venerdì 29 febbraio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) PIÙ FAMIGLIA CIOÈ PIÙ LIBERTÀ PER TUTTI
2) La vita non finisce con la morte cerebrale
3) La malintesa autonomia del paziente, un modo per abbandonarlo
4) Primi passi all'Onu della moratoria sull'aborto - Il segretario generale Ban ki-Moon contro "la selezione sessuale prenatale"
5) Il disprezzo del maschile genera solo insicurezza
6) Quell’aborto «leggero» mistificazione che pagherete
7) «Tasse più eque per la famiglia: così si può fare»
8) La bussola del cristiano di fronte alla politica


DOMENICA, IN 1.300 PIAZZE
PIÙ FAMIGLIA CIOÈ PIÙ LIBERTÀ PER TUTTI

Avvenire, 29.2.2008
GIANFRANCO MARCELLI
Sarà bene bonificare subito il terre­no da una trappola, che i soliti cli­ché massmediali prevalenti cerche­ranno di stendere sotto i piedi del Fa­mily day-bis in programma domenica prossima, 2 marzo, in oltre 1.300 piaz­ze d’Italia (elenco consultabile sul sito www.forumfamiglie.org). Obiettivo: raccogliere milioni di firme a sostegno della petizione in favore di un fisco fi­nalmente
friendly, davvero amichevo­­le, per madri, padri e figli. E dunque per un fisco realmente giusto. Diranno, ne siamo certi, che la 'lobby cattolica' del­la famiglia sfrutta l’occasione delle ele­zioni ormai vicine per battere cassa, premendo su partiti e candidati con lo scopo di strappare impegni in cambio di consensi.
A parte che in un simile comporta­mento non ci sarebbe nulla di riprove­vole, visto che con le urne all’orizzon­te tutte le istanze sociali organizzate hanno un ovvio interesse e una pari le­gittimazione ad esporre le proprie a­spettative a chi dovrà governare le isti­tuzioni per i prossimi cinque anni. E tuttavia c’è la prova inoppugnabile che questo appuntamento era in pro­gramma da ben prima che si sentisse odore di scioglimento anticipato delle Camere. Ci riferiamo alla conferenza stampa del 24 ottobre 2007 a Palazzo Madama, nella quale l’iniziativa venne annunciata come necessaria conse­guenza delle attese create con il mega­raduno di piazza San Giovanni il 12 maggio precedente.
Detto ciò, la chiave di lettura più fede­le e incisiva per sintetizzare il traguar­do prefissato dai promotori della ma­nifestazione si può riassumere, ci pare, in un semplicissimo slogan: dare più li­bertà agli italiani. Libertà di far nasce­re e crescere nuovi cittadini, senza su­bire taglieggiamenti supplementari dalla macchina tributaria. Libertà di as­sumere impegni familiari stabili, sfug­gendo ai condizionamenti subdoli di un sistema retributivo e impositivo ri­tagliato su misura per i 'single'. Libertà di incarnare modelli di vita controcor­rente, improntati alla generosità e al­l’apertura verso l’altro, nonostante tut­ti i messaggi in senso opposto inculca­ti dal mood sociale dominante.
A qualche osservatore malizioso po­tranno apparire finalità troppo ambi­ziose, magari troppo nobili, a fronte di una rivendicazione a prima vista mol­to concreta e quasi terra terra: esone­rare dall’imposizione fiscale una quo­ta di reddito familiare pari allo stretto necessario per mantenere e allevare i fi­gli. Eppure la direzione di marcia è i­nequivoca. Si tratta di rompere un tabù che, alla lunga, condiziona e vanifica un diritto inalienabile degli individui. Parliamo del diritto a realizzare la «for­mazione sociale» cardine della nazio­ne, la più importante, a nostro parere, tra quelle che l’articolo 2 della nostra Costituzione indica come oggetto di ri­conoscimento e di garanzia da parte della Repubblica. E che gli articoli 29, 30 e 31 pongono come destinataria di speciale tutela e particolari agevola­zioni.
