Nella rassegna stampa di oggi:
1) Mai ho amato tanto scartoffie, burocrazia e notai, di Giuliano Ferrara
2) Antologia ragionata del dott. Umberto Veronesi, nichilista di tendenza
3) Padre Pio, difesa delle stimmate
4) Benedetto XVI: “abbiamo bisogno di una conversione permanente”
5) Pio XII e Fatima «Ho rivisto il miracolo»
6) Diritto alla vita, insieme, del feto e della madre
27 febbraio 2008
Diario della gioia
Di Giuliano Ferrara
Mai ho amato tanto scartoffie, burocrazia e notai
Roma 27 febbraio. Dopo una giornata grigia, con il diavolo adagiato sulla mia spalla, oggi provo brividi di piacere alla vista di un modulo. La notte mi ha portato consiglio. M’illumino d’immenso quando entra il signor Notaio e autentica una firma. Tocco il cielo con un dito allorché ripasso il manualetto intitolato “istruzioni per la presentazione e l’ammissione delle candidature”. A ogni paragrafo che rinvia a un capitolo che rinvia a un dpr che rinvia a una nota, fremo di gioia. Circoscrizione per circoscrizione, lista per lista, facciamo ruotare bei nomi che saranno eletti alla Camera, e comunque saranno eletti. Scelti per aprire una strada e tenere viva una cosa morta da trent’anni: la strana idea, e molto sexy, che le cose tristi si combattono e quelle allegre si preparano, anche con la grintaccia della battaglia politica ed elettorale. Perché no?
Dopodomani al mattino di buon’ora al Ministero dell’Interno, consegna del contrassegno all’ufficio elettorale centrale, poi di corsa a Catania a parlare e ascoltare i molti giovani di don Francesco Ventorino: argomento la Spe salvi, l’enciclica che ha liquidato le illusioni sulla politica nutrite da molte generazioni del Novecento. Sulla politica, dico, non sulla superpolitica. Non sul fatto di esserci perché si ha finalmente qualcosa da dire di importante, qualcosa da comunicare in forme nuove. Su accoppiamento amoroso, nascita, educazione, destino, con qualche appunto per il dopo: e tutto questo dire all’insegna del grido che scatta in un incendio, in un naufragio come quelli che ci accompagnano da qualche decennio: “Prima le donne e i bambini!”.
Il pezzo di Agnoli su Veronesi letto nel server del Foglio a notte alta, un biglietto mail di un insospettabile amico navigatore che mi ha mandato un video di Al Pacino sul coraggio nel football americano alle ore una e zero nove del mattino, e tutta la nebbia che sale e scompare. Vogliamo lasciare libero il campo, per quanto piccolo sia lo spazio che siamo destinati a occupare, alla sola parola professional-politica, alle tiritere televisive su dove stai, con chi ti accompagni, di chi è la colpa, ha! ha!, il più pulito c’ha la rogna, e completiamo in fretta la Roma-Formia? Via: la politica è bella quando parla di tasse, salari, occupazione, pensioni, scuola, ospedali, inflazione e prezzi, energia, pulizia e sicurezza delle strade, ma è ancora più bella e vera se include le questioni vitali dentro le quali si esiste, si insiste a vivere.
Qui in nome della Donna vogliono introdurre nuovi veleni farmacologici, raccontano la storiella dell’aborto facile e indolore, mobilitano una capacità di truffa a mezzo stampa che ha del parossistico. E noi a casa, a compulsare un dizionario di bioetica o a leggere Moby Dick. No. Ci vuole un mese di fuoco, che riscaldi ancora di più, sempre con buonumore e responsabilità, senza fanatismo, la corrente calda che si è risvegliata dovunque non ci sia la Donna, ma ci siano donne e bambini.
Antologia ragionata del dott. Umberto Veronesi, nichilista di tendenza
Data:
27 Febbraio 2008
Autore:
Francesco Agnoli
Aborto, fecondazione artificiale, clonazione, eutanasia: il celebre oncologo diffonde il verbo della tecnoscienza con una crescente mole di pubblicazioni.
Cari cattolici democratici, ecco chi è il vostro capolista al Senato in Lombardia.
Umberto Veronesi è un famoso oncologo italiano, che, dopo una brillante carriera, ha deciso di dedicarsi alla pubblicistica, e a diffondere alcune certezze: la bontà dell'aborto, della fecondazione artificiale, della clonazione, della sperimentazione occisiva sugli embrioni umani e di tutte le altre possibilità tecnoscientifiche odierne. Recensito un libro di Umberto Veronesi, ne esce immediatamente un altro. Non è facile, dunque, starci dietro, benché i concetti siano piuttosto semplici, in quanto, in fondo, sono sempre gli stessi. Uno degli ultimi libri pubblicati, "Organismi geneticamente modificati" (Sperling&Kupfer, 2007), scritto insieme a Chiara Tonelli, inizia subito con un concetto che è caro al celebre oncologo: "La vita è infatti un insieme di reazioni chimiche", e "per la natura l'essere umano potrebbe essere semplicemente uno dei tanti tasselli da sacrificare, se l'evoluzione lo imponesse". Che sia chiaro: stiamo parlando di uomini, ma è come se stessimo parlando di animali, piante, reazioni chimiche, e basta! Il primo capitolo del libro è intitolato "Un pianeta destinato alla fame" e esordisce con una citazione da Thomas Malthus. Nihil sub sole novi: continua la battaglia contro l'uomo, continua l'opera di riduzionismo filosofico. Il lettore di Veronesi deve convincersi, sino alla spossatezza, di non essere nulla, se non un insieme di pulsioni e reazioni chimiche, talvolta assai pericolose, per il destino stesso del pianeta. Di non essere affatto un "animale politico", un "animale sociale", pensante e parlante, dotato di corpo e di anima: questo è il nucleo forte del Veronesi-pensiero.
