martedì 26 febbraio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Andiamo avanti, tra gioia e burocrazia. Commenti vari
2) Il Papa al Congresso sul tema “Accanto al malato inguaribile e al morente”
3) Massimo Introvigne: “Siamo nella fase del relativismo aggressivo”
4) Strano il discorso sull’uomo che non parte dall’uomo
5) Lo strano caso di chi si uccide per sentirsi vivo


25 febbraio 2008
Giuliano Ferrara
Diario della lista
Andiamo avanti, tra gioia e burocrazia. Commenti vari
Venerdì prossimo depositeremo il contrassegno della lista per la moratoria e per la vita, contro l’aborto moralmente indifferente, all’ufficio elettorale centrale del Ministero dell’Interno. Le cose burocratiche da fare sono state fatte, e le stiamo completando con fatica e puntigliosità. Un gentile sottoscrittore ha versato ben cinquemila euro, che la vita gliene renda merito, e molti altri stanno cercando di darci una mano. L’8 marzo presenteremo le liste, e nel pomeriggio, con l’aiuto dei tanti che decideranno di venire, manifesteremo a Roma per le donne e per la vita.
Parto alle due per Benevento, dove è prevista l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Istituto superiore di scienze religiose “Redemptor hominis” sul tema: “Moratoria sull’aborto e laicità”. Parlerò dopo i saluti dell’Arcivescovo Metropolita di Benevento, S. E. Mons. Andrea Mugione, e quelli del preside della Pontificia Facoltà teologica dell’Italia meridionale, prof. Don Adolfo Russo. Prima della mia prolusione introdurrà il prof. Mons. Pasquale Maria Mainolfi, direttore dell’Istituto. E’ prevista la solita contromanifestazione, tanto per fare titolo sui giornali. Ma noi faremo le nostre quattro chiacchiere serenamente.
Sabato e domenica scorsi nuova montatura che si ritorce contro chi la fa, dopo il caso dell’aborto terapeutico di Napoli. Stavolta è la falsificazione di una inesistente posizione ufficiale degli Ordini dei medici, denunciata per tempo da Avvenire, il quotidiano dei vescovi italiani che ci onora della sua stima ed esprime laicamente le sue perplessità, comprensibili, sull’iniziativa della lista pazza per un voto di cultura e di coscienza.
Il tentativo di escludere le questioni davvero importanti dalla competizione elettorale sembra destinato a sicuro fallimento. Certo che si parlerà di tasse, infrastrutture, crescita, occupazione, prezzi, energia, ambiente e, spero, politica estera. Certo che ci sarà l’antico e civile scontro delle appartenenze, candidato contro candidato, nomenclatura di partito contro nomenclatura di partito, con la battaglia per il premio di maggioranza già decisa, più o meno, a favore dell’opposizione al governo Prodi, che è uscita fortissima dalla crisi irreversibile dell’Unione antiberlusconiana. Ma tutti si sono accorti, anche il professor Rodotà ieri su Repubblica, che i diritti civili e umani, la visione del tempo e del mondo, le decisioni da prendere sulle grandi questioni di etica e politica non sono argomenti da mettere nel cassetto per ritirarli fuori a piacere, come ha scritto ad Avvenire l’autorevole professor Pessina, piegando la coscienza alla convenienza a seconda di come tiri il vento, al riparo dal giudizio degli elettori. In Italia, quello che Pessina chiama il neutralismo etico occidentale, non è messo tanto bene.
La candidatura di Veronesi parte male. Lui è un gran signore, ma che debba nascondere le sue idee, annunciarsi nelle interviste dicendo che non le metterà in ballo e che non farà campagna elettorale, non promette niente di buono per il Partito democratico: è una posizione difensiva. Spero che la supereranno e che il professor Veronesi accetti un confronto tranquillo in un teatro o in tv con la nostra lista pazza ma saggia, un dialogo pubblico in cui ciascuno potrà dire che cosa oggi lo preoccupa, e che arricchirà la democrazia e il livello della competizione elettorale. La vita e la salute, delle donne e dei bambini in particolare, sono beni privati ma anche beni pubblici. E in questo senso il voto non è negoziabile.
La nomenclatura centrista e cattolica si sta affannando a trovare una soluzione per rientrare in Parlamento, dopo la rottura con la coalizione moderata e liberale di Berlusconi. Non è facile il loro compito, ed è spiacevole la situazione. Però, se tutti avessero agito come Pezzotta e la Roccella, il cattolico e la laica impegnati ormai da tempo su temi decisivi di questo secolo, oggi non si troverebbero a fronteggiare un evidente deficit di credibilità, e a rincorrere con affanno un po’ elettoralistico e politicistico le questioni che interessano davvero molta gente, e appassionano.
