Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI: Sant'Agostino, precursore della vera laicità
2) Le intuizioni del Papa sulla vera speranza (Parte I)
3) Caro Cavaliere, caro Fini, caro Bossi, di Giuliano Ferrara
4) SUOR EUGENIA E LE CONSORELLE - COME UNA MADRE A RISCATTO DELLE PROSTITUTE
5) L’imperfezione necessaria nella partitura della vita
6) Spagna, nega l'adozione a una lesbica. Sospeso il giudice tradizionalista
7) I preti e noi - La vocazione, di Vittorino Andreoli
8) LA TV DEFORMA CARAVAGGIO E LA VERA STORIA
Benedetto XVI: Sant'Agostino, precursore della vera laicità
Intervento all'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 20 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale nell'Aula Paolo VI, dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nella sua riflessione, continuando il ciclo di catechesi sui Padri della Chiesa, si è soffermato nuovamente sulla figura di Sant’Agostino.
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Cari fratelli e sorelle,
dopo la pausa degli esercizi spirituali della settimana scorsa ritorniamo oggi alla grande figura di sant'Agostino, sul quale già ripetutamente ho parlato nelle catechesi del mercoledì. E’ il Padre della Chiesa che ha lasciato il maggior numero di opere, e di queste oggi intendo parlare brevemente. Alcuni degli scritti agostiniani sono d’importanza capitale, e non solo per la storia del cristianesimo ma per la formazione di tutta la cultura occidentale: l’esempio più chiaro sono le Confessiones, senza dubbio uno dei libri dell’antichità cristiana tuttora più letti. Come diversi Padri della Chiesa dei primi secoli, ma in misura incomparabilmente più vasta, anche il Vescovo d’Ippona ha infatti esercitato un influsso esteso e persistente, come appare già dalla sovrabbondante tradizione manoscritta delle sue opere, che sono davvero moltissime.
Lui stesso le passò in rassegna qualche anno prima di morire nelle Retractationes e poco dopo la sua morte esse vennero accuratamente registrate nell’Indiculus ("elenco") aggiunto dal fedele amico Possidio alla biografia di sant'Agostino, Vita Augustini. L’elenco delle opere di Agostino fu realizzato con l’intento esplicito di salvaguardarne la memoria mentre l’invasione vandala dilagava in tutta l’Africa romana e conta ben milletrenta scritti numerati dal loro Autore, con altri "che non si possono numerare, perché non vi ha apposto nessun numero". Vescovo di una città vicina, Possidio dettava queste parole proprio a Ippona – dove si era rifugiato e dove aveva assistito alla morte dell’amico – e quasi sicuramente si basava sul catalogo della biblioteca personale di Agostino. Oggi, sono oltre trecento le lettere sopravvissute del Vescovo di Ippona e quasi seicento le omelie, ma queste in origine erano moltissime di più, forse addirittura tra le tremila e le quattromila, frutto di un quarantennio di predicazione dell’antico retore che aveva deciso di seguire Gesù e di parlare non più ai grandi della corte imperiale, ma alla semplice popolazione di Ippona.
E ancora in anni recenti le scoperte di un gruppo di lettere e di alcune omelie hanno arricchito la nostra conoscenza di questo grande Padre della Chiesa. "Molti libri – scrive Possidio – furono da lui composti e pubblicati, molte prediche furono tenute in chiesa, trascritte e corrette, sia per confutare i diversi eretici sia per interpretare le sacre Scritture ad edificazione dei santi figli della Chiesa. Queste opere – sottolinea il Vescovo amico – sono tante che a stento uno studioso ha la possibilità di leggerle ed imparare a conoscerle" (Vita Augustini, 18, 9).
Tra la produzione letteraria di Agostino – quindi più di mille pubblicazioni suddivise in scritti filosofici, apologetici, dottrinali, morali, monastici, esegetici, antieretici, oltre appunto le lettere e le omelie – spiccano alcune opere eccezionali di grande respiro teologico e filosofico. Innanzi tutto bisogna ricordare le già menzionate Confessiones, scritte in tredici libri tra il 397 e il 400 a lode di Dio. Esse sono una specie di autobiografia nella forma di un dialogo con Dio. Questo genere letterario riflette proprio la vita di sant'Agostino, che era un vita non chiusa in sé, dispersa in tante cose, ma vissuta sostanzialmente come dialogo con Dio e così una vita con gli altri. Già il titolo Confessiones indica la specificità di questa autobiografia. Questa parola confessiones nel latino cristiano sviluppato dalla tradizione dei Salmi ha due significati, che tuttavia si intrecciano. Confessiones indica, in primo luogo, la confessione delle proprie debolezze, della miseria dei peccati; ma, allo stesso tempo, confessiones significa lode di Dio, riconoscimento a Dio. Vedere la propria miseria nella luce di Dio diventa lode a Dio e ringraziamento perché Dio ci ama e ci accetta, ci trasforma e ci eleva verso se stesso. Su queste Confessiones che ebbero grande successo già durante la vita di sant'Agostino, lui stesso ha scritto: "Esse hanno esercitato su di me tale azione mentre le scrivevo e l’esercitano ancora quando le rileggo. Vi sono molti fratelli ai quali queste opere piacciono" (Retractationes, II, 6): e devo dire che anch’io sono uno di questi «fratelli». E grazie alle Confessiones possiamo seguire passo passo il cammino interiore di quest’uomo straordinario e appassionato di Dio. Meno diffuse ma altrettanto originali e molto importanti sono poi le Retractationes, composte in due libri intorno al 427, nelle quali sant’Agostino, ormai anziano, compie un’opera di "revisione" (retractatio) di tutta la sua opera scritta, lasciando così un documento letterario singolare e preziosissimo, ma anche un insegnamento di sincerità e di umiltà intellettuale.
