giovedì 7 febbraio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:

1) Quei «luoghi» dove si apprende la speranza – Omelia di Benedetto XVI durante la celebrazione eucaristica con il rito di benedizione e imposizione delle ceneri
2) Tutti i filosofi di Ratzinger
3) Cinque musulmani in Vaticano. A preparare l'udienza col papa
4) Copia e incolla da Wikipedia: 67 docenti per un errore Svela “L'Osservatore Romano”
5) Tra fede e ragione dialogo che convince - Alla Sapienza si analizza il discorso del Papa
6) Neonati prematuri: di qui passa l’eugenetica


Quei «luoghi» dove si apprende la speranza
Avvenire, 7.2.2008
Pubblichiamo l’omelia pronunciata ieri sera da Benedetto XVI duran­te la celebrazione eucaristica con il rito di benedizione e imposizione delle ceneri.
Cari fratelli e sorelle!
Se l’Avvento è per eccellenza il tempo che ci invita a sperare nel Dio-che-viene, la Quaresima ci rinnova nella speranza in Colui- che-ci-ha-fatti-passare-dalla­morte- alla-vita. Entrambi sono tempi di purificazione – lo dice an­che il colore liturgico che hanno in comune – ma in modo speciale la Quaresima, tutta orientata al mistero della Redenzione, è definita «cammino di vera conversione» (Orazione colletta).
All’inizio di quest’itinerario penitenziale, vorrei soffermarmi brevemente a riflettere sulla preghiera e sulla sofferenza quali aspetti qualificanti del tempo liturgico quaresimale, mentre alla pratica dell’elemosina ho dedicato il Messaggio per la Quaresima, pubblicato la scorsa settimana. Nell’enciclica Spe salvi, ho indicato la preghiera e il soffrire, insieme all’agire e al giudizio, come «luoghi di apprendimento e di esercizio della speranza». Potremmo quindi affermare che il periodo quaresimale, proprio perché invita alla preghiera, alla penitenza e al digiuno, costituisce una occasione provvidenziale per rendere più viva e salda la nostra speranza.
La preghiera alimenta la speranza, perché nulla più del pregare con fede esprime la realtà di Dio nella nostra vita. Anche nella solitudine della prova più dura, niente e nessuno possono impedirmi di rivolgermi al Padre, «nel segreto» del mio cuore, dove Lui solo «vede», come dice Ge­sù nel Vangelo (cfr Mt 6,4.6.18).
Vengono in mente due momenti dell’esistenza terrena di Gesù che si collocano uno all’inizio e l’altro quasi al termine della sua vita pubblica: i quaranta giorni nel deserto, sui quali è ricalcato il tempo quaresimale, e l’agonia nel Getsemani – entrambi sono essenzialmente momenti di preghiera. Preghiera con il Padre solitaria a tu per tu nel deserto, preghiera colma di «angoscia mortale» nell’Orto degli Ulivi. Ma sia nell’una che nell’altra circostanza, è pregando che Cristo smaschera gli inganni del tentatore e lo sconfigge. La preghiera si dimostra così la prima e principale «arma» per «affrontare vittoriosamente il combattimento contro lo spirito del male» ( Orazione colletta).
La preghiera di Cristo raggiunge il suo culmine sulla croce, esprimendosi in quelle ultime parole che gli evangelisti hanno raccolto. Laddove sembra lanciare un grido di disperazione: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» ( Mt 27,46; Mc 15,34; cfr Sal 21,1), in realtà Cristo fa sua l’invocazione di chi, assediato senza scampo dai nemici, non ha altri che Dio a cui votarsi e, al di là di ogni umana possibilità, ne sperimenta la grazia e la salvezza. Non vi è dunque contraddizione tra il lamento: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», e le parole piene di fiducia filiale: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito» ( Lc 23,46; cfr Sal 30,6). An­che queste sono prese da un Salmo, il 30, implorazione drammatica di una persona che, abbandonata da tutti, si affida sicura a Dio. La preghiera di supplica colma di speranza è, pertanto, il leit motiv della Quaresima, e ci fa sperimentare Dio quale unica àncora di salvezza. Pur quando è collettiva, la preghiera del popolo di Dio è voce di un cuore solo e di un’anima sola, è dialogo «a tu per tu», come la commovente implorazione della regina Ester quando il suo popolo sta per essere sterminato: «Mio Signore, nostro re, tu sei l’unico! Vieni in aiuto a me che sono sola e non ho altro soccorso se non te, perché un grande pericolo mi sovrasta» ( Est 4,17l). Di fronte a un «grande pericolo» ci vuole una più grande speranza, e questa è solo la speranza che può contare su Dio.