Per noi, gli errori da evitare sono sempre gli stessi: l’acrimonia, il fanatismo, l’indisponibilità alla discussione pubblica significativa di ogni obiezione possibile alle nostre tesi, che sono riassunte alla buona, ma schiettamente, nei dodici punti del programma elettorale che venerdì sarà consegnato al Ministero dell’Interno con il simbolo di lista, purtroppo senza l’apparentamento che avevamo chiesto e ci è stato negato per ragioni comprensibili soltanto alla luce di una concezione difensiva e ristretta della battaglia politica. Ma intanto qualcosa è successo, e questo è l’importante.



Il Papa al Congresso sul tema “Accanto al malato inguaribile e al morente”Organizzato dalla Pontificia Accademia per la Vita
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 25 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato da Benedetto XVI nel ricevere questo lunedì in udienza i partecipanti al Congresso sul tema "Accanto al malato inguaribile e al morente: orientamenti etici ed operativi", indetto dalla Pontificia Accademia per la Vita in occasione della XIV Assemblea generale dell'Accademia.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
con viva gioia porgo il mio saluto a voi tutti che partecipate al Congresso indetto dalla Pontificia Accademia per la Vita sul tema "Accanto al malato inguaribile e al morente: orientamenti etici ed operativi". Il Congresso si svolge in connessione con la XIV Assemblea Generale dell'Accademia, i cui membri sono pure presenti a questa Udienza. Ringrazio anzitutto il Presidente Mons. Sgreccia per le sue cortesi parole di saluto; con lui ringrazio la Presidenza tutta, il Consiglio Direttivo della Pontificia Accademia, tutti i collaboratori e i membri ordinari, onorari e corrispondenti. Un saluto cordiale e riconoscente voglio poi rivolgere ai relatori di questo importante Congresso, così come a tutti i partecipanti provenienti da diversi Paesi del mondo. Carissimi, il vostro generoso impegno e la vostra testimonianza sono veramente meritevoli di encomio.
Già semplicemente considerando i titoli delle relazioni congressuali, si può percepire il vasto panorama delle vostre riflessioni e l'interesse che esse rivestono per il tempo presente, in special modo nel mondo secolarizzato di oggi. Voi cercate di dare risposte ai tanti problemi posti ogni giorno dall'incessante progresso delle scienze mediche, le cui attività risultano sempre più sostenute da strumenti tecnologici di elevato livello. Di fronte a tutto questo, emerge l'urgente sfida per tutti, e in special modo per la Chiesa, vivificata dal Signore risorto, di portare nel vasto orizzonte della vita umana lo splendore della verità rivelata e il sostegno della speranza.
Quando si spegne una vita in età avanzata, o invece all'alba dell'esistenza terrena, o nel pieno fiorire dell'età per cause impreviste, non si deve vedere in ciò soltanto un fatto biologico che si esaurisce, o una biografia che si chiude, bensì una nuova nascita e un'esistenza rinnovata, offerta dal Risorto a chi non si è volutamente opposto al suo Amore. Con la morte si conclude l'esperienza terrena, ma attraverso la morte si apre anche, per ciascuno di noi, al di là del tempo, la vita piena e definitiva. Il Signore della vita è presente accanto al malato come Colui che vive e dona la vita, Colui che ha detto: "Sono venuto perchè abbiamo la vita e l'abbiamo in abbondanza" (Gv 10,10), "Io sono la Resurrezione e la Vita: chi crede in me, anche se muore vivrà, (Gv 10,25) e "Io lo resusciterò nell'ultimo giorno" (Gv 6,54). In quel momento solenne e sacro, tutti gli sforzi compiuti nella speranza cristiana per migliorare noi stessi e il mondo che ci è affidato, purificati dalla Grazia, trovano il loro senso e si impreziosiscono grazie all'amore di Dio Creatore e Padre. Quando, al momento della morte, la relazione con Dio si realizza pienamente nell'incontro con "Colui che non muore, che è la vita stessa e lo stesso Amore, allora siamo nella vita; allora viviamo" (Benedetto XVI, Spe salvi, 27). Per la comunità dei credenti, questo incontro del morente con la Sorgente della Vita e dell'Amore rappresenta un dono che ha valore per tutti, che arricchisce la comunione di tutti i fedeli. Come tale, esso deve raccogliere l'attenzione e la partecipazione della comunità, non soltanto della famiglia dei parenti stretti, ma, nei limiti e nelle forme possibili, di tutta la comunità che è stata legata alla persona che muore. Nessun credente dovrebbe morire nella solitudine e nell'abbandono. Madre Teresa di Calcutta aveva una particolare premura di raccogliere i poveri e i derelitti, perché almeno nel momento della morte potessero sperimentare, nell'abbraccio delle sorelle e dei fratelli, il calore del Padre.