Il De civitate Dei – opera imponente e decisiva per lo sviluppo del pensiero politico occidentale e per la teologia cristiana della storia – venne scritto tra il 413 e il 426 in ventidue libri. L'occasione era il sacco di Roma compiuto dai Goti nel 410. Tanti pagani ancora viventi, ma anche molti cristiani, avevano detto: Roma è caduta, adesso il Dio cristiano e gli apostoli non possono proteggere la città. Durante la presenza delle divinità pagane Roma era caput mundi, la grande capitale, e nessuno poteva pensare che sarebbe caduta nelle mani dei nemici. Adesso, con il Dio cristiano, questa grande città non appariva più sicura. Quindi il Dio dei cristiani non proteggeva, non poteva essere il Dio al quale affidarsi. A questa obiezione, che toccava profondamente anche il cuore dei cristiani, risponde sant'Agostino con questa grandiosa opera, il De civitate Dei, chiarendo che cosa dobbiamo aspettarci da Dio e che cosa no, qual è la relazione tra la sfera politica e la sfera della fede, della Chiesa. Anche oggi questo libro è una fonte per definire bene la vera laicità e la competenza della Chiesa, la grande vera speranza che ci dona la fede.
Questo grande libro è una presentazione della storia dell’umanità governata dalla Provvidenza divina, ma attualmente divisa da due amori. E questo è il disegno fondamentale, la sua interpretazione della storia, che è la lotta tra due amori: amore di sé "sino all'indifferenza per Dio", e amore di Dio "sino all'indifferenza per sé", (De civitate Dei, XIV, 28), alla piena libertà da sé per gli altri nella luce di Dio. Questo, quindi, è forse il più grande libro di sant'Agostino, di una importanza permanente. Altrettanto importante è il De Trinitate, opera in quindici libri sul principale nucleo della fede cristiana, la fede nel Dio trinitario, scritta in due tempi: tra il 399 e il 412 i primi dodici libri, pubblicati a insaputa di Agostino, che verso il 420 li completò e rivide l’intera opera. Qui egli riflette sul volto di Dio e cerca di capire questo mistero del Dio che è unico, l'unico creatore del mondo, di noi tutti, e tuttavia, proprio questo unico Dio è trinitario, un cerchio di amore. Cerca di capire il mistero insondabile: proprio l'essere trinitario, in tre Persone, è la più reale e più profonda unità dell'unico Dio. Il De doctrina Christiana è invece una vera e propria introduzione culturale all’interpretazione della Bibbia e in definitiva allo stesso cristianesimo, che ha avuto un’importanza decisiva nella formazione della cultura occidentale.
Pur con tutta la sua umiltà, Agostino certamente fu consapevole della propria statura intellettuale. Ma per lui, più importante del fare grandi opere di respiro alto, teologico, era portare il messaggio cristiano ai semplici. Questa sua intenzione più profonda, che ha guidato tutta la sua vita, appare da una lettera scritta al collega Evodio, dove comunica la decisione di sospendere per il momento la dettatura dei libri del De Trinitate, "perché sono troppo faticosi e penso che possano essere capiti da pochi; per questo urgono di più testi che speriamo saranno utili a molti" (Epistulae, 169, 1, 1). Quindi più utile era per lui comunicare la fede in modo comprensibile a tutti, che non scrivere grandi opere teologiche. La responsabilità acutamente avvertita nei confronti della divulgazione del messaggio cristiano è poi all’origine di scritti come il De catechizandis rudibus, una teoria e anche una prassi della catechesi, o il Psalmus contra partem Donati. I donatisti erano il grande problema dell'Africa di sant'Agostino, uno scisma volutamente africano. Essi affermavano: la vera cristianità è quella africana. Si opponevano all'unità della Chiesa. Contro questo scisma il grande Vescovo ha lottato per tutta la sua vita, cercando di convincere i donatisti che solo nell'unità anche l'africanità può essere vera. E per farsi capire dai semplici, che non potevano comprendere il grande latino del retore, ha detto: devo scrivere anche con errori grammaticali, in un latino molto semplificato. E lo ha fatto soprattutto in questo Psalmus, una specie di poesia semplice contro i donatisti, per aiutare tutta la gente a capire che solo nell'unità della Chiesa si realizza per tutti realmente la nostra relazione con Dio e cresce la pace nel mondo.
In questa produzione destinata a un pubblico più largo riveste un’importanza particolare la massa delle omelie, spesso pronunciate ‘a braccio’, trascritte dai tachigrafi durante la predicazione e subito messe in circolazione. Tra queste, spiccano le bellissime Enarrationes in Psalmos, molto lette nel medioevo. Proprio la prassi di pubblicazione delle migliaia di omelie di Agostino – spesso senza il controllo dell’autore – spiega la loro diffusione e successiva dispersione, ma anche la loro vitalità. Subito infatti le prediche del vescovo d’Ippona diventavano, per la fama del loro autore, testi molto ricercati e servivano anche per altri Vescovi e sacerdoti come modelli, adattati a sempre nuovi contesti.
La tradizione iconografica, già in un affresco lateranense risalente al VI secolo, rappresenta sant’Agostino con un libro in mano, certo per esprimere la sua produzione letteraria, che tanto influenzò la mentalità e il pensiero cristiani, ma per esprimere anche il suo amore per i libri, per la lettura e la conoscenza della grande cultura precedente. Alla sua morte non lasciò nulla, racconta Possidio, ma "raccomandava sempre di conservare diligentemente per i posteri la biblioteca della chiesa con tutti i codici", soprattutto quelli delle sue opere. In queste, sottolinea Possidio, Agostino è "sempre vivo" e giova a chi legge i suoi scritti, anche se, conclude, "io credo che abbiano potuto trarre più profitto dal suo contatto quelli che lo poterono vedere e ascoltare quando di persona parlava in chiesa, e soprattutto quelli che ebbero pratica della sua vita quotidiana fra la gente" (Vita Augustini, 31). Sì, anche per noi sarebbe stato bello poterlo sentire vivo. Ma è realmente vivo nei suoi scritti, è presente in noi e così vediamo anche la permanente vitalità della fede alla quale ha dato tutta la sua vita.
Le intuizioni del Papa sulla vera speranza (Parte I)
Intervista a padre James Schall, docente di Filosofia politica
Di Carrie Gress
WASHINGTON, D.C., mercoledì, 20 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Anche se il mondo moderno parla della speranza in termini di progresso e giustizia sociale, questi concetti sono aberrazioni “disumane” del vero significato della virtù teologica, afferma padre James Schall.
In questa intervista rilasciata a ZENIT, il professore gesuita e filosofo politico presso la Georgetown University parla di come Benedetto XVI, nella sua Enciclica “Spe salvi”, mostri che senza Dio la realizzazione e la felicità umane non sono possibili.
Perché ritiene questa considerazione della virtù teologica della speranza particolarmente opportuna?