Nelle pagine dell’odierno inserto 'è fa­miglia' torniamo a illustrare in detta­glio le ragioni di equità, di convenien­za generale, di sostenibilità economica e anche di modernità, che depongono in favore di una riforma in fondo di fa­cile attuazione. I milioni di cittadini che, da dopodomani in poi, si affianche­ranno agli oltre 300mila già scesi in campo a supporto della petizione del Forum, non cercano né privilegi né e­lemosine. Chiedono invece di veder spazzare via assurde penalizzazioni. E­sigono che si esca una volta per sem­pre dalla logica di uno Stato paternali­sta, che lascia cadere dall’alto briciole risarcitorie sempre parziali e in defini­tiva umilianti. Si augurano che questa iniziativa abbia anche, ebbene sì, il va­lore di serissimo avviso per chi si ac­cinge a chiedere voti in nome di valori troppo spesso declamati solo a parole.




La vita non finisce con la morte cerebrale
Se ne è discusso al Consiglio Nazionale delle Ricerche
di Luca Marcolivio
ROMA, giovedì, 28 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Il confine tra vita e morte continua a porre notevoli dilemmi etici. In particolare intorno al concetto di "morte cerebrale".
L’argomento è stato trattato in modo sistematico nell’antologia Finis vitae. La morte cerebrale è ancora vita?, edito da Rubettino, la cui traduzione italiana è stata presentata mercoledì sera al Consiglio Nazionale per le Ricerche (CNR).
Alla conferenza erano presenti alcuni medici, neurologi e accademici di fama internazionale, insieme al curatore del libro, il professor Roberto de Mattei, già Vicepresidente del CNR e docente di Storia del Cristianesimo all’Università Europea di Roma.
L’intervento del professor Paul A. Byrne, neonatologo del S.Vincent’s Medical Center di Bridgeport (Connecticut), ha subito messo in luce numerosi casi clinici sorprendenti. Quanto emerge dall’esperienza diretta del professor Byrne testimonia che spesso molti pazienti nati con danni cerebrali alla nascita, oggi conducono una vita sostanzialmente normale e, soprattutto, sono felici di vivere.
“Parliamo di morte – ha affermato Byrne – solo ed esclusivamente quando vengono a mancare tutte e tre, le funzioni vitali della persona: l’apparato circolatorio, l’apparato respiratorio e l’apparato cerebrale. Non è il cervello che conferisce la vita ad un corpo, bensì l’anima”.
“Il comitato di Harvard del 1968 – ha proseguito – identificò convenzionalmente il concetto di morte con la cessazione delle funzioni cerebrali, ovvero con il determinarsi di quello stato, definito di ‘coma irreversibile’. Da allora sono stati pronunciati almeno un’altra trentina di criteri per definire la soglia della morte”.
“La vita, in definitiva (e qui mi rifaccio al magistero di Papa Giovanni Paolo II) va tutelata dall’inizio alla fine, e non è accettabile che un medico possa contribuire alla morte di un proprio paziente, né che un uomo venga soppresso per salvarfe un altro uomo”, ha poi concluso.
“Il titolo del libro – ha affermato de Mattei – Finis vitae, allude non soltanto alla conclusione della vita, ma anche al significato della vita stessa. Il problema che abbiamo posto è di carattere giuridico-morale: è lecito asportare un organo vitale da una persona cerebralmente morta? La maggior parte dei sistemi giuridici occidentali risponde affermativamente”.
“Sul piano strettamente etico e filosofico – ha aggiunto de Mattei – si registra, al contrario, una comunità accademica divisa. La nostra posizione, in linea con il magistero della Chiesa, sostiene il rispetto della legge naturale, ovvero l’illiceità della soppressione di una vita, finanche per uno scopo nobile come salvarne un’altra”.
“La svolta di Harvard del ’68 fu condizionata dall’evento epocale del primo trapianto di cuore effettuato da Christian Barnard, alcuni mesi prima. Ciò poneva il dilemma morale delle modalità di espianto, visto il rapido deterioramento degli organi non vitali”.
“Ci si trovò dunque ad un bivio: modificare la morale o, in alternativa, cambiare il criterio di classificazione ed accertamento della morte – ha continuato –. La prima strada è la neoetica di impostazione laicista che si arroga il diritto di dire chi ha diritto o meno di vivere. È il sistema caro agli utilitaristi e ai sostenitori dell’aborto”.
“La seconda strada è scientifica e intende riformulare il momento della conclusione fisica della vita umana. Il punto è che non sta agli scienziati ma ai filosofi definire il significato profondo della vita”.