Ma non è soltanto la comunità cristiana che, per i suoi particolari vincoli di comunione soprannaturale, è impegnata ad accompagnare e celebrare nei suoi membri il mistero del dolore e della morte e l'alba della nuova vita. In realtà, tutta la società mediante le sue istituzioni sanitarie e civili è chiamata a rispettare la vita e la dignità del malato grave e del morente. Pur nella consapevolezza del fatto che "non è la scienza che redime gli uomini" (Benedetto XVI, Spe salvi, 26), la società intera e in particolare i settori legati alla scienza medica sono tenuti ad esprimere la solidarietà dell'amore, la salvaguardia e il rispetto della vita umana in ogni momento del suo sviluppo terreno, soprattutto quando essa patisce una condizione di malattia o è nella sua fase terminale. Più in concreto, si tratta di assicurare ad ogni persona che ne avesse bisogno il sostegno necessario attraverso terapie e interventi medici adeguati, individuati e gestiti secondo i criteri della proporzionalità medica, sempre tenendo conto del dovere morale di somministrare (da parte del medico) e di accogliere (da parte del paziente) quei mezzi di preservazione della vita che, nella situazione concreta, risultino "ordinari". Per quanto riguarda, invece, le terapie significativamente rischiose o che fossero prudentemente da giudicare "straordinarie", il ricorso ad esse sarà da considerare moralmente lecito ma facoltativo. Inoltre, occorrerà sempre assicurare ad ogni persona le cure necessarie e dovute, nonché il sostegno alle famiglie più provate dalla malattia di uno dei loro componenti, soprattutto se grave e prolungata. Anche sul versante della regolamentazione del lavoro, solitamente si riconoscono dei diritti specifici ai familiari al momento di una nascita; in maniera analoga, e specialmente in certe circostanze, diritti simili dovrebbero essere riconosciuti ai parenti stretti al momento della malattia terminale di un loro congiunto. Una società solidale ed umanitaria non può non tener conto delle difficili condizioni delle famiglie che, talora per lunghi periodi, devono portare il peso della gestione domiciliare di malati gravi non autosufficienti. Un più grande rispetto della vita umana individuale passa inevitabilmente attraverso la solidarietàs concreta di tutti e di ciascuno, costituendo una delle sfide più urgenti del nostro tempo.
Come ho ricordato nell'Enciclica Spe salvi, "la misura dell'umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. Questo vale per il singolo come per la società. Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la compassione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana" (n. 38). In una società complessa, fortemente influenzata dalle dinamiche della produttività e dalle esigenze dell'economia, le persone fragili e le famiglie più povere rischiano, nei momenti di difficoltà economica e/o di malattia, di essere travolte. Sempre più si trovano nelle grandi città persone anziane e sole, anche nei momenti di malattia grave e in prossimità della morte. In tali situazioni, le spinte eutanasiche diventano pressanti, soprattutto quando si insinui una visione utilitaristica nei confronti della persona. A questo proposito, colgo l'occasione per ribadire, ancora una volta, la ferma e costante condanna etica di ogni forma di eutanasia diretta, secondo il plurisecolare insegnamento della Chiesa.
Lo sforzo sinergico della società civile e della comunità dei credenti deve mirare a far sì che tutti possano non solo vivere dignitosamente e responsabilmente, ma anche attraversare il momento della prova e della morte nella migliore condizione di fraternità e di solidarietà, anche là dove la morte avviene in una famiglia povera o nel letto di un ospedale. La Chiesa, con le sue istituzioni già operanti e con nuove iniziative, è chiamata ad offrire la testimonianza della carità operosa, specialmente verso le situazioni critiche di persone non autosufficienti e prive di sostegni familiari, e verso i malati gravi bisognosi di terapie palliative, oltre che di appropriata assistenza religiosa. Da una parte, la mobilitazione spirituale delle comunità parrocchiali e diocesane e, dall'altra, la creazione o qualificazione delle strutture dipendenti dalla Chiesa, potranno animare e sensibilizzare tutto l'ambiente sociale, perché ad ogni uomo che soffre e in particolare a chi si avvicina al momento della morte, siano offerte e testimoniate la solidarietà e la carità. La società, per parte sua, non può mancare di assicurare il debito sostegno alle famiglie che intendono impegnarsi ad accudire in casa, per periodi talora lunghi, malati afflitti da patologie degenerative (tumorali, neurodegenerative, ecc.) o bisognosi di un'assistenza particolarmente impegnativa. In modo speciale, si richiede il concorso di tutte le forze vive e responsabili della società per quelle istituzioni di assistenza specifica che assorbono personale numeroso e specializzato e attrezzature di particolare costo. E' soprattutto in questi campi che la sinergia tra la Chiesa e le Istituzioni può rivelarsi singolarmente preziosa per assicurare l'aiuto necessario alla vita umana nel momento della fragilità.