Sui dettagli, si può variare, ma non troppo. Nel precedente "Scienza e futuro dell'uomo" (Passigli, 2005) Veronesi partiva sempre dalla stessa dogmatica affermazione: l'uomo con Copernico sarebbe "tornato ad essere parte di un processo evolutivo che include animali, piante e tutti gli esseri viventi. L'uomo viene così ridimensionato e nasce da lì il pensiero scientifico". Poi però quest'uomo, uguale a piante ed animali, diviene improvvisamente un essere capace di cose straordinarie, grazie alla potenza della tecnologia: "Basta intervenire sul Dna prima dell'impianto nell'utero, inserire o togliere un gene, e possiamo creare un bambino che vivrà centovent'anni. Questo potrebbe avvenire domani mattina, possiamo farlo" (p. 49). E proseguiva: "Pensi che, se volessimo, in un ovulo fecondato in vitro potremo inserire nel Dna il gene dell'ormone della crescita di un elefante e ottenere dei bambini alti quattro metri" (p. 50). Così lo scienziato che cerca di abbassarci un po' l'orgoglio di creature spirituali ci dice poi che possiamo fare tutto, proprio tutto, come dei novelli demiurghi. Nell'ultimo libro, già citato, riprende il concetto: "Teoricamente la stessa cosa si può fare anche con l'uomo: per esempio inserendo nel suo codice genetico il gene dell'ormone della crescita di un elefante"; oppure si potrebbe eliminare il gene P66: "Se lo si elimina quando un uomo è ancora embrione quella persona potrebbe vivere sino a 120 anni" (pp. 74-75). Dopo aver ipotizzato la vita sino a 120 anni, non solo a parole, ma anche investendo nella ricerca, che ritiene assai redditizia, sul gene P66, Veronesi arriva immancabilmente all'eutanasia (e talora può tornare l'amato elefante): "E' un dovere affrontare la morte serenamente, come gli elefanti, che si ritirano per morire, o gli alberi che cadono perché hanno concluso il loro ciclo vitale" (p. 73 di ‘Scienza e futuro dell'uomo')". Poco dissimile il ragionamento nel suo precedente "L'ombra e la luce" (Biblioteca di Repubblica, 2005): "Considero la morte nient'altro che un evento biologico. E' la rigenerazione, il lasciare spazio agli altri, come fanno quegli animali che da vecchi, si staccano dal branco per andare a morire soli" (p. 30). Sempre in questo libro, a pagina 46, scriveva: "Questo significa che se la scienza manipolasse il Dna, e in teoria può farlo, potrebbe determinare in laboratorio la lunghezza della vita. Se si togliesse il gene P66 a un uovo umano fecondato, si creerebbe una nuova specie umana in grado di vivere tranquillamente fino a cent'anni e oltre".
Nel suo "Il diritto di morire" (Mondadori, 2005), l'ossessione di Veronesi vitaprolungatainlaboratorio-mortedeterminatainlaboratorio si esprimeva con afflati misticheggianti: "E il motore di questa rigenerazione è il Dna umano che, riproducendosi, in ciascun uomo, propaga incessantemente la vita... potremmo quasi dire che la trasmissione del nostro Dna alle generazioni successive potrebbe essere letta come la versione moderna dell'immortalità, in quanto il Dna è in effetti immortale. Inoltre, trasferendosi da un corpo all'altro (?), riassume anche il concetto antico di reincarnazione" (p. 12). Infine, nel suo penultimo libro, "La libertà della vita" (Raffaello Cortina, 2007), completamente-calato nella mistica scientista, Veronesi auspica un mondo in cui gli anziani, a cinquanta o sessant'anni spariscano (p. 39) e in cui i giovani si riproducano per clonazione riproduttiva, senza bisogno di entrambi i genitori, come ai tempi dell'androginoermafrodita originario (pp. 85-100; è una scoperta scientifica di Veronesi, l'ermafrodita originario, o un ennesimo abbaglio filosofico-esoterico?). Studiare il Veronesi-pensiero, insomma, è facile e difficile allo stesso tempo: l'uomo un po' si ripete, un po' si contraddice, un po' filosofeggia, un po', però, pensa anche al concreto. Veronesi infatti non è solo prolificissimo scrittore, ma è anche azionista di una azienda di biotecnologie di nome Genextra, che avrebbe guadagnato lauti compensi dalla possibilità di sperimentazione occisiva sugli embrioni, vietata, almeno a parole, dalla legge 40; nello stesso tempo confida in un progetto di ricerca sulla longevità umana, convinto di poterla portare appunto ai 120 anni; in simultanea si batte per il testamento biologico. L'ultimo libro sull'argomento, "Nessuno deve scegliere per noi" (Sperling&Kupfer, 2007), è coordinato dall'avvocato napoletano Maurizio De Tilla. Scrive La voce della Campania del febbraio 2007 al riguardo: Maurizio De Tilla figurava nel 1992 tra le migliaia "di iscritti alla massoneria, Grande Oriente d'Italia, all'ombra del Vesuvio. Oggi De Tilla è coordinatore del, comitato Scienza e diritto della Fondazione Veronesi, nonché presidente nazionale della Cassa Forense. Quest'ultimo organismo ha recentemente espresso parere favorevole alla redazione del testamento biologico in forma di scrittura privata raccolta, a titolo gratuito, dall'avvocato, dal medico, o dal mandatario, anziché effettuata per atto di notaio" (forse un po' costoso). Sempre La voce della Campania mette in luce alcuni meccanismi coi quali Veronesi sta diventando ogni giorno che passa una voce martellante, sempre ascoltata e propagandata. Oltre a consigliare testamento biologico ed eutanasia, infatti, la sua fondazione, invita a firmare anche "un lascito testamentario, piccolo o grande che sia... per tramandare i valori in cui crediamo e testimoniare i sentimenti, che ci sono stati cari nella vita". "Ognuno di noi - aggiungono gli esperti contabili della struttura di Veronesi - può scegliere di legare tutti o parte dei propri beni allo sviluppo dei progetti della fondazione". Si possono lasciare soldi, ma anche "un bene mobile, un bene immobile, un appartamento, una casa, un terreno, che la Fondazione possa vendere o affittare per ricavare risorse per portare avanti i suoi progetti". Servono soldi per mantenere riviste, pubblicizzare libri, sostenere fondazioni, organizzare conferenze internazionali sul darwinismo, promuovere il testamento biologico pro eutanasia, finanziare le ricerche sul gene P66 per la longevità...
Continua La voce della Campania: "E sì che di denaro, appartamenti, gioielli o auto di lusso, proprio la Fondazione Veronesi potrebbe farne tranquillamente a meno. Basta scorrere l'altisonante parterre del comitato di sostegno: si va dalla regina delle multinazionali del farmaco Diana Bracco al banchiere prodiano Giovanni Bazoli; dal vertice Mediaset Fedele Confalonieri al presidente di Confindustria e numero uno Fiat Luca Cordero di Montezemolo; dalla Rcs di Cesare Romiti alla Todd's di Diego Della Valle; dal signor Telecom Marco Tronchetti Provera al potente banchiere torinese Maurizio Sella, fino al finanziere Francesco Micheli, a Gabriele Galateri di Genola in diretta da Mediobanca, o l'ex presidente del Banco di Sicilia Alfio Noto. Sicuramente non mancheranno di far sentire la loro generosità ad Umberto Veronesi; magari con lasciti testamentari anticipati a suo favore. Per la Fondazione, naturalmente. Così come non mancano di fargli sentire il loro sostegno emotivo intellettuali del calibro di Umberto Eco e Fernanda Pivano, Claudio Magris e Renzo Piano, senza contare la presenza - sempre nello stesso comitato ‘de roi' - del filosofo e sindaco di Venezia Massimo Cacciari, dell'ex presidente del Senato Marcello Pera e dell'editorialista Sergio Romano. Un partito trasversale del lascito. Tutti premi Nobel o quasi, ovviamente, i componenti del comitato scientifico: Renato Dulbecco, Rita Levi Montalcini, Paul Nurse, Carlo Rubbia, Margherita Hack e Lue Montagnier. ‘Come fare testamento a favore della Fondazione Umberto Veronesi' è poi il link finale, con moduli precompilati ed istruzioni tecniche, per quanti non avessero ancora capito ed apprezzato i benefici della donazione di sè...