“Nessuno può affermare – ha proseguito de Mattei – che l’individualità biologica di una persona cessa con la morte cerebrale. Il cervello integra alcune funzioni dell’intero corpo umano ma non può essere l’integratore generale di tutte le funzioni vitali”.
“Un teologo come Vito Mancuso, citando a sproposito San Tommaso d’Aquino, arriva ad affermare che un neonato o un cerebroleso non sono da considerarsi persone, non avendo sviluppato le funzioni cerebrali – ha commentato lo storico –. In realtà la loro funzione vitale non risiede nelle facoltà intellettive, delle quali essi non sono privi, sebbene non possano esercitarle”.
Sul concetto di morte cerebrale è intervenuto anche il professor Josef Seifert, membro dell’Accademia Internazionale delle Scienze del Liechtenstein. “Se identificassimo la morte con la morte cerebrale – ha affermato Seifert – dovremmo ammettere che la distruzione dell’encefalo comporterebbe la dissoluzione dell’intero organismo umano”.
“La vita umana scaturisce, invece, dall’integrazione di corpo e anima – ha proseguito il filosofo – laddove l’intelletto è una funzione fondamentale ma non superiore alle altre, né può essere la sede dell’anima. Il collegamento tra anima e corpo è qualcosa che va ben al di là delle funzioni cerebrali”.
Di seguito il professor Cicero Galli Coimbra, neurologo dell’Università di San Paolo del Brasile, ha illustrato alcuni interessanti dati riguardanti la morte cerebrale e, in particolare i danni che possono scaturire ai pazienti dal test di apnea.
“C’è una vastissima percentuale (circa il 50%) di pazienti – ha detto Coimbra – in coma profondo che sono stati in grado di riprendersi (in alcuni casi fino al ritorno ad una vita normale) se sottoposti in tempo ad ipotermia, invece che al test di apnea”.
L’ultima relazione è stata quella di Mercedes Wilson, membro della Fondazione “Family of the Americas”, le cui considerazioni sono state essenzialmente di carattere etico.
“Il concetto di morte cerebrale – ha affermato la dottoressa Wilson – è stato ‘inventato’ per avvantaggiare gli interessi di una certa classe medica. È una falsità che viene utilizzata, spesso con la scusa di voler fermare il traffico di organi”.
“Il nostro punto di riferimento è la dottrina sociale della Chiesa che ha sempre ribadito la sacralità della vita, dal concepimento fino alla separazione totale dell’anima dal corpo: la morte si consuma solo in quell’istante e non è necessario essere medici per comprenderlo”.
“Dobbiamo accettare questa sfida, altrimenti saremmo condannati al silenzio”, ha poi concluso.


La malintesa autonomia del paziente, un modo per abbandonarlo
Avverte la dottoressa Taboada, esperta di Medicina Palliativa

di Marta Lago
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 28 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Una “eccessiva enfasi” sul “principio di autonomia del paziente” nel prendere decisioni sulla sua terapia conduce a forme di abbandono del malato e a carenze nella responsabilità del medico.
Lo ha affermato la dottoressa Paulina Taboada, medico internista esperto in Medicina Palliativa, nel corso del Congresso Internazionale della Pontificia Accademia per la Vita (PAV) – Città del Vaticano, 25 e 26 febbraio – sul tema “Accanto al malato inguaribile e al morente: orientamenti etici ed operativi”.
Al programma di interventi di carattere scientifico, antropologico, etico e deontologico, la professoressa, che insegna presso la Pontificia Università Cattolica del Cile e dirige il Centro di Bioetica della stessa università, ha apportato un'ampia riflessione sul tema “Mezzi ordinari e straordinari di mantenimento della vita: l'insegnamento della tradizione morale”.
La docente ha chiarito l'equivoco medico che equipara “la distinzione ordinario/straordinario” con l'“usuale/inusuale” nelle terapie.
“La distinzione tra mezzi 'ordinari' e 'straordinari' non si riferisce in primo luogo al tipo di mezzo in generale – ha detto nel suo intervento –, ma piuttosto al carattere morale che l'utilizzo di questo mezzo ha per una persona in particolare”.