Mentre auspico che in questo Congresso Internazionale, celebrato in connessione con il Giubileo delle apparizioni di Lourdes, si possano individuare nuove proposte per alleviare la situazione di quanti sono alle prese con le forme terminali della malattia, vi esorto a proseguire nel vostro benemerito impegno di servizio alla vita in ogni sua fase. Con questi sentimenti, vi assicuro la mia preghiera a sostegno del vostro lavoro e vi accompagno con una speciale Benedizione Apostolica.

[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]


Massimo Introvigne: “Siamo nella fase del relativismo aggressivo”Intervista al fondatore e direttore del CESNUR
di Miriam Díez i Bosch

ROMA, lunedì, 25 febbraio 2008 (ZENIT.org).- L'Europa sta vivendo una fase di “relativismo aggressivo”. A dirlo è il professor Massimo Introvigne, autore del volume “Il segreto dell’Europa. Guida alla riscoperta delle radici cristiane” (Sugarco Edizioni www.sugarcoedizioni.it , 2008, 220 pagine, 16 euro).
“I nuovi relativisti aggressivi invece vogliono che il relativismo diventi legge ufficiale dello Stato”, afferma in questa intervista a ZENIT il dirigente di Alleanza Cattolica, fondatore e direttore del CESNUR, il Centro Studi sulle Nuove Religioni.
L'Europa è in crisi di identità?
Introvigne: Il Santo Padre in due occasioni - nel Discorso alla Curia romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi del 22 dicembre 2006 e il 24 marzo 2007 in occasione del cinquantenario dei Trattati di Roma – ha usato un’espressione più forte, affermando che l’Europa “sembra volersi congedare dalla storia”.
“Congedarsi dalla storia” significa tirare il sipario, salutare gli spettatori e ammettere che la rappresentazione si è conclusa. È stata bella finché è durata, ma ora è finita. È possibile? Certamente: a differenza delle persone umane, le civiltà non hanno un’anima immortale. Cominciano e finiscono nella storia, e quella europea non fa eccezione. Sta succedendo? Molti politici lo negherebbero.
Tuttavia Benedetto XVI ha messo in luce tre aspetti – elencati come tali appunto nei due discorsi che ho citato – che corrispondono a dati di fatto che è molto difficile negare.
Il primo è l’”apostasia da se stessa” dell’Europa, il rifiuto di riconoscere le proprie radici – che sono tanto ovviamente cristiane da rendere qualunque discussione sul punto capziosa – e la propria storia, che porta poi a una debolezza e a una mancanza d’identità nei confronti di qualunque attacco o accadimento esterno. Che l’Europa non riesca a parlare con una voce sola lo vediamo ancora in questi giorni a proposito della questione del Kosovo.
Il secondo aspetto è la separazione delle leggi dalla morale. Non la semplice lontananza della politica, o di qualche uomo politico, dalla morale privata e pubblica, che non è un problema né recente né solo europeo, ma attraversa tutta la storia umana. No: si tratta della autonomia prima teorizzata e quindi poi fatalmente praticata delle leggi dalla morale. Dall’etica, non dalla religione, così che le critiche di “ingerenza” nei confronti della Chiesa non hanno a loro volta alcun senso, trattandosi qui della morale naturale e delle regole del gioco chiamato società – il Papa parla di “grammatica della vita sociale” – che non sono in quanto tali né cristiane né atee o buddhiste e che tutti dovrebbero condividere.
E questa grammatica della vita sociale non si rispetta?
Introvigne: Bene: oggi in Europa si afferma che queste regole del gioco non esistono, e che il legislatore deve limitarsi a fare il notaio e a formalizzare quanto già avviene nella società (o i media gli fanno credere che accada). Ci sono coppie omosessuali? Il legislatore ne prenda atto e le equipari alle famiglie. Ci sono musulmani che vivono in poligamia? Il legislatore li regolarizzi, o magari applichi la sharia come vorrebbe qualche personaggio europeo anche autorevole. Negli ospedali si pratica l’eutanasia? Lo Stato notaio la regoli per legge, com’è appena avvenuto in Lussemburgo.