Non guarda al colore politico, Veronesi, quando si tratta della salute. E che salute! Il suo Ieo (Istituto europeo di oncologia), altra multinazionale fondata sulla cura del cancro, può contare attualmente come capitale sociale sulla bellezza di quasi 80 milioni di euro. Fra i titolari di tanto ben di dio troviamo nell'azionariato sigle dell'uno e dell'altro schieramento. In area Polo, Mediolanum e la Popolare di Lodi. Sul versante Ulivo Fiat, Telecom, Res, Pirelli e Capitalia. E poi ancora le creature di Salvatore Ligresti Fondiaria e Ras, quindi Banca Intesa, Unicredit (qui il legame è doppio: lo stesso Veronesi è membro del comitato etico della banca), Assicurazioni Generali, l'Italcementi di Giampiero Pesenti, Edison, Banca Popolare di Milano, Mediobanca, oltre al colosso finanziario della ricerca farmaceutica Sorin spa. Quest'ultima rientra nel vasto arcipelago di Genextra, ‘una holding che conduce attività di ricerca sulle patologie dell'invecchiamento, oncologiche, neurologiche e degenerative', come si autodefinisce la società. Costituita nel 2003 su iniziativa di Francesco Micheli e della Fondazione Umberto Veronesi, a settembre 2005 Genextra entra nel campo delle nanotecnologie e acquisisce il controllo di Tethis, leader mondiale del settore. L'operazione è stata realizzata attraverso un aumento di capitale di circa un milione e mezzo di euro, ‘ma - precisa il comunicato stampa diramato dall'azienda - Genextra si è impegnata a sottoscrivere due ulteriori aumenti di capitale per complessivi euro 1,8 milioni da eseguirsi nel corso del 2006 e del 2007'. Ce la faranno? Inutile stare col fiato sospeso, anche perché timoniere di Genextra è ancora oggi il supercollaudato Micheli. ‘Negli anni Settanta - recita la sua biografia - era stato uno degli assistenti dell'allora presidente di Montedison Eugenio Cefis. In seguito fu al centro dell'avventura finanziaria che nel luglio del 1985 consentì a Mario Schimberni di impossessarsi di Foro Buonaparte'.
Veronesi, insomma, gli, amici se li sa scegliere. Come ha fatto proprio per l'organigramma dell'Istituto oncologico europeo che ai suoi vertici amministrativi vede big come la figlia di Salvatore Ligresti, Giulia, l'amministratore delegato di Telecom, Carlo Buora (balzato alle cronache per l'inchiesta sulle schedature illegali che ha travolto Giuliano Tavaroli), e poi il presidente della Popolare di Milano Roberto Mazzotta, i big della finanza nazionale Paolo Maria Grandi, Carlo Puri Negri, Matteo Arpe... Insomma, quando c'è la salute c'è tutto. E più che in salute è proprio l'Ieo: la creatura targata Veronesi di via Filodrammatici, a Milano, nel 2005 dichiara a bilancio un bel +117 milioni e mezzo di euro come ‘ricavi da vendite e da prestazioni', un attivo circolante pari a 63.560.169 euro e partecipazioni per 27.064.602. Piccolo particolare: nell'oggetto sociale la cura degli ammalati risulta fanalino di coda. Si legge infatti chiaramente: ‘Costruzione d'immobili per abitazione ed altri usi. Costruzione fabbricati ad uso abitazione, per fini agricoli, industriali, commerciali, etc. Ospedali e case di cura generali'. Pazienza" (http://www.lavocedellacampania.it/).
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Negli attuali dibattiti in campo bioetico ci sembra di notare una cosa piuttosto curiosa: invece di fare appello alle ragioni della scienza, invece di fornire prove, argomenti, cifre, conoscenze reali e documentate, a sostegno delle proprie posizioni, i fautori della clonazione, della manipolazione genetica, dell'eutanasia, dell'aborto, e quant'altro, si rifugiano nel campo filosofico, nell'affermazione di pseudo-principi, di concetti astratti, di slogan accattivanti e demagogici. Il confronto sui fatti e le cose, per questo motivo, risulta assai difficile: è lo stesso paradosso per cui l'adorazione della scienza, divenendo scientismo, finisce per abiurare la scientificità, la concretezza, l'esperienza, per divenire ideologia astratta, sganciata da ogni realtà. Il discorso vale anche per la battaglia ad ampio spettro promossa da Veronesi su tutto l'arco delle tematiche della vita. Non per la vita, intendo, ma per limitare, come direbbe lui, il dolore, le ingiustizie, gli "orrori" della vita e della natura, limitando la vita stessa (aborto eugenetico, sperimentazione occisiva sugli embrioni, eutanasia e liberalizzazione delle droghe "leggere").
Il suo intento si inserisce all'interno di quella visione utilitarista della vita che, nel luglio del 1974, condusse i firmatari del primo Manifesto sull'eutanasia (pubblicato all'interno del The Humanist) ad affermare: "E' immorale tollerare, accettare o imporre la sofferenza. Crediamo nel valore e nella dignità dell'individuo; ciò implica che lo si tratti con rispetto e lo si lasci libero di decidere ragionevolmente della propria sorte [...]. In altri termini bisogna fornire il mezzo per morire ‘dolcemente, facilmente' a quanti sono afflitti da un male incurabile o da lesioni irrimediabili, giunti all'ultimo stadio. Non può esservi eutanasia umanitaria all'infuori di quella che provoca una morte rapida e indolore ed è considerata come un beneficio dell'interessato. E' crudele e barbaro esigere che una persona sia mantenuta in vita contro il suo volere e che le si rifiuti l'auspicata liberazione quando ha perduto qualsiasi dignità, bellezza, significato, prospettiva di avvenire. La sofferenza inutile è un male che dovrebbe essere evitato nelle società civilizzate [...].Ogni individuo ha il diritto di vivere con dignità, ha anche il diritto di morire con dignità".