Padre Schall: Dovremmo affrontare la questione brevemente, ma con un po' di ironia, dicendo che il mondo secolare è pieno di “speranza”. Le origini o le implicazioni intellettuali delle idee che usa per la speranza, tuttavia, non sono più riconosciute. Le parole moderne usate al posto del termine speranza sono “progresso”, o “rendere il mondo sicuro per la democrazia”, “giustizia sociale” o sradicamento “scientifico” della sofferenza e del male. Il background teologico per questa “secolarizzazione” della speranza viene, tra gli altri, da Gioacchino da Fiore e da Francesco Bacone.
La moderna idea di speranza vuole sempre dire insoddisfazione per il presente alla luce di un futuro presunto che non è solo migliore, ma è la risposta confezionata dall'uomo a ciò che intendiamo per felicità completa.
Perfino la parola “istruzione” ha una sfumatura di speranza. L'accento sull'istruzione come soluzione ha un background socratico. Socrate pensava che all'origine di tutto il disordine umano si potesse trovare l'“ignoranza”. In questo modo l'istruzione, sia generale che universale, viene considerata una “cura” universale per i disordini morali nella natura umana. Se riusciamo ad eliminare l'“ignoranza”, si “spera”, elimineremo il male.
Questa visione presuppone chiaramente il fatto di sapere e definire adeguatamente la natura del male che cerchiamo di eliminare. Forse nessuna ideologia è più tenace di questa sull'istruzione. Il fatto è che non è l'ignoranza la prima causa del male. L'educazione come ideologia rifiuta sempre di affrontare il problema al cuore del male, la sua relazione con il libero arbitrio, la virtù e la grazia.
Per Aristotele era chiaro che, se l'intelligenza era un elemento fondamentale, nella natura umana ce n'era uno ricorrente di “malvagità”. I più intelligenti ed educati erano spesso quelli più vicini al male. I trattati classici sulla tirannia presupponevano sempre questo rapporto del grande male con la massima intelligenza finita, angelica o umana. Lucifero è uno degli angeli più intelligenti, e questo è il motivo per il quale è così pericoloso.
Secondo Sant'Agostino e San Tommaso d'Aquino, capiamo il ruolo della volontà, del libero arbitrio, nella nostra vita. Il male non è situato al di fuori di noi. Aristotele ha riconosciuto che virtù e vizio sono abitudini acquisite basate su scelte ripetute. Non diventiamo virtuosi o viziosi semplicemente sapendo cosa sia la virtù. Dobbiamo “applicarle” ripetutamente.
Dietro a questa enfasi sulla volontà, troviamo la dottrina del peccato originale con il suo rapporto con l'orgoglio.
Ciò che dico è semplicemente questo: i miliardi di dollari di ricchezza che vari Stati moderni ed enti caritativi privati investono nell'educazione per migliorare il mondo sono quasi sempre giustificati da una versione della speranza che sostiene essenzialmente come ciò che provoca le malattie umane è la conoscenza. Poiché l'intera storia del disordine umano include più della conoscenza, dobbiamo riconoscere che questo entusiasmo moderno per “la sola conoscenza” tradisce sfumature utopiche di una soluzione terrena per i problemi ultimi dell'umanità.
La questione sta nel non abbandonare l'aspetto valido dell'educazione nella nostra vita. Nessuna religione – o filosofia – è più incline all'intelligenza del cattolicesimo. La questione è metterla nel giusto ordine. Dovremmo cercare e conoscere la verità, ma da questo non segue automaticamente che quanti cercano l'educazione scelgano necessariamente di vivere secondo la verità.
Ciò che questo Papa sa fare, in modo quasi rivoluzionario, è organizzare i fili teologici non riconosciuti della speranza che esistono nell'ordine secolare.
La ricerca da parte della modernità della sua autosufficienza è carica di sfumature cristiane esistenti nella cultura, ma non riconosciute. Uno dei risultati della perdita della fede, essa stessa una scelta, è il senso di non sapere più come i temi cristiani siano impliciti nella cultura.
Oggi gli studenti e le facoltà, inclusi spesso quelli delle istituzioni cattoliche, sanno poco delle origini cristiane e dei limiti dei loro entusiasmi. Da quando abbiamo smesso di studiare le eresie come tali, le abbiamo spesso adottate in termini entusiastici le cui origini non riconosciamo più. C'è non solo ignoranza, ma un'ignoranza voluta.
Non vogliamo sapere che i nostri desideri fondamentali sono spiegati al meglio da una fede ragionata, che abbiamo acriticamente, senza esame e virtù, rifiutato come insostenibile.
Lei ha fatto un collegamento tra l'espressione di Eric Voegelin “immanentizzare l'eskaton” e l'Enciclica. Cosa significa questa espressione? Quale legame vede?
Padre Schall: Eric Voegelin era un filosofo politico tedesco giunto negli Stati Uniti durante il periodo nazista. Aveva iniziato un'importante carriera accademica in Germania che ha continuato nelle università dello Stato della Louisiana e di Stanford. I suoi numerosi e profondi scritti sono pubblicati dalla Louisiana State University Press e dalla University of Missouri Press.
Dopo lunghi studi di filosofia, linguaggio, scrittura, storia e teologia, Voegelin ha concluso che la principale forza di motivazione dietro i movimenti filosofici moderni era il loro sforzo di raggiungere gli obiettivi trascendenti trovati nella filosofia classica e nella cristianità, come il paradiso, la gioia, ma in questo mondo. Ha definito questi sforzi “ideologie”, spiegando che il loro sforzo era quello di “immanentizzare l'eskaton”.
La filosofia realista e la teologia cristiana non sono, in questo senso, “ideologie”, anche se è così che vengono spesso chiamate nelle università. E' per questo che, da un punto di vista cattolico, la difesa della filosofia e della rivelazione è così importante. Il loro realismo è ciò che le distingue dalle ideologie. Né la filosofia né la rivelazione sono semplicemente una proiezione nella realtà delle idee preconfezionate dall'uomo che non hanno altra giustificazione se non il costrutto nella mente di quel pensatore ora trasformato in azione politica.