Dilemma etico
“Come medico esperto di bioetica, la domanda più frequente che mi pongono colleghi e professori si riferisce ai criteri per decidere la limitazione o meno delle terapie nei pazienti”, ha detto a ZENIT la dottoressa Taboada a proposito del suo intervento.
E' uno degli interrogativi a cui “è più difficile rispondere”, aggiunge, “per noi, come medici, e a maggior ragione per i pazienti stessi e per le famiglie, che inoltre confidano in buona misura nel giudizio medico”.
“Di fronte a questo dilemma etico, la tradizione morale della Chiesa cattolica ha proposto la distinzione classica tra mezzi ordinari e straordinari”, “ampiamente conosciuta nel mondo medico e che si applica per le decisioni di limitare gli sforzi terapeutici”, ma “purtroppo nel mondo medico questo insegnamento non sempre è ben compreso”, osserva.
“La mentalità medica è formata da un pensiero scientifico-tecnico che ama le risposte concrete e rapide”, spiega, ma “per poter rispondere sul limite da raggiungere con le terapie mediche bisogna compiere un giudizio etico, un giudizio di prudenza, che è complesso, ha bisogno di calma e di tener conto di molti elementi”.
Tra questi, la dottoressa Taboada cita “l'utilità medica del trattamento – perché ci sono prove scientifiche che quella data cura possa aiutare in concreto il paziente”, “le complicazioni di quei trattamenti – perché tutti hanno associato qualche effetto negativo”, o anche “se quel trattamento è disponibile nel luogo in questione, una cosa difficile nei Paesi poveri, perché nelle capitali possono esistere e nei villaggi più lontani no”.
Dall'autonomia all'abbandono
Il giudizio – estremamente “delicato”, insiste l'esperta – sull'obbligatorietà morale di una cura pone anche davanti a decisioni “da prendere nel contesto individuale del paziente”.
La dottoressa ha detto a ZENIT che “nell'etica medica contemporanea esiste una tendenza a dare eccessiva enfasi al principio di autonomia del paziente”.
“Rispettando profondamente la libertà e l'autonomia delle persone, non sono d'accordo con questo approccio, perché penso che noi professionisti della salute abbiamo una responsabilità enorme di aiutare i pazienti a prendere decisioni giuste in relazione alla loro salute e alla loro vita”, ha avvertito.
“La responsabilità ultima verso la propria salute e la propria vita ce l'ha sicuramente la persona stessa – sottolinea –, ma per poter prendere una decisione responsabile circa le cure mediche c'è bisogno di informazioni, e queste in genere provengono dal personale medico”.
Perché il paziente possa quindi esercitare bene questa responsabilità, “ha bisogno che l'équipe sanitaria gli fornisca informazioni comprensibili, complete, adeguate alla sua situazione e che in qualche modo includano anche un giudizio morale”.
In questo contesto, la dottoressa propone un rapporto medico-paziente “più partecipativo”, che includa “un processo di dialogo per giungere a una decisione comune della terapia adatta al caso particolare”.
“Mi sembra che lasciare il paziente solo nel prendere decisioni, dandogli solo informazioni, e poi aspettare che scelga ciò che vuole sia una forma di abbandono”, ha sottolineato.
Ascolto e silenzio
Per accompagnare la persona nella fase finale della sua vita, ha proseguito la dottoressa Taboada, è “estremamente importante prendere sul serio il tema della sofferenza”.
“Quando si soffre sono coinvolte tutte le dimensioni e si sperimenta una certa solitudine; c'è qualcosa di incomunicabile”.
Quando ci si avvicina alla fine della vita, “ciò si moltiplica, perché alle sofferenze fisiche” “si somma il dolore spirituale”.
Per questo è importante “imparare ad ascoltare”, che “presuppone anche il captare i segni corporei, non solo le parole”, perché “in molte occasioni i pazienti esprimono molto di ciò che stanno vivendo attraverso i gesti”.
“Nella mia esperienza – ha confessato la dottoressa a ZENIT –, quando le persone dicono 'non ce la faccio più', 'non voglio continuare a soffrire', molte volte hanno bisogno di un sostegno umano, di qualcuno che li accompagni, e anche di un sostegno che getti una luce di senso su quello che stanno vivendo”.