A chi legga i libri di Veronesi, o i suoi articoli, non può non balzare agli occhi questa semplice verità: il suo argomentare è essenzialmente filosofico, teologico, e assai poco medico. Cita il suo amico Massimo Cacciari, l'Ecclesiaste, il limbo e la sofferenza di Giobbe, Eraclito, gli stoici; sant'Agostino, san Tommaso, alcuni teologi protestanti, Diderot e D'Alambert. Lo fa, anzi, con una facilità, apparente, che potrebbe far invidia anche ad un professore di filosofia. Così, di fronte ad una tale abbondanza di argomentazioni filosofiche, a qualcuno potrebbe sorgere un dubbio: che abbia sbagliato mestiere, o che abbia intrapreso gli studi medici, per errore?
Scherziamo, naturalmente, e non oseremmo mai disconoscere la sua abilità e competenza di medico, benché siamo molto più perplessi sulle sue doti di filantropo, cui pure tiene moltissimo. Anzi, proprio questo tenerci, questo servirsi in molte occasioni della sua qualifica di "amico dei malati", sa un po' di ideologico, di demagogico, di non gratuito, specie se poi si scopre che va di pari passo con attività troppo imprenditoriali, come ad esempio le ricerche sul gene P66, dal quale ci si attendono non solo passi avanti per la longevità umana, ma anche, senza remora alcuna, lautissimi guadagni economici (vedi Affari e Finanza del 3 novembre 2005). Tornando alla filosofia, le parole che più ricorrono, nel gergo di Veronesi, sono libertà, casualità, legge del più forte, e, soprattutto, male, dolore, sofferenza. Il vero scandalo, ai suoi occhi, è lo scandalo del male: "Il mondo è pieno di mostruosità, di orrori, di sbagli, dove tutti sono contro tutti". La cosa del resto è assai comprensibile, umanamente parlando: anche Cristo è stato scandalo; nella sua sofferenza ed umanità, per i suoi stessi apostoli. Per stare un po' bene al mondo, però, come diceva Chesterton, "abbiamo bisogno, guardando ciò che ci circonda, di avere insieme la sensazione della sorpresa e la sensazione dell'accoglienza". Abbiamo bisogno cioè di scorgere quello che c'è, o che ci può essere, o che, si può costruire, e non solo quello che manca, come se fosse condannato a mancare per sempre. "La mia accettazione dell'universo - continuava il grande scrittore inglese - non è ottimismo; è piuttosto qualche cosa di simile al patriottismo. Si tratta di lealtà elementare [...]. La questione non è di sapere se il mondo è troppo triste per essere amato o troppo lieto per non essere; la questione è che quando sii ama una cosa, la sua letizia è una ragione per amarla e la sua tristezza una ragione per amarla di più". Sono paradossi, è vero, ma nulla rispetto al paradosso per eccellenza, e cioè all'incredibile parentela che esiste, al mondo, tra amore e dolore! Questa parentela, che il cristianesimo ha colto, e che la vita mostra sin dal suo comparire, allorché mescola il dolore del parto con la gioia della nascita, a Veronesi sfugge totalmente: per questo, dopo aver accusato più volte il cattolicesimo di pessimismo, naufraga, paradossalmente, nel pessimismo più radicale e totalitario, che abbassa l'uomo a bestia, la vita a dolore, la natura a foresta di belve, la morte a cessazione di tutto, il tutto a nulla. Espropriato Dio della bellezza della creazione, e l'uomo della speranza teologale, Veronesi apre una sola finestra, quella dell'orgoglio luciferino, dell'uomo che si fa Dio di se stesso, e che ricrea, o distrugge, a suo piacere, la natura "mostruosa": l'uomo che "determina la lunghezza della vita in laboratorio"; l'uomo che urla la sua rabbia attuando un "dominio sul proprio Dna, o sul Dna di altri esseri viventi" ("L'ombra e la luce"). Dominio effimero e fasullo: triste illusione di chi ha l'animo sconvolto dalla ribellione, di chi invoca il peccato, la disobbedienza di Adamo come "il primo atto di coraggio osato dall'uomo".
Vengono in mente, a tale riguardo, la posizione di Alain Delon ("Non lascerò che sia Dio a stabilire l'ora della mia morte"), o quella antitetica, di un uomo similmente dissoluto e ribelle, ma profondo, come il grande scrittore Oscar Wilde. Dopo una vita di orgoglio, di peccato celebrato e di presunzione, una volta sperimentato il dolore della prigionia scriverà, prima di convertirsi, di aver capito che il male nel mondo non è la negazione nè la dimostrazione della non esistenza di Dio: "Ora mi pare che l'amore di qualche specie è l'unica spiegazione possibile alla straordinaria quantità di dolore che c'è nel mondo. Non posso concepire nessun'altra spiegazione. Sono convinto che non ne esistono altre, e che se il mondo fu proprio costruito col dolore, fu costruito dalle mani dell'amore, perché in nessun altro modo l'anima dell'uomo, per cui il mondo è stato fatto, potrebbe raggiungere l'intera misura della sua perfezione". E concludeva però affermando che "lo stato di ribellione chiude le vie dell'anima, escludendo le aure del cielo". Una ribellione contro Dio che lui stesso aveva sperimentato, e rinnegato, e che rimane presente, invece, nelle tante considerazioni filosofiche e teologiche che Veronesi mescola alle sue posizioni bioetiche; e che deriva forse che dall'aver visto troppa gente morire, di cancro, sola, senza Dio e senza il prossimo. Perché nell'era dell'uomo che si fa Dio, che eleva la ribellione al di sopra della fiducia e dell'abbandono, il dolore perde veramente il suo significato, e lascia a molti, come unica via d'uscita, solo un estremo atto di sfida, di disperazione e di solitudine, come l'eutanasia. Ad essa si riferisce Veronesi, ancora una volta, nel suo pubblicizzatissimo "Il diritto di morire", in cui non fa che ricollegarla al concetto di libertà, al principio di autodeterminazione: l'eutanasia non sarebbe altro, in fondo, che un modo come un altro per essere veramente se stessi, consapevoli che alla fine, per affrontare la morte "con maggior serenità", basta non credere nell'aldilà, ma soltanto nel perpetuarsi del patrimonio genetico e cioè del Dna, che "riproducendosi in ciascun uomo propaga incessantemente la vita" (mentre Veronesi propaganda la "dolce morte"), e realizza una "versione moderna dell'immortalità, in quanto il Dna è in effetti immortale"! Amenità e filosofemi a parte, il resto dell'argomentazione pro eutanasia si riduce ad un falso pietismo a buon mercato, in cui appunto la parola pietà viene di continuo profanata, scimmiottata, invertita, proprio come ai tempi di Adolf Hitler "Si garantisca - scriveva il dittatore al dottor Karl Brandt, decretando l'eliminazione di migliaia e migliaia di giovani e anziani malati - la morte pietosa ai pazienti considerati incurabili secondo il miglior giudizio umano".