La parola “eskaton” si riferisce alle cose ultime. Tradizionalmente le definiamo come morte, purgatorio, inferno e paradiso. Noteremo rapidamente che queste sono le quattro cose alle quali Benedetto XVI si riferisce nella “Spe salvi”. Siamo così abituati a eliminare ogni seria considerazione di questi argomenti che non possiamo apprezzare facilmente la profondità di ciò di cui parla il Papa. Come mi piace spesso sottolineare, il cattolicesimo è una religione intellettuale. Dovremmo essere più preparati a capire perché.
So che l'espressione “immanentizzare l'eskaton” suona molto bene. E' qualcosa che solo una mente accademica tedesca poteva concepire, penso. Ma è adeguata. Ha il vantaggio di identificare accuratamente ciò che sta accadendo nella mente moderna mentre cerca di trovare un significato umano fuori da una filosofia realista alla quale la rivelazione viene indirizzata in modo coerente. In altre parole, significa che il pensiero moderno non sfugge alla cristianità anche quando cerca di farlo. Ciò che fa è tentare di trasferirla nel mondo come rifiuto della cristianità.
L'aspetto splendido dell'Enciclica del Papa è che anche lui è un filosofo tedesco e legge la filosofia tedesca. Sa che i grandi pensatori tedeschi, da cui infatti dipende la gran parte del pensiero moderno, reintroducono semplicemente idee cristiane, ma in una forma distorta. Cercano di adattare “la vita eterna” al mondo terreno. Cercano di sfuggire alla morte progettando vite umane fino a 200 anni. Cercano di imitare il paradiso con fantasie ecologiche di una terra eterna.
Può descrivere brevemente come il nostro mondo contemporaneo abbia distorto la visione dell'uomo? Come questa idea di “progresso” entri nell'analisi del Papa?
Padre Schall: All'inizio, l'ideologia moderna ha spesso proposto un umanesimo apparentemente indipendente dalla rivelazione. Ora, la filosofia classica è indipendente dalla rivelazione, anche se, come ha affermato il Papa a Ratisbona, già nell'Antico e nel Nuovo Testamento troviamo idee di filosofia e rivelazione direttamente collegate l'una all'altra, con alla base le nozioni di verità, amore, essere e felicità.
Ciò che la rivelazione sostiene di fronte al pensiero e alla politica moderni è che l'“umanesimo” è diventato gradualmente sempre più “disumano”. Chesterton ha spesso previsto che sarebbe avvenuto. I concetti della lunghezza della vita umana in termini di anni, di amore in termini di sesso, di felicità in termini di creazione individuale dei propri scopi sono aberrazioni, simili a quelle che si trovano nel quinto libro della Repubblica di Platone, che in nome della giustizia ha cercato di eliminare la famiglia e di produrre bambini perfetti con una combinazione di genetica ed educazione di Stato.
Il “progresso” è un'idea che deriva dal pensiero post-illuministico. Il famoso di libro di J.B. Bury “L'idea di Progresso” sembra un libro sulla storia della salvezza. Mi piace la sua espressione, “come il nostro mondo contemporaneo ha distorto la visione dell'uomo”.
La virtù teologica della speranza, il soggetto di questa Enciclica, è proprio la virtù che coinvolge più direttamente la filosofia moderna la cui prima rivendicazione di fama è che può produrre un “umanesimo” migliore. Il Papa mostra sistematicamente che senza Dio è davvero impossibile dare agli uomini e alle donne di oggi qualsiasi speranza per se stessi e per il genere umano.
La dottrina cristiana della resurrezione del corpo, che in un certo senso richiama la nozione aristotelica di amicizia, è l'unica vera dottrina che riguarda la salvezza di ogni individuo nel suo essere particolare, ma all'interno della nozione di una comunità d'amore e di amici, che è ciò che tutti noi vogliamo. Quello che speriamo in senso cristiano è proprio poter vedere Dio “faccia a faccia”. Cerchiamo già di conoscerci l'un l'altro “faccia a faccia”. Non c'è alcuna garanzia che questa condizione si possa mai realizzare fuori dalla speranza che Dio esiste e che ci ha salvati. Dobbiamo includere i nostri peccati e il nostro destino.
Il Papa ristabilisce l'importanza del purgatorio come posizione sensibile proprio perché sa, come noi, che pochi di noi muoiono con un'anima assolutamente pura. Non c'è nulla di irrazionale su questa dottrina, molto chiacchierata, che è l'unica ad affrontare la questione dei peccati del passato e la loro riparazione.
Questa Enciclica prende coraggiosamente le dottrine escatologiche – paradiso, inferno, morte, purgatorio – e ci mostra che hanno un significato diretto nella nostra vita e nella nostra cultura. L'Enciclica è sulla “speranza”, ma è anche “coraggio”. E' coraggiosa proprio perché è intelligente e consapevole del significato delle ideologie moderne. Il pensiero moderno è, come lo era gran parte del pensiero antico dopo la resurrezione, uno sforzo di evitare la verità della rivelazione. Non possiamo evitare che qualcuno rifiuti questa realtà. Né lo vogliamo fare. E' una questione di libero arbitrio. La verità di Dio e del suo obiettivo per l'uomo nel mondo deve essere scelta e compresa.
Ciò che fa la “Spe Salvi” è spiegare, in modo troppo chiaro per non essere colto, le implicazioni del rifiuto dell'“eskaton” come viene presentato nella fede cristiana. E' senz'altro vero che queste dottrine devono essere accuratamente comprese. La gran parte dell'eresia nella storia nasce dal fraintendimento di ciò che è stato realmente insegnato.
Questa Enciclica rappresenta ciò che viene realmente insegnato. E' per questo che è così incredibile e rivoluzionaria.
I nostri occhi non hanno visto ciò che le nostre orecchie hanno sentito perché non vogliamo ricevere ciò che siamo come un dono. Vogliamo costruire ciò che siamo. E quando lo facciamo, vediamo che creiamo soprattutto mostri. Il Papa in questa Enciclica descrive anche i mostri.
[Giovedì, la seconda parte dell'intervista]
20 febbraio 2008
Caro Cavaliere, caro Fini, caro Bossi
Caro Cavaliere, caro Fini, caro Bossi – Avevate pieno diritto di rifiutare la collaborazione con la lista per la vita e contro l’aborto. E lo avete fatto. Noi cercheremo di andare da soli in tutte le circoscrizioni della Camera e in tutte le regioni per il Senato, esclusa la Lombardia dove c’è Formigoni candidato, e di lui ci fidiamo anche per il suo gesto di limpida generosità verso la nostra battaglia.