“Mi aiuta una cosa che ho applicato con i pazienti e con me stessa – ha concluso –, una frase di Giovanni Paolo II: molte volte, con la sofferenza, ciò che bisogna fare è mantenere un rispettoso silenzio, e di fronte al mistero permettere a Dio di avere i suoi segreti”, “accettare che non possiamo comprendere tutto”.
[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]



29 febbraio 2008
Il Foglio, Giuliano Ferrara
Primi passi all'Onu della moratoria sull'aborto - Il segretario generale Ban ki-Moon contro "la selezione sessuale prenatale"
"Un numero imprecisato di donne non ha neppure diritto alla vita. Nessun paese, nessuna cultura, nessuna donna giovane o vecchia è immune da questo flagello. Per troppo tempo i crimini sono rimasti impuniti e i perpetratori hanno camminato liberamente"
Soltanto un anno fa la Commissione sullo status delle donne, l’organismo delle Nazioni Unite che si occupa dell’“uguaglianza di genere” e della situazione femminile nel mondo, stabilì che l’aborto selettivo delle bambine, responsabile della sparizione di decine di milioni di femmine dalle statistiche demografiche cinesi, indiane e di altri paesi asiatici, non era cosa da meritare un’esplicita e inequivocabile condanna. Riunita a New York dal 26 febbraio al 9 marzo 2007, con all’ordine del giorno l’“eliminazione di tutte le forme di discriminazione e violenza contro giovani donne e bambine”, la Commissione bocciò la richiesta avanzata dalla delegazione americana perché fosse inserito nel documento finale un chiaro divieto di infanticidio e di aborto finalizzato alla selezione del sesso del nascituro. L’International Alliance of Women, che riunisce decine di associazioni femminili, non riuscì nell’impresa di far condannare l’infanticidio delle bambine. Un anno dopo all’Onu l’aria è cambiata. Lo dimostra il grande discorso che il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban ki-Moon, ha tenuto di fronte alla stessa Commissione. "La violenza contro le donne è una questione che non può attendere. Una donna su tre viene picchiata, costretta al sesso o ad altri abusi nella propria vita. Attraverso la pratica della selezione sessuale prenatale, un numero imprecisato non ha neppure diritto alla vita. Nessun paese, nessuna cultura, nessuna donna giovane o vecchia è immune da questo flagello. Per troppo tempo i crimini sono rimasti impuniti e i perpetratori hanno camminato liberamente".
di Giulio Meotti



L’ULTIMA CAMPAGNA CHOC DI OLIVIERO TOSCANI
Il disprezzo del maschile genera solo insicurezza

Avvenire, 29.2.2008
CLAUDIO RISÉ
V i descrivo le foto della campagna 'Contro la violenza sulle donne', affidata a Oliviero Toscani, che campeggiano da ieri sull’ultimo numero del settimanale
Donna Moderna,
oltre che sui siti Internet dei principali quotidiani.
A sinistra un bambino completamente nudo, con sopra la testa il proprio nome: Mario, impresso su una striscia nera e sotto i piedi la scritta: carnefice, anche quella su un graffito nero­sporco. A destra una bimba ricciolina, anche lei nuda, con sopra la testa la scritta: Anna, sempre su una striscia nera, e sotto i piedi la scritta: vittima (sempre sul nero). La pelle bianca dei bambini contrasta col nero-sporco delle scritte, e la violenza delle due parole: carnefice, vittima. Quei due bambini sono già due vittime.
Bisogna avere un cuore ben duro per non provare pietà per queste creature innocenti, esposte sulla stampa nude in un tempo di pedofilia fuori controllo, per veicolare un messaggio di odio fra i due sessi. Quello dei carnefici, i maschi, e quello delle vittime, le femmine. Designati come tali fin dall’infanzia. Perché, il loro status di carnefice, e di vittima, è evidentemente impresso nella loro appartenenza di genere. Un marchio in questo caso scritto sotto due creature prepuberi, ma che, secondo la violenza contro l’infanzia applicata in manifesti recentissimi, potrebbe essere stampato su un braccialetto da neonato: Mario, maschio, carnefice. In un’intervista sul settimanale, alla domanda: «Perché non è Anna a diventare carnefice?», Toscani risponde: «Un po’ dipende dal sangue, dal Dna, non c’è dubbio». La spiegazione conferma, ma è pleonastica.