Il terzo aspetto è la crisi demografica, il fatto drammatico che in Europa nascano sempre meno bambini: su questo punto i fatti si rifiutano ostinatamente di cooperare con le teorie di chi dice che l’Europa non è in crisi, e anche i risultati apparentemente in controtendenza di alcuni Paesi spesso derivano da semplici norme nuove sulla cittadinanza, che calcolano fra i nati cittadini anche i figli degli immigrati.
Laicismo aggressivo e anticristiano, relativismo... siamo in tempi oscuri?
Introvigne: Un intellettuale non cattolico, anzi comunista, come Antonio Gramsci diceva che quando c’è cattivo tempo si ha tendenza a prendersela con il barometro, mentre “abolito il barometro, non è con questo abolito il cattivo tempo”.
Oggi in Europa assistiamo a questo fenomeno: dal momento che Benedetto XVI è l’unico o quasi a denunciare la drammatica situazione di crisi sui tre aspetti cui ho fatto cenno – certo, forse anche perché non deve presentarsi a nessuna elezione, dove gli elettori di solito non premiamo gli annunciatori di cattive notizie – nell’immaginario di un certo laicismo europeo fa la fine del barometro di Gramsci.
Ma non è che impedendo di parlare al Papa – come è avvenuto a Roma all’Università La Sapienza – i problemi magicamente spariscano. Ci sono poi altri che pensano che quelli che il Papa denuncia come problemi siano in realtà risorse: che la crisi della famiglia tradizionale, l’aborto, l’eutanasia, la negazione del concetto di legge naturale, il multiculturalismo senza freni per cui non accettare di legalizzare la poligamia in una società dove ci sono molti musulmani è una forma di razzismo, siano tutti fenomeni positivi, da promuovere, che ci porteranno a una società con minori conflitti.
Per costoro il conflitto nasce dalla pretesa di chi crede che esista una verità; mentre dove si conviene che la verità non esiste il conflitto scompare.
Questa utopia è stata così spesso smentita dalla storia che sostenerla dovrebbe risultare ormai imbarazzante: ma non è così.
Dove le società sono complesse – e l’Europa di oggi lo è – non c’è scampo: o fra persone che hanno culture e religioni diverse si trova, appunto, una “grammatica della vita comune”, regole comuni che consentano di convivere – che possono soltanto derivare dalla ragione e da una legge naturale che la ragione può conoscere – o ci si riduce al conflitto di tutti contro tutti.
O le questioni conflittuali sono risolte con il richiamo a un diritto naturale valido per tutti o sono risolte a suon di violenza e di bombe.
Lei parla di diverse fasi di relativismo. Dove siamo oggi?
Introvigne: Siamo nella fase del relativismo aggressivo. Il vecchio relativista teorizzava, anche se non sempre praticava, la massima di Voltaire secondo cui “io non condivido la tua idea ma sono disposto a dare la vita perché tu possa sostenerla liberamente”.
Come sappiamo, Voltaire era il primo a non mettere in pratica questa massima quando si trattava della Chiesa cattolica.
Tuttavia c’erano, e ci sono ancora, dei vecchi volterriani che credono per davvero a quello che dicono e che, pur essendo personalmente relativisti, non chiedono allo Stato di punire chi non è relativista.
I nuovi relativisti aggressivi invece vogliono che il relativismo diventi legge ufficiale dello Stato, con conseguente repressione penale dei non relativisti. Un semplice esempio: i vecchi relativisti affermavano che “la camera da letto di un omosessuale è il suo castello” (adattando una vecchia massima inglese: il castello è il luogo dove neanche il re con le sue leggi può entrare), di cui
lo Stato non deve occuparsi, dove gli omosessuali non meno degli eterosessuali devono essere lasciati liberi di fare tutto quello che vogliono.
Il nuovo relativista pretende invece che lo Stato costruisca al gay le mura del castello e arresti chi si avvicina o anche semplicemente chi esprime opinioni critiche. È questo il senso delle leggi sull’omofobia, che non puniscono affatto chi malmena o insulta trivialmente gli omosessuali (per questo ci sono già naturalmente le leggi ordinarie) ma – secondo la formula della legge proposta dal Governo italiano ora dimissionario – reprimono chi esprima “giudizi di superiorità”, cioè consideri l’unione eterosessuale intrinsecamente superiore rispetto all’unione omosessuale, o pensi – come fa la Chiesa – che quest’ultima è intrinsecamente disordinata.
E allora, qual è il segreto dell'Europa?
Introvigne: Il segreto dell’Europa è la sua storia millenaria, in cui entrano certamente altre componenti – per esempio, è del tutto ineliminabile l’apporto delle comunità ebraiche – ma che nel suo percorso di fondo è cristiana. Per quanto ricoperti dai detriti di un enorme fuoco di sbarramento aperto dal laicismo e dal relativismo, i valori di questa storia sono ancora vivi e presenti.