Spero che la pianterete lì di dire che delle questioni etiche e della vita, le più importanti di questo secolo, non bisogna parlare sotto elezioni. Sono convinto che le Roccella e gli altri candidati pro life, che avete lodevolmente messo in lista, faranno una campagna elettorale apparentata alla nostra e sorella della nostra, visto che la pensiamo allo stesso modo.
Spero che metterete nel programma la piena e severa applicazione della legge 194 e il rifiuto del prezzemolo moderno, la scandalosa pillola Ru486 che riduce di nuovo le donne alla solitudine e alla clandestinità abortiva. Vi invito tutti alla manifestazione per le donne e per la vita che terremo a Roma l’8 marzo, sotto il simbolo della nostra lista.
Punto su una competizione di idee, di sensibilità e di ragione. Rifiuterò qualunque invito alla rissa. Avete anche diritto di fare appello al voto utile, per Veltroni o per Berlusconi. Vincerete la vostra battaglia per il premio di maggioranza a mani basse e con i larghi mezzi di cui disponete e che sapete utilizzare con maestria nel marketing della politica moderna. Sarà bello se riconoscerete una qualche utilità anche al voto per la lista pro life. Lealmente, cavallerescamente, potete creare un clima di convergenza.
Vi farà onore il successo di un voto per la vita, per la moratoria sull’aborto, per mandare in Parlamento le donne e gli uomini che hanno dedicato se stessi alla tutela dell’amore e del buonumore dichiarati eretici nel nostro tempo. Un abbraccio e, al Cav., un piccolo bacino
Giuliano Ferrara
SUOR EUGENIA E LE CONSORELLE - COME UNA MADRE A RISCATTO DELLE PROSTITUTE
Avvenire, 20.2.2008
MARINA CORRADI
Eugenia Bonetti è una suora di 70 anni. Come missionaria della Consolata ha passato 23 anni in Kenya. Poi è tornata in Italia. Una sera del giorno dei Morti, diversi anni fa, stava andando a Messa, quando l’ha fermata per strada una ragazza nigeriana. «Madre, voglio parlarle », fa la ragazza. «Vieni in chiesa con me, dopo mi racconti», risponde la suora – con quell’attitudine dei missionari a non stupirsi mai della faccia di chi li ferma per strada, e nemmeno dei vestiti che indossa. La sconosciuta era una prostituta portata in Italia come altre migliaia, per forza o per disperazione. Però, annientata dal suo “lavoro” di comprata e venduta, voleva liberarsi, e smettere.
È così che una piccola minuta suora lombarda allora verso la sessantina – l’età in cui gli altri vanno in pensione – comincia a mettere su una rete di 110 case di accoglienza gestite da suore di vari ordini, sotto la direzione dell’Unione superiori maggiori italiane. In dieci anni, da quando un articolo della legge sull’immigrazione consente a chi denuncia i propri sfruttatori un permesso di soggiorno per il reinserimento, nelle case e nei conventi di suor Eugenia sono passate cinquemila ragazze (come racconta il servizio nelle pagine interne) e in otto su dieci hanno trovato un lavoro, o hanno scelto di tornare in patria. Alcune, che erano incinte, il figlio se lo sono tenute – è bastato avere una faccia amica accanto. Migliaia di rumene, moldave, africane, venute qui a sedici anni a battere un marciapiedi, educate a una ferrea obbedienza dall’omicidio di qualche compagna trovata ammazzata di botte in una roggia, hanno ricominciato a vivere grazie a suor Eugenia e alle sue compagne. Ma, lo conoscevate il volto di quella suora, e il suo nome?
La cosa singolare è che in un mondo in cui si diventa famosi anche per una parolaccia detta in tv, donne così siano, al grande pubblico, quasi sconosciute. Una foresta che cresce non fa rumore, è proprio vero: migliaia di donne liberate dai loro “padroni” possono passare inosservate, come una notizia banale. Ma qualcosa affascina nell’operare di queste donne vestite di nero o di grigio, come invisibili, oppure viste solo nell’immagine stereotipata di chi le giudica delle moraliste, delle bacchettone, creature fuori dal tempo anacronisticamente sopravvissute nella modernità. Ciò che meraviglia è il loro fare pienamente concreto – concrete tanto da sapere accogliere e educare delle ragazze che pochi vorrebbero in casa; ma senza slogan, senza alcun rumore, senza alcun proclama mediatico. Un fare ostinato e invisibile, contro a un visibilissimo, assordante quotidiano rumore.
Sembra la cifra, questo lavorio silenzioso, di un approccio alla realtà che chiameremmo profondamente femminile, e pazienza se qualcuno se ne scandalizzerà. Un’attenzione concreta alla persona che si ha davanti: semplicemente a quella, che sia figlio, alunno, paziente, o una poveretta importata dall’Est come una cosa. Un’accoglienza all’altro che è poi declinazione in forme diverse di un’attitudine materna – altra espressione oggigiorno politicamente scorretta. Il lavoro oscuro delle sorelle invisibili di suor Eugenia come di migliaia di altre, negli asili, negli ospizi, con gli extracomunitari, è una maternità - più forte ancora di quella carnale, giacché è più difficile amare un vecchio o una ragazza della strada, che tuo figlio. Una maternità, e questo spiega perché il mondo non se ne accorge. Ma anche perché, nel silenzio dei titoli, lo stesso mondo ne viene trasformato profondamente, alla radice, in ogni faccia accolta e amata.
I VENT’ANNI DELL’ORCHESTRA ESAGRAMMA, COMPOSTA DA DISABILI
L’imperfezione necessaria nella partitura della vita
Avvenire, 20.2.2008
FRANCESCO OGNIBENE
N on 'fingono' di suonare. Suonano per davvero. E lo fanno al meglio delle capacità che grazie alla musica hanno imparato a sperimentare, scollinando in cima al più faticoso tornante di ogni esistenza: quello del confronto con le proprie risorse. E la loro fatica nel portare a termine un concerto non è differente in nulla da quella di un acclamato maestro.
L’orchestra Esagramma, composta da persone con problemi psichici e mentali gravi, non è la riproduzione in sedicesimo di un complesso musicale 'vero': perché non c’è ombra di imitazione in quello che gli allievi di don Pierangelo Sequeri realizzano a ogni esibizione sotto lo sguardo stupito e ammirato di chi vede e ascolta, e ancora una volta questo piccolo prodigio si è ripetuto l’altra sera a Milano per celebrare i vent’anni di attività di un’iniziativa esemplare (ne riferiamo oggi a pagina 8).
Per questi sorprendenti artisti – che si applicano sugli strumenti di una comune orchestra sinfonica, affiancati da musicisti di professione – suonare vuol dire portare alla luce la dignità piena di una vita che non imita 'l’altra', quella dei cosiddetti normali, ma è se stessa sino in fondo. E mostra con l’energia dell’arte di cosa è capace quando si sente accolta e non sopportata. I musicisti di Esagramma non vanno in cerca dell’applauso condiscendente o dell’incoraggiamento compassionevole: chi li ascoltò nella Messa che concluse l’Agorà dei giovani italiani a Loreto, il 2 settembre con Benedetto XVI, ricorda ancora la commozione di una musica che fluiva dal palco sopra l’immensa spianata profumandola di cielo, melodie che nella loro assoluta originalità non volevano assomigliare a qualcos’altro come nel grottesco sforzo di riprodurre uno standard.
Era musica, splendida musica, e a suonarla era un’orchestra di talenti costruiti ed esercitati. A una cultura che pretende di selezionare la vita in vitro o in utero, che insegue il crudele miraggio di renderla geneticamente sana spazzando via gli esemplari usciti difettosi dalla catena di montaggio, la musica di Esagramma suona forse incomprensibile, grottesca, proprio come l’intuizione programmatica di aggiungere un rigo ai cinque sui quali si sciorina ogni componimento. È invece uno sguardo capace di vedere un’abilità imprevedibile e unica che ci viene restituito dalla straordinaria orchestra milanese.
Nella partitura della vita non c’è infatti stonatura ma solo un’infinita varietà di differenze dentro un’armonia che mai si perde, sempre che non la si voglia piegare a una pretesa normalità incapace di accettare l’altrettanto sconfinata gamma di imperfezioni umane. La musica che scrive don Pierangelo – teologo di indiscussa finezza, ma per i suoi musicisti disabili anzitutto maestro e compositore che gli si dedica come un padre – è il disegno nascosto sotto l’affresco del quale chi osserva coglie solo il risultato cromatico. Non saper più accogliere persone come quelle che danno vita all’orchestra di Sequeri, cestinarle prima che nascano nel nome persino di un raggelante 'diritto alla felicità' chissà come fissato, e da chi, è la firma che una società umana appone in calce alla negazione di se stessa.
nuovo procedimento penale contro il giudice inflessibile
Spagna, nega l'adozione a una lesbica. Sospeso il giudice tradizionalista
Aveva impedito alla donna di adottare la bimba della partner, anche se per legge ne aveva diritto
MADRID – Sospeso il giudice di Murcia che aveva impedito a una lesbica di adottare la figlia biologica della sua partner. Per la legge spagnola la coppia omosessuale ne aveva diritto e Fernando Ferrin Calamita, il magistrato che si era opposto in nome del «vecchio buon senso» all’istanza, potrebbe in qualche modo aver mancato ai suoi doveri, rallentando e ostacolando la pratica.
CASO ALL'ESAME DEL CSM SPAGNOLO - Ora il suo comportamento è sotto esame del Consiglio Generale del Potere Giudiziario, il Csm spagnolo, che – per la prima volta su querela di un privato cittadino – ha deciso la sospensione cautelativa del giudice dalle sue funzioni. Il provvedimento è stato controverso anche all’interno della commissione (tre voti favorevoli e due contrari), ma Ferrin Calamita, soprannominato la scorsa estate dai giornali spagnoli, il «giudice talebano», ha altri procedimenti disciplinari aperti per questioni simili.
PER I GIORNALI E' IL «TALEBANO» - A luglio dell’anno scorso, per esempio, tolse l’affidamento di due bambine alla madre, accusata dall’ex marito di essere lesbica. Nella motivazione delle sue sentenze, il magistrato spiegava le sue convinzioni: «L’ambiente omosessuale aumenta sensibilmente il rischio che anche i minori lo diventino». Già all’inizio della sua carriera, nel 1987, il giudice aveva fatto notizia, fermando personalmente due bagnanti in topless sulla spiaggia di Cadice e consegnandole a due poliziotti allibiti perché le portassero in commissariato. Il problema dei due gendarmi fu di spiegare all’inflessibile amministratore di giustizia che il monokini era stato legalizzato in Spagna due anni prima. Ferrin Calamita si difende dichiarandosi vittima di una campagna persecutoria e demolitrice, nega di aver mai rallentato di proposito una pratica, ma spiega di aver voluto sottoporre il diritto al matrimonio e all’adozione da parte di coppie omosessuali al parere della Corte Costituzionale, come gli consente la procedura. «Ho sempre e soltanto agito nell’interesse dei minori» aggiunge.
Elisabetta Rosaspina
20 febbraio 2008
Se uno soltanto capisce cosa voglia dire una chiamata a 'lasciare tutto' e a seguirLo, trova assurde le ipotesi del prete sposato con famiglia, del prete manager o simile
02|PROSEGUE LA «RICERCA» DI VITTORINO ANDREOLI SUI PRETI OGGI
I preti e noi - La vocazione, di Vittorino Andreoli
Avvenire, 20.2.2008
La vocazione ordinaria
Ogni professione richiede di valorizzare le qualità di ciascuno, le sue disposizioni attitudinali, e la precisa volontà di dedicarsi al campo prescelto.
Vocazione viene da vocare, che significa chiamare, invocare. La vocazione dunque è una chiamata, talora addirittura un’invocazione a dedicarsi a un ruolo sociale, una volta verificate la capacità e la disposizione a svolgerlo.
Un riferimento, questo, che suona oggi stonato, se si pensa a come vanno le cose nel nostro tempo, nel quale il lavoro si lega piuttosto alle circostanze, a una combinazione del tutto casuale di eventi o di incontri. È triste, come pure mi è capitato, andare in taxi da Fiumicino al centro di Roma, accompagnato da un giovane tassista che racconta di essere un laureato in filosofia teoretica; oppure trovarsi a pagare il pedaggio autostradale a una persona che confessa d’essere un ingegnere edile. Un vero dolore, che mostra lo spreco di una società che prima mette a disposizione strutture e mezzi, peraltro limitati e in ambienti non certo ideali, per raggiungere delle competenze, e poi si dimentica di programmare un’accoglienza proporzionata a quell’esito.
Mala tempora quando non si riesce a combinare le doti individuali (talenti) con la preparazione e i bisogni sociali, consentendo così ai singoli la soddisfazione che meritano per essersi impegnati nel conseguimento di una precisa professionalità.
Eppure, la vocazione necessita di una cornice di grande rilievo.
Occorre che ciascuno abbia consapevolezza delle proprie capacità, che non sono sempre evidenti, ma possono emergere durante un processo educativo in cui il singolo scopre quali funzioni riesce a svolgere bene, provando piacere nell’eseguirle.
Del resto proprio a questo scopo si sono sviluppate tecniche di ricerca dei talenti e di orientamento nella loro applicazione sociale, avendo presente il quadro non solo delle professioni in atto ma anche di quelle che il mercato del lavoro riesce appena a intravedere, all’interno di una società mobile e in forte cambiamento.
Talora la propensione è evidente: è il caso di una persona che sa disegnare o dipingere, oppure ha un senso musicale spiccato, o una disposizione alla matematica e alle scienze fisiche piuttosto che una tendenza alla meditazione e alla elaborazione concettuale del pensiero, e quindi ad attività astratte. Ma è altrettanto vero che non sempre questo segnale di disposizione si lega alla felicità di una persona, che magari la esperisce in un agire più faticoso e impegnativo rispetto al mestiere 'naturale'. E il piacere è molto importante, è una dimensione che va sempre tenuta presente.
Occorre stare attenti a non illudersi, a non sentire il fascino della professione del proprio padre o di una persona amata, il mestiere scelto dall’amico fidato, perché si tratterebbe di spinte emotive che sono strumentali: si fondano sulla voglia di stare con qualcuno o di continuare una certa storia che una professione diversa invece interromperebbe.
In un recente passato si era data molta importanza ai test attitudinali, che però si sono dimostrati troppo superficiali.
Questo non significa affidarsi allora al caso, che sarebbe un errore antitetico.
Bisogna invece stare bene attenti a un processo complesso, che va valutato da parte del soggetto e dai suoi educatori in maniera continuativa, così da far emergere gli elementi utili per capire se questi possa trovarsi a proprio agio in un dato ambiente sociale. Sta qui il senso dell’adattamento del singolo all’ambiente di cui parla Charles Darwin, e che non va inteso in senso passivo ma, al contrario, come legame soddisfacente e dunque gratificante dell’attività del singolo in una data comunità.
Nel tema generale dell’adattamento si inseriscono anche i disturbi mentali e comportamentali, che sono da intendersi come la difficoltà di un soggetto a stare in società, e quindi come reazione a cercare di sopravvivervi, con maniere idonee a evitare le possibili frustrazioni. Se uno si sente fortemente insicuro tende a diminuire i contatti sociali, a ossessivizzarli, ripetendoli, evitando nuove esperienze che gli si configurano sempre minacciose. Allo stesso meccanismo si lega la depressione, che è una vera fuga dalla società nella quale ci si sente inadeguati, fino a convincersi di non essere compatibili con il vivere comunitario. Ma anche la schizofrenia, che è una frattura dell’Io o una sua frammentazione, ha il significato di una rottura di quella unità, essendo l’individuo in grado di stare all’interno della società ma ignorandola.
Insomma, la vocazione ordinaria è di grandissima importanza per ciascuno di noi. Ovvio che lo sia ancor più per il sacerdote, che rappresenta una condizione tutta diversa dalle altre professioni.
La vocazione sacerdotale
Se il significato della vocazione ordinaria è già quello di una chiamata, tanto più lo è quella del sacerdote: e infatti si parla di chiamata da parte del Signore a servirlo per la salvezza dell’uomo. Chiamata a una missione che ha come obiettivo il raggiungimento pieno della felicità non in questo mondo, ma nell’altro, in cielo.
Non intendo lambire il senso profondo di questa affermazione, ma è opportuno chiarire che nel caso della vocazione sacerdotale si tratta di qualcosa che si aggiunge e si specifica, ma non nega nulla di quanto si è detto per la vocazione ordinaria. Al di là infatti del suo senso proprio, la vocazione sacerdotale rimane un’attività dell’uomo in mezzo agli altri uomini, per cui risente delle caratteristiche personali come dell’atteggiamento della struttura sociale. Con ciò non intendo dal mio punto di vista escludere pregiudizialmente qualcuno dalla scelta di diventare sacerdote; del resto basterebbe guardare ai santi per accorgersi di quanto siano tra loro diversi sul piano delle caratteristiche fisiche, della personalità e dell’appartenenza sociale.
Avendo diretto a lungo una divisione clinica, mi sono reso conto che c’erano medici che facevano ugualmente bene il loro lavoro pur con personalità e disposizioni differenti e talora contrapposte. E dunque che la fatica per raggiungere il comune obiettivo era evidentemente diversa. Immagino – ma qui ho una minore esperienza – che qualcosa del genere si possa dire anche per chi aspira al sacerdozio.
Torno su un concetto già espresso, e che ritroveremo ancora: quello della serenità e della felicità. Ho conosciuto sacerdoti che manifestano questi atteggiamenti anche in momenti obiettivamente difficili, e altri che rivelano uno stato di ansia, di preoccupazione continua, e temono sempre di non farcela. Ebbene, questo, dal mio punto di vista, è il vero test di adeguamento a un determinato ruolo sociale.
Mi spiego, rifacendomi a quanto si dice parlando della fede intesa come incontro 'personale' del singolo uomo con Dio. Questa d’altra parte è la caratteristica del cristianesimo. Non è sufficiente conoscere la rivelazione storica, avere letto tutti i libri del Vecchio e del Nuovo Testamento; certo, questo serve, ma non è ancora fede. La fede sta nell’incontro, cioè nel Dio che si manifesta al singolo uomo. E questo incontro trasforma un non-credente nel credente. Mi piace sottolineare che il non-credente, a differenza dell’ateo, potrebbe anche essere pronto ad accogliere il Signore, ma bisogna che questi si riveli. Il che è un puro dono. Io trovo bellissimo che la fede sia legata a un’esperienza precisa, per quanto singolare e indicibile, dal momento che essa per un verso pesca nel mistero, e dunque nel sacro.