Quando sotto una figura umana, caratterizzata dal colore della pelle, o dal sesso, si scrive carnefice, il messaggio è: quelli con quella pelle, o quel sesso, sono carnefici.
Messaggi di questo tipo dovrebbero far diminuire l’insopportabile violenza maschile? Ne dubito fortemente. Sarebbe la prima volta che una campagna di discriminazione razziale, fin dall’infanzia, rende più mansueto il gruppo discriminato. I maschi sono già disperati, per non poter salvare i loro figli dall’aborto quando la madre decide altrimenti, per non poterli crescere se si separano, per la moda di discredito sociale che accompagna il loro genere. Infatti, il suicidio tra i maschi è tre volte più frequente che fra le femmine: nel 2004 (ultimo dato disponibile), in Italia vi hanno ricorso 924 femmine contro 3.154 maschi. (Anche le donne uccise da maschi, purtroppo, sono state il triplo degli uomini uccisi dalle donne: 114, contro 21). Al di là di questi dati estremi, ma ugualmente significativi, è di queste ore il risultato di un’indagine organizzata da una brava psicologa, Gianna Schelotto, in una serie di scuole, da cui è risultato che 6 ragazzi su 10 (il 62%) tra i 14 e i 16 anni preferirebbero risvegliarsi donne.
Buon segno? Non tanto.
Antropologia, sociologia, e psicologia, misurano come il malessere identitario alimenti i comportamenti più nefasti.
L’uomo tranquillo e generoso è quello che sa bene che la sua identità ha un valore, e il mondo lo riconosce. Il male bashing,
il disprezzo del maschile, genera solo insicurezza, e devianza. Donne, uomini, e certamente i bambini innocenti spregiudicatamente utilizzati per veicolarlo, hanno tutto da perdervi.


COLLOQUIO SULLA RU486 CON MIA FIGLIA E LE SUE AMICHE
Quell’aborto «leggero» mistificazione che pagherete

Avvenire, 29.2.2008
MARINA CORRADI
— un gran È giorno per le donne italiane, ha dichiarato il ginecologo radicale Silvio Viale in occasione del primissimo passo «istruttorio» in sede Aifa della procedura per l’introduzione della Ru486. E per il presidente della Camera Fausto Bertinotti è una decisione che rassicura sul «grado di civiltà e sul rispetto della persona». Poi, Bertinotti ha definito la Ru486 un «anticoncezionale», in un lapsus infelice che però dice qualcosa di come la pillola per abortire, in quanto «pillola», e dunque all’apparenza cosa semplice che si manda giù con un bicchier d’acqua, viene comunemente percepita.
Leggendo di tanto entusiasmo e civiltà e progresso, mi è venuta in mente mia figlia. Caterina avrà undici anni in estate. È ancora una bambina, ma è già di quella generazione che – se il Progresso procede come deve – dai giornali, dagli amici, dalla tv, da tutto il mondo attorno sarà educata a pensare che, semmai ci si ritrovasse ad aspettare un bambino, è semplice: c’è una pillola. Forse le più avvertite delle sue amiche sapranno che non è una ma sono due, e che non funzionano proprio in un’ora ma in molte, e che te le danno solo in ospedale. Però, insomma, un paio di pillole, ci si dirà nelle confidenze fra quindicenni, e il problema è risolto. Di certo l’idea di una pillola preoccupa di meno che i ferri del chirurgo addosso. Sembra – sembra, soltanto – una soluzione più lieve. E se la soluzione sembra lieve, non diventa meno grave anche la paura di trovarsi nella situazione di abortire? Se accade, pazienza, c’è la pillola che rimette a posto le cose.
Non ragioneranno così quelle che oggi hanno l’età di mia figlia? Non è del tutto naturale che comincino a ragionare così? Ma a mia figlia e alle altre vorrei dire, da madre: guardate che è un inganno doloroso, quello in cui vi conducono. L’introdurre un sistema che abbassa la percezione del dramma che l’aborto in realtà è, non è farvi un favore. È invece una mistificazione, che pagherete voi. Ci cascheranno dentro le più sole, e quelle che riflettono meno.