A tale proposito lo psichiatra americano Leo Alexander, a cui fu commissionato uno studio sui piani eutanasici del nazismo, scriveva: "Qualunque proporzione abbiano assunto alla fine i crimini nazisti, a chi li ha studiati appare ormai chiaro che iniziarono a piccoli passi. All'inizio si trattò solo di un piccolo spostamento nell'atteggiamento di fondo dei medici. Il primo passo fu l'accettazione dell'idea, fondamentale nel movimento pro eutanasia, che può esistere una vita non degna di essere vissuta. Questo atteggiamento, all'inizio, riguardava esclusivamente i malati molto gravi e cronici. Gradualmente la sfera di chi poteva essere incluso nella categoria si andò allargando fino a comprendere gli individui socialmente improduttivi, quelli ideologicamente indesiderabili...". E' del tutto evidente, pertanto, che se l'umanità perde il concetto di sacralità della vita, e si allontana dall'ambito del sacro e dalla fede, anche il culmine dell'esistenza (cioè la morte) perde il suo profondo valore. Il tempo del morire acquisisce significato solo se apre ad una trascendenza, verso una pienezza di vita. Nell'era della tecnologia e del progresso illimitato, però, la ricerca dell'utilità determina il sorgere dell'etica edonistica, per la quale l'evento della morte è nient'altro che un semplice incidente di percorso.
A tal proposito vale la pena di ricordare la splendida riflessione di Philippe Ariès, il quale nell'affrontare il tema della mutazione della percezione della morte in occidente, scrisse: "La morte è divenuta tabù, una cosa innominabile [...]. Una volta si raccontava ai bambini che nascevano sotto un cavolo, però essi assistevano alla grande scena degli addii, nella camera e al capezzale del morente [...] oggi i bambini vengono iniziati, fin dalla più tenera età, alla fisiologia dell'amore e della nascita, ma, quando non vedono più il nonno e chiedono il perché, in Francia si risponde loro che è partito per un paese molto lontano, e in Inghilterra che riposa in un bel giardino dove cresce il caprifoglio. Non sono più i bambini a nascere sotto un cavolo, ma i morti a scomparire tra i fiori". Ecco, di fronte a tutto questo, alle nuove e ridicole divinità, come ad una concezione inumana del dolore, non si può solo ridere, con volgare fragore, come si sarebbe tentati di fare. Al contrario, i cattolici, come si sono adoperati con i Centri di aiuto alla vita per rendere meno sole le mamme e le famiglie, di fronte ad una nascita, si riorganizzano e si riorganizzino oggi come i volontari della Associazione Gigi Ghirotti di Genova, nata per assistere in casa, ogni anno, circa mille malati di cancro, sia attraverso una presenza umana ed amichevole sia cercando di "lenire il dolore nella sua dimensione fisica per mezzo dei farmaci e di tecniche antalgiche diverse". Altrimenti è inevitabile che si finisca come nell'Oregon, dove l'eutanasia, che è spesso considerata come la soluzione finale al dolore solitario, avviene nella solitudine più nera: "la legge dell'Oregon infatti impone al medico di incontrare il paziente una sola volta per determinare se è in fase terminale, di rinviarlo ad un altro medico per conferma, di aspettare due settimane e di vedere se riceve una seconda richiesta di morte. Dopodiché la prescrizione può essere eseguita e il medico può rimanere fuori dal resto della vicenda", di modo che in molti casi "colui che ha eseguito la prescrizione ha conosciuto il paziente soltanto poche settimane prima della (sua) morte".
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Ma veniamo al neodarwinismo di Veronesi. Quale può essere il collegamento tra le grandi discussioni odierne sulla moralità di certe manipolazioni della vita, e la teoria darwinista, nella sua parte relativa all'origine dell'uomo da antenati scimmieschi? Ce lo spiegava; indirettamente, già molti anni fa un filosofo inglese, Bertrand Russell, assai distante da posizioni cattoliche: "Un seguace dell'evoluzione sosterrebbe che non solo la dottrina dell'uguaglianza di tutti gli uomini, ma anche quella dei diritti dell'uomo, deve essere condannata come antibiologica, poiché fa una distinzione troppo netta tra gli uomini e gli animali" ("Storia della filosofia occidentale"). Il discorso è semplice: se l'uomo è solo animale, i suoi diritti, ed in particolare quello alla vita, non sono diritti intangibili, inalienabili! Se è solo animale, e cioè materia in evoluzione, inoltre, vi sono stadi più o meno avanzati: uomini, o "razze", o classi sociali, che "valgono" di più o di meno!
Ma andiamo con ordine. Bisogna anzitutto ricordare di nuovo che l'evoluzione in sé è perfettamente compatibile con il pensiero cristiano e con il concetto di creazione, al punto che fu in qualche modo intuita già da san Basilio, san Gregorio di Nissa, sant'Agostino d'Ippona e tanti altri, i quali ritenevano che Dio, nel creare la materia, avesse immesso in essa le capacità, o rationes seminales, per generare nel tempo le varie creature. Ma non è altresì compatibile con l'antropologia cattolica l'idea darwinista, per nulla scientifica, che tutto sia dovuto al caso, e che l'anima non sia in fondo che materia evolutasi attraverso imprecisate ed inspiegabili modalità. Non è, cioè, compatibile con la nostra fede né con l'intelligenza ritenere, come facevano già nell'Ottocento pensatori darwinisti, che il cervello sia solo una macchina a vapore, e che il pensiero venga da esso prodotto analogamente a come l'urina o i succhi gastrici vengono secreti da altri organi. Se infatti così fosse, crollerebbero i fondamenti per affermare la libertà dell'uomo, la sua coscienza, la morale, l'immortalità dell'anima, le sue aspirazioni e tutto ciò che fa di noi degli "animali" razionali, sociali, capaci di scegliere tra il bene e il male. Ne è consapevole lo stesso Darwin, allorché sostiene che il senso di giustizia dipende dall'abitudine, e non riguarda qualcosa di metafisicamente Vero: "Se ad esempio gli uomini fossero allevati nelle stesse condizioni precise delle api, possiamo supporre che, come le api operaie, le nostre femmine non sposate riterrebbero un sacro dovere uccidere i loro fratelli, le madri cercherebbero di uccidere le loro figlie fertili, e nessuno penserebbe di intervenire" ("L'origine dell'uomo", Newton, 1994, p. 603). Così, se l'uomo fosse veramente, solamente, un'altra forma di scimmia, verrebbe meno l'idea, come scriveva Russell, che possano esistere dei "diritti umani" sacri ed inviolabili, superiori a quelli delle altre creature. Infatti, a ben vedere, dovrebbe valere, per le bestie come per noi, la stessa legge: quella del più forte, la legge della selezione naturale. Legge, questa, che piaceva indifferentemente a Marx ed Engels, che la considerava l'altra faccia della medaglia della lotta di classe, e agli economisti liberisti, di cui Darwin era un accanito lettore, ritenendo che "la forza motrice dell'evoluzione" fosse "una specie di economia biologica in un mondo di libera concorrenza" (Russell, op. cit.).