Certo, lo sono di più in alcuni Paesi che in altri: per esempio, a proposito dell’Italia, Benedetto XVI ha detto al convegno ecclesiale di Verona, il 19 ottobre 2006, che “la Chiesa qui è una realtà molto viva, – e lo vediamo! – che conserva una presenza capillare in mezzo alla gente di ogni età e condizione” e che “le tradizioni cristiane sono spesso ancora radicate e continuano a produrre frutti”.
Ora, si potrebbe dire che lo stesso Benedetto XVI da una parte parla di un’Europa “pronta a congedarsi dalla storia”, dall’altra vede (almeno in Italia, ma non si tratta certo dell’unico Paese per cui sia valgono considerazioni analoghe, sia il Papa le ha proposte nei suoi discorsi) “tradizioni cristiane ancora radicate”: non ci sarà forse una contraddizione? La risposta è no.
Il Papa parlando della crisi dell’Europa non ci convoca a un funerale, ma al capezzale di un malato. Un malato grave, cui è inutile nascondere la gravità della sua condizione. Ma un malato che ha ancora in sé – nascoste da qualche parte – le potenzialità per guarire.
Come il buon medico, Benedetto XVI – se da una parte non tace sui pericoli che il morbo possa diventare mortale – dall’altra scruta con attenzione e valorizza sistematicamente ogni piccolo miglioramento, ogni spunto di guarigione.
Se nel deserto ogni tanto spunta una piantina, non va sradicata ma coltivata perché diventi domani un albero e dopodomani un bosco. Ma per coltivare la piantina occorre irrigarla, e non basta l’entusiasmo: che pure, quando è rivolto al Papa, ai suoi interventi e ai suoi viaggi è sempre un buon punto di partenza. È necessaria l’acqua solida della dottrina e del magistero.
Il libro “Il segreto dell’Europa” nasce dall’esperienza di trentacinque anni di attività che ho svolto in Alleanza Cattolica, un’agenzia di laici cattolici che ha come scopo principale lo studio, la diffusione e l’applicazione dell’insegnamento del magistero pontificio.
Mai come in questi anni – e senza assolutamente disprezzare chi nella Chiesa ha altre vocazioni e opera con modalità diverse – l’opera di diffusione degli insegnamenti del Papa (penso per esempio al magnifico affresco della storia profana e della storia della salvezza nella “Spe salvi”, come sempre però scomparsa dal radar dei mezzi di comunicazione di massa dopo pochi giorni dalla pubblicazione) mi sembra indispensabile e urgente.


Strano il discorso sull’uomo che non parte dall’uomo
Avvenire, 26.2.2008
ROBERTO COLOMBO
L a questione della vita umana, della sua accoglienza e del suo rispetto incondizionato, non è e non può essere considerata come un affare speciale della società e della politica, di cui alcuni ne fanno lo scopo quasi esclusivo del loro pensiero e della loro azione mentre i più la censurano o la mettono tra parentesi perché ritenuta 'problema scomodo' o 'sconveniente', 'impopolare'. Il cuore di ogni famiglia, comunità, società o politica è ciascuno di noi. Il loro centro di gravità è l’uomo stesso e la sua vita concreta, che riguarda tutti e tutto. In quanto vive, l’uomo afferma il suo esserci e l’essere di ogni altro uomo. Una esperienza sorprendente e ineludibile al tempo stesso, alla cui origine e al cui destino si appella la nostra stessa libertà. Non è forse l’uomo reale quello che siamo e incontriamo ogni giorno, quello che viene concepito, nasce, cresce, studia e lavora, ama la propria moglie o il proprio marito, mette al mondo i figli e li educa, spende ogni giorno la propria vita per qualcuno o qualcosa, si ammala, soffre e muore?
Nel suo discorso alla pontificia Accademia per la vita, Benedetto XVI ha definito il «rispetto della vita umana individuale» come «una delle sfide più urgenti del nostro tempo». Una sfida da affrontare non astrattamente, ma a partire dall’accoglienza del quotidiano, silenzioso grido di aiuto, della sua domanda di senso e di amore, dell’insopprimibile evidenza ed esigenza del cuore dell’uomo, che sente di essere costituito per la felicità mentre fa fatica e soffre, che è fatto per vivere anche mentre sta morendo. Nulla è più incomprensibile per l’uomo di un discorso su di lui che non parta da lui, che metta tra parentesi la drammaticità della sua esperienza, la realtà in cui consiste la sua vita, il suo amore e la sua speranza.