La preghiera è un crogiuolo in cui le nostre attese e aspirazioni vengono esposte alla luce della Parola di Dio, vengono immerse nel dialogo con Colui che è la verità, ed escono liberate da menzogne nascoste e compromessi con diverse forme di egoismo (cfr Spe salvi, 33). Senza la dimensione della preghiera, l’io umano finisce per chiudersi in se stesso, e la coscienza, che dovrebbe essere eco della voce di Dio, rischia di ridursi a specchio dell’io, così che il colloquio interiore diventa un monologo dando adito a mille auto­giustificazioni. La preghiera, perciò, è garanzia di apertura agli altri: chi si fa libero per Dio e le sue esigenze, si apre contemporaneamente all’altro, al fratello che bussa alla porta del suo cuore e chiede ascolto, attenzione, perdono, talvolta correzione ma sempre nella carità fraterna. La vera preghiera non è mai egocentrica, ma sempre centrata sull’altro. Come tale essa esercita l’orante all’«estasi» della carità, alla capacità di uscire da sé per farsi prossimo all’altro nel servizio umile e disinteressato. La vera preghiera è il motore del mondo, perché lo tiene aperto a Dio. Per questo senza preghiera non c’è speranza, ma solo illusione. Non è infatti la presenza di Dio ad alienare l’uomo, ma la sua assenza: senza il vero Dio, Padre del Signore Gesù Cristo, le speranze diventano illusioni che inducono ad evadere dalla realtà. Parla­re con Dio, rimanere alla sua pre­senza, lasciarsi illuminare e purifi­care dalla sua Parola, ci introduce invece nel cuore della realtà, nel­l’intimo Motore del divenire cosmi­co, ci introduce per così dire nel cuore pulsante dell’universo.
In armonica connessione con la preghiera, anche il digiuno e l’ele­mosina possono essere considera­ti luoghi di apprendimento ed eser­cizio della speranza cristiana. I Pa­dri e gli scrittori antichi amano sot­tolineare che queste tre dimensio­ni della vita evangelica sono inse­parabili, si fecondano reciproca­mente e portano tanto maggior frut­to quanto più si corroborano a vi­cenda. Grazie all’azione congiunta della preghiera, del digiuno e del­l’elemosina, la Quaresima nel suo insieme forma i cristiani ad essere uomini e donne di speranza, sull’e­sempio dei santi. Vorrei ora soffermarmi anche sulla sofferenza poiché, come ho scritto nell’enciclica Spe salvi «la misura dell’umanità si determina essen­zialmente nel rapporto con la sof­ferenza e col sofferente. Questo va­le per il singolo come per la società» ( Spe salvi, 38). La Pasqua, verso cui la Quaresima è protesa, è il mistero che dà senso alla sofferenza umana, a partire dalla sovrabbondanza del­la com-passione di Dio, realizzata in Gesù Cristo. Il cammino quaresi­male, pertanto, essendo tutto irra­diato dalla luce pasquale, ci fa rivi­vere quanto avven­ne nel cuore divino­umano di Cristo mentre saliva a Ge­rusalemme per l’ul­tima volta, per offri­re se stesso in espia­zione (cfr Is 53,10). La sofferenza e la morte sono calate come tenebre via via che Egli si avvi­cinava alla croce, ma viva si è fatta an­che la fiamma del­l’amore.
La sofferenza di Cristo è in effetti tutta permeata dalla luce del­l’amore (cfr Spe salvi, 38): l’amore del Padre che permette al Figlio di andare incontro con fiducia al suo ultimo «battesimo», come Lui stes­so definisce il culmine della sua missione (cfr Lc 12,50). Quel batte­simo di dolore e d’amore, Gesù lo ha ricevuto per noi, per tutta l’u­manità. Ha sofferto per la verità e la giustizia, portando nella storia de­gli uomini il vangelo della sofferen­za, che è l’altra faccia del vangelo dell’amore. Dio non può patire, ma può e vuole com-patire. Dalla pas­sione di Cristo può entrare in ogni sofferenza umana la con-solatio, «la consolazione dell’amore partecipe di Dio e così sorge la stella della spe­ranza » ( Spe salvi, 39).
Come per la preghiera, così per la sofferenza la storia della Chiesa è ricchissima di testimoni che si so­no spesi per gli altri senza rispar­mio, a costo di duri patimenti. Più è grande la speranza che ci anima, tanto maggiore è anche in noi la ca­pacità di soffrire per amore della ve­rità e del bene, offrendo con gioia le piccole e grandi fatiche di ogni gior­no e inserendole nel grande com­patire di Cristo (cfr ivi, 40). Ci aiuti in questo cammino di perfezione e­vangelica Maria, che, insieme con quello del Figlio, ebbe il suo Cuore immacolato trafitto dalla spada del do­lore. Proprio in que­sti giorni, ricordan­do il 150° anniver­sario delle appari­zioni della Vergine a Lourdes, siamo condotti a meditare sul mistero della condivisione di Ma­ria con i dolori del­l’umanità; al tempo stesso siamo inco­raggiati ad attinge­re consolazione dal «tesoro di com­passione » ( ibid.) della Chiesa, a cui Ella ha contribuito più di ogni altra creatura. Iniziamo pertanto la Qua­resima in spirituale unione con Ma­ria, che «ha avanzato nel cammino della fede» dietro il suo Figlio (cfr Lumen gentium, 58) e sempre pre­cede i discepoli nell’itinerario verso la luce pasquale. Amen!
Benedetto XVI