Scopriranno con un sussulto di aspettare un figlio che non vogliono, e si rincuoreranno: beh, c’è la pillola, ora. Una pillola semplice, e nessun complicato pensiero. Lo crederanno – perché glielo avranno fatto credere. Poi, nelle lunghe ore in cui il veleno agisce, si affacceranno nelle ragazze educate a non pensare i pensieri negati, e ombre, e dubbi, e forse taciti ambivalenti desideri di quel figlio annientato. Ma sarà troppo tardi, in una solitaria silenziosa agonia. L’aborto 'semplice' sarà l’aborto più ferocemente censurato tra sé e sé; quello di cui non si dice con gli altri, non si fa cenno, non si piange. Quello che però torna tagliente come una lama di coltello il giorno in cui stringi felice fra le braccia un figlio (in un pensiero lacerante: il figlio che non è nato, era come lui). Quello che rode dolorosamente se poi nessun figlio, quando lo vuoi, arriva, e tu continui per sempre a ricordarti di 'lui'. ( Queste cose i noti ginecologi non le sanno, e neanche i presidenti della Camera. Le sanno, e le dicono poco, le donne). Caterina e le altre, quello che voglio dirvi è che quest’ultimo ritrovato del Progresso servirà a non riconoscere con chiarezza cosa è davvero in gioco, quando si rifiuta un figlio – a confinare l’aborto in una insostenibile leggerezza. Ma, non esiste un aborto 'leggero'. C’è una radice nella donna, di questi tempi negata, eppure c’è: un figlio, voluto o rifiutato, resta per sempre nella pelle, e nel cuore. Vi diranno: ora basta una pillola. Vi diranno: un bicchier d’acqua, e via. E, spensieratamente, nulla vi diranno del dolore.


INTERVISTA L’economista Vernizzi spiega i meccanismi del sistema basato sulle deduzioni
«Tasse più eque per la famiglia: così si può fare»

Avvenire, 29.2.2008
Un sistema semplice, di immediata applicazione, graduabile nel tempo, assolutamente lineare per la filosofia politica che lo sorregge, saldamente ancorata ai dettati costituzionali. Achille Vernizzi, docente di Statistica economica alla facoltà di Scienze politiche dell’Università degli studi di Milano, è tra gli economisti che più hanno studiato il sistema della tassazione familiare e la proposta avanzata dal Forum delle Associazioni familiari sulla quale domenica saranno raccolte le firme in milletrecento piazze d’Italia. La proposta alla quale si riferisce la petizione è basata sul cosiddetto Bif (Basic income familiare) e consiste nella possibilità di dedurre dall’imponibile il minimo vitale per ogni familiare a carico. I calcoli degli esperti, in una prima approssimazione, parlano di un minimo vitale intorno a 7mila euro l’anno per ogni figlio a carico, da riconoscere senza limiti di reddito. Ma l’attuazione della proposta è appunto graduabile nel tempo.
Partiamo subito da una delle obiezioni principali: questo sistema finirebbe per privilegiare i ricchi.
Non è vero. Penso che in Italia si sia abituati ad una sorta di ossessione redistributiva, che impedisce di guardare le cose come stanno realmente. Per cui quando si deve varare una misura per le famiglie si congegnano sistemi complicatissimi per misurare la condizione economica dei genitori, oltretutto di difficile e costosa verifica per l’amministrazione pubblica.
Ciò non vale invece per altre agevolazioni: rottamazioni di auto e motorini, incentivi per il risparmio energetico, donazioni ai partiti e quant’altro.
La nostra Costituzione, però, sancisce un obbligo di solidarietà: chi più ha, deve pagare tasse in misura più che proporzionale, la cosiddetta progressività delle aliquote, o anche equità verticale.
Certo. E in questo si dimostra che il Bif è un sistema lineare.
Perché non ostacola affatto la redistribuzione di ricchezza tramite la progressività. E anzi, se si volesse renderla anche più consistente, aumentando le aliquote marginali, ciò sarebbe possibile.
Allora dove incide la proposta del Forum?
Nel fatto che il reddito corrispondente alla spesa necessaria, 'vitale', sostenuta per il mantenimento e l’educazione dei figli non può essere tassato, perché viene usato per esercitare un diritto­dovere sancito dalla Costituzione. È anch’esso un obbligo di solidarietà, anzi un obbligo primario verso le nuove generazioni. Quindi questo minimo vitale non può far parte dell’imponibile, cioè del livello del reddito sul quale si calcolano le imposte. Del resto se un genitore non mantenesse il figlio, interverrebbe immediatamente la magistratura ad imporgli l’espletamento di questo obbligo.