Riprendendo la sua ultima enciclica, il Papa ci ricorda che «la misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. [...] Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com-passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana». ( Spe salvi,
38) Ogni discorso o proposta circa l’uomo che soffre per una malattia inguaribile – congenita, oncologica o neurodegenerativa che sia – è un gesto «crudele e disumano» se non parte da quella che il Papa ha chiamato, con una espressione sintetica e potente, la «solidarietà dell’amore» che icasticamente è espressa nell’«abbraccio» di Madre Teresa di Calcutta verso «i poveri e i derelitti» nel «momento della morte», evocato da Benedetto XVI. Una testimonianza, quella del credente, che precede, accompagna e rende pienamente ragionevole l’inaccettabilità dell’abbandono della cura del malato inguaribile e del morente ed del ricorso all’eutanasia, ribadita nello stesso discorso «secondo il plurisecolare insegnamento della Chiesa».
La Chiesa e la società hanno bisogno, per rinnovare e consolidare una fattiva «solidarietà dell’amore» verso chi soffre e muore nella solitudine e nell’abbandono, di quello «spettacolo della carità» che la testimonianza dei credenti e non credenti ha saputo dare e tuttora offre al mondo. Una testimonianza che, traducendosi in impegno sociale e politico, sia capace di contrastare le «spinte eutanasiche [che] diventano pressanti, soprattutto quando si insinui una visione utilitaristica nei confronti della persona». Gli esempi citati da Benedetto XVI sono semplici e persuasivi, quasi programmatici: terapie adeguate e proporzionate per alleviare il dolore, accessibili a tutti; «sostegno alle famiglie più provate dalla malattia di uno dei loro componenti, soprattutto se grave e prolungata»; congedi di lavoro per assistere un congiunto nella fase terminale della malattia; e contributi per sollevare il «peso della gestione domiciliare di malati gravi non autosufficienti».
Proposte realistiche e praticabili per abbracciare e condividere il dolore di un uomo reale, quello che soffre, e di coloro che lo amano, i suoi cari. E se ripartissimo da qui per affrontare nella società e nella politica la questione della malattia inguaribile e del morente?


Troppo spesso l'efficientismo sanitario maschera l'incapacità di accogliere la morte con serenità
Lo strano caso di chi si uccide per sentirsi vivo
Osservatore Romano, 25-26.2.2008
di Ferdinando Cancelli Medico chirurgo
Dal suo letto d'ospedale Paolo Caccone, monaco della Piccola Famiglia dell'Annunziata di Monteveglio (Bo), malato di Aids, morto nel 1992, scriveva queste parole "Ho sentito stamane dei medici parlare fra loro così: "Quello che vogliamo è la qualità della vita, lo stare bene, l'essere efficienti - intendevano dire - non la sua durata". Secondo me questo discorso è pericoloso, e può portare diritto alla scelta dell'eutanasia. E poi al livello più profondo della verità e del mistero, la vita capace di scelte definitive e dell'accoglienza di valori supremi può coesistere con la dissoluzione del corpo. Come si è verificato con il mio amico Domenico che, ormai ridotto ad una larva, ha potuto confessarsi benissimo".
Sono parole ineludibili per tutti nella loro evidenza, ancor più per chi direttamente si occupa di cure palliative, di assistere quei malati che, come Paolo, sono giunti all'epilogo della loro storia di malattia, della loro storia di vita terrena. Proprio scavando dentro queste parole possiamo far emergere quanto ci dicono e ci chiedono i malati che quotidianamente incontriamo nella nostra pratica clinica.
"Ho sentito stamane dei medici parlare fra loro così...". Il rispetto per la vita al termine passa prima di tutto di qui: il malato è in ascolto e insegna a coloro che gli sono vicino a restare in ascolto, in una dimensione di serenità e di accoglienza che permetta l'apertura reciproca basata sulla fiducia.
Troppo spesso il bisogno di Verità e di Mistero è soffocato dalla rumorosa superficialità di un efficientismo utile soltanto a innalzare barriere per nascondere la paura di chi, restando accanto al morente, deve fare i conti con la propria fragilità. Il malato, come spesso ripeteva Madre Teresa, ha sete: è inchiodato alla propria croce, accanto a Gesù, molto vicino ormai a quella Verità che magari ancora stenta a riconoscere ma dalla quale spesso sembra come illuminato sulla sua difficile strada. Come è facile per il medico che sa ascoltare restare sorpreso dalle parole di un paziente, dalla sua tranquillità di fronte alla morte, dalla vitalità al di là delle apparenze di un corpo ferito.