Tutti i filosofi di Ratzinger
Di Andrea Tornielli
Il Giornale – 07/02/2008
Gli danno dell’oscurantista, ma fin da giovane ha teorizzato la necessità del dialogo tra fede e ragione. Lo considerano incapace di ascoltare e confrontarsi, ma è sempre stato intellettualmente aperto e ha valorizzato tutto ciò che poteva dalle filosofie contemporanee. Lo descrivono come un nemico della scienza solo perché «osa» porsi delle domande sui limiti della scienza stessa. Il clamore suscitato dalla mancata visita di Benedetto XVI alla Sapienza ha finito per far passare in secondo piano il problema legato all’incapacità dei docenti firmatari della lettera contro Ratzinger di comprendere il pensiero espresso dall’allora cardinale sul caso Galileo citando il filosofo libertario Paul Feyerabend. L’attuale Pontefice ha infatti sempre mostrato una grande libertà e curiosità nel confrontarsi con le idee espresse dai filosofi.
QUELLA LEZIONE DI BONN
È necessario partire da quel 24 giugno 1959, il giorno in cui – come ricorda Gianni Valente in un libro di prossima pubblicazione per i tipi della San Paolo, dedicato proprio all’esperienza accademica del futuro Papa – il trentaduenne professor Ratzinger tenne la lezione d’inizio carriera all’università di Bonn, nel grande spazio d’ingresso della facoltà di Teologia. Professori e studenti affollano la prima lezione, nell’ateneo della capitale tedesca. Il titolo della quale è «Il Dio della fede e il Dio dei filosofi». Quarantacinque anni dopo, nella prefazione scritta per una nuova edizione di quel testo, Ratzinger spiegherà come «le domande poste allora siano rimaste fino ad oggi, per così dire, il filo conduttore del mio pensiero». La questione «urgente» e decisiva con cui fin dall’inizio il brillante professore si misura è la separazione tra fede e ragione, che vede la religione confinata in ambito del tutto estraneo alla ragione, dunque sentimentale, intimistico, soggettivo. Una religione contrapposta alla ricerca razionale che da Kant in poi aveva negato a priori ogni possibilità di conoscere Dio.
OLTRE PASCAL
La separazione tra fede e ragione viene sintetizzata da Blaise Pascal nella contrapposizione tra il Dio che in Gesù si rende «amorevole» e il Dio di Cartesio, un puro concetto. Il professor Ratzinger, che pure non aveva e non ha mai nascosto la sua passione per Platone e Sant’Agostino, più che per Aristotele e San Tommaso d’Aquino, guardava però proprio a quest’ultimo, per affermare che «Dio della religione e Dio dei filosofi coincidono pienamente», anche se il primo «aggiunge qualcosa» al secondo. Per Ratzinger è possibile superare la contrapposizione tra linguaggio della fede e linguaggio della ragione, tra ricerca filosofica e accoglienza della rivelazione cristiana. Il futuro Papa spiega infatti che il Dio d’Israele non è uno «dei consueti dei delle nazioni», né «alcuna delle forze sotterranee della fecondità», ma è, invece, «lo stesso principio assoluto del mondo». Ogni ricerca filosofica razionale che tenti di definire l’Assoluto immagina un Ente superiore che è facilmente compatibile con il Dio venerato da ebrei e cristiani.
«SPIRITO ELLENICO»
In quella prima lezione di Bonn, il professor Ratzinger concludeva dunque che «la sintesi operata dai Padri della Chiesa tra la fede biblica e lo spirito ellenico, in quanto rappresentante in quel momento dello spirito filosofico in genere, fu non solo legittima, ma anche necessaria, per dare espressione alla piena esigenza e a tutta la serietà della fede biblica». I cristiani, insomma, si allearono con gli «illuministi» di allora. È ciò che il Papa voleva dire nel famoso discorso di Ratisbona. È ciò a cui si riferisce anche il discorso che voleva pronunciare alla Sapienza, quando ricorda che i cristiani dei primi secoli hanno compreso la loro fede «come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore». Per questo, l’interrogarsi «della ragione sul Dio più grande» come sulla vera natura dell’essere umano «era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosità, ma faceva parte dell’essenza del loro modo di essere
religiosi». Per questo l’università «poteva, anzi doveva» nascere in ambito cristiano. È curioso notare il paradosso: Benedetto XVI è stato accusato di oscurantismo per un discorso nel quale affermava l’esatto opposto dell’oscurantismo, l’apertura della ragione al reale, le domande dell’uomo.
LE «INCURSIONI» DEL TEOLOGO
Ratzinger non ha fondato la sua teologia su una particolare concezione filosofica, per interpretare grazie a essa, con coerenza sistematica, la realtà della fede. Il suo personale percorso va da Platone (citato anche nell’ultima enciclica, Spe salvi) ad Agostino a Bonaventura. Passa per una presa di distanza da un certo tomismo e soprattutto dalle rigidezze della neoscolastica (in auge negli anni giovanili di Ratzinger come antidoto al modernismo). Ma questa sua personale traiettoria non comporta una separazione fra sapere teologico e sapere filosofico, quanto piuttosto un approccio aperto, non sistematico, che tende a valorizzare tutto ciò che c’è di valorizzabile, dovunque si trovi.
Anche nel marxismo: «Nel mio corso di cristologia avevo cercato di reagire alla riduzione esistenzialistica e \ avevo persino cercato di porre a essa dei contrappesi desunti dal pensiero marxista, che, proprio per le sue origini giudaico-messianiche – scrive Ratzinger nella sua autobiografia – conservava ancora degli elementi cristiani». Questo approccio aperto e dialogante ha indotto Ratzinger a far fare ai suoi studenti tesi su Marx, Nietzsche e Camus, oltre che su Newman, il convertito inglese – poi cardinale – grande cantore della coscienza.
LA SCUOLA DI FRANCOFORTE
Il marxismo, però, ha tragicamente fallito. «Infatti - scriverà Ratzinger - proprio nell’ambito del materialismo, nel campo della sua applicazione prima, si è rivelato incapace di dare risposte». È necessario allora, sosteneva all’indomani della caduta del Muro, riproporre la vera «razionalità», cioè la ricerca della verità in senso forte. Una riflessione che lo ha portato, da Papa, a citare, nella Spe salvi, «i grandi pensatori della Scuola di Francoforte, Max Horkheimer e Theodor W. Adorno», nei quali egli riconosce la «nostalgia del totalmente Altro» che «rimane inaccessibile». Con uno dei rappresentanti della seconda generazione della Scuola di Francoforte, Jürgen Habermas, che si definisce «ateo metodico», Ratzinger ha dialogato pubblicamente. Habermas ritiene che sia il cristianesimo il fondamento ultimo di libertà, coscienza, diritti dell’uomo e democrazia, i capisaldi della civiltà occidentale. «A tutt’oggi - ha scritto il filosofo - non disponiamo di opzioni alternative. Continuiamo ad alimentarci a questa sorgente. Tutto il resto sono chiacchiere postmoderne».
LA PASSIONE PER LA SCIENZA
Il recupero dell’elemento razionale della fede, contro le derive magiche e irrazionali così tipiche anche dell’epoca contemporanea, ha portato Ratzinger a guardare con grande attenzione ai progressi della scienza e al modo in cui la scienza riflette su se stessa. Dalla teoria della relatività di Einstein al principio di indeterminazione di Planck e Heisenberg. Proprio alla riflessione sui limiti della scienza erano riferite le citazioni nella famosa conferenza del futuro Papa, nella quale si citava il caso Galileo, che sono all’origine della polemica contro la prevista visita alla Sapienza. Ratzinger, in quel testo, citava Ernst Bloch (filosofo marxista, da lui incrociato a Tubinga negli anni burrascosi del ’68) e arrivava a Feyerabend. Quest’ultimo (agnostico e libertario), aveva affermato che «la Chiesa dell’epoca di Galileo si attenne alla ragione più che lo stesso Galileo», in quanto all’epoca la teoria copernicana non era ancora scientificamente provata.
Ma Ratzinger non faceva proprie le tesi del filosofo della scienza, teorizzatore dell’«irrazionalità» di certi passi avanti del sapere scientifico. «Sarebbe assurdo – affermava il futuro Papa – costruire sulla base di queste affermazioni una frettolosa apologetica. La fede non cresce a partire dal risentimento e dal rifiuto della razionalità, ma dalla sua fondamentale affermazione e dalla sua inscrizione in una ragionevolezza più grande \. Qui ho voluto ricordare un caso sintomatico che evidenzia fino a che punto il dubbio della modernità su se stessa abbia attinto oggi la scienza e la tecnica».
IL DISEGNO INTELLIGENTE
Curiosità, apertura, dialogo con mondi diversi e lontani, perché «la fede non elimina le domande», ha detto Ratzinger nel libro-intervista Il sale della terra. Rientrano in questa attitudine gli annuali incontri dell’ex professore con il gruppo di ex allievi (Schülerkreis). Ha fatto discutere quello dedicato al tema «Creazione ed evoluzione», che si è tenuto a Castelgandolfo nel settembre 2006, al quale hanno partecipato anche il professor Peter Schuster, dell’istituto di Chimica teorica dell’università di Vienna, e il filosofo tedesco Robert Spaemann. Gli atti sulla discussione sono stati pubblicati di recente dalla Edb.
«In ultima analisi – aveva osservato Benedetto XVI – si va a finire nell’alternativa su che cosa stia in principio: la ragione creatrice, lo Spirito creatore, che opera e lascia svilupparsi ogni cosa, o l’irrazionale, che in modo irragionevole produce stranamente un cosmo matematicamente ordinato e anche l’uomo e la sua ragione. Ma quest’ultima allora, sarebbe solo un caso dell’evoluzione e quindi, alla fin fine, un qualcosa di irrazionale. Noi cristiani diciamo: io credo in Dio, creatore del cielo e della terra – nello Spirito creatore. Noi crediamo che all’inizio stia la Parola eterna, la ragione e non l’irrazionale».


