Nella rassegna stampa di oggi:
1) «La Madonna ci chiede preghiera e penitenza»
2) NATI PREMATURI NOI SALVIAMO I PIÙ DEBOLI
3) L'albero della vita
4) «Ramadan cattolico». L'Olanda ribattezza la Quaresima
5) «Parlare di diritti è tradire lo spirito olimpico»
6) «Una risposta cristiana all’emergenza educativa»
7) La «scoperta» laica: anche il feto è una persona
8) Fede & scienza: un pro-memoria di chiarezza
9) Darwin tradito?
10) «Per contestare la contestazione mi feci prete»
11) La sciagurata tentazione di far le riorme da soli
«La Madonna ci chiede preghiera e penitenza» Avvenire, 14 febbraio 2008
DA ROMA
Il processo di beatificazione e canonizzazione di suor Lucia dos Santos, la carmelitana nota al mondo intero come la maggiore dei tre piccoli veggenti di Fatima, potrà cominciare subito, a soli tre anni dalla morte e non dopo cinque come prevedono le norme canoniche. La notizia è stata data ieri sera in Portogallo dal cardinale José Saraiva Martins, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, nel corso di una messa concelebrata a Coimbra, insieme al vescovo locale Albino Mamede Cleto, proprio per ricordare la figura della carmelitana a tre anni dalla scomparsa, avvenuta il 13 febbraio 2005 a quasi 98 anni di età.
«È per me – ha detto il cardinale davanti ad una folla di fedeli – una profonda gioia essere latore di una notizia che ha del sensazionale ». Ed ha aggiunto: «Le norme giuridiche attualmente in vigore richiedono che trascorra un quinquennio dopo la morte per poter iniziare la causa di beatificazione di un Servo di Dio. Orbene, secondo tali norme, sarebbe necessario attendere ancora due anni per poter dare inizio al processo di beatificazione di suor Lucia. Il Santo Padre, però, tenendo conto delle numerose richieste, provenienti da tutto il mondo, si è benignamente degnato di concedere la dispensa dai due anni, richiesta da monsignor Mamede Cleto, permettendo così che la causa di beatificazione e canonizzazione della monaca carmelitana depositaria dell’apparizione di Fatima possa cominciare quanto prima». Il cardinale quindi ha letto, «con vero piacere», il decreto attuativo della decisione pontificia, emanato dal dicastero da lui presieduto, e redatto in latino.
La decisione di concedere la dispensa era stata presa durante l’udienza che il Papa aveva concesso al cardinale Saraiva Martins il 17 dicembre dello scorso anno. Ma la notizia è rimasta segreta, poi l’annuncio a sorpresa di ieri. Fino all’ultimo le consorelle di Lucia e i fedeli si sono chiesti il perché della eccezionale presenza del porporato a Coimbra per una ricorrenza che sembrava essere 'di routine'. Ora la diocesi lusitana ha facoltà di iniziare le procedure che potranno portare suor Lucia all’onore degli altari, dove 'raggiungerà' la cuginetta Giacinta e il cuginetto Francesco che, morti in tenera età, sono stati già proclamati beati da Giovanni Paolo II il 13 maggio 2000.
Il provvedimento annunciato ieri è assolutamente eccezionale, come d’altronde eccezionale è la storia di Suor Lucia, la cui figura è indissolubilmente legata alla apparizioni mariane che cominciò ad avere a partire dal 13 maggio 1917.
Ieri, comunque, nella sua omelia pronunciata durante la messa, il cardinale Saraiva Martins ha ricordato come «la conversione dei peccatori, la penitenza e il sacrificio sono le grandi parole suggerite a Fatima dalla Madonna e che hanno formato la trama quotidiana della vita di suor Lucia, fino all’ultimo istante su questa terra, come affermano le persone che hanno vissuto con lei». E riguardo al cosiddetto 'terzo segreto', poi, il porporato portoghese ha voluto citare una breve nota biografica su suor Lucia redatta dalla sua priora al Carmelo di Coimbra: «Il fatto che si facesse tanta speculazione attorno al Segreto era per lei – suor Lucia – motivo di sofferenza. Prima che fosse rivelato, era solita dire con un po’ di tristezza: 'Se si impegnassero a vivere l’essenziale, che è già stato detto!… si preoccupano solo di ciò che rimane da dire, invece di compiere ciò che è stato richiesto, preghiera e penitenza!'».
Con la dispensa annunciata ieri la figura di suor Lucia diventa la terza candidata agli altari a superare il vincolo rappresentato dal punto 9a delle 'Norme da osservarsi nelle inchieste diocesane nelle cause dei santi', emanato dalla Congregazione delle cause dei santi nel 1983, dove si stabilisce che «nelle cause più recenti, il libello di domanda non può essere presentato prima di cinque anni dalla morte del servo di Dio».
Finora, infatti, la dispensa era stata concessa solo in altri due casi. Alla fine del 1998 Giovanni Paolo II la concesse per la causa di Madre Teresa di Calcutta, morta il 5 settembre 1997 e proclamata beata il 19 ottobre 2003. Il 28 aprile 2005, poi, Benedetto XVI ha concesso la dispensa per la causa del suo predecessore, scomparso 26 giorni prima. La dispensa venne concessa nel corso di una udienza concessa al cardinal Vicario Camillo Ruini cui seguì, il successivo 9 maggio, il relativo decreto della Congregazione.
Gianni Cardinale
NATI PREMATURI NOI SALVIAMO I PIÙ DEBOLI
DINO PEDROTTI risponde ad Arisi.