"Quello che vogliamo è la qualità della vita, lo stare bene, l'essere efficienti...". Il rischio è tutto sintetizzato in queste poche parole: è giusto usare il concetto di qualità della vita o piuttosto, dando per scontato che ogni vita è di qualità, adoperarsi con tutta la professionalità e l'umanità della quale si dispone a farne fiorire la dignità profonda, intrinseca all'esistere come persona?
Le derive eutanasiche alle quali può portare questo "discorso pericoloso" udito da Paolo e da molti altri pazienti come lui, oggi sono una minaccia insidiosa ma presentissima, un elemento che rischia di inquinare la logica stessa che sta alla base delle cure palliative, che sta alla base della professione medica. Spesso con la maschera della pietà si vorrebbero indurre i malati inguaribili a preferire la morte, facendo loro subdolamente credere, con un condizionamento costante che dura una vita, che, giunti al termine dei loro giorni terreni e ormai "inutilmente sofferenti", meglio sarebbe dare un'ultima dimostrazione di autodeterminazione: decidere quando e come morire.
Per far passare questo comodo messaggio spesso la falsificazione si spinge fino al punto da far ritenere come comune la richiesta di porre fine ai propri giorni per chi è in fase terminale di malattia. Nulla di più falso: la richiesta eutanasica, rarissima sia negli hospices sia al domicilio, è figlia dell'abbandono terapeutico e della mancata alleanza tra medico e paziente, della superficialità che troppo spesso i mezzi di informazione hanno nell'affrontare temi così delicati finendo per creare una forte ed emotiva pressione sociale. "La vita capace di scelte definitive e dell'accoglienza di valori supremi può coesistere con la dissoluzione del corpo". Spesso al letto del malato ci sentiamo interrogati in questo senso: chi è veramente l'uomo? Si è uomini veri perché "si decide" o perché "si accoglie"? La risposta di Paolo Caccone va in questa direzione: si è uomini completi, uomini vivi, quando si è capaci di "accogliere" e si è capaci di accogliere soltanto quando si è accolti. Ancora una volta l'alleanza terapeutica diventa il luogo di scambio fruttuoso in cui il malato, la sua famiglia e i curanti possono camminare verso i valori supremi. "Si può dimenticare il degrado del proprio corpo se lo sguardo degli altri è pieno di tenerezza" afferma Marie de Hennezel in uno dei suoi più noti scritti: a questa indispensabile tenerezza le cure palliative cercano di unire la più scrupolosa preparazione professionale anche se, soprattutto nel nostro paese, sembra ancora molto lunga la strada da percorrere per riconoscere alla disciplina quella dignità di specialità medica che meriterebbe e per garantire a coloro che in tale campo si vogliano formare la possibilità di accedere a corsi di formazione post laurea orientati alla "cultura della vita". A tal proposito, non è possibile per l'operatore sanitario cattolico non riconoscere il fondamentale contributo dato anche molto recentemente dal Magistero della Chiesa alla fondazione stessa dell'assistenza ai morenti. "È necessario sottolineare ancora una volta la necessità di più centri per le cure palliative che offrano un'assistenza integrale, fornendo ai malati l'aiuto umano e l'accompagnamento spirituale di cui hanno bisogno" scriveva Benedetto XVI nel Messaggio per la quindicesima giornata mondiale del malato. Lo stesso Benedetto XVI è ritornato in più occasioni a incoraggiare l'operato di quanti ogni giorno si prodigano accanto ai morenti a servizio della vita. Prima di lui, il Servo di Dio Giovanni Paolo II, oltre ad averci donato le fondamentali encicliche Salvifici doloris ed Evangelium vitae, così scriveva proprio in quest'ultima: "Urge coltivare in noi e negli altri uno sguardo contemplativo. Questo nasce dalla fede nel Dio della vita, che ha creato ogni uomo facendolo come un prodigio (Salmi, 138). È lo sguardo di chi vede la vita nella sua profondità, cogliendone le dimensioni di gratuità e di bellezza, di provocazione alla libertà e alla responsabilità. È lo sguardo di chi non pretende di impossessarsi della realtà, ma la accoglie come un dono, scoprendo in ogni cosa il riflesso del Creatore e in ogni persona la sua immagine vivente. Questo sguardo non si arrende sfiduciato di fronte a chi è nella malattia, nella sofferenza, nella marginalità e alle soglie della morte; ma da tutte queste situazioni si lascia interpellare per andare alla ricerca di un senso e, proprio in queste circostanze, si apre a ritrovare nel volto di ogni persona un appello al confronto, al dialogo, alla solidarietà". Sono proprio queste le risposte alle domande, espresse e inespresse, nostre e dei nostri pazienti.