Cinque musulmani in Vaticano. A preparare l'udienza col papa
Sono i rappresentanti della "lettera dei 138" scritta a Benedetto XVI lo scorso ottobre. Ecco chi sono e da dove vengono. Uno di essi, Yahya Pallavicini, racconta in un libro come si può vivere da musulmani in un paese cristiano, in pace tra le due religioni
di Sandro Magister

ROMA, 6 febbraio 2008 – Nei due giorni che hanno preceduto questo mercoledì delle ceneri si sono tenuti a Roma i primi incontri preparatori dell'annunciata visita in Vaticano di una rappresentanza delle 138 personalità musulmane che nell'ottobre del 2007 hanno indirizzato al papa e ai capi di altre confessioni cristiane una lettera con una offerta di dialogo, dal titolo: "Una parola comune tra noi e voi".

Le riunioni si sono svolte presso il pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, presieduto dal cardinale Jean-Louis Tauran. L'agenda prevede che, a partire dalla prossima primavera, i rappresentanti dell'islam incontreranno Benedetto XVI e altre autorità della Chiesa. E terranno sessioni di studio in istituti come la Pontificia Università Gregoriana e il Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica, in sigla PISAI, presieduto da padre Miguel Angel Ayuso Guixot.

La delegazione musulmana era composta da cinque studiosi di altrettante nazioni:

– Ibrahim Kalin, turco, direttore ad Ankara della Fondazione SETA e professore a Washington alla Georgetown University;

– Abd al-Hakim Murad Winter, inglese, professore di studi islamici alla Shaykh Zayed Divinity School dell'università di Cambridge e direttore del Muslim Academic Trust del Regno Unito;

– Sohail Nakhooda, giordano, direttore di "Islamica Magazine", rivista internazionale edita negli Stati Uniti;

– Aref Ali Nayed, libico, membro dell'Interfaith Program della Faculty of Divinity dell'università di Cambridge, già docente all'International Institute for Islamic Thought and Civilization della Malesia e al Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica di Roma;

– Yahya Sergio Yahe Pallavicini, italiano, imam della moschea al-Wahid di Milano, presidente del Consiglio ISESCO per l'educazione e la cultura in Occidente e vicepresidente della Comunità Religiosa Islamica d'Italia, in sigla COREIS.

Tutti fanno parte del gruppo di esperti coordinato, ad Amman, dal principe di Giordania Ghazi bin Muhammad bin Talal, presidente dell'al-Bayt Institute for Islamic Thought, primo promotore della lettera dei 138 e protagonista dello scambio di lettere avvenuto in novembre e in dicembre con Benedetto XVI, tramite il cardinale segretario di stato Tarcisio Bertone., in preparazione dei futuri incontri.

Dei cinque, quelli più conosciuti dalle autorità e dagli esperti vaticani sono Aref Ali Nayed e Yahya Pallavicini.

Nayed – ben noto anche ai lettori di www.chiesa che ha pubblicato diversi suoi testi in anteprima – è in campo islamico uno dei massimi esperti della filosofia occidentale e della teologia cristiana. Ha studiato alla Gregoriana, oltre che in università degli Stati Uniti e del Canada, e conosce come pochi la "Summa Theologiae" di san Tommaso d'Aquino. Della lettera dei 138 è uno dei principali estensori. Ed è l'autore di una lettera anch'essa importante con la quale ha risposto al messaggio rivolto ai musulmani dal cardinale Tauran in occasione dell'ultimo ramadan.

Ma anche Yahya Pallavicini è da tempo un interlocutore di rilievo, per le autorità e gli esperti vaticani.

Suo padre, Abd al-Wahid Pallavicini, abbracciò la fede musulmana nel 1951, al pari di altri intellettuali europei passati in quegli anni all'islam nella scia del metafisico francese René Guénon. Nel corso di un lungo viaggio in Oriente entrò a far parte della confraternita sufi Ahamadiyyah Idrissiyyah Shadhiliyyah, contrapposta all'islamismo settario wahabita che tuttora impera in Arabia Saudita, confraternita di cui divenne poi maestro in Italia. Ad Assisi, nel 1986, Abd al-Wahid Pallavicini prese parte all'incontro di preghiera tra i leader delle religioni convocato da Giovanni Paolo II. Il suo sogno è di edificare a Milano "una piccola Gerusalemme che veda uniti nella preghiera i figli di Abramo: ebrei, cristiani e musulmani". La sua fede incrollabile è che l'islam sia "l'ultima e definitiva espressione di quella tradizione primordiale che ha fondato, conferma e vivifica le precedenti rivelazioni".

Yahya Pallavicini, 43 anni, è nato musulmano ed è oggi conosciuto in Italia tra i principali esponenti dell'islam colto, democratico, "moderato", assieme all'algerino Khaled Fouad Allam e alla marocchina Souad Sbai. Da altre personalità musulmane con i quali si trova spesso in sintonia – il più noto in Italia è l'egiziano Magdi Allam – si distingue sotto il profilo religioso. A differenza di Magdi Allam, che non pratica la religione in cui è nato ed esprime un islam decisamente secolarizzato, Yahya Pallavicini è musulmano osservante e fervente, anzi, è imam di una moschea a Milano, è leader di una comunità di italiani convertiti all'islam, attivi in varie città, ed è impegnato in corsi di formazione di nuovi imam.

Dal 2006 è consigliere del ministero dell'interno italiano per la Consulta dell'islam. È critico inflessibile delle derive violente del pensiero e della pratica musulmana. Ha scritto e detto più volte in pubblico – cosa rara e spesso rischiosa da parte di un musulmano – che "gli atti di violenza non trovano legittimazione alcuna negli insegnamenti del profeta Muhammad o dei sapienti". Ha più volte fermamente condannato "la strumentalizzazione della shari'ah, la legge islamica, per creare un mondo parallelo e alternativo, che rifiuta di integrarsi col sistema occidentale". Ha denunciato "la cultura dell'odio" che trasuda dalla predicazione fatta in molte moschee d'Italia e d'Europa da parte di imam "che sono in realtà dei sobillatori politici che non hanno nulla di autenticamente islamico".

Viceversa, egli è convinto assertore di un dialogo positivo con l'ebraismo e il cristianesimo. Nel 2005 ha contestato pubblicamente la fatwa, la disposizione giuridica emessa dagli schermi della tv al-Jazeera da uno dei più influenti leader mondiali dell'islam fondamentalista, lo Shaykh Yusuf al-Qaradawi, che vietava ogni dialogo con gli ebrei. La questione si è riproposta nei giorni scorsi in Italia, quando all'improvviso, per un ordine venuto dall'università egiziana di al-Azhar, i rappresentanti della Grande Moschea di Roma hanno dovuto cancellare una loro visita – la prima – in programma il 23 gennaio nella sinagoga ebraica della stessa città.

Queste critiche sono tutte ribadite in un libro che Yahya Pallavicini ha pubblicato di recente in Italia, dal titolo: "Dentro la moschea".

Ma in questo stesso libro c'è moltissimo di più. C'è, in positivo, il racconto di una comunità musulmana in Italia accompagnata nei luoghi e nei tempi della sua vita religiosa: la moschea, chi la frequenta, come e quando si prega, il ramadan, il matrimonio, il velo, la scuola, la nascita, la morte, il pellegrinaggio alla Mecca. È la comunità sufi alla quale Yahya Pallavicini appartiene, molto distante dall'immagine dell'islam che domina i media, anzi, spesso ostacolata e avversata, in lotte fratricide, dagli esponenti di questo islam fondamentalista e aggressivo.