Secondo alcuni calcoli, però, il vantaggio è maggiore per i redditi più elevati...
Il fatto è che il Bif riporta la progressività delle aliquote – l’equità verticale – nei suoi giusti canali. Un conto è se impongo aliquote crescenti su quote di reddito successive di un single. In quel caso è evidente che quelle fasce di ricchezza vanno a coprire bisogni via via meno necessari.
Nel caso della famiglia con figli, invece, c’è un effetto improprio della progressività perché aliquote in ascesa vanno a sottrarre reddito via via maggiore da sostanze che hanno la medesima destinazione: coprire i bisogni elementari dei figli. Quindi non è che a queste famiglie il Bif dà di più, ma solo restituisce quello che un uso improprio della progressività ha tolto (o meglio: non glielo toglie più, ndr). Come ha osservato il professor Marco Martini – l’economista che ideò il Bif, scomparso nell’ottobre del 2002 – il problema «non è di “dare” alle famiglie qualcosa in più, ma di smettere di sottrarre alle famiglie con figli qualcosa che esse non dovrebbero versare, riparando un’ingiustizia nei loro confronti che perdura da troppi anni». E attenzione: il dato da monitorare non è il reddito in sé ma il numero dei figli a carico. Come afferma un ben noto adagio: 'Un panino da due euro, quando hai moglie e due figli, ne costa 8'. In ogni caso, le soluzioni tecniche possibili sono svariate, la cosa importante è che il minimo vitale diventi una sorta di parametro di riferimento della politica familiare da aggiornare periodicamente, la base di una no tax area familiare valida per tutti.
C’è anche chi accusa il Bif di disincentivare l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro. È così?
Niente di più falso. Si può dire anzi che è esattamente il contrario. Gli attuali interventi per la famiglia sono basati sulle 'trappole della povertà', cioè a dire che se una donna, o un uomo, nella sua giusta realizzazione professionale arriva a guadagnare di più, perde progressivamente le agevolazioni di cui godeva per i figli. Insomma, è come se per lo Stato valesse questo monito: 'se vuoi il riconoscimento sociale del valore del figlio, rinuncia alla tua realizzazione professionale'. Questo sì che è un disincentivo al lavoro, tanto delle donne che degli uomini.
Questo invece non accade con il sistema del Bif, con le deduzioni, a cui si ha sempre diritto, anche nel caso delle famiglie 'incapienti' (cioé con redditi così bassi da non usufruire pienamente dei benefici fiscali, ndr), attraverso la restituzione dell’imposta negativa, un versamento da parte dello Stato. E poi la proposta del Forum lascia i coniugi liberi di scegliere le strategie migliori per la gestione della loro famiglia, senza condizionare a determinate soluzioni l’intervento. Dunque è la piena attuazione delle pari opportunità.
Il Forum sostiene inoltre che il Bif è il superamento dell’assistenzialismo.
Infatti si tratta di scegliere chiaramente tra due impostazioni. Da una parte quella di una sorta di dirigismo dello Stato che prima tassa le famiglie e poi eroga un intervento stabilito sulla base dei suoi criteri di ingegneria politica, o sociale. Dall’altra parte, invece, c’è il riconoscimento del valore di un figlio per tutta la collettività, la logica della sussidiarietà per cui non si deve mortificare la famiglia, togliendole quelle risorse che sono necessarie al mantenimento dei figli. Si tratta di intraprendere chiaramente questa seconda strada. È importante che si parta rispettando il criterio di riconoscimento universale del valore di ogni figlio, questo lo si può fare anche con una prima approssimazione del minimo vitale (cioè una cifra inferiore ai 7mila euro all’anno ipotizzati, ndr), che sarà poi raggiunto via via integralmente.
Si tratta di iniziare una rivoluzione culturale, che ha al centro la cittadinanza sociale e fiscale della famiglia. Ciò che appare fondamentale è imboccare questa strada, magari percorrendola poi in tappe successive. Tutto ciò con il Bif è possibile perché è un sistema semplice, di immediata applicazione, graduabile nel tempo.
Pierluigi Fornari


29.02.2008, La bussola del cristiano di fronte alla politicaGiorgio Vittadini, Il Giornale