Va da sé che questo incontro dev’esserci stato a un certo punto nella vita di chi vuol diventare sacerdote. Ma di per sé non è ancora la chiamata, tant’è vero che non tutti gli uomini con fede hanno la vocazione a diventare sacerdoti.
Occorre per questo che quel Dio di Gesù Cristo, che è insieme il Dio personale, abbia invitato a seguirlo, e a seguirlo in maniera speciale. Quella del ruolo sacerdotale è una chiamata di dedizione esclusiva, è un invito d’amore che sottrae da altre possibilità di amare.
E capisco perfettamente che si tratta di un legame ben più profondo rispetto a quello di una presenza comune, perché richiede una dedizione totale. E allora è chiaro che un sacerdote non può essere al contempo come uno che ha abbracciato una qualsiasi altra professione.
Trovo veramente strano che talora si voglia ridurre il sacerdote alla stregua di uno che è preso da una serie di preoccupazioni legate a una propria famiglia, a un proprio lavoro. Si tratta, per lui, di una vita qualitativamente diversa, intensamente diversa, ma non una vita doppia, intesa come somma di esperienze. E se uno soltanto capisce cosa voglia dire una chiamata a 'lasciare tutto' e a seguirLo, trova assurde le ipotesi del prete sposato con famiglia, del prete manager o anche soltanto macellaio. Un ruolo – quello del prete – che si fonda certo su alcune caratteristiche proprie, ma anche su un legame speciale con Dio, che non è il direttore generale di una grande azienda, bensì – appunto – Dio. Uno può negarlo nella propria vita ma non negare che esista nella vita di un sacerdote, il quale ha inforcato la sua missione rispondendo a una chiamata che viene da Dio direttamente.
Certo, c’è anche la posizione dell’ateo, che nega il sacerdozio perché nega Dio e ritiene che chiunque vi creda sia un minus habens o un infatuato che vive di illusioni. Ma non è questa la mia posizione, pur non avendo io incontrato il Signore, e dunque non avendo io ricevuto alcun invito alla sequela, credo che ciò possa essere accaduto ad altri, perché ho rispetto dell’altro e non mi sento di dire che ciò che io non ho vissuto non solo non esiste ma non può neppure esistere. Non sono mai stato a Bali e non ho certo in programma di andarci, ma sono sicuro che Bali c’è, anche se ritengo che sia un luogo abbastanza al di fuori della mia esperienza da non desiderare affatto di andarci.
La vocazione sacerdotale è una vocazione come tutte le altre, se la si considera nella dimensione dell’incontro tra le disposizioni personali e le esigenze della società, ma in più è una chiamata speciale che proviene da un incontro personale con Dio, che è oltre quello che si attua per credere. Certo, occorre credere, e quindi avere incontrato il Dio che c’è, ma si tratta anche di seguirlo.
Se il significato della vocazione ordinaria è già quello di una chiamata, tanto più lo è quella del sacerdote: una chiamata da parte del Signore a servirlo per la salvezza dell’uomo.
Una missione che ha come obiettivo il raggiungimento della felicità non in questo mondo
LA TV DEFORMA CARAVAGGIO E LA VERA STORIA
Avvenire, 20.2.2008
DAVIDE RONDONI
A chi giova che la tv di Stato racconti l’Italia in modo deformato? Il panorama umano che circonda il nuovo Caravaggio televisivo è talmente orrendo che lo stesso Caravaggio diventa una specie di inconsapevole missionario del bene, attonito davanti alla realtà bruta delle cose.
Caravaggio bambino arriva da Simone Peterzano, undicenne, a bottega. Lui, bergamasco allievo di Tiziano non gli insegna niente, urla, lo batte e – nel film – lo tocca. Lo tocca, facendo calare sul giovane torso le mani di un pittore che non sappiamo neppure che faccia avesse. Peterzano è una di quelle ombre gentili che traversano la storia dell’arte con garbo e umiltà. I repertori gli dedicano poche righe, alla fine delle quali appare la frase fatale: «Fu il primo maestro di Caravaggio». Tale fu e tale resta. Tale dovrebbe restare.
Gli autori del film informano che si sono presi qualche libertà, ma questa non è «qualche libertà», questo è banalissima ricerca di consenso facile secondo le mode, il contrario della vera cultura.
L’Italia televisiva e ufficiale di oggi raffigura l’Italia del Seicento come se stessa, uno sfacelo morale.
Ma quest’Italia, che rilascia i pedofili per «decorrenza dei termini» e consente che quattro bambine vengano violentate una dopo l’altra dalla stessa persona, osa distruggere l’ombra gentile di un pittore per bene per non scontentare le lobby omosessuali. Quale associazione difende Peterzano? Caravaggio stesso non fu omosessuale. Fu tutto, amava le donne e gli uomini con la stessa fame, di poeta e di cialtrone. Il cardinal Francesco Del Monte, uomo complesso, «corrotto e sofisticato» come diceva Francis Haskell, fu, nello stesso tempo, uno dei maggiori committenti d’arte della storia. Nel film è trattato come un lenone di periferia, occhiaie fonde e voce melliflua. A chi giova questa riduzione idiota? Se ci fu un artista protetto, nella storia, questo fu Caravaggio.
Alloggiato, rivestito, vezzeggiato, perdonato, Caravaggio è il primo esempio dell’Italia artistica viziata. Viziato soprattutto dai preti, fossero l’umile ma buon fratello suo, o i cardinali e il Papa. Nel film i preti invece sono tutti debosciati, i Papi sono delinquenti. Caravaggio-Boni si commuove di fronte all’esecuzione di Beatrice Cenci, parricida – caso mai risolto dalla storia giudiziaria, nonostante decine e decine di foltissimi tomi contenenti gli atti giudiziari, commentati e studiati fino a tutto l’Ottocento – e, mollemente appoggiato a una finestra, sentenzia: «Questa città non ne può più dell’Inquisizione». Come se a ucciderla fosse stato il Papa.
Falsità, facili da vendere. Ma quella gente, che la tv oggi ci offre come macchiette, fece un’Italia bella, a differenza di questa pletora di registi e produttori che non sa neppure raccontare il nostro passato. Anzi sembra odiarlo, in nome di una sterilità stizzita che ormai le avvinghia il cuore e la mente.