Legge, ancora, che affascinò anche due grandi ammiratori di Darwin, Hitler e Stalin, suoi appassionati lettori, oltre che i primi ad applicare politicamente concetti quali l'eugenetica, la negazione dell'individuo in nome della specie (vedi statalismo e nazionalismo), la selezione artificiale delle razze o delle classi sociali. Le conseguenze pratiche del cieco materialismo evoluzionista sono infatti devastanti. Ne esplica alcune lo stesso Darwin, quando nel suo "L'origine dell'uomo", dopo aver proclamato l'inferiorità mentale e fisica della donna rispetto all'uomo, dopo aver parlato degli "idioti" come esseri "molto pelosi che tendono a esibire caratteri di un tipo di animale inferiore", e dopo aver citato suo cugino, Francis Galton, padre dell'eugenetica moderna, propone che la generazione tra uomini avvenga nello stesso modo di quella tra bestie di un buon allevamento: "Noi uomini civilizzati, d'altra parte, facciamo di tutto per arrestare il processo di eliminazione; costruiamo asili per pazzi, storpi e malati; istituiamo leggi per i poveri ed i nostri medici esercitano al massimo la loro abilità per salvare la vita di chiunque, fino all'ultimo momento. Vi è motivo per credere che la vaccinazione abbia salvato un gran numero di quelli che per la loro debole costituzione un tempo non avrebbero retto al vaiolo. Così i membri deboli delle società civilizzate propagano il loro genere. Nessuno di quelli che si sono dedicati all'allevamento degli animali domestici dubiterà che questo può essere altamente pericoloso per la razza umana. E' sorprendente quanto presto la mancanza di cure, o cure non appropriate, porti alla degenerazione di una razza domestica, ma eccettuando il caso dell'uomo, è raro che qualcuno sia così ignorante da permettere che i propri peggiori animali si riproducano" (op. cit., p. 628). Riproporre oggi, dopo che, anche la scienza ammette l'impossibilità di penetrare realmente nel regno della psiche (dimostrando così la sua assoluta alterità rispetto alla materia), l'idea che Darwin ha dell'uomo, non è allora altro che il tentativo di fondare filosoficamente un terribile tentativo in atto: quello di cancellare il concetto di diritti umani, abbassandoli al livello dei diritti animali; quello di eliminare la concezione cristiana che vincola la dignità umana all'anima immortale, e non alla "composizione materiale", alla salute fisica, alla povertà o alla ricchezza; quello, in sintesi, come si è già detto, di trasformare i medici in veterinari. Ecco spiegato il celebre discorso di Veronesi (Corriere della Sera, 15 maggio 2005) sul suo essere "animalista e vegetariano", e nel contempo sull'uomo che equivale geneticamente allo scimpanzé, per poi legittimare la sperimentazione occisiva sugli embrioni umani! Quello che importa è infatti abbassare l'uomo al livello di animale, per giustificare così, filosoficamente, l'aborto selettivo dei feti malati, o semplicemente imperfetti; le diagnosi prenatali con scopo eugenetico, sino alla proclamazione, come ha fatto Franco Chiarenza, vicepresidente della Fondazione Einaudi, del "dovere" per i genitori di eliminare i figli con handicap; la selezione eugenetica degli embrioni, e mille altre mostruosità, sino alla stessa eutanasia. Proprio riguardo a quest'ultima, infatti, in un libro in cui ne propone la liceità, Veronesi scrive: "Considero la morte nient'altro che un evento biologico. E' la rigenerazione, il lasciare spazio agli altri, come fanno gli animali che da vecchi si staccano dal branco per andare a morire da soli. Credo che una vita basti e avanzi. Ho visto morire meglio i pazienti senza fede" ("L'ombra e la luce") Non siamo noi uomini, dunque, "bruchi nati a formare l'angelica farfalla", come secoli di fede, cultura, arte e filosofia ci hanno insegnato; non "animali razionali" capaci di pensiero e di amore, ma solo bestie di un branco, che devono via via fare spazio ad altre: masse animali, senza volto e senz'anima, senza individualità e senza valore, se non quello generico della specie. "Siamo - scrive ancora Veronesi - parte di un grande disegno biologico che prevede quattro tappe. Nascere, procreare, allevare i figli, morire" (op. cit.). Nient'altro: il resto, per lui, come per gli altri darwinisti, sono favole e sentimentalismi da cattolici! Ecco perché, per concludere, l'intreccio tra darvinismo e disprezzo dei "diritti umani", evidente sul piano filosofico, è perfettamente dimostrabile anche sul terreno storico: fondatori dell'eugenetica sono il figlio di Darwin, Leopold, e, soprattutto, suo cugino, Francis Galton; apologeti e apostoli dell'eutanasia, dell'aborto, della fecondazione artificiale, e financo della liberalizzazione delle droghe, sono l'amico e discepolo di Darwin, Thomas Huxley, e i suoi figli Aldous e Julian. A quest'ultimo, in particolare, si deve non solo l'aver contribuito alla formulazione del neodarwinismo, ma anche la fondazione della American Eugenics Society, della British Eugenics Society e della Euthanasia Society.
* * *
Il buon Umberto Veronesi non conosce riposo, non vuole permettere che fondamentalisti, assolutisti, dogmatici di ogni genere, come ama definirli, infettino il mondo con la loro ignorante superstizione. Per questo li combatte, producendo a ritmo continuo libri-interviste, in cui cambiano i partner e gli editori, ma rimangono i concetti fondamentali di sempre: difesa dell'aborto, della fecondazione artificiale, della manipolazione genetica e della clonazione. Una delle ultime fatiche di Veronesi, "La libertà della vita", è un dialogo con un altro pontefice del libero pensiero, Giulio Giorello. Due giganti a confronto, sui grandi temi della vita, della scienza, dell'amore. La presenza di Giorello garantisce una cosa: l'assenza di quegli errori marchiani, di quelle date sbagliate, di quei riferimenti storici inopportuni che solitamente impreziosiscono gli interventi di Veronesi (tipo l'Impero romano che era "in decadenza" nel VII secolo). Ma veniamo al sodo. Per iniziare, secondo una strategia propagandistica affinata, occorrono alcune boutade, come l'affermazione secondo cui la chiesa sarebbe sempre e comunque per il dolore, fino se possibile a contrastare le cure palliative e l'utilizzo di farmaci antidolorifici, o come la storiella dei medievali che in nome di Dio si opponevano all'invenzione degli occhiali peri miopi. Si crea così lo sfondo grottesco su cui innestare l'idea fondamentale: sappia il lettore che i due protagonisti del dialogo sono in lotta permanente contro entità spaventose, di una ignoranza e di una rozzezza senza pari.