Nel suo libro, Yahya Pallavicini dà voce a molti suoi fratelli di fede. Un'intera sezione raccoglie le prediche pronunciate in moschea il venerdì da venticinque imam italiani. Un'altra sezione allinea delle storie di vita: di un imprenditore, di un violinista, di un pittore, di uomini e donne convertiti all'islam nel cuore dell'Occidente. Uno di questi convertiti, Ahmad Abd al-Wahliyy Vincenzo, ha inaugurato una cattedra di storia della civiltà e del diritto islamico all'Università Federico II di Napoli. Conclude così il suo racconto: "Una volta, dopo un esame, uno studente mi disse una cosa di cui vado fiero: Caro professore, deve sapere che ieri ho ricevuto la cresima. E studiare con lei l'islam è stata la più bella preparazione che potessi fare".


Copia e incolla da Wikipedia: 67 docenti per un errore Svela “L'Osservatore Romano

CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 6 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Di fronte alla raccolta di firme – tra professori, ricercatori e dottorandi delle università italiane – in segno di solidarietà con i 67 professori la cui lettera ha impedito la visita del Papa all'università “La Sapienza” di Roma, “L'Osservatore Romano” (6 febbraio 2008) avverte della diffusione di un errore sottoscritto, ora, da altre 1.479 persone.
Riportiamo integralmente l'articolo del quotidiano della Santa Sede dal titolo “Copia e incolla da Wikipedia: 67 docenti per un errore”.
* * *
I 1.479 firmatari dell'appello di solidarietà coi 67 docenti de La Sapienza che con la loro lettera hanno, di fatto, impedito a Benedetto XVI di parlare in università, hanno scritto: «Noi firmatari affermiamo che ci saremmo comportati come i 67 in nome della libertà della ricerca e della scienza» (ne dà notizia il «Corriere della sera» del 5 febbraio). Forse i 1.479 non sanno che, «in nome della libertà della ricerca e della scienza», hanno preso per buono un falso, cogliendo un'affermazione senza verificarne l'affidabilità.
Nella lettera dei 67 si legge: «Il 15 marzo 1990, ancora cardinale, in un discorso nella città di Parma, Joseph Ratzinger ha ripreso un'affermazione di Feyerabend: "All'epoca di Galileo la Chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello stesso Galileo. Il processo contro Galileo fu ragionevole e giusto". Sono parole che, in quanto scienziati fedeli alla ragione e in quanto docenti che dedicano la loro vita all'avanzamento e alla diffusione delle conoscenze, ci offendono e ci umiliano. In nome della laicità della scienza e della cultura e nel rispetto di questo nostro Ateneo aperto a docenti e studenti di ogni credo e di ogni ideologia, auspichiamo che l'incongruo evento possa ancora essere annullato».
Se prima di affrettarsi a sottoscrivere la solidarietà ai 67 qualcuno dei 1.479 avesse verificato tale affermazione, avrebbe scoperto che chi ha scritto la lettera ha tratto la citazione del discorso di Ratzinger dalla voce Papa Benedetto XVI di Wikipedia, la nota enciclopedia della rete che viene redatta dai lettori che navigano in rete e che nessun uomo di scienza utilizzerebbe come fonte esclusiva delle sue ricerche, se non verificandone accuratamente l'attendibilità.
Che Wikipedia sia con tutta probabilità la fonte da cui è tratta la citazione lo testimonia il fatto che nella lettera dei 67 si fa riferimento a una conferenza del cardinale Ratzinger del 15 marzo 1990 a Parma. La conferenza ci fu, ma si svolse a Roma, all'Università «La Sapienza», esattamente in quella data.
Il testo di quella conferenza è contenuto in un libro, pubblicato nel 1992 dalle Edizioni San Paolo col titolo Svolta per l'Europa? Chiesa e modernità nell'Europa dei rivolgimenti. A piè di pagina c'è la seguente «Avvertenza» dell'Autore: «La prima stesura di questo contributo fu presentata il 16 dicembre 1989 a Rieti – ancora sotto la viva impressione degli eventi appena verificatisi nell'Europa orientale – come tentativo di un'iniziale riflessione sulle cause e le conseguenze di quanto accaduto. La versione qui riportata è quella utilizzata per una conferenza all'Università "La Sapienza" di Roma, lo scorso 15 febbraio 1990. In occasione della celebrazione del millequattrocentesimo anniversario del terzo concilio di Toledo ho presentato a Madrid, il 24 febbraio 1990, un'ulteriore stesura, modificata in relazione alla specifica circostanza».
Ora, la cosa sorprendente è che chi ha preso la citazione di Feyerabend non può non avere letto la continuazione di quel brano, contenuta in Wikipedia, dove ci si può rendere ben conto che il senso della frase di Ratzinger è esattamente il contrario di quello che i 67 professori hanno preteso di attribuire al Papa.
Ciascuno è libero di giudicare se questo modo di usare la ragione sia corretto o non piuttosto un atto di slealtà: il rischio di piegare la ragione davanti alla pressione degli interessi e all'attrattiva dell'utilità, è esattamente ciò da cui il Papa avrebbe messo in guardia il corpo docente de La Sapienza, se avesse potuto parlare. Ognuno giudichi chi ha difeso davvero la ragione.
[Ndr: la versione originale del paragrafo in questione di Wikipedia, prima della sua modifica, era la seguente: “Il 15 marzo 1990 Ratinger, ancora cardinale, in un discorso nella città di Parma, riprese un'affermazione di Paul Feyerabend: «All'epoca di Galileo la Chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello stesso Galileo. Il processo contro Galileo fu ragionevole e giusto»[21], aggiungendo però : «Sarebbe assurdo costruire sulla base di queste affermazioni una frettolosa apologetica. La fede non cresce a partire dal risentimento e dal rifiuto della razionalità, ma dalla sua fondamentale affermazione e dalla sua inscrizione in una ragionevolezza più grande.Qui ho voluto ricordare un caso sintomatico che evidenzia fino a che punto il dubbio della modernità su se stessa abbia attinto oggi la scienza e la tecnica»; mostrando quindi di criticare le idee di Feyerabend su Galileo, sul cui processo Giovanni Paolo II aveva chiesto ufficialmente scusa per l'errore della Chiesa”; http://it.wikipedia.org/wiki/Papa_Benedetto_XVI].
Adattamento a cura di ZENIT


RICERCA E VERITÀ
Seminario voluto dal preside della facoltà di Scienze politiche, Fulco Lanchester: il punto di convergenza fondamentale è la dignità della persona e la sua centralità
Tra fede e ragione dialogo che convince - Alla Sapienza si analizza il discorso del Papa

Avvenire, 7 febbraio 2008
DA ROMA PAOLA SPRINGHETTI
Una fede e una ragione che dialogano e si arricchiscono reciprocamente; una cultura che sia comunicazione e non controllo; una difesa della libertà della scienza ma senza che essa si trasformi in una dittatura etica. Si è parlato di tutto questo ieri a Roma, durante il seminario su «Fede, ragione e università» che si è svolto presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università «La Sapienza». Il preside della facoltà, Fulco Lanchester, non voleva rinunciare a una riflessione sul discorso che Benedetto XVI ha inviato all’università in occasione del mancato incontro del 17 gennaio scorso, anche perché, ha spiegato, «scienza e fede si muovono su piani diversi, in cui ciascuno cerca di dare un risposta alla finitezza, ma l’area della comprensione è molto più vasta di quello che spesso si pensa. E c’è almeno un punto di convergenza fondamentale: la dignità della persona e la sua centralità». Ma questa convergenza può avvenire a una condizione: «Che si rinunci al metodo agonistico». «Fede e ragione sono sorelle amiche, perché hanno uno scopo comune: attingere conoscenza dal vero», ha detto il filosofo Vittorio Possenti, dell’Università Cà Foscari di Venezia. Del resto siamo ormai entrati nella società postsecolare, il che significa che «si è chiusa l’epoca della privatizzazione della fede, e si può camminare verso un rapporto più cordiale fra fede e ragione». Secondo Possenti non si tratta di mortificare la ragione, «che come primo movimento non si inginocchia dinanzi alla fede: le va incontro, la interroga, talvolta la accoglie, cercando l’intesa e la cooperazione». Anzi, «se per secoli molte obiezioni si sono appuntate sull’infelice espressione per cui la filosofia era considerata ancilla della teologia, oggi vi è da temere che la filosofia e più ampiamente la ragione siano divenute ancillae scientiarum ». Non bisogna infatti cadere nell’errore di pensare che «il perimetro del sapere sia definito solo dalle scienze. Anche la fede e la religione hanno una significanza conoscitiva». Nella ricerca della verità cui Benedetto XVI continuamente richiama, secondo Possenti, è «compito imprescindibile della fede porsi come pungolo nei confronti della ragione, perché non abdichi alle sue responsabilità, cedendo al positivismo e allo scientismo». A questo proposito, tra l’altro, si rischia a volte di semplificare l’analisi del nostro contesto culturale, dicendo che è dominato dal relativismo. Non che non sia vero, ma non bisogna dimenticare che «la cultura di taglio illuminista che pervade l’Europa non è sempre relativistica; avanza brandendo come una spada la “verità forte” della scienza che come l’acqua ragia dissolve ogni altro vero… È possibile che il Papa abbia dinnanzi questa situazione quando invita a non gettare impunemente “nel cestino della storia delle idee” le tradizioni sapienziali, in nome di una ragione decentrata e astorica». Tra l’altro nel suo discorso Benedetto XVI ha chiesto «come possa essere trovata una normatività giuridica che costituisca un ordinamento della libertà della dignità umana e dei diritti dell’uomo». Anche sul piano delle leggi, infatti, abbiamo bisogno di cercare una verità, altrimenti essere risponderanno solo agli interessi prevalenti.
Questo tema è stato affrontato da Mario Caravale, docente di Storia del diritto alla Sapienza, con un ragionamento che è partito dalla constatazione che anche in ambito giuridico si rischia di non avere più punti di riferimento condivisi, dato che oggi si riconoscono almeno dieci diverse fonti di diritto (basti pensare agli accordi commerciali e ai trattati internazionali). Contro il relativismo giuridico bisognerebbe riconoscere le tradizioni sapienziali di tre cardini della storia europea: il diritto romano, l’antico diritto francese e la common law inglese. «Il richiamo del Papa – secondo Caravale –, non è a norme di diritto divino, ma a norme che recuperino dalla tradizione diritti fondamentali e un concetto di equità che oggi possono essere utili». Di fronte problematiche di questa levatura «l’università dovrebbe essere spazio di comunicazione, cioè di dialogo», secondo Teresa Serra, docente di Filosofia politica nella medesima università. «Ma diventa strumento di controllo se alcuni non sono ammessi a parlare».
Nessuno mette in discussione la libertà della scienza, ma oggi più che mai essa non può negarsi al confronto, perché «non è più solo conoscitiva, ma è diventata progettuale. Perciò accanto alla libertà della scienza bisogna rispettare una nuova libertà: quella di decidere che cosa si vuole progettare con i risultati della ricerca scientifica. Si tratta di dirsi che cosa è l’uomo e quali norme vogliamo darci in base a questa idea di uomo. In fondo, la deriva di una fede scientista è più pericolosa di una deriva della fede religiosa».
Il filosofo Possenti: il perimetro del sapere non è definito solo dalle scienze Lo storico Caravale: contro il relativismo giuridico vanno recuperati i cardini della storia europea


Neonati prematuri: di qui passa l’eugenetica
Avvenire, 7 febbraio 2008
di Marina Corradi
Pochi giorni fa una commissione di tecnici ha tracciato sull’argomento neonati prematuri le 'linee guida' per il ministero della Salute, in cui si prevede che fino alla 22esima settimana e 6 giorni di gestazione siano praticate «cure compassionevoli», salvo che il neonato si mostri vitale, nel qual caso va naturalmente rianimato. Per contro, in una bozza sottoscritta mesi fa da neonatologi di area laica si ipotizzava una soglia minima di 23 settimane per la rianimazione. Un tema caldo, che incrocia da un lato il termine massimo dell’aborto cosiddetto 'terapeutico', e dall’altro timori di eugenetica: il 'paletto' alla rianimazione a 26 settimane dell’Olanda, per esempio, tende a evitare la sopravvivenza di neonati ad elevato rischio di handicap. Ora il Comitato nazionale di bioetica sta lavorando a un documento sul trattamento dei neonati prematuri, come ci spiega il suo presidente onorario, Adriano Bompiani.
Professore, qual è la posta in gioco in questo dibattito?
«Il periodo compreso fra la 22esima e la 23 esima settimana di gestazione, in cui si registrano le prime rare possibilità di vita, è una zona grigia in cui gli elementi di incertezza sono altissimi. Non sempre, intanto, si conosce l’inizio esatto della gravidanza; i segni da cui dedurre una prognosi sono pure incerti; in pochi secondi il medico deve decidere se rianimare. A fronte di questa estrema complessità, in seno al Comitato c’è la tendenza – in cui mi riconosco – a non fissare limiti rigidi e a lasciare la scelta al medico, che in scienza e coscienza valuti caso per caso. È ragionevole la scelta, condivisa da molti neonatologi, di rianimare ogni nato vitale, valutando nelle ore successive se gli sforzi non costituiscano accanimento terapeutico, utile solo a rimandare la morte inevitabile.
L’altra tendenza è quella invece di stabilire un limite fisso di età gestazionale per la rianimazione. È una scelta che si basa sulle statistiche di scarsa possibilità di sopravvivenza; ma anche sulla prognosi degli handicap cui, statisticamente, i prematuri vanno incontro proporzionalmente alla gravità della prematurità».
Oltre alla possibilità di vivere del bambino si dovrebbe guardare dunque, in questa seconda ipotesi, anche alla 'qualità della vita'...
«Infatti. Il principio di alcuni Paesi nordici è di fissare un’età gestazionale minima, per evitare i costi personali e anche economici dell’handicap. È una scelta rigidamente pragmatica, attenta alla statistica più che al caso singolo. Ed eticamente molto critica, perché nella sostanza è di natura eugenetica. Credo che questo sarà il prossimo centro del dibattito bioetico: dove comincia l’eugenetica? Oggi molti ritengono che, finché la scelta di rifiutare un figlio malato sia dei genitori, non si possa parlare di eugenetica. Ma autorevoli bioeticisti hanno sottolineato come l’insieme delle scelte personali di questo tipo, tollerate dallo Stato, di fatto invece sono eugenetica».
Dunque il 'paletto' rigido considera le statistiche e trascura il singolo neonato che invece talvolta ce la fa?
«Esattamente. È la filosofia della Evidence Based Medicine, dell’attenzione alle percentuali di successo, ai costi/benefici, più che al singolo paziente. È una filosofia di impronta protestante, pragmatica, diversa da quella di matrice cattolica, attenta all’individuo. Personalmente trovo inaccettabile il ragionare per statistiche, e mi auguro che il Comitato si esprimerà nel senso della scelta del medico, caso per caso».
Il documento di un gruppo di cattedratici romani, la cosiddetta «Carta di Roma» secondo la quale il consenso dei genitori alla rianimazione del figlio prematuro non è vincolante, ha suscitato polemiche, e anche la riprovazione del ministro Turco. Ma non è, il nato, ormai soggetto di pieni diritti?
«L’idea di un consenso genitoriale per rianimare una creatura autonoma appare a chi conosca la storia del diritto occidentale un 'monstrum' giuridico. In alcune culture asiatiche o africane il padre ha diritto di vita o di morte sul neonato. Da noi, con l’avvento del cristianesimo, per fortuna no.
Per tutte le Convenzioni internazionali con la nascita si acquista la tutela del diritto alla vita. Il medico deve soccorrere il prematuro come ogni altro paziente. Se il consenso di padre e madre non c’è, ha comunque l’obbligo di tutelare la vita del neonato.
Certo, informando i genitori, ed evitando ogni accanimento terapeutico. Ma l’ultima responsabilità è del medico. E se oggi la medicina dà chance di vita a 23 o 24 settimane, occorre evitare l’aborto a questo stadio, come già affermano le linee adottate dalla Regione Lombardia. Nella stesura della 194 del resto l’idea della tutela del nascituro, quando fosse autonomo, c’era già, e sostenuta dagli stessi proponenti, cioè dalla sinistra. Infatti si afferma che quando c’è possibilità di vita autonoma del feto l’aborto è consentito solo in caso di pericolo di vita della madre; e che in questo caso il medico deve svolgere ogni azione per salvaguardare la vita del feto».
Un abbassamento del limite temporale per l’aborto è dunque un adeguamento al progresso della medicina?
«Sì. Peraltro, vorrei ricordare che la maggior parte dei prematuri nasce non da aborto provocato, ma spontaneo. Sono figli spesso molto desiderati. La realtà dei reparti di Terapia neonatale è di una stretta alleanza fra medici e genitori, tesa al meglio per il bambino, sia nell’evitare l’accanimento che nel proseguire le terapie necessarie. Per questo sono convinto che occorra lasciare ai medici un ampio margine perché scelgano 'in scienza e coscienza'. E che non vada fissato alcun 'paletto' sulla base di previsioni statistiche. Quell’attenzione al singolo uomo che si concreta nei pochi secondi di una scelta in sala parto, non può essere decretata da una norma rigida stabilita da una legge».


E sarebbe una «tecnica meno rischiosa»?
Avvenire, 7 febbraio 2008
Come funziona, in cosa viola la leg­ge 194, a quali pericoli espone la salute della donna: ecco perché il nostro Paese non è «obbligato» a introdurre la Ru486.
La compatibilità con la legge
«La pillola Ru486 è una metodica abortiva che va utilizzata, rigorosamente ed esclusivamente, all’interno della legge 194»: non si tratta di paletti piantati dai detrattori della pillola abortiva, né una scelta prudente all’interno di un ventaglio di possibilità. Quanto affermato per l’ennesima volta da Livia Turco, la settimana scorsa, è l’unica opzione possibile. In Italia, c’è già una legge che disciplina l’interruzione di gravidanza e prevede modalità ben precise. Su tutte, impone che l’aborto sia effettuato in ospedale (motivo per cui il ginecologo torinese Silvio Viale è stato indagato dopo aver consentito ad alcune donne che avevano assunto la kill pill di tornare a casa). Ma anche un’altra previsione della 194 sarebbe violata in caso di introduzione della Ru486: la legge prevede che sia incentivato il ricorso alle «tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza».
L’aborto chimico va piuttosto nella direzione opposta. Se apparentemente l’asetticità di una pillola sembra rendere l’aborto meno traumatico, analizzando ciò che accade nella realtà ci si rende conto che non è proprio così.
La sicurezza
La pillola viene somministrata in ospedale ma non è qui che avviene l’interruzione della gravidanza: secondo la Food and Drug Administration (l’ente statunitense di controllo dei farmaci), solo il 3% delle donne abortisce dopo aver assunto la prima pillola. Per le altre sarà necessario attendere 3 giorni, quando è prevista l’assunzione della seconda. In ogni caso, il 5-8% di loro dovrà comunque ricorrere a intervento chirurgico, per aborto incompleto o prosecuzione della gravidanza. Una verifica che viene fatta solo dopo 15 giorni, ossia quando è finalmente prevista una visita ginecologica. Durante questa lunga procedura la donna è sola, e su di lei ricade l’onere di capire se l’embrione è stato espulso. A ciò si vanno ad aggiungere numerosi effetti collaterali, tra cui perdite di sangue, dolori addominali, vomito, diarrea, febbre.
L’assunzione della Ru486, inoltre, è stata associata alla morte di 16 donne, tra cui la giovane americana Holly Patterson, la cui famiglia, dal 2001, sta portando avanti una tenace battaglia contro l’aborto chimico.
La registrazione
Il fascicolo sulla pillola abortiva è all’esame dell’Aifa (Agenzia italiana del farmaco), dopo che la ditta produttrice, la francese Exelgyn, tramite la procedura di mutuo riconoscimento, ne ha chiesto la registrazione anche in Italia. Questa procedura permette a una casa farmaceutica che ha già ottenuto l’ok da uno dei Paesi della Ue di chiedere l’estensione del riconoscimento anche in altri Stati. L’Aifa ha ricevuto il dossier della Francia, che l’ha autorizzata nel 1989. Non è vero che la registrazione è automatica: l’Aifa è tenuta a verificare la sicurezza del prodotto, può sollevare obiezioni e chiedere chiarimenti sull’efficacia e sulla sicurezza d’uso, fino ad arrivare ad aprire un contenzioso presso l’Emea (l’agenzia europea del farmaco


Al riparo della Grotta: anniversario
«Lourdes è stata anche un rifugio della fede durante gli anni di crisi razionalista che hanno seguito il Concilio». Nel 150° delle apparizioni, parla il mariologo Laurentin

DI ANDREA TORNIELLI
Padre Laurentin, se le chiedessi di dire in sintesi qual è l’autentico messaggio di Lourdes, cosa risponderebbe?
«Ogni messaggio profetico va al di là delle parole. È come il lievito nella pasta. Le paro­le chiave del messaggio non sono solo quel­le dette esplicitamente, vale a dire 'Preghie­ra', 'Penitenza e conversione', 'Immacola­ta Concezione'. C’è anche, innanzitutto, la parola 'povertà'. Credo che il messaggio profetico di Lourdes, proposto nella perso­na di Bernadette, sia quello della beatitudi­ne dei poveri, la loro esistenza, il loro valore. Ai poveri è annunciata la Buona Novella del Vangelo. Al tempo delle apparizioni, nel­l’Ottocento, la povertà era misconosciuta, irrisa, ridotta allo stato degradante della mi­seria a vantaggio della ricchezza. Quello era il tempo dello sviluppo industriale che ge­nerava sfruttamento, il lavoro dei minori, il degrado delle baracche nelle grandi città. Ci trovavamo al culmine della società borghe­se e capitalista, fondata sul denaro. La Vergi­ne parla nel contesto di Lourdes, una città della Francia meridionale. In questo conte­sto Maria è andata a cercare la ragazza più povera, della famiglia più povera – pensate alle condizioni di vita nel cachot, con il leta­maio davanti alla finestra. Una ragazza dalla salute molto malferma, che diventa la sua plenipotenziaria per fondare Lourdes.
Qualcosa di simile era accaduta tre secoli prima in Messico, quando la Vergine di Guadalupe apparve non al vescovo o a qualche notabile spagnolo, ma a un povero indio, che divenne il suo plenipotenziario nel chiedere la fondazione di un santuario sul monte dove un tempo le popolazioni indigene offrivano sacrifici umani».
C’è qualcosa che spesso una certa cultura e una certa intellighenzia laica fatica a capire. Mi è capitato di constatarlo, anche di recente, in un dibattito tv su Padre Pio, durante il quale si è sottolineata l’ignoranza del popolarissimo frate con le stimmate. Si dimentica che nel 'Magnificat' si recita che «Dio ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili»...
«La prima parola del messaggio, anche se non detta esplicitamente dall’apparizione, è la parola 'povertà'. La povertà di Bernadette, prima e durante le apparizioni, con il rifiuto del denaro, e dopo le apparizioni, con il voto di povertà che ha pronunziato presso il convento delle suore di Nevers. E non di­mentichiamo la povertà della sua salute. La sua è una grande testimonianza, come un amore immenso esercitato quotidianamen­te, che si è espresso nel dettaglio di tutta la sua vita. La povertà come quella della Vergi­ne che si esprime nel 'Magnificat', nel suo rendimento di grazie a Dio. Questo è dun­que il primo punto che fu capito, perché tutti i benestanti che fuggivano i poveri, do­po le apparizioni, venivano al cachot per a­vere la grazia di vedere Bernadette e voleva­no aiutarla, e lei non accettava l’aiuto. È una testimonianza centrale di Lourdes, la radice di Lourdes».
Ricorre il 150° anniversario delle appari­zioni. Lei insiste nel dire che per capire Lourdes bisogna capire santa Bernadette Soubirous. Perché, come lei ha più volte af­fermato, Bernadette può essere considera­ta la «fonte» di Lourdes? Perché è così im­portante?
«Bernadette è la sola intermediaria del mes­saggio e anche della conoscenza della visio­ne della Vergine, è la sola che ha visto, che ha udito le parole di Aquerò. Nessun altro veggente fu riconosciuto e tutto il messag­gio, le parole della Vergine sono conosciute da Bernadette stessa. Ma questo si radica più profondamente nel fatto che la Vergine ha scelto Bernadette come una perfetta im­magine. Come un’icona, direi. Era lei stessa, Bernadette, l’immagine della Vergine, per tutta la sua vita, per la sua umiltà, per la sua povertà e per la sua limpidezza. E aggiunge­rei anche per il suo temperamento forte. A­veva una capacità di resistenza molto forte.
Quando si è trovata davanti al commissario Jacomet che la minac­ciava, o davanti ad al­tri giudici, ha dimo­strato una forza di ca­rattere che corrispon­de anche all’immagi­ne della Vergine, una donna che era rimasta ai piedi della croce quando tutti gli altri se n’erano andati. Berna­dette è veramente l’i­cona della Vergine. Lo scultore chiamato a realizzare la statua da mettere nella nicchia della grotta di Massa­bielle l’ha realizzata più grande rispetto al­le indicazioni che gli aveva dato Bernadet­te. Hanno dovuto al­largare un po’ la nic­chia per farcela stare.
Ma l’apparizione era più piccola, una pic­cola ragazza, come la veggente. Bernanos l’ha definita, in un li­bro meraviglioso, 'u­na piccola ragazza questa regina degli angeli'; mentre Péguy diceva: 'La più grande perché la più piccola, la più gloriosa perché la più umile, la più gioiosa perché fu anche la più dolorosa'. Tutti questi contrasti si ri­conoscono nella vita di Bernadette».
Padre Laurentin, vorrei che a questo punto del nostro percorso ci parlasse di Lourdes come un rifugio della fede, che è rimasta intatta nonostante le tempeste della conte­stazione del post-Concilio. In fondo, i san­tuari mariani, i luoghi della pietà popolare, hanno rappresentato negli anni più difficili come un fiume carsico, sommerso, di fede autentica e di autentica devozione. Nono­stante anche qualche teologo considerasse la fede dei semplici, la fede di chi ha biso­gno di vedere e di toccare, come qualcosa da guardare con sufficienza, come l’espres­sione di una fede bambina, non adulta…
«È vero che la teologia talvolta è troppo ra­zionale, logica, non lascia passare il caratte­re espressivo, umano, sensibile di tutta la Bibbia che parla in termini d’amore, di cose concrete, visibili, di relazioni tra gli uomini, di relazione con Dio. Allora, a Lourdes ritro­viamo questo stile evangelico, questo stile concreto, ritroviamo al primo posto gli am­malati per i quali Lourdes ha improvvisato, senza che vi fossero precedenti, i viaggi, i pellegrinaggi appositamente dedicati a loro. E li ha organizzati con le ferrovie, era un’au­dacia al limite dell’incoscienza, perché era molto pericoloso, a volte, spostare persone in gravi condizioni di salute per farle arriva­re a Lourdes. Nella Chiesa c’è una critica e­sagerata, una critica che di fronte a una nuova apparizione, e alle persone che gioi­scono affermando: 'Ecco la Vergine, siamo felici', fa subito dire: 'No, è falso'. A Lour­des tutto va di pari passo, tutto viene armo­nizzato, nella preghiera e nell’azione di ca­rità e questo ha formato molti cristiani, nel­l’asfissia della fede che è generale nel nostro secolo. Allora, questo ha un senso per com­pletare ciò che abbiamo già detto su Lour­des come rifugio della fede durante gli anni di crisi, di disintegrazione, che hanno segui­to il Concilio, non a causa del Concilio ma per infedeltà al suo messaggio, per devia­zioni e per critica distruttiva».