Di Rassegna Stampa (del 12/02/2008)
Non si può lasciar passare senza commenti l’articolo con l’intervista al dott. Arisi sulla cosiddetta «Carta di Roma», pubblicato il 6 febbraio. Questa «Carta» riguarda l’assistenza ai nati molto prematuri, non certo prima della loro nascita e tanto meno «prima della loro nascita e tanto meno «prima della vita» come titola il pezzo. un documento sottoscritto anche da primari ostetrici romani, in linea con una Carta di Firenze sottoscritta due anni fa dalle Società di Ostetricia e Neonatologia, alla cui stesura definitiva ho partecipato anch’io; in essa si proponevano a ostetrici e neonatologi comportamenti diversi a seconda delle diverse settimane di gravidanza (da 22 a 25). La Carta di Roma è più generica e afferma che, in accordo con ormai innumerevoli prese di posizione mondiali, dalle 23 settimane compiute in poi il medico deve intervenire a seconda della «vitalità del neonato» (non del «feto» come più volte si esprime erroneamente Arisi). E quindi la decisione sulla vitalità sì o no compete al neonatologo che assiste alla nascita. Tutto chiaro. Anche perché il Comunicato nr. 20 del 22.1.08 del Ministero della Sanità aveva ben spiegato come comportarsi nella 24.ma settimana: «quando sussistano condizioni di vitalità, il neonatologo, coinvolgendo i genitori nel processo decisionale, deve attuare adeguata assistenza, che sarà proseguita solo se efficace». Non è previsto nessun «accanimento». E questo lo si dirà chiaro anche nel prossimo documento del Comitato Nazionale di Bioetica. Arisi sa che a Trento avevamo idee chiare su come comportarci fin dal 1992 (»zona grigia» a 23-24 settimane: idee esposte in vari convegni nazionali, da Trapani a Varese). In Trentino abbiamo tre bambine sane e già grandi, nate a 23 settimane. Di fronte alla loro vitalità non avemmo nessun dubbio ad assisterle. Ne scrivemmo su Neonatologia trentina proprio due anni fa. Consiglio di rileggere queste testimonianze. Deve esser chiaro a tutti che, quando nasce un neonato piccolo piccolo, dopo il taglio del cordone questi diventa cittadino a tutti gli effetti secondo il Codice Civile e la madre non può invocare «diritti di proprietà», intervenendo contro le scelte del medico rianimatore. Lei e il padre devono senz’altro «essere coinvolti» e le loro opinioni devono essere tenute in massima considerazione. Il ministro Turco in TV a «Otto e mezzo» ha approvato la Carta e queste scelte, che - è stato ribadito - non sono assolutamente in contrasto con la legge 194. Incomprensibili quindi le reazioni delle femministe e dei soliti laicisti. Come ci sono molte discriminazioni «di genere» tra uomini e donne, così ci sono ancora più discriminazioni tra grandi e bambini, legate alla «piccolezza». Più uno è debole più diritti dovrebbe avere! I bambini non devono essere per nessuno «oggetti di proprietà», ma soggetti protagonisti della loro vita, della loro nascita. Se io, grande, per un incidente ho il 70% di probabilità di morire con possibili danni neurologici, il medico mi rianima, anche contro il parere di mia moglie. E così si rianima un bambino grave di un mese. Non capisco perché si usi un metro diverso per il neonato in sala parto. Eppure la legge è uguale per tutti! E’ vero che in Olanda ostetrici e pediatri di Groningen non rianimano neonati fino a 25 settimane e praticano l’eutanasia attiva a nati malformati su richiesta dei genitori. «Infanticidio? No è amore» (Corriere della Sera 4.12.07). Magari Arisi e Veronesi sono d’ accordo, ma contro l’opinione della stragrande maggioranza dei bioeticisti. Il primario Arisi irride a questa Carta: sarebbero»esternazioni cerebrali» (dei suoi colleghi), «esercizi mentali fuori dalla realtà». Secondo me, troppe sue parole sono «fuori dalla realtà», lontane quel che realisticamente si attua nel suo reparto; come Veronesi, sogna un mondo in cui, quando la prevenzione non funziona, si ha il diritto ad eliminare un figlio nel momento in cui è piccolo piccolo. Deve essere chiaro che questa non è prevenzione. Si elimina la malformazione eliminando in modo cruento il piccolo soggetto malformato; come se per eliminare un tumore si uccidesse il portatore. *** La 194 c’entra poco poco con la Carta di Roma. Come dice Arisi, il feto non può essere abortito quando ha possibilità di vita (dopo le 22 settimane, come si riconosce in tutto il mondo), salvo per «gravi motivi fisici» della madre e non per rifiuto di un figlio. E solo in questo caso è prescritta l’adozione di»ogni misura idonea a salvaguardarne la vita». In questi casi le «gravi
condizioni fisiche» della madre difficilmente le dovrebbero permettere di partecipare all’evento. L’esempio dell’anencefalia è ridicolo. Mai si rianima un bambino col 100% di rischio di morire. E nessuno «predica la rianimazione di un feto quando sono nulle le prospettive di vita» (qui c’è il dente avvelenato di Arisi contro i cattolici, che malgrado certi toni integralisti sono più vicini a queste realtà rispetto ad Arisi). Io ricordo il caso di un anencefalo che da solo ha respirato per un giorno (e l’abbiamo assistito con cure «compassionevoli»), mentre la madre mi ripeteva angosciata che lei «non ha un figlio», perché secondo gli ostetrici doveva nascere e morire subito. Ostetrici fuori dalla realtà, ovviamente. Quanto ai tassi di abortività per 1000 nati è vero che in Italia dal massimo di 288 (1984) sono calati del 40% in otto anni (172 nel 1992), ma negli ultimi 15 anni sono migliorati di ben poco (167 nel 2004). La 194 non dà «diritto all’aborto» ma lo depenalizza e nei primi articoli dà molti diritti al bambino di non essere abortito. Non c’entra qui «il volere divino» (che talora ci complica i ragionamenti), ma «il nostro volere» di essere dalla parte del bambino, un essere molto più debole di sua madre. Dino Pedrotti ex primario di Neonatologia del Santa Chiara
L'albero della vita
Di Francesco Agnoli
(13/02/2008)
Di Matteo Graziola: "È difficile per noi uomini della civiltà tecnologica immaginare come poteva essere la percezione della natura da parte dei nostri più lontani antenati. La nostra rinnovata sensibilità per l'ambiente e per la «tutela del verde » si limita interamente alla sfera biologica ed estetica: sentiamo di aver bisogno di un ambiente biologicamente sano e di uno scenario esteticamente gradevole, ma non riusciamo ad andare al di là di queste dimensioni, pur avvertendo fortemente e anche fastidiosamente che ci sfugge qualcosa di assolutamente decisivo. L'uomo primitivo e quello antico, molto meno sviluppato di noi sul piano del patrimonio concettuale e scientifico, non era però meno dotato rispetto a noi della straordinaria e misteriosa capacità dello spirito umano di avvertire e cercare ciò che sfugge ai calcoli utilitaristici. Gli antropologi constatano infatti con comprensibile stupore il manifestarsi di questa insopprimibile indole metafisica dell'uomo fin dai primi segni lasciati dall'essere umano sulla terra. Attraverso di essi i nostri più lontani padri ci hanno lasciato la testimonianza della loro «ontologia », cioè la percezione del mistero dell'essere: da questo mistero si sentivano generati, avvolti, chiamati, affascinati, nonostante tutte le grandi difficoltà della loro esistenza e la rudimentale capacità di espressione di cui potevano disporre. La loro immersione totale in una natura che era insieme fonte di sofferenze ma anche di continua esperienza di bellezza non poteva non generare in loro l'intuizione di questo mistero, di cui rinvenivano ovunque i segni. Uno di questi segni, il cui utilizzo simbolico si perde nella notte dei tempi e che viene alla luce in molteplici modi tra le più antiche tracce visibili delle primitive civiltà, è quello dell'albero, studiato da Maria Teresa Lezzi, storica dell'arte e delle religioni, venuta dalla Lombardia e residente in Trentino, in un testo recentemente pubblicato dalla casa editrice Itaca: L'Albero della vita. Con l'introduzione di due studiosi di fama internazionale di storia delle religioni e storia dell'arte, Julien Ries e Piotr Skubiszewski, il testo mostra l'importanza e l'ampiezza del simbolismo dell'albero riunendo e confrontando i testi e le immagini che lo traducono. Questa è l'idea madre del libro che ne costituisce la sua vera originalità. Dottoressa Lezzi, cosa si intende anzitutto per «albero della vita»? «Per gli uomini primitivi l'albero è stato d'importanza fondamentale: segnalava la presenza dell'acqua, offriva ombra, forniva il legno che serviva per la costruzione di utensili e abitazioni e per accendere il fuoco, era fonte di nutrimento con i suoi frutti. L'uomo ha vissuto una tale simbiosi con l'albero che aveva l'impressione di ricevere l'esistenza stessa da esso. La maestosità di alcuni alberi, il fruscio delle foglie, il silenzio delle foreste suscitava negli uomini la sensazione di grandiosità e di mistero. Mai un albero fu adorato per se stesso, ma sempre per quel che rivelava. Eliade scrive che per l'esperienza religiosa dell'uomo arcaico l'albero rappresenta una potenza che è dovuta sia all'albero in quanto tale, che alle sue implicazioni cosmologiche. Esso diventa manifestazione del sacro proprio nella sua forma e modalità biologica: perché è verticale, cresce, perde le foglie e le riacquista, "muore" e "resuscita" innumerevoli volte, ha la sua linfa, porta frutti. È simbolo del carattere ciclico dell'evoluzione cosmica. Mette in comunicazione i tre livelli del cosmo: l'inferno per le sue radici che penetrano nelle profondità, la terra per il suo tronco, le altezze per i suoi rami e la sua cima innalzati verso il cielo: diventa Albero cosmico, Axis mundi, che si erge al centro dell'Universo. Esso esprime la sacralità stessa del mondo; la sua fecondità e perennità è in relazione con le idee di creazione e fertilità, d'iniziazione e in ultima istanza con l'idea d'immortalità. Così l'Albero del Mondo diventa anche l'Albero della vita». Il primo capitolo del suo libro è dedicato allo studio di questa simbologia all'interno delle civiltà antiche. In quali di queste civiltà si ritrova questo archetipo simbolico? «Certamente nella civiltà mesopotamica in cui l'albero kiskanu presenta le caratteristiche dell'Albero Cosmico, infatti si trova a Eridu, luogo sacro per eccellenza, è considerato il prototipo dell'albero sacro babilonese la cui iconografia è così diffusa nelle antiche civiltà del Vicino Oriente. Nell'epopea sumerica il mitico eroe Gilgames parte alla ricerca della pianta della vita che rende immortali. Anche nella tradizione
iranica appare l'Albero della vita e della rigenerazione, l'haoma o Gaokerena, che dà l'immortalità a chi si nutre di esso, conosciutao fino in India». Qual era in sintesi il messaggio culturale che questa simbologia veicolava all'interno delle civiltà antiche? «Alle civiltà mesopotamica e iranica abbiamo già accennato, mentre in Grecia e a Roma l'albero era protetto dalla divinità o abitazione di essa, come riferisce Plino il Vecchio nella sua Storia Naturale. Nell'antico Egitto emerge un legame con il culto dei morti, poiché l'albero del sicomoro viene identificato con la dea Nut che dispensa cibo e bevanda ai defunti». Il secondo capitolo riguarda la storia giudeo-cristiana: assistiamo a delle mutazioni semantiche radicali? «Riguardo all'Albero della vita nel paradiso terrestre, i biblisti hanno rilevato un'analogia con l'albero della vita mesopotamico, mentre l'esegesi e l'iconografia diventa dalle origini la prefigurazione della Croce. Essa si dice a volte realizzata con il legno dell'Albero della Conoscenza del Bene e del Male e più spesso con quello dell'Albero della Vita. Ma nella stessa esegesi e nell'iconografia l'Albero del peccato è spesso compreso e superato dall'Albero della Vita. Questo infatti appare già chiaramente identificato con la Croce e con Cristo stesso in scene del Peccato Originale. L'Albero della Vita, posto al centro del paradiso terrestre, irrigato dai quattro fiumi del paradiso, è già presente nel profetismo ebraico - nel libro di Enoch - come simbolo della salvezza messianica, anzi è la stessa sapienza di Dio, come affermato dal libro biblico dei Proverbi. Nella stessa immagine l'apocalittica cristiana vede il compimento della Redenzione. Ma sopravviene qualcosa di decisamente nuovo: "un diritto all'Albero della Vita", come afferma il libro dell'Apocalisse; esso è prerogativa solo di coloro che hanno lavato i loro abiti nel sangue dell'Agnello. Fra l'Albero della Vita del paradiso terrestre e quello del paradiso degli ultimi tempi, il cristiano vede ergersene un terzo: la Croce». Il terzo capitolo tratta dell'albero nelle civiltà non cristiane: che relazione vede tra la forza di tale simbolo e i percorsi religiosi dell'umanità? «Il simbolismo dell'Albero Cosmico è uno dei più fecondi e universali che abbia conosciuto l'umanità per spiegare la costituzione dell'Universo e il posto che l'uomo deve occuparvi ». Il Trentino è ricchissimo di alberi ad alto fusto: tale simbolo è presente nell'arte locale? «Sì, nelle decorazioni delle culle lignee come simbolo di fecondità e abbondanza».
OLANDA IN DECLINO...
«Ramadan cattolico». L'Olanda ribattezza la Quaresima
L’idea della Chiesa per raccogliere fondi: «Nessuno conosce l’evento cristiano, tutti quello islamico. Così ci faremo capire»
di Andrea Morigi
Ai cattolici olandesi è venuta in mente un'idea per spianare la strada al dialogo tra l'Islam e la Chiesa. Hanno coniato la formula "Ramadan cristiano" per lanciare la "campagna della Quaresima", secondo il comunicato diffuso il mercoledì delle Ceneri dall'opera caritativa Vastenaktie. Tecnicamente, il paragone è improponibile, perché nel mese di Ramadan si ricorda la discesa del Corano tra gli uomini, mentre la Quaresima è un tempo di preparazione alla passione, morte e risurrezione di Cristo. A rigore, se i musulmani ritengono che la manifestazione principale del Verbo di Dio sia il Corano, per i cattolici dovrebbe corrispondere al 25 marzo, ricorrenza dell'in carnazione.
LA QUESTUA PASQUALE
Ma Martin van der Kuil, responsabile della campagna, non va tanto per il sottile, perché, dice, nei Paesi Bassi «con tutta l'attenzione rivolta all'islam la nostra tradizione sembra sotto pressione». Benché digiuni, sacrifici e penitenze non siano considerati atti da propagandare, Vastenaktie (Attività per la Quaresima) fa parte dell'associazione assistenziale cattolica Cordaid. E loro devono far soldi, mica stare a lambiccarsi con la teologia. Hanno degli obiettivi da raggiungere, come impongono le regole del fundraising In questa prima fase, diversi milioni di famiglie cattoliche stanno ricevendo in questi giorni la tradizionale busta per la colletta e il materiale divulgativo. Poi sarà il turno dei quattromila volontari, riuniti in più di 1.000 gruppi locali, che passeranno per la questua nelle prossime settimane. Allora bisogna far parlare di sé, risvegliare l'attenzione degli organi di informazione, in un curioso contesto secolarizzato in cui «cresce l'ignoranza sul periodo di preparazione alla Pasqua, ma tutti sanno cosa è il Ramadan, e questo accade perché i media dedicano poca attenzione alla Quaresima; ne dedicano molta al Carnevale, ma poca a ciò che lo segue». Se accade, casomai, è perché, come già da tempo riconoscono i vescovi cattolici, si stima che entro il 2010 due terzi della popolazione olandese tra i 21 e i 70 anni non avrà nessuna appartenenza religiosa. la fisionomia religiosa dei Paesi Bassi, fra due anni, si prevede sarà composta per il 13% di cattolici, per il 9% da protestanti, per il 6% da musulmani e per il 4% da altre denominazioni.
FEDELI IN DECLINO
Per i fedeli di Santa Romana Chiesa, che attualmente arrivano al 21%, parlare di declino inarrestabile è obbligatorio. Concludendo un rapporto del 2004, i vescovi segnalavano con preoccupazione che «per oltre 30 anni il quadro è stato dominato dalla riduzione, in termini di credenti, preti e religiosi, vocazioni, parrocchie ed edifici di culto. Questo ci ha messi tutti sotto pressione, ma non abbiamo ancora raggiunto un punto di svolta». Per contrastare il fenomeno, nel decennio tra il 1993 e il 2003, le gerarchie avevano indicato una strategia rivolta a tre aree sensibili: il rafforzamento dell'identità dei cattolici, la costruzione della loro mutua solidarietà, l'espan sione della rilevanza sociale della Chiesa. Senza ottenere risultati di grande rilievo, se attualmente il 68 per cento dei fedeli dichiara di non condividere la dottrina cattolica su temi come l'aborto, il matrimonio gay e il divorzio.
MUSULMANI DIVISI
Non è detto però che, con il gesto provocatorio, si riesca a ottenere di meglio. L'effetto prevedibile più concreto sarà l'ostilità dei fondamentalisti. Il paragone tra il mese sacro dell'islam e i tempi liturgici dei "miscredenti" potrebbe essere visto come un'offesa di cui vendicarsi. Ma non tutti la pensano così. Mentre una minoranza si radicalizza e provoca l'esodo degli imam più moderati dalle moschee di Amsterdam, Utrecht e dell'Aia, per reazione si diffondono a macchia d'olio i gruppi di ex musulmani, che chiedono protezione alle autorità dalle violenze dei fanatici. Sono accusati di essere apostati, fra l'altro perché non seguono le regole della legge coranica, che durante il Ramadan impone di non alimentarsi e non avere rapporti sessuali prima del tramonto. E ora che perfino i cattolici dimenticano di associare il Ramadan alla sharia e alla repressione degli infedeli, si sentono ancora più abbandonati.
LIBERO 12 febbraio 2008
«Parlare di diritti è tradire lo spirito olimpico»
DI BERNARDO CERVELLERA
Avvenire, 14.2.2008
« P echino è pronta!»: lo slogan che tutte le televisioni, radio, giornali, cartelli stradali riportano ad ogni piè sospinto dice qualcosa del nervosismo con cui la capitale cinese si sta preparando a quello che viene visto come l’evento più importante da almeno 50 anni. Il governo della città e la stessa Cina puntano sulle Olimpiadi per mostrare finalmente una Cina alla pari con tutte le maggiori nazioni del mondo, una Cina aperta, amichevole, vittoriosa sul piano dello sport e della cultura, oltre che su quello economico.
Dopo l’inaugurazione del Cubo d’acqua, l’avveniristico quartiere delle piscine e dei tuffi, si aspetta il varo dello Stadio nazionale, il famoso “nido d’uccello”, il cui modello viene presentato ovunque, anche nei ristoranti. Da mesi Zhang Yimou, il regista di «Lanterne Rosse» e «La città proibita» prova e riprova la cerimonia di apertura con migliaia di comparse, pur mantenendo il “segreto di Stato” sui particolari. Si sa solo che vi saranno brani di opera cinese e fuochi d’artificio. Anche la campagna per la buona educazione sta dando frutti: i tassisti – pena delle multe salate – devono lavarsi tutti i giorni, pulire l’auto per togliere cattivi odori, imparare qualche frase in inglese per accogliere gli ospiti stranieri. Ogni buon cinese non deve più sputare per terra, non deve gridare, non deve mai saltare la fila ai biglietti, alla banca, ai negozi. Da giorni 200mila poliziotti stanno ripulendo la città da bande e malviventi e si cerca di migliorare la qualità dell’aria. Pechino ha promesso che per alcuni mesi farà perfino chiudere alcune fabbriche inquinanti per dare agli atleti un’aria pura (o quasi).
Al di là di questi buoni risultati, il nervosismo rimane grande: la Cina in questi mesi sarà sotto i riflettori di tutto il mondo, e la leadership teme critiche dall’esterno perché fanno perdere la faccia e rischiano di alimentare il grande malcontento diffuso nella popolazione.
I fallimenti su cui la Cina è inciampata in questi mesi non sono un buon segno: lo scorso fine ottobre, all’apertura delle prenotazioni dei biglietti per le cerimonie olimpiche, il sistema elettronico è andato in tilt; nei giorni scorsi, a causa del maltempo, le linee elettriche sono saltate in 16 delle 31 province cinesi, mettendo in dubbio la «prontezza» di Pechino, visto che per tre settimane intere città sono rimaste senza riscaldamento e senza luce.
Ma soprattutto Pechino non sembra pronta a farsi conoscere per quello che è, nelle sue cose belle, ma anche nelle sue cose brutte. Solo adesso cominciano ad emergere notizie su quante persone sono state espropriate delle loro case per far posto agli impianti e ai villaggi olimpici: almeno 1,5 milioni. Solo ora il governo confessa che vi sono stati (ufficialmente) 6 morti sui cantieri dei Giochi.
Oltre a questo, la Cina non sembra disposta a condividere di più: pur lasciando «libertà » ai giornalisti stranieri, ha vietato a tutti i giornalisti cinesi di parlare dei problemi del Paese; rivendicando che i Giochi non devono essere usati politicamente, la polizia sta facendo piazza pulita di dissidenti, attivisti per i diritti umani, poveri contadini che si recano nella capitale per presentare petizioni. Ogni richiesta interna ed esterna di usare i Giochi per migliorare la situazione dei diritti umani è scartata come manipolazione politica e come «tradimento dello spirito olimpico». In questo Pechino è aiutata dal Comitato olimpico internazionale (Cio) che ha ridotto le sue pretese. Nel 2001 aveva detto che le Olimpiadi avrebbero migliorato i diritti umani in Cina; oggi dice che il Cio non è un’organizzazione umanitaria e può non preoccuparsi delle violazioni ai diritti umani.
Proprio perché la Cina vuole solo dare spettacolo, ma non farsi conoscere, l’arma migliore non è il boicottaggio dei Giochi, ma il parteciparvi, visitando non solo i monumenti sportivi, ma anche i poveri e i diseredati dell’Impero.
È quanto stanno pensando gruppi di buddisti tibetani, che vogliono entrare in massa a Pechino per pubblicizzare davanti alle telecamere del mondo intero le violenze della Cina contro il Tibet e il Dalai Lama. Anche protestanti brasiliani e americani si preparano da anni, studiando il cinese, a sfruttare la facilità dei visti in occasione delle Olimpiadi per evangelizzare il Paese importando migliaia di bibbie e allestendo incontri informali con la popolazione.
Pechino ha già avvertito che permetterà solo raduni «in accordo con la legge», in cui cerimonie fra fedeli stranieri e cinesi vengano svolte sotto l’egida e la supervisione dalle Associazioni Patriottiche, registrate e controllate. Negli ultimi mesi la Cina ha espulso o deportato oltre 100 presunti missionari, soprattutto di Stati Uniti, Corea del Sud, Singapore, Canada, Australia e Israele. Le espulsioni sono avvenute a Pechino e nelle regioni di Xinjiang, Tibet e Shandong. E a rincarare la dose, ha lanciato una campagna di «normalizzazione» delle comunità protestanti, arrestando migliaia di fedeli delle comunità sotterranee.
Il monito del governo che non è pronto a rivelare il suo vero volto Retate, le cosmesi forzate e i divieti in campo religioso
«Una risposta cristiana all’emergenza educativa» Aprendo il convegno dei direttori diocesani e regionali di pastorale scolastica il cardinale Caffarra ha sottolineato la necessità che la visione credente della vita trovi spazio nella scuola pubblica. Stenco: individuare le priorità pedagogiche e didattiche dei docenti di oggi
Avvenire, 14.2.2008
DA BOLOGNA
STEFANO ANDRINI
«Non sto proponendo la matematica, la biologia, la fisica cristiana! Ma se la scuola può farci uscire dall’emergenza educativa in cui ci troviamo allora la presenza della proposta cristiana dentro di essa, nelle condizioni proprie di una società plurale e a democrazia procedurale, non può essere emarginata o eliminata ». Lo ha affermato il cardinale Carlo Caffarra nella relazione che ha aperto ieri il convegno nazionale dei direttori diocesani e regionali di pastorale scolastica. «L’emergenza educativa – ha ricordato l’arcivescovo di Bologna – consiste nel fatto che si è interrotta la 'narrazione della vita' tra le generazioni. La scuola ha la capacità di riprendere questa narrazione». In primo luogo mediante le materie che insegna. «Educare attraverso lo studio delle varie discipline – ha osservato Caffarra – significa trasmettere 'la sapienza umana come tale', ma in modo che l’alunno sia risvegliato tramite gli insegnamenti dal 'sonno della ragione'. E questo non vale solo per le materie umanistiche». Perché, ha spiegato citando il testo di un insegnante di matematica «chi conosce il metodo scientifico, riesce a porsi in modo critico di fronte al- l’abuso di linguaggio scientifico che ci circonda, riconosce la divulgazione scientifica autentica distinguendola dalla pretesa di dare solo aspetto scientifico a fatti proposti per interesse economico o ideologico».
Ma la scuola può farci uscire dall’emergenza educativa anche a causa di ciò che è: una comunità dove «nella dolcezza della vita comune cercare la verità». «Dopo la tragica uccisione di Raciti – ha ricordato Caffarra – un gruppo di ragazzi di un liceo di Catania scrisse agli insegnanti per chiedere che li aiutassero a trovare le ragioni per cui vale la pena vivere. La risposta fu che loro, gli insegnanti, erano pagati per insegnare non per offrire ragioni per vivere». Secondo il cardinale il compito dell’insegnante, è invece «con-vivere col suo alunno. Cioè: illuminare il cuore dell’alunno attraverso ciò che insegna, offrendo attraverso questo insegnamento la propria e- sperienza umana». Soffermandosi sul ruolo della comunità cristiana il cardinale ha sottolineato che la Chiesa è il soggetto vivente di una tradizione, elemento essenziale di quella grande «narrazione della vita» che ha forgiato il nostro popolo. In questa prospettiva ha affermato Caffarra «la stoltezza di dover risolvere il problema reale della pluralità con una sorta di azzeramento di tutte le identità, è dal punto di vista educativo devastante. È poi contro la dignità dell’uomo risolverlo imponendo una visione della vita contro le altre: le più grandi tragedie del XX secolo – nazionalsocialismo e comunismo – sono nate da questa decisione». Esiste una sola via, a parere dell’arcivescovo. «Entrare nel dibattito pubblico esibendo le ragioni che dimostrano la verità della visione cristiana della vita. Un’interpretazione che può e deve essere offerta dentro la scuola gestita dallo Stato come ipotesi educativa sulla quale l’alunno possa compiere la verifica della sua vita». Presentando il convegno monsignor Bruno Stenco, direttore dell’Ufficio nazionale della Cei per l’educazione, la scuola e l’università ne ha ricordato gli obiettivi. «Vogliamo – ha detto – individuare le priorità pedagogiche e didattiche che contribuiscono oggi a definire l’identikit del docente e i tratti essenziali della sua professione». Per quanto riguarda le associazioni professionali, (il loro rilancio è «una priorità pastorale») ha aggiunto: «Aimc, Uciim, e Diesse dovrebbero dar vita ad un discernimento comune per un’azione concertata capace di incidere sulle politiche di riforma della scuola. È importante infine che l’associazionismo professionale cattolico si arricchisca dell’adesione consapevole dei docenti di scuola cattolica e degli insegnanti di religione cattolica»
La «scoperta» laica: anche il feto è una persona
Il «New York Times» dedica un lungo articolo al dolore del feto: anche il mondo liberal americano si accorge che a parere della scienza tra il bambino nella pancia della mamma e quello che ne è uscito non c’è alcuna differenza fisiologica Chi piange, scalcia, ha un cuore che batte e un Dna come quello di tutti i già nati, è una persona
Avvenire, 14.2.2008
di Carlo Bellieni
In Francia da gennaio anche i genitori dei bambini nati morti dalla 22esima settimana possono usufruire del congedo per maternità (secondo una raccomandazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che riconosce la 'viability', cioè la possibilità di vita, al bambino nato dalle 22 settimane di gestazione); e una recente sentenza della Corte di Cassazione d’oltralpe ( vedi articolo qui sotto) decreta che i feti nati morti possano essere registrati all’anagrafe indipendentemente dal peso e, si noti, dalla durata della gestazione. La sentenza segue la richiesta di tre famiglie che non volevano essere private della possibilità di piangere i piccoli deceduti prima di nascere ad un’età gestazionale tra 18 e 21 settimane. L’ex ministro della Sanità François Mattei, secondo l’agenzia Genethique, afferma che questo mette fine a un paradosso: «Le coppie vedono il figlio grazie all’ecografia, gli danno un nome, lo sentono muoversi, ma se muore è come se non fosse esistito». Già: è importante, per l’elaborazione del lutto, poter costatare la realtà del corpo del defunto, anche di quello piccolissimo. È una decisione storica in un Paese che permette l’interruzione di gravidanza, ma dove non si dubita che la gravidanza interrotta provoca la morte di una persona, tanto da farla registrare all’anagrafe con un nome.
A conferma di questa inversione laica di tendenza, il New York Times di domenica scorsa riportava un lungo articolo sul dolore del feto, spiegando che ormai è un argomento di cui non si giovano solo i gruppi pro-life ma la scienza stessa. E cita i lavori di Sunny Anand, Robert Fisk e Vivette Glover: il feto dalla 20esima settimana può sentire il dolore, e questo ormai è il tema di congressi scientifici e libri di testo.
Caduto da pochi (!) anni il mito che il neonato non soffrisse, ora dall’attento studio del bambino prima della nascita si sta spostando l’attenzione sul diritto di quest’ultimo a non soffrire, e si studiano farmaci e dosi apposite. Lo studio del dolore prenatale è una nuova frontiera della scienza e anche in questo si vede che non è certo la Chiesa che blocca la ricerca. Anzi. Certamente ciò invita anche noi a far cadere varie ipocrisie. La prima è che l’aborto possa essere permesso sulla base di una 'distinzione di diritti' tra chi è nato e chi non lo è. In realtà non c’è nessuna differenza ontologica e tanto meno fisiologica tra feto e neonato: dunque non si capisce come accordare al primo meno valore e meno diritti solo perché è ancora in utero. Il feto soffre, ricorda, sorride, succhia il dito, ha il singhiozzo, proprio come accadrebbe se fosse fuori dall’utero: che sia l’ingresso d’aria nei polmoni che magicamente trasforma il 'non umano' in 'umano'? La seconda anomalia è l’uso della parola 'feto', che solo da un secolo ha preso a indicare il bambino prima della nascita. Prima questa parola indicava la 'progenie', come testimoniano gli scritti di Catullo e Cicerone. Il bambino restava un 'puer' (o un 'fetus') prima o dopo la nascita.
La parola 'feto' è invece oggi una parola neutra (non ha un femminile) mentre l’appartenenza a un certo genere è quello che caratterizza l’umano; è molto simile a parole quali 'fetido', 'difetto'... Ormai è nell’uso comune , ma sarebbe bene riprendere a chiamare 'bambini' i bambini e 'fiori' i fiori.
Insomma, l’umanità del bambino prima della nascita è un dato di fatto scientifico e laicissimo. Chi piange, scalcia, ha un Dna uguale al mio e al vostro e un cuore che batte è una persona. Sarebbe bene accorgersene per legiferare e operare di conseguenza, sempre considerando con intelligenza tutti gli aiuti che lo Stato deve dare alle coppie e alle mamme sole in difficoltà, mettendole al primo posto nelle politiche sociali. Quello che fa riflettere, poi, è che le stesse famiglie reclamano questo riconoscimento; e le famiglie hanno il diritto al lutto, all’abbraccio col piccolo. Non è sentimentalismo ma banale psicologia. Però delle famiglie si parla poco: se ne parla quando si vuole sostenere che siano loro gli arbitri (spesso sotto stress, impreparati, dolenti) della vita e della morte del neonato piccolissimo... E non se ne dovrebbe parlare quando invece reclamano per il loro piccolo un nome e una sepoltura?
Fede & scienza: un pro-memoria di chiarezza
di Antonio Ciliberti*
Avvenire, 14.2.2008
Il tema dei rapporti tra scienza e fede è molto complesso soprattutto se lo si vede attraverso i dati della storia.
Questa infatti, evidenzia una dialettica che oscilla tra momenti di scontro frontale e momenti di incontro fecondo e positivo. I rapporti storici tra gli sviluppi scientifici e lo svolgersi della tradizione cristiana possono essere classificati secondo tre prospettive: 1. Concordismo. Si cerca un accordo diretto tra ogni singolo passo della Scrittura e una conoscenza scientifica: è la lettura fondamentalista che la Chiesa cattolica oggi rifiuta decisamente.
2. Discordismo. Si tratta della posizione opposta a quella espressa precedentemente, in quanto ritiene che scienza e religione si occupano di due ordini di realtà completamente diversi dal punto di vista ontologico ed hanno quindi metodi e linguaggi non comunicanti.
3. Articolazione. È l’istanza più equilibrata, filosoficamente e teologicamente, ed è quella che oggi la Chiesa cattolica decisamente persegue. Tra scienza e religione vi è un dialogo che mira non ad una fusione tra le due forme di conoscenza, né a stabilire rapporti di subalternità, ma ad una fecondazione reciproca, nel rispetto di una distinzione che non significa separazione ed estraneità.
La Chiesa cattolica ha una tradizione di presenza di grandi scienziati: basti pensare ad Alberto Magno, Ruggero Bacone, Copernico, Lazzaro Spallanzani, Mendel,Teilhard de Chardin (ricordiamo che un ruolo molto importante nello sviluppo della scienza hanno sempre avuto i gesuiti). Diversi papi hanno dimostrato un interesse straordinario per la conoscenza scientifica: Niccolò V, Sisto IV, Benedetto XIV, Benedetto XV, Pio XI.
Due grandi istituzioni della Santa Sede: la Pontificia Accademia delle Scienze e la Specola Vaticana sono oggi all’avanguardia ed universalmente stimate per la serietà e profondità del lavoro che svolgono.
Il pontificato di Giovanni Paolo II e ora quello di Benedetto XVI si caratterizzano per interventi specifici sul tema, contenuti soprattutto nelle allocuzioni e nei discorsi alla Pontificia Accademia delle scienze e nelle lettere ai direttori delle istituzioni sopra citate.
Il ricco magistero di Giovanni Paolo II (piena di fascino e di suggestione è la lettura di due celebri interventi: l’Allocuzione alla Pontificia Accademia delle Scienze del 10 novembre 1979, in occasione del centenario della nascita di Einstein, e il Discorso alla Plenaria della stessa Accademia del 31 ottobre 1992, in occasione della presentazione dei risultati della Commissione sul 'caso Galileo') si può riassumere così nei suoi principi generali: compito fondamentale della scienza è la ricerca della verità; ricerca che deve essere libera di fronte al potere politico ed economico; sia la scienza pura che la scienza applicata servono il bene dell’uomo se tiene conto di tre priorità: quella dell’etica sulla tecnica, quella della persona sulle cose, quella dello spirito sulla materia. La trascendenza dell’uomo sul mondo, difesa fortemente dalla Chiesa, aiuta la scienza a non disumanizzarsi; a sua volta la scienza aiuta la chiesa a purificarsi da ogni concezione magica del mondo e dalle sopravvivenze superstiziose; tra religione e scienza vi deve essere collaborazione in quanto tra verità scientifica e verità rivelata non vi può essere che armonia (come distesamente affermato e argomentato nell’enciclica Fides et Ratio), essendo l’unico Dio autore e perfezionatore sia dell’ordine naturale che dell’ordine soprannaturale.
Per il magistero di Benedetto XVI conviene in primo luogo confrontarsi con la ricchissima produzione teologica del prof. Joseph Ratzinger, di cui consiglio caldamente la lettura di Introduzione al cristianesimo, tradotto e pubblicato per i tipi della editrice Queriniana nella prestigiosa collana Biblioteca di Teologia contemporanea già nel 1969 e recentemente ristampato.
Il tema di cui trattiamo è svolto con chiarezza didattica, trattandosi di lezioni tenute a studenti come introduzione al simbolo apostolico, ma con una profondità filosofica impressionante. Da pontefice il prof. Ratzinger ci ha offerto una superba riflessione metodologica nei Discorso alla Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze del 6 novembre 2006. Il Santo Padre argomenta a partire dall’interrogativo che la moderna ragione delle scienze naturali porta in sé: la domanda «sul perché della struttura razionale della materia e della corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto». Proprio questa riflessione ci riporta verso il Logos creatore che la stessa razionalità può in qualche modo riconoscere. Teologia, filosofia e scienza possono così intrecciarsi senza perdere la loro autonomia e il loro oggetto formale.
Possiamo allora cercare di articolare in maniera teoretica, ma semplice, il rapporto tra scienza e fede, rimanendo ancorati al sicuro riferimento del supremo magistero della Chiesa, ma senza rinunciare a confrontarsi con le esigenze e le domande che anche una persona, non particolarmente legata all’esperienza religiosa ma intellettualmente onesta, può sentire sorgere spontaneamente nel suo animo.
Anzitutto occorre precisare che scienza e fede hanno ciascuna i propri principi, i propri metodi e le proprie conclusioni, cioè il proprio oggetto formale. La scienza si occupa del mondo fisico e si serve della verifica sperimentale, mentre la fede si occupa della totalità dell’essere e congettura, a partire dalla rivelazione, attraverso il retto uso della ragione. La scienza spiega il come dell’accadere delle cose, la religione si domanda il perché, ricercando l’origine e il senso ultimo dell’essere; la scienza mira alla risoluzione di problemi pratici, la religione alla salvezza definitiva dell’uomo e della storia. Distinzione non implica separazione perché non vi può essere contraddizione tra ciò che Dio rivela su se stesso, sull’uomo e sul mondo e ciò che l’intelligenza scopre essere vero. Il cardinale Martini, a questo proposito, ha usato alcune espressioni altamente suggestive: «Scienza e fede sono entrambe parte del grande tentativo umano di capire, non sono un unico binario su cui corre la vita dell’uomo, e neppure strade divergenti o in collisione. Le vedo piuttosto quali binari paralleli, tenuti insieme in connessione dalla filosofia che come traversina permette ai binari di rimanere affiancati, così che possa correre il grande treno della vita».
La scienza può insegnare alla fede che la natura ha una razionalità più profonda della nostra immaginazione, che il vero mistero del mondo è la sua intelligibilità (celebre l’aforisma di Albert Einstein: «Quello che c’è nel mondo di eternamente incomprensibile è che esso sia comprensibile»). Questa intelligibilità dell’essere è l’origine di quello stupore, per usare una parola cara al grande Giussani, che può sfociare, nella coscienza autentica, in una nuova apertura alla dimensione religiosa. La scienza, nella sua indagine, presuppone, pertanto, sia il potere della ragione per raggiungere l’oggettività e la verità che l’intellegibilità della natura, pur nella provvisorietà dei risultati e dei metodi. Questo vuol dire che la ricerca scientifica in se stessa testimonia della costitutiva apertura della mente umana sull’intero orizzonte dell’essere. Allora ciò significa che la domanda su Dio è costitutivamente implicita nella ricerca umana.
La religione, a sua volta, può non solo purificare la scienza dall’idolatria e dai falsi assoluti, ma, mettendo a fuoco la nozione fondamentale della dignità dell’essere umano creato ad immagine e somiglianza di Dio, può aiutare la scienza stessa a comprendere che il passaggio dalla conoscenza teoretica alla prassi non può mai violare questa dignità, anche quando ne derivassero dei vantaggi immediati.
Il dialogo tra scienza e fede, che oggi vive una stagione molto promettente, ci sta anche aiutando a cogliere in maniera sempre più profonda cosa significhi affermare che Dio è creatore e ad intendere Dio non solo come causa originaria delle cose, ma anche come causa continua e trascendente di tutto l’universo, permettendoci così di integrare nell’atto creativo stesso quella libertà umana che, attraverso la ricerca scientifica e l’applicazione tecnologica, modifica la realtà in un modo così profondo che a volte sembra di assistere ad una nuova creazione (l’ingegneria genetica è uno dei luoghi in cui tutto questo si può cogliere con maggiore evidenza).
Un grande teologo e scienziato anglicano, John Polkingorne, ritiene che il sapere scientifico, che ha ormai acquisito il principio di indeterminatezza di Heisenberg come criterio epistemologico, renda più comprensibile la tradizionale preghiera di supplica a Dio, anche dal punto di vista della sua ragionevolezza, in quanto permette, meglio di una visione meccanicistica della realtà, di concepire la divina Provvidenza.
Possiamo certamente affermare che oggi lo scientismo e il naturalismo, cioè la pretesa della scienza di offrire da sola la risposta alle domande fondamentali dell’umanità, non occupano più quel ruolo centrale che avevano assegnato loro l’illuminismo e il materialismo dell’ottocento e che il modernismo degli inizi del novecento rischiava di fare proprio (qualche autore giustamente dice già con un certo ritardo sulla storia). Questo fatto ha reso possibile il dialogo tra scienza e fede, auspicato a volte con ingenuità da tanti scienziati. C’è però, attuale, un altro pericolo, quello del cosiddetto post-modernismo, che vuole svuotare dal di dentro questo dialogo, postulandone l’astrattezza: viene chiamata postmodernismo quella tendenza filosofica, oggi dominante, di cui fu profeta Friedrich Nietzsche, per la quale sono prive di senso non solo le concezioni religiose che pretendano di avere un corpo dottrinale sistematico e di non essere pura espressione del sentimento, ma anche le ipotesi scientifiche che cerchino di costruire dei modelli esplicativi su larga scala, andando aldilà della mera osservazione di fatti e della produzione di risultati utilitaristicamente valutabili. Il postmodernismo ha una sua valenza positiva in quanto ha decretato il fallimento del tentativo della scienza di creare sistemi assoluti di verità intramondane e funziona anche come istanza critica per la fede quando questa, dimenticando che il centro dell’annuncio cristiano è la persona di Gesù Cristo, dà l’impressione di costruirsi come una nuova gnosi, come una forma più perfezionata di conoscenza della realtà. Ma è anche all’origine di seri rischi, sia per la vita della Chiesa che per la comunità scientifica. Il cristianesimo viene infatti ridotto a pura e cangiante espressione di sentimento religioso e viene privilegiato l’aspetto mistico ed estatico della religione, a scapito della dottrina che viene ridotta a rivestimento simbolico di una relazione vitale con Dio che l’individuo sperimenta nel suo intimo; ma anche la scienza, privata dello sfondo sicuro della intelligibilità del reale, non può scoprire alcuna razionalità nell’universo e quindi si preclude la possibilità di aprirsi all’affermazione di una mente creatrice.
ossiamo concludere affermando che ormai sembra tramontata, presso le menti più avvedute, l’affermazione secondo la quale scienza e religione sono reciprocamente incompatibili: un credente può benissimo avere l’atteggiamento mentale critico ed indagatore che contraddistingue lo scienziato e l’uomo di scienza può con fiducia coltivare un atteggiamento di apertura verso una conoscenza che discenda dalla rivelazione.
P* arcivescovo metropolìta di Catanzaro-Squillace
Darwin tradito?
Avvenire, 14.2.2008
DI FIORENZO FACCHINI
Se Darwin rivivesse si riconoscerebbe nelle posizioni di molti suoi seguaci? Avrei qualche dubbio, se essi vogliono dedurre dalla teoria esplicativa dell’evoluzione per variazione e selezione naturale una visione generale della natura, in cui non c’è alcun bisogno di un Creatore. Questo modo di pensare è strettamente conseguente al naturalismo darwiniano che esclude qualunque riferimento al trascendente.
Ma questo modo di vedere non è richiesto dalla scienza. Né l’evoluzione né il darwinismo obbligano ad essere atei, come è provato da convinti evoluzionisti, anche di marca darwinista, che si dichiarano credenti.
Ma la cosa singolare è che la posizione dei sostenitori del naturalismo darwiniano dimenticano che Darwin stesso, pur dichiarandosi agnostico e manifestando atteggiamenti ondeggianti sul piano religioso, non ha sposato posizioni di ateismo. Nella pagina finale della seconda edizione della sua opera Le origini delle specie, dopo avere rilevato che «vi è qualcosa di grandioso in queste considerazioni sulla vita», aggiunge (rispetto alla prima edizione del 1859) «e sulle varie facoltà di essa, che furono impresse dal Creatore in poche forme od anche una sola».
Queste parole sembrano quasi suggerire l’idea che l’evoluzione sia venuta avanti per delle potenzialità della materia creata, una posizione condivisibile, anche se rimane aperto a proposito dell’uomo la sua dimensione spirituale sulla quale Darwin , pur sostenendo differenze di ordine solo quantitativo tra l’uomo e l’animale, non si pronuncia apertamente.
Se così stanno le cose, si ha l’impressione che la teoria di Darwin sia troppo spesso utilizzata per far passare una certa visione della realtà, così da escludere il trascendente e qualunque rapporto con una ragione superiore ordinatrice della natura.
Tutto resterebbe affidato unicamente alla casualità degli eventi. Vi sono così darwinisti che negano ogni idea di progetto superiore tirando in ballo la posizione espressa dai sostenitori della teoria dell’Intelligent Design (una teoria criticabile sia dal punto di vista scientifico che filosoficoreligioso) e se la prendono anche con Benedetto XVI, quando parla di un progetto di Dio creatore sul mondo e dice che il mondo non può essersi formato né può essere governato dalla casualità.
Questa posizione critica è ricorrente in alcuni ambienti culturali (ad esempio, la rivista Micromega). Per la verità il Papa non ha mai detto come si sia realizzato in termini scientifici il disegno di Dio sulla creazione, una dottrina costantemente insegnata nel magistero della Chiesa. In ogni caso un progetto può realizzarsi per il concorso di eventi sia deterministici che casuali.
Ma che cosa significa una natura autoformatasi come sostengono non pochi darwinisti? Può una natura autoformatasi, spiegare tutto, come se la realtà naturale nei suoi vari aspetti fosse autosufficiente? Le ragioni ultime possono essere raggiunte con i metodi di osservazione delle scienze positive? Come ha notato Witgenstein, il significato dell’universo non sta nell’universo. La posizione dei naturalisti darwiniani è tipicamente scientista, simmetrica e opposta a quella dei fondamentalisti americani che parlano molto impropriamente di creazionismo scientifico (due concetti che appartengono a due diversi ordini di conoscenza) o sostengono la teoria del disegno intelligente invocando per le modalità del processo evolutivo interventi di un agente soprannaturale lungo il corso dell’evoluzione. Essi prestano così il fianco alle critiche di un progetto intelligente che rivela imperfezioni e insuccessi.
Ma non si può escludere la sfera trascendente solo perché non è dimostrabile empiricamente. E’ arbitrario, non plausibile trasferire in un ambito diverso per natura i metodi delle scienze. Un salto di corsia come quello dei sostenitori dell’Intelligent Design.
Che alla base dell’evoluzione, cioè di una realtà che cambia nel tempo, vi siano proprietà e leggi della materia che le conferiscono questa capacità di evolvere in cammini lenti e tortuosi; che l’armonia delle leggi della natura consentano anche catastrofi e incongruenze è lecito pensarlo, non deriva e non è contro la fede. E’ un modo di pensare laico. Ciò non impedisce, anzi richiede, che con la ragione si possa andare, sempre laicamente, oltre l’orizzonte delle scienze positive ammettendo una sfera trascendente. Quello che va evitato in un pensiero veramente laico è trarre non dalla ragione, ma da dogmi o verità rivelate argomenti per spiegare eventi della natura che possono essere indagati dalle metodologie delle scienze. Ma le ragioni ultime delle cose, e la stessa dimensione spirituale dell’uomo, per loro natura, non sono oggetto delle scienze empiriche. Parlandone e ammettendole ci si porta su un piano superiore.
Negarle è una opzione personale e ideologica.
Molti seguaci dello scienziato esprimono una posizione fondamentalista, ma l’evoluzione non obbliga ad essere atei Tutto affidato solo alla casualità degli eventi? Ma lo stesso autore delle «Origini delle specie» non ha sposato posizioni di ateismo
«Per contestare la contestazione mi feci prete» di Luciano Gulli - giovedì 14 febbraio 2008, 07:00 , Il Giornale
Dal nostro inviato a Pennabilli (Pesaro)
Lo conosco da tanti di quegli anni, don Luigi, che chiamarlo «eccellenza», come vorrebbero le circostanze e il protocollo, mi pare una mancanza di rispetto. Ci pensa lui, rivedendo dopo tanto tempo lo studente universitario che gli è apparso davanti, a togliermi dall’imbarazzo aprendosi in una risata - di quelle che solo ai milanesi riescono così - che gli fa ballonzolare sul petto la croce d’oro da vescovo. Dunque siamo d’accordo. Di qui in avanti monsignor Luigi Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro, sarà il «don» al quale davo del tu e che un po’ invidiavo, nel Sessantotto e dintorni, domandandomi segretamente come facesse a essere così contento, ma così contento, nella sua tonaca da prete, ai tempi della Cattolica.
Poco fa, attraversando a balzelloni la piazza di Pennabilli (borgo medievale di forse 1500 abitanti; sconvolta, la piazza, da certi radicali lavori in corso) sono entrato nella tabaccheria di Giovanni Giannini. «Com’è questo vescovo che avete?» gli avevo domandato a bruciapelo. E lui, il Giannini: «Un pozzo di scienza. Un uomo di una cultura che fa spavento. Ma soprattutto uno di quei preti che uno li guarda e dice: toh, eccone uno che ci crede davvero. Quanto alle sue omelie, bravo chi ci capisce tutto. Quando gli prende, gli vien fuori un linguaggio così alto, così difficile, che la cattedrale piomba in un silenzio di tomba, e vedi certe facce concentrate... Non lo so spiegare, bisogna esserci...».
Abitava a Porta Romana, don Luigi, da ragazzo. Suo padre, Innocente, era stato commesso e poi direttore generale da «Urani», negozio di tessuti di viale Bligny che allora andava per la maggiore. La madre Rosa, casalinga. Due fratelli, Giuliano e Carla. Famiglia cattolica, di fede tosta. Finite le medie, Luigi si iscrisse al liceo classico. Ed essendo lui di Porta Romana, non poteva che essere il «Berchet» di via Commenda. Lo frequentò dal ’55 al ’60. Nel 1965, eccolo laureato a pieni voti in Filosofia, alla Cattolica. Nel ’67 entra in seminario. Nel ’72 viene ordinato sacerdote. «Per ricostituire il popolo cristiano ci volevano delle guide, mi dissi. Partii». Ma la sua vita era già cambiata ai tempi del ginnasio. Come insegnante di religione gli era capitato un prete strano, un visionario appassionato di Gesù Cristo che veniva da Desio, in Brianza. Si chiamava Luigi Giussani. Don Giussani. O «il Gius», come poi presero a chiamarlo le moltitudini che lui riunì in Gioventù Studentesca prima e in Comunione e Liberazione poi. Da allora il Luigi di Porta Romana e il Luigi di Desio hanno camminato sempre insieme, uno accanto all’altro; il primo a far da braccio destro al secondo.
14.02.2008, La sciagurata tentazione di far le riorme da soli, Giorgio Vittadini, Il Giornale