Fatta la premessa, lo scienziato Veronesi può sbizzarrirsi a sostenere, anzitutto, che il compito affidato dall'evoluzione all'uomo (animale senz'anima) è solo quello di fare figli: "Dopo aver generato i doverosi figli e averli allevati, il suo compito è finito, occupa spazio destinato ad altri", per cui bisognerebbe che le persone a cinquanta o sessant'anni sparissero" (p. 39). Si passa poi a Dio, che Veronesi liquida in poche righe, come una invenzione dell'uomo, di cui nella Russia comunista nessuno in fondo sentiva il bisogno. Del resto "anche gli elefanti pregano" (p. 47), e la fede degli uomini nasce di fronte ai temporali, ai lampi e ai tuoni, per paura... (evidentemente permane, purtroppo, anche nell'era del parafulmine, ma solo come residuo primordiale). Ciò non toglie, riprende Veronesi, che si debba dialogare anche con i credenti: pensierino ipocrita di cui ogni buon laicista ama fregiarsi, dopo varie manifestazioni di alterigia e disprezzo. Il culmine del grottesco, in un libro che è veramente piccino in tutti i sensi, viene raggiunto nell'ultimo capitoletto, dove si parla di clonazione, terapeutica e riproduttiva. "E perché non provare a immaginare per i tempi futuri piccoli gruppi che si riproducono e si, diffondono per clonazione?" (p. 83). A questo punto Veronesi immagina il caso di una donna bella e intelligente che voglia un figlio, senza uomini, perché li odia, e ricorra quindi alla clonazione. Come e perché impedirglielo, chiede Giorello, secondo cui tutto ciò che uno desidera può automaticamente farlo (senza rispetto alcuno per l'innocente il debole che vi è coinvolto): "A chi fa male la scelta della nostra ipotetica donna che odia l'intero genere maschile?". E Veronesi risponde: "Non credo che di per sé la mancanza dell'eventuale padre possa costituire da sola una ragione contro quel tipo di clonazione" (p. 89). E prosegue: "Ha senso, e se sì dove è il senso, che per avere un figlio ci vogliano sempre comunque un maschio e una femmina?... Dopotutto non pochi esseri viventi primordiali si perpetuano per autofecondazione. Certo per le specie evolute la dualità maschio femmina è apparsa sempre inderogabile. Ma possiamo dirlo ancora, dal momento che siamo capaci di manipolare il Dna e di clonare? Perché tanta paura della clonazione se l'abbiamo davanti agli occhi ogni volta che assistiamo ad un parto gemellare? Come tu dicevi: perché mai dovremmo per principio vietare alle donne di donare se stesse?" (p. 91). Detto questo, Veronesi conclude addirittura dicendo che la clonazione è in realtà il metodo migliore di riproduzione della specie umana perché "il desiderio sessuale cesserebbe così di essere uno dei maggiori elementi di competizione" e nessuno "sarebbe più ossessionato dalla ricerca del partner". Nascerebbe così una società "quasi felice", in cui ognuno vivrebbe "quell'ansia di bisessualità che è profondamente radicata in noi", e "avremmo davanti a noi il Paradiso terrestre". Finisce così, con questa splendida promessa l'ennesima filippica dello "scienziato" laico, che vuole per tutti, in nome della libertà e della scienza, figli in provetta, figli clonati, uomini ermafroditi, e una società senza l'amore tra uomini e donne. E poi dicono che la chiesa è sessuofobica...
Fonte: Il Foglio 27 febbraio 2008
Padre Pio, difesa delle stimmate
Per rispondere ai sospetti dello storico Luzzatto, i due giornalisti Tornielli e Gaeta riesaminano tutta la documentazione raccolta sulle piaghe del cappuccino di Pietrelcina. Il verdetto: si tratta di accuse vecchie, già risolte e basate su fonti parziali. Leggendo le quattro pagine della PREMESSA scritta dagli autori, si può già comprendere l’importanza del libro…
Un libro per rispondere a un libro. Scomodando Jean Guitton «se la critica può mettere in crisi il credente, la critica della critica può ristabilire la verità». Spentesi le polemiche che a fine ottobre riempirono giornali, talk show e blog, con il volume di Sergio Luzzatto su Padre Pio, ecco un nuovo volume con il proposito «di ristabilire la verità dei fatti», dopo aver riscontrato «affermazioni apodittiche», «omissioni», «approssimazione». Al contrattacco, tra rilievi e contestazioni, riletture di documenti e nuove testimonianze, vanno Saverio Gaeta ed Andrea Tornielli da oggi in libreria con Padre Pio. L’ultimo sospetto (Piemme, pp. 240, 14,90). Convinti che il libro di Luzzatto «rappresenta di fatto un atto d’accusa contro P. Pio sulla base di vecchi e superati sospetti», meno convinti dal suo modo di snobbare le fonti agiografiche («salvo poi riferirsi ad esse... quando può far comodo»), ma, soprattutto, nella certezza che le stimmate per mezzo secolo sul frate di Pietrelcina «non sono sovrastrutture o semplici proiezioni mentali », i due hanno rivisto negli archivi della Congregazione per la Dottrina della fede e in quella delle Cause dei santi, i documenti sul caso e la Positio.
Obiettivo, dimostrare «come i vecchi sospetti, messi in pagina da Luzzatto siano stati abbondantemente superati e risolti». La controinchiesta verte per larga parte proprio sul tema delle stimmate (la miccia – si ricorderà – che accese il dibattito, a partire da sospette richieste da parte del cappuccino di acido fenico e veratrina). Gli autori passano al vaglio ogni fonte coeva circa la scoperta delle piaghe da parte del frate sul suo corpo, sia i successivi racconti da lui fatti a direttori spirituali e confratelli (nel 1911 a padre Benedetto Nardella, nel 1912 a padre Agostino Daniele, nel 1918 ancora a padre Benedetto…), sia altre testimonianze contemporanee (padre Emilio da Matrice, padre Paolino da Casacalenda, la figlia spirituale Nina Campanile, padre Pietro da Ischitella, i vescovi Alberto Costa e Anselm Edward Kenealy) sino a quella di padre Placido da S. Marco in Lamis. Fu quest’ultimo, nel 1919, a realizzare la prima fotografia delle stimmate. Un’immagine – si legge nella Positio – scattata contro la volontà di Padre Pio, che si sentì dire dal fotografo: «Sono venuto con l’ordine del Provinciale e devi obbedire. Se non obbedisci, offendi Dio»; «A tale intimazione Padre Pio, con l’amarezza nell’animo, chinò il capo». Quanto basta per rinfacciare a Luzzatto di aver detto, riguiardo al fatto che Padre Pio si vergognasse delle stimmate: «È vero, nel senso che per cinquant’anni le ha tenute coperte con dei guanti. È falso, perché nella foto che non per caso abbiamo scelto con Einaudi come copertina del mio libro nessuno obbligava Padre Pio». Gaeta e Tornielli rileggono poi le relazioni dei medici coinvolti nell’esame delle stimmate (primo Angelo Maria Merla, suo medico curante, nonché sindaco socialista di San Giovanni Rotondo). Quindi, ripercorrendo la ricostruzione della Congregazione delle Cause dei santi, affiancano i riferimenti di carte e dichiarazioni giurate sui farmaci richiesti dal cappuccino. Evidenziando – circa le quantità – descrizioni spropositate di Luzzatto (ad esempio quando nota che «nel convento... erano indubbiamente circolati bottiglioni e bottigliette di acido fenico o di quant’altra sostanza irritante »), ma soprattutto ribadendo l’uso dell’acido fenico solo per la disinfezione delle siringhe in convento, e quello della veratrina per delle burle. Solo dal fatto di voler – parole di Padre Pio – «offrire ai Confratelli tabacco che con piccola dose di questa polvere diviene tale da eccitare subito a starnutire». Anche le prime accuse di padre Gemelli (che comunque «non vide nemmeno le sue stimmate»), come pure le successive indagini del Sant’Uffizio (in particolare i sei incontri fra l’inquisitore carmelitano Raffaello Carlo Rossi e il frate, con la conclusione: «Le stimmate ci sono: siamo dinanzi a un fatto reale»), sino all’ultima relazione del fondatore dell’Università Cattolica con la sua diagnosi di isterismo, difficile da sostenere scientificamente, occupano più d’un capitolo di questo saggio.
Che però, oltre alla posizione di Luzzatto sulle stimmate rifiuta anche quella circa il Padre Pio «clerico-fascista ». Se nel cappuccino è innegabile l’avversione per le sinistre, «farne il simbolo del clerico-fascismo, come pretende Luzzatto (...), è una riduzione », scrivono Gaeta e Tornielli. Pronti poi a fargli le pulci sulla tesi che farebbe intravedere nel frate «l’ideologo se non addirittura la 'causa' dell’eccidio di San Giovanni Rotondo del 1920», mentre all’origine c’era stata l’uccisione di un carabiniere. Non è finita. Anche sulle contraddizioni di Emanuele Brunatto, benefattore e faccendiere, difensore del cappuccino e spia fascista, ma pure sul reale atteggiamento di Giovanni XXIII verso il frate, sono parecchie le divergenze interpretative. E la querelle tra storici e giornalisti che invertono i ruoli rivendicando patenti e primati?
Qui prende la cifra di uno scontro tra giornalisti magari «devoti» (definizione di Luzzatto), ma che di certo non rinunciano allo scavo sui documenti, e uno storico «agnostico» che non disdegna fogli quotidiani e piccolo schermo. Risparmiamo ai lettori il venenum in cauda del libro, che rilancia sullo storico un «ultimo sospetto» circa il suo ricorso a fonti «inedite », corredato di segnalazioni di sviste, refusi, errori di natura onomastica e... audiatur et altera pars. Chissà cosa direbbe don Giuseppe de Luca. Lui, che ben conosceva il cappuccino, così ne scrisse a un amico il 15 settembre 1934: «Che cosa terribile un santo! (...) Lei sa che ha le stimmate, le vere stimmate innascondibili sono nell’occhio, d’una abbagliante luce, nel suo volto pallido e bruciato da una febbre oltremondana, nella povera persona fiacchissima e percorsa sempre da un brivido terribile, dal pensiero di Dio. In nessuno mai ho visto così presente e 'crudele' Iddio...».
di Marco Roncalli
Avvenire 26 febbraio 2008
Benedetto XVI: “abbiamo bisogno di una conversione permanente”Intervento all'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 27 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale nell'Aula Paolo VI, dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Con il suo intervento, a continuazione del ciclo di catechesi sui Padri della Chiesa, ha concluso le riflessioni sulla figura e le opere di Sant’Agostino.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
con l’incontro di oggi vorrei concludere la presentazione della figura di sant’Agostino. Dopo esserci soffermati sulla sua vita, sulle opere e su alcuni aspetti del suo pensiero, oggi vorrei tornare sulla sua vicenda interiore, che ne ha fatto uno dei più grandi convertiti della storia cristiana. A questa sua esperienza ho dedicato in particolare la mia riflessione durante il pellegrinaggio che ho compiuto a Pavia, l’anno scorso, per venerare le spoglie mortali di questo Padre della Chiesa. In tal modo ho voluto esprimere a lui l’omaggio di tutta la Chiesa cattolica, ma anche rendere visibile la mia personale devozione e riconoscenza nei confronti di una figura alla quale mi sento molto legato per la parte che ha avuto nella mia vita di teologo, di sacerdote e di pastore.
Ancora oggi è possibile ripercorrere la vicenda di sant’Agostino grazie soprattutto alle Confessiones, scritte a lode di Dio e che sono all’origine di una delle forme letterarie più specifiche dell’Occidente, l’autobiografia, cioè l’espressione personale della coscienza di sé. Ebbene, chiunque avvicini questo libro straordinario e affascinante, ancora oggi molto letto, si accorge facilmente come la conversione di Agostino non sia stata improvvisa né pienamente realizzata fin dall’inizio, ma possa essere definita piuttosto come un vero e proprio cammino, che resta un modello per ciascuno di noi. Questo itinerario culminò certamente con la conversione e poi con il battesimo, ma non si concluse in quella Veglia pasquale dell’anno 387, quando a Milano il retore africano venne battezzato dal Vescovo Ambrogio. Il cammino di conversione di Agostino infatti continuò umilmente sino alla fine della sua vita, tanto che si può veramente dire che le sue diverse tappe – se ne possono distinguere facilmente tre – siano un’unica grande conversione.
Sant’Agostino è stato un ricercatore appassionato della verità: lo è stato fin dall’inizio e poi per tutta la sua vita. La prima tappa del suo cammino di conversione si è realizzata proprio nel progressivo avvicinamento al cristianