obiettivo dichiarato di separare la procreazione dalla relazione affettiva e sessuale tra uomo e donna, per farne sempre più un feticcio ideologico e un grande business». Oltre alle riserve di tipo scientifico, l’associazione esprime grave contrarietà sul piano etico: «La prospettiva di una riproduzione che non si avvale più dell’uomo e della donna priva l’essere umano di quei legami che si realizzano all’interno di una coppia e che sono a fondamento non solo della famiglia, ma anche della chiamata all’esistenza di una nuova vita umana». Inoltre «dal punto di vista antropologico si verifica una lacerazione tra generazione sessuale e genealogia della persona. Con il totale sconvolgimento delle relazioni fondamentali della persona umana: filiazione, parentela e ge­nitorialità. In sostanza, un incubo e­sistenziale ». L’agenzia Sir esprime «gravi riserve morali, che trovano la loro forza non in motivazioni di fe­de, ma nella stessa ragione umana: essa non è solo scientifica ma è an­che etica» e «fa capire che ci sono ottime ragioni perché la procrea­zione resti un fatto umano e non sia un mero evento biologico».
Ritiene si tratti solo di «buoni eser­cizi di biotecnologia per esplorare i confini della manipolazione geneti­ca » Claudio Giorlandino, presiden­te della Società italiana di diagnosi prenatale. «Bisogna gettare acqua sul fuoco – aggiunge – innanzi tutto dicendo che non vi è nulla di con­creto o definito. Si tratta solo di ge­neriche sintesi di studi in corso sul tentativo di recuperare il patrimo­nio genetico dello spermatozoo da cellule staminali femminili. Da qui al fatto di poter fecondare un ovulo e ottenere un nuovo essere il passo è lungo e, per molti ricercatori, del tutto impossibile». «Molto perples­so » anche Giulio Cossu, direttore dell’Istituto Cellule staminali del San Raffaele di Milano.



Il partito del non voto tira la veste ai vescovi
La Cei chiede «il bene comune». La sinistra traduce: è per il governo tecnico…
di Renato Farina

Meno Gesù, più Marini. Incredibile ma vero. Lo attestano più fonti indipendenti e accreditate. Questo sarebbe il nuovo credo cattolico, sancito persino dal segretario della Conferenza episcopale italiana, monsignor Giuseppe Betori. Il Vangelo canonico? Quello secondo Luca (di Montezemolo). I quotidiani di destra e di sinistra hanno annunciato novità inesorabili: la Santa Chiesa avrebbe rinunciato alle sue eterne battaglie su famiglia, aborto-eutanasia, educazione, e si sarebbe concentrata su una nuova frontiera etica: le larghe intese. Papa Ratzinger avrebbe messo da parte la sua difesa della razionalità della fede e della presenza di Dio nella vita pubblica, e si accontenterebbe del ritorno al proporzionale. Insomma: l'unica moratoria che ormai interessa alla Conferenza episcopale italiana e ai suoi cocciuti capi sarebbe quella del voto in Italia. Scherziamo un po', ma mica tanto. Il paradosso serve a rendere l'idea. Ormai, qualunque cosa dicano un cardinale, un vescovo e tanto più il Papa, il loro verbo è travestito come al carnevale veneziano con maschere alla moda. Oggi è trendy mettere in bocca ai massimi esponenti della gerarchia cattolica l'auspicio per un accordo sulle riforme. Una settimana prima il ringraziamento di Ratzinger per la solidarietà all'Angelus sarebbe stato l'avallo a Mastella per mollare Prodi, e questo addirittura secondo il ministro della Università, Fabio Mussi. Insomma: interferenze su interferenze, maledette e benedette, vissute come placidi e costruttivi consigli o come odiose e simoniache intromissioni dello straniero, a seconda se giovino o meno alla causa.
INTERFERENZE E CONSIGLI
Di Ratzinger capocorrente dell'Udeur abbiamo detto. Ora è toccato a Betori, numero 2 della Cei, passare per un fautore del modello elettorale tedesco. È vero o falso? Ovvio. Come si diceva al liceo: sono le palle di fra Giulio. Più che il fastidio, nei Palazzi Apostolici e nella sede della Cei, prevale un senso di impotenza dinanzi a questa deriva per cui ogni frase di eccellenze ed eminenze subisce la deformazione del gioco politico. A proposito di panzane. Basta para- gonare le frasi testuali di Betori pronunciate in conferenza stampa martedì scorso, e il modo come sono state riferite. 1) Ha invitato «tutti i soggetti politici a mettere al primo posto il bene comune rispetto a quelli che sono gli interessi di parte». 2) Ha detto di Napolitano: «I cittadini possono aver fiducia in questo presidente della Repubblica, nella sua capacità di giudizio, nel suo amore per il Paese. Saprà sicuramente operare per il bene comune all'interno delle possibilità offerte da tutti». «Non sta a me fare scelte che spettano solo al pre- sidente della Repubblica». 3) Soluzioni alla crisi? «La Chiesa non deve e non intende coinvolgersi con alcuna scelta di schieramento politico. Non esprime preferenze per l'una o l'altra scelta costituzionale o istituzionale. E in questo contesto anche elettorale. L'importante è che ogni scelta sia rispettosa della democrazia».
LIBERE INTERPRETAZIONI
Chiaro, no? Betori ha elogiato Napolitano come presidente della Repubblica. Ovvio. Un minimo di rispetto. Per il resto ha detto: bene comune, scelta democratica. Invece la traduzione è stata la seguente. La Stampa: «La Cei preme: "Si trovi un accordo"». Il Messaggero: «I vescovi tifano per l'ac cordo: è indispensabile la riforma della legge elettorale». Ancora la Stampa: «La Cei: "Meglio la fine del maggioritario"». Corriere della Sera: «La Cei invoca l'intesa: "Prevalga il bene comune"». In questi titoli è palese l'equivoco increscioso per cui bene comune è sinonimo di inciucio. Secondo questa visione anche San Tommaso avrebbe vergato la Summa Theologica per favorire l'esplorazione di Marini. Non parliamo poi di Europa (organo della Margherita): «Imprese, vescovi, sindacati: almeno cambiate la legge». Il Manifesto: «Anche i vescovi benedicono il dialogo». Il Mattino: «"Un accordo per il Paese". I vescovi con Napolitano». Il Sole 24 Ore: «I vescovi: "Soluzione con l'accordo di tutte le parti"». Anche il Giornale, impazzito, titola: «Vescovi, industriali e sindacati: quell'asse contro le elezioni». Addirittura l'Asse, come quello di Roma, Berlino, Tokio. A questo punto che fare? Si sono posti il problema di precisare, smentire, correggere. Ma i vescovi farebbero la figura di quelli contro il bene comune, l'intesa, il dialogo, contro Marini, e dunque favorevoli all'elezioni. In realtà si occupano di altro. Ma se lo dicono, titolerebbero: i vescovi se ne fregano.
LIBERO 1 febbraio 2008


Spagna, i vescovi «Pieno diritto a sottolineare i princìpi morali» Avvenire, 2.2.2008
DI MICHELA CORICELLI
« I vescovi non dicono chi bisogna votare. Abbiamo solo dato una serie di cri­teri per chi ci vuole ascoltare», si trat­ta «di suggerimenti su temi come l’a­borto o l’educazione». La Conferen­za episcopale spagnola era stata chia­ra: la nota pubblicata in vista delle e­lezioni del 9 marzo era un «orienta­mento morale». Nessuna indicazio­ne strettamente politica per gli elet­tori, anche perché nessun partito ri­spetta pienamente le 20 linee diret­trici ecclesiastiche: bi­sogna solo scegliere «il male minore».
Ma nulla è valso per evitare le polemiche. Nel Paese iberico il documento è stato in­terpretato dai partiti e dalla stampa come una presa di posizio­ne politica. E di fron­te alle pesanti accuse lanciate dal Partito socialista, il por­tavoce della Cee Juan Antonio Martí­nez Camino ha ribadito le posizioni della Chiesa, che non può rinuncia­re al suo mandato. Il lavoro dei ve­scovi – ha dichiarato in un’intervista a Telecinco – è «ricordare l’etica so­ciale ». «Non siamo entrati in cam­pagna elettorale». Ma quando «la Chiesa esercita il suo obbligo pasto­rale e il suo diritto di espressione, qualcuno dice che si colloca al di fuo­ri della democrazia». Un atteggia­mento «preoccupante», afferma il segretario della Cee. Sull’aborto, l’eu­tanasia, la famiglia, la Chiesa spa­gnola ha già detto e scritto molto.
Perché tante polemiche, dunque? Il punto più spinoso del documento – agli occhi dei politici spagnoli – sem­brerebbe il breve paragrafo sul ter­rorismo. I vescovi affermano che un’organizzazione terrorista non può essere trattata come interlocu­tore politico. Il partito socialista – ma anche i gruppi nazionalisti e la sini­stra radicale – hanno interpretato la nota come una bocciatura delle trat­tative con l’Eta portate avanti dall’e­secutivo di José Luis Rodriguez Za­patero fino al 2006. In un comuni­cato dai toni roventi, i socialisti (Psoe) affermano che è «immorale che i vescovi, come il Partito popo­­lare, utilizzino il tema terrorista per fare campagna elettorale». Non ba­sta: «Se non bisogna votare i partiti che hanno dialogato con l’Eta, non bisognerebbe votare nessuno» dice il Psoe, ricordando tentativi di trat­tative che in passato coinvolsero i governi di Adolfo Suárez, Felipe González o José Maria Aznar. La Chiesa, però, non ha detto che non bisogna dialogare: quello che rifiuta – risponde Martínez Camino – è il ri­conoscimento dei terroristi come in­terlocutori politici.
Dopo la pubblicazione della nota, la vicepresidente Maria Teresa Fernán­dez de la Vega ha chiamato il presi­dente della Conferenza, monsignor Ricardo Blázquez. La numero due dell’esecutivo ha ribadito la neces­sità di rispettare la separazione fra Chiesa e Stato: «Il governo ha la sua legittimità e il suo ambito di azione, e la Chiesa ha il suo». Nella stessa conferenza stampa dopo il Consi­glio dei ministri, Fernández de la Ve­ga ha annunciato che il governo approverà una nuova norma per dare «maggiori ga­ranzie » alle cliniche e alle donne che ricor­rono all’aborto. Non si modificherà l’at­tuale normativa sul­l’interruzione della gravidanza, ma si vo­gliono assicurare «de­terminati diritti contenuti nella leg­ge » già in vigore: in particolare quel­li relativi alla confidenzialità e al­l’intimità. Negli ultimi mesi una se­rie di indagini giudiziarie hanno coinvolto alcune cliniche abortiste di Barcellona e Madrid per presun­te irregolarità.
La vice premier Maria de la Vega: «Il governo ha il suo ambito d’azione e la Chiesa il proprio».




Ma i bambini oggi nascono diversi?
Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
domenica 27 gennaio 2008
Formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e dare un senso alla propria vita
«Educare non è mai stato facile, e oggi sembra diventare più difficile. Lo sanno bene i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti e tutti coloro che hanno dirette responsabilità educative. Si parla perciò di una grande “emergenza educativa”, confermata dagli insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro i nostri sforzi per formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita. Viene spontaneo, allora, incolpare le nuove generazioni, come se i bambini che nascono oggi fossero diversi da quelli che nascevano nel passato. Si parla inoltre di una “frattura fra le generazioni”, che certamente esiste e pesa, ma che è l’effetto, piuttosto che la causa, della mancata trasmissione di certezze e di valori.
Dobbiamo dunque dare la colpa agli adulti di oggi, che non sarebbero più capaci di educare? E’ forte certamente, sia tra i genitori che tra gli insegnanti e in genere tra gli educatori, la tentazione di rinunciare, e ancor prima il rischio di non comprendere nemmeno quale sia il loro ruolo, o meglio la missione a loro affidata. In realtà, sono in questione non soltanto le responsabilità personali degli adulti o dei giovani, che pur esistono e non devono essere nascoste, ma anche un’atmosfera diffusa, una mentalità e una forma di cultura che portano a dubitare del valore della persona umana, del significato stesso della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita. Diventa difficile, allora, trasmettere da una generazione all’altra qualcosa di valido e di certo, regole di comportamento, obiettivi credibili intorno ai quali costruire la propria vita» [Lettera di Benedetto XVI alla Diocesi e alla Città di Roma sul compito urgente dell’educazione].

Il Papa torna a segnalare, con una Lettera alla Diocesi e alla Città di Roma, la “grande emergenza educativa” e l’urgenza di un “ambiente più favorevole all’educazione” perché “tutti abbiamo a cuore il bene delle persone che amiamo, in particolare dei nostri bambini, adolescenti e giovani. Sappiamo infatti che da loro dipende il futuro di questa nostra città. Non possiamo dunque non essere solleciti per la formazione delle nuove generazioni, per la loro capacità di orientarsi nella vita e di discernere il bene dal male, per la loro salute non soltanto fisica ma anche morale”. E il Papa inizia con un invito molto semplice ma fondamentale all’interno di una atmosfera diffusa, di una mentalità e di una forma di cultura che portano a dubitare del valore di ogni persona umana, del significato stesso della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita: “Non temete! Tutte queste difficoltà, infatti non sono insormontabili”. Occorre, però, rendersi veramente conto che la “frattura fra le generazioni, che certamente esiste e pesa, è l’effetto e non la causa della mancata trasmissione di certezze e di valori”. E il Papa con una acuta capacità critica unita ad una grande volontà costruttiva, una grande apertura e simpatia affronta la problematica.

Tutte le difficoltà a livello educativo sono il rovescio della medaglia di quel dono grande e prezioso che è la nostra libertà, con la responsabilità che giustamente l’accompagna
“A differenza di quanto avviene in campo tecnico o economico, dove i progressi di oggi possono sommarsi a quelli del passato, nell’ambito della formazione e della crescita morale delle persone non esiste una simile possibilità di accumulazione, perché la libertà dell’uomo è sempre nuova e quindi ciascuna persona e ciascuna generazione deve prendere di nuovo, e in proprio, le sue decisioni. Anche i più grandi valori del passato non possono essere semplicemente ereditati, vanno fatti nostri e rinnovati attraverso una, spesso sofferta, scelta personale”.
E qui, constatando la possibilità straordinaria di addizionare un progresso in campo materiale, che nella conoscenza crescente delle strutture della materia e delle invenzioni sempre più avanzate si dà in una continuità del progresso verso una padronanza sempre più grande della natura, si scivola nel ritenere che anche nell’ambito della consapevolezza etica e della decisione morale ci sia una simile addizione, indipendentemente dalla libertà che necessita di una convinzione; una convinzione non esiste da sé, ma deve essere sempre di nuovo riconquistata comunitariamente cioè culturalmente. Ma questo diffuso spontaneismo senza disciplina, senza autorevolezza, senza autorità, senza obbedienza non favorisce l’educazione, non è reale ma ideologico, per il semplice motivo che la libertà di ogni uomo è sempre nuova e deve sempre nuovamente prendere le sue decisioni. Non sono mai semplicemente prese per noi dagli altri, nemmeno dai propri cari - in tal caso, infatti, non saremmo più liberi. La libertà presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio: in famiglia alla generazione fisica deve seguire in continuità la generazione della persona. Certamente, le nuove generazioni possono costruire sulle conoscenze e sulle esperienze di coloro che le hanno precedute, come possono attingere al tesoro morale dell’intera umanità, al fondo storico dell’umana sapienza. Ed è sempre una perdita puntare a una ragione a-storica che cerca di auto costruirsi soltanto in una razionalità a-storica: la sapienza dell’umanità come tale - la sapienza delle grandi tradizioni religiose e cristiane di fede - è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee. Ma il semplice sapere storico rende tristi e si può anche rifiutarlo se non si esperimenta che la sua conoscenza diviene il mio bene attuale, il nostro bene in un vissuto fraterno di amicizia, quel bene che ci rende veri, buoni, che ci apre ad una speranza affidabile, ad una meta sicura, a quel grande Amore nel cui orizzonte ogni piccolo amore suscita stupore, entusiasmo, coraggio. Ed è esistenzialmente l’incontro oggi con la Persona di Gesù Cristo in vissuti fraterni di comunione ecclesiale che dà alla vita una memoria attraente di tutto il passato, una direzione decisiva del futuro, una speranza affidabile, una meta sicura, un ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell’incarnazione di Dio che continua nella via umana alla Verità e alla Vita della Chiesa, si è rivelata e si rivela insieme, come il Bene, come la Bontà stessa in Persona: il senso della mia vita non è un’idea o una mia decisione etica, una libertà sempre fragile, ma l’avvenimento dell’incontro con una Persona divina (la Grazia) attraverso volti umani, cui mi posso sempre rivolgere nella preghiera personale e liturgica e con la quale si può sempre conquistare di nuovo la libertà per il bene, anche dopo cadute.
Fin da Francesco Bacone gli aderenti alla corrente di pensiero dell’età moderna da lui ideologicamente ispirata, si è sempre più diffusa una mentalità che l’uomo sarebbe redento mediante la scienza, mediante le sue strutture umanizzanti capaci di fissare in modo irrevocabile una determinata - buona - condizione del mondo e dell’umanità (la politica della priorità dello Stato sulla persona nella Rivoluzione borghese del 1789, la priorità del collettivo della classe operaia nella rivoluzione marxista) senza più il rischio educativo indissociabile dalla priorità della persona propria del cristianesimo e senza più bisogno dell’incontro redentivo con Cristo nel suo corpo che è la Chiesa. In questa corrente di pensiero dell’età moderna non avrebbe più senso la verità del peccato originale che in termini di racconto rivela la possibilità del male, implicita nella libertà umana e quindi fa di ogni uomo nella sua scelta spirituale la vera causa del bene e del male che si incontra nella storia. Non si riconosce nel male alcun ruolo di Satana, dell’angelo decaduto, del “principe di questo mondo”.
Ma la Chiesa in Italia è ancora una realtà viva, che conserva una presenza capillare in mezzo alla gente di ogni età e condizione. Le tradizioni cristiane hanno ancora un certo radicamento e continuano a produrre frutti, mentre è in atto uno sforzo di evangelizzazione e catechesi, rivolto in modo particolare alle nuove generazioni, ma ormai sempre più anche alle famiglie. Ma a questo, nell’attuale drammatica frattura tra Vangelo come una delle fondamentali voci della ragione etica dell’umanità e pressioni degli interessi e utilità come criteri ultimi, occorre contribuire per mantenere desta in tutti la sensibilità della verità; invitare la ragione di tutti a mettersi di nuovo alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro. In ogni università, come in ogni scuola, occorre ritornare a coniugare tra loro la teologia, la filosofia e le scienze, nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca autonomia, ma anche al consapevolezza dell’intrinseca unità che le tiene insieme. Culturalmente è questa una avventura che sta davanti a noi, un’avventura educativa affascinante nella quale merita spendersi per dare nuovo slancio alla cultura del nostro tempo e per restituire in essa, con una laicità positiva, alla fede cristiana e la patrimonio delle religioni piena cittadinanza.

L’educazione ha bisogno di quella vicinanza e di quella fiducia che nascono dall’amore
Ogni persona umana non è soltanto ragione e intelligenza. Porta dentro di sé, iscritto nel più profondo del suo essere, il bisogno di amore, di essere amata e di amare a sua volta. E chi educa necessita della certezza che Dio non ci abbandona, che il suo amore ci raggiunge là dove siamo e così come siamo, con le nostre miserie e le nostre debolezze, per offrirci sempre, fino al momento terminale della vita, una nuova possibilità di bene. Occorre rifarci a quella prima e fondamentale esperienza dell’amore che i bambini fanno, o almeno dovrebbero fare, con i loro genitori. Ma ogni educatore non può non sapere che per educare occorre donare qualcosa di se stesso e che soltanto così può aiutare i suoi allievi a superare tendenze narcisistiche ed egoismi e a diventare capaci di farsi dono nel modo più gratuito possibile. In un piccolo bambino c’è un grande desiderio di sapere e di capire, che si manifesta nelle sue continue domande e richieste di spiegazioni. Sarebbe dunque una ben povera educazione quella che si limitasse a dare delle nozioni, anche scientifiche, di cose particolari e delle informazioni su piccole speranze lasciando da parte le domande fondamentali riguardo alla verità della propria origine e del proprio destino e sulla speranza affidabile e sulla meta sicura per affrontare il presente, anche faticoso. Ci si interroga e spesso ci si smarrisce di fronte alle durezze della vita, al male che esiste nel mondo e che appare tanto forte e, al contempo, privo di senso. In particolare nella nostra epoca, nonostante tutti i progressi compiuti, il male non è affatto vinto; anzi il suo potere sembra rafforzarsi e vengono spesso smascherati tutti i tentativi di nasconderlo, come dimostrano sia l’esperienza quotidiana sia le grandi vicende storiche. Ritorna, dunque, insistente, la domanda se nella nostra vita ci possa essere uno spazio sicuro per l’amore autentico e, in ultima analisi, se il mondo sia davvero l’opera della sapienza di Dio. Far capire che anche la sofferenza fa parte della verità della nostra vita. Perciò, cercando di tenere al riparo i più giovani da ogni difficoltà ed esperienza del dolore, rischiamo di far crescere, nonostante le nostre buone intenzioni, persone fragili o poco generose: la capacità di amare corrisponde infatti alla capacità di soffrire, e di soffrire insieme. Qui, molto di più di ogni ragionamento umano, ci soccorre la novità sconvolgente della rivelazione biblica in forma narrativa: il Creatore del cielo e della terra, l’unico Dio che è la sorgente di ogni essere ama personalmente ogni uomo concreto, lo ama appassionatamente comunque ridotto e attende a sua volta di essere amato da lui senza costringerlo. Dà vita perciò a una storia di amore con Israele, il suo popolo luce per tutti i popoli, e in questa vicenda, di fronte ai tradimenti del popolo, il suo amore si mostra ricco di inesauribile fedeltà e misericordia, è l’amore che perdona al di là di ogni limite. E in Gesù Cristo un tale atteggiamento raggiunge la sua forma estrema, inaudita e drammatica: in Lui infatti Dio si fa uno di noi, nostro fratello in umanità, e addirittura sacrifica la sua vita per noi, unendo giustizia e misericordia. Nella morte in croce si compie dunque quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l’uomo e salvarlo - amore, questo, nella sua forma più radicale, nel quale si manifesta cosa significhi “Dio è amore” (1 Gv 4,8) e si comprende anche come debba definirsi l’amore autentico (Deus caritas est nn. 9-10 e 12).
Proprio perché ci ama veramente, Dio rispetta e salva la nostra libertà Al potere del male e del peccato non oppone un potere più grande perché un rapporto costretto verso di lui impedisce che avvenga l’amore, ma preferisce porre il limite della pazienza e della sua misericordia, quel limite che è, in concreto la sofferenza del Figlio di Dio. Così anche la nostra sofferenza è trasformata dal di dentro, è introdotta nella dimensione dell’amore e racchiude una promessa di salvezza.

Trovare un giusto equilibrio tra la libertà e la disciplina
Senza regole di comportamento e di vita, fatte valere giorno per giorno anche nelle piccole cose, non si forma il carattere e non si viene preparati ad affrontare le prove che non mancheranno in futuro per nessuno. Un’educazione vera ha bisogno di risvegliare il coraggio delle decisioni definitive, che oggi vengono considerate un vincolo che mortifica la nostra libertà, ma in realtà sono indispensabili per crescere e raggiungere qualcosa di grande nella vita, in particolare per far maturare l’amore in tutta la sua bellezza: quindi per dare consistenza e significato alla stessa libertà e capacità di amare. Da questa sollecitudine per ogni persona umana e la sua formazione vengono i nostri “no” a forme deboli e deviate di amore e alle contraffazioni della libertà, come anche alla riduzione della ragione soltanto a ciò che è calcolabile e manipolabile. In verità, questi “no” sono piuttosto dei “sì” all’amore autentico, alla realtà dell’uomo come è stato creato e redento da Dio. Ogni rapporto educativo è anzitutto l’incontro di due libertà e l’educazione ben riuscita è formazione dell’intelligenza, senza trascurare il retto uso della libertà. Man mano che il bambino cresce, diventa un adolescente e poi un giovane; dobbiamo accettare il rischio della libertà, rimanendo sempre attenti ad aiutarlo a correggere idee e scelte sbagliate. Quello che invece non dobbiamo mai fare è assecondarlo negli errori, fingere di non vederli, o peggio condividerli, come se fossero nuove frontiere del progresso umano.

L’educazione non può dunque fare a meno di quella autorevolezza che rende credibile l’esercizio dell’autorità
L’autorevolezza è frutto di esperienza e competenza, ma si acquista soprattutto con la coerenza della propria vita e con il coinvolgimento personale, espressione dell’amore vero. L’educatore è quindi un testimone della verità e del bene: certo, anch’egli è fragile e può mancare, ma cercherà sempre di nuovo di mettersi in sintonia con la sua missione.
Decisivo è il senso di responsabilità: responsabilità dell’educatore, certamente, ma anche e in misura che cresce l’età, responsabilità del figlio, dell’alunno, del giovane che entra nel mondo del lavoro. E’ responsabile chi sa rispondere a se stesso e agli altri- Chi crede cerca inoltre, e anzitutto, di rispondere a Dio che lo ha amato per primo fino al perdono.
La responsabilità è in primo luogo personale, ma c’è anche una responsabilità che condividiamo insieme, in vissuti fraterni di amicizia, come cittadini di una stessa città e di una nazione, come membri della famiglia umana e, se siamo credenti, come figli di un unico Dio e membri della Chiesa in vissuto di comunione autorevolmente guidata. Di fatto le idee, gli stili di vita, le leggi, gli orientamenti complessivi della società in cui viviamo, e l’immagine che essa dà di se stessa attraverso i mezzi della comunicazione, esercitano un grande influsso sulla formazione delle nuove generazioni, per il bene ma spesso anche per il male. La società però non è un’astrazione; alla fine siamo noi stessi, tutti insieme, con gli orientamenti, le regole e i rappresentanti che ci diamo, sebbene siano diversi i ruoli e le responsabilità di ciascuno. C’è bisogno dunque del contributo di ognuno di noi; di ogni persona, famiglia o gruppo sociale, perché la società, a cominciare da questa nostra città di Roma, diventi un ambiente più favorevole all’educazione.

Anima dell’educazione, come dell’intera vita, può essere solo una speranza affidabile
Oggi la nostra speranza è insidiata da molte parti e rischiamo di ridiventare anche noi, come gli antichi pagani, uomini “senza speranza e senza Dio in questo mondo”, come scriveva l’apostolo Paolo ai cristiani di Efeso (Ef 2,12). Proprio da qui nasce la difficoltà forse più profonda per una vera opera educativa: alla radice della crisi dell’educazione c’è infatti una crisi di fiducia nella vita. Ma occorre porre in Dio la nostra speranza. Solo Lui è la speranza che resiste a tutte le delusioni; solo il suo amore non può essere distrutto dalla morte; solo la sua giustizia e la sua misericordia possono risanare le ingiustizie e ricompensare le sofferenze subite. La speranza che si rivolge a Dio non è mai speranza solo per me, è sempre anche speranza per gli altri: non ci isola, ma ci rende solidali nel bene, ci stimola ad educarci reciprocamente alla verità e all’amore


Erba: Olindo e Rosa la banalità del male.
Autore: Buggio, Nerella
Fonte: CulturaCattolica.it
mercoledì 30 gennaio 2008
Olindo dal carcere scrive a Rosa, la chiama “vita mia”, “la mia Rosa, agnello fra i lupi” scrive parole dolci, amorevoli, che sembrano non conciliarsi con la brutalità dei gesti compiuti
La strage di Erba come oramai è consuetudine, attira un pubblico di curiosi e morbosi nullafacenti, disposto a fare la fila dalle 5 del mattino per occupare in aula uno dei 30 posti a disposizione del pubblico.

Le tv si “fiondano” sulla storia, avviano il solito show.
Matrix e Porta a Porta potrebbero fare un programma a reti unificate, tanto l’argomento è lo stesso.

Su internet si fanno sondaggi: “Rosa Bazzi e inferma di mente si o no?” Come se certe cose si potessero decidere a maggioranza.

Lo diciamo ogni volta, le vite degli altri, le brutture piacciono, intrigano, forse perché somigliano alle nostre.
E’ lo stesso motivo per cui ci sono persone che dallo spioncino della porta di casa loro, osservano l’andirivieni di gente sul pianerottolo e ne registrano ogni movimento.

A Erba una lite di condominio esasperata, che si trascinava da tempo è finita in tragedia.
Raffaella Castagna, una delle vittime, querelò i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi per averla insultata, strattonata e minacciata, per questo, aveva chiesto 5mila euro di risarcimento.

Loro detestavano quella giovane famiglia, la loro intimità, i loro movimenti, i loro schiamazzi e forse anche la loro diversità, quella coppia mista, chissà, forse sembrava un motivo di “disordine”.

Le televisioni trasmettono Olindo e Rosa, chiusi nella gabbia del tribunale, si stringono le mani, lei prima ha gli occhi bassi poi lo guarda, non smette di prendersene cura.

Lui ha lo sguardo spento, vuoto, sembra guardare altrove, come se ci fosse vita solo negli occhi di Rosa e da nessun'altra parte.
Uno sguardo che sembra non essersi mai posato su qualcosa di sorprendentemente bello, come se mai avesse guardato fuori dalla loro relazione, dalla loro vita, fuori dalla loro casa.

I suoi occhi sembrano vedere solo lei, le cinge le braccia, confabulano, sorridono, sembrano due adolescenti incuranti del mondo.

Si ha l’impressione che in quella gabbia si sentano protetti, come tra le pareti della loro casa, con le le loro abitudini maniacali, diventate più importanti di tutto, da difendere, sino ad uccidere chi le minacciava.

Rosa e Olindo inizialmente hanno confessato, hanno ucciso 4 persone.
Le loro confessioni trasmesse dalla TV sono banalmente agghiaccianti. Non c’era disperazione nelle loro voci, né la consapevolezza di avere fatto qualcosa di disumano. Non c’è pietà, nemmeno nel descrivere la morte del bimbo, raccontano che era scappato dalle braccia della nonna e si era rifugiato sul divano.
La loro voce è tranquilla, come quella di chi racconta l’inevitabile, come se, una situazione come quella che stavano vivendo non potesse che finire così.

Rosa parla dei suoi mal di testa insopportabili, li scatenavano i rumori che facevano i vicini, il bambino, la madre, per lei si trattava di dispetti, lo facevano apposta, proprio per farla stare male, per destarla dal sonno e lasciarla sveglia mentre loro, i vicini rumorosi se ne tornavano a dormire.

Olindo ammette che la situazione, si, gli è sfuggita di mano, i coniugi Frigerio, i vicini accorsi in soccorso, non erano nel conto, non dovevano trovarsi in quel posto. Per il resto tutto come previsto, loro si capiscono senza parlarsi, non c’è stato bisogno di dividersi i compiti.

Ora si dichiarano innocenti, vittime di un complotto.
Non sono un avvocato, ma mi chiedo se farli viaggiare verso il tribunale insieme, se farli incontrare nella stessa gabbia sia una cosa giusta per chi deve concordare una nuova versione.

Olindo dal carcere scrive a Rosa, la chiama “vita mia”, “la mia Rosa, agnello fra i lupi” scrive parole dolci, amorevoli, che sembrano non conciliarsi con la brutalità dei gesti compiuti, o forse spiegano come un rapporto così esclusivo, morboso, possa diventare tanto insano e malato da giustificare qualsiasi cosa, come l’amore si possa trasformare in una fabbrica di odio, dove nessuno è capace di indicare all’altro la strada giusta.

Prima di ritrattare, Rosa ha detto al magistrato che la interrogava, che Olindo ha bisogno di lei, non può vivere senza di lei.
Anche Olindo ha tentato di addossarsi tutta la colpa della strage, dicendo che Rosa non sapeva, se ne stava in cucina forse a lavare i piatti.

Sono sembrati a modo loro gesti d’amore, di altruismo, un modo per salvare l’altro e per dire ancora una volta che il confine tra il bene e il male è una linea sottile, ancora una volta siamo costretti ad ammettere che il bene e il male convivono, e fare ciò che è bene, che è buono è una scelta.

Abbiamo bisogno tutti, di chi ci tiene alto lo sguardo, di chi ci aiuta a capire cosa davvero è importante, dove sia il confine, l'uomo è capace in piena libertà di gesti di amore smisurato o con la stessa libertà di gesti di brutalità altrettanto senza limite.

Direbbe Hannah Arendt che anche questa volta, Olindo e Rosa, sono la dimostrazione di come sia terribilmente facile cogliere "La banalità del male".


Lettera aperta a Marcello Cini sul Metodo Scientifico.
Autore: Parravicini, Jacopo Curatore: Buggio, Nerella
Fonte: CulturaCattolica.it
martedì 29 gennaio 2008
Breve riflessione, utile ad avvicinarsi alla vera scienza e a un uso coerente, cioè pienamente umano, della ragione
Professor Cini,
immagino che lei si sia ormai stancato del gran parlare intorno alla polemica sulla visita del Papa. Per questo non intendo entrare nella questione specifica, benché avrei parecchie cose da dirle. Mi sono sentito, infatti, toccato sul vivo, come fisico e scienziato (alle primissime armi), come cattolico, come cittadino.
Non impiegherò, dunque, tempo a ricordare e commentare gli aspetti fondamentali dell’incresciosa vicenda: in questa sede intendo soffermarmi su un particolare apparentemente secondario. Tale aspetto riguarda lei, professore, lei e la scienza.
In ambito scientifico ho certamente molta meno esperienza di lei, ma, mi corregga se sbaglio, ho imparato che il cardine del Metodo Scientifico è l’esperimento. È questa la grande lezione di Galileo: concepire un modello, esprimerlo con adeguato linguaggio matematico, metterlo alla prova dell’esperimento. Se l’esperimento, ripetuto dieci, cento, mille volte, in svariate condizioni, dà esito negativo, non si scappa: il modello, la teoria è un fallimento, è da buttare (mi perdoni il linguaggio scarsamente scientifico). Fin qui penso che lei convenga con me.
Ora, in alcune interviste lei ha dichiarato di esser stato per tutta la vita uno scienziato e un comunista. Bene: il comunismo è un modello che vorrebbe spiegare la storia e la società, un modello che è stato ampiamente sperimentato, in contesti diversissimi, in tutto il mondo. Esso prevede che si instauri pace, libertà e benessere nelle compagini umane in cui venga applicato. Nostante ciò, è ben noto come tale teoria sia stata in grado di produrre esclusivamente miseria e dittatura, dittatura e miseria.
Guardi la questione da un punto di vista esclusivamente scientifico: poche teorie scientifiche hanno avuto occasione di essere verificate così tante volte, in un così ampio spettro di casi, per un tempo tanto lungo. Qualunque modello fisico che avesse dato gli stessi risultati, ossia che si fosse rivelato integralmente inadatto a spiegare la realtà e a trarre previsioni, qualunque scienziato l’avrebbe rifiutato, certamente lei innanzi a tutti. Invece, per sua stessa ammissione, ben sapendo i risultati che il modello comunista ha portato, per tutta la vita lei ha propugnato quel modello.
Ora, non le pare che da parte sua questo sia un atteggiamento profondamente, ferocemente antiscientifico? Per tutta la vita lei ha continuato ad asserire la validità del modello, infischiandosene dei dati sperimentali che lo contraddicevano. Giudicherebbe ragionevole un simile scienziato? Come giudicherebbe, per esempio, uno scienziato che pretendesse oggi di seguire ancora la fisica aristotelica? O un fisico che negasse la validità della meccanica quantistica? O un medico che volesse curare praticando salassi?
Quello che vorrei farle notare è che, per sua stessa affermazione, lei si è comportato in maniera profondamente irrazionale, usando la sua ragione e il metodo scientifico nel suo lavoro di fisico, e infischiandosene dei dati sperimentali, compiendo un atto di fede immotivato (anzi, continuamente contraddetto dagli esperimenti), nella sua condotta umana.

Insomma, professore, in questa contraddizione che ha vissuto, per sua stessa ammissione, lei si è rivelato un irriducibile nemico di quella stessa ragione e di quello stesso metodo scientifico cui lei ha dichiarato di aver dedicato la vita!
Mi permetto di chiosare con un modo di dire alquanto clericale: “da che pulpito viene la predica!”

Mi auguro che questa mia breve riflessione possa essere utile ad avvicinarsi alla vera scienza e a un uso coerente, cioè pienamente umano, della ragione.

In nome della ragione, in nome della conoscenza, in nome della scienza,

Jacopo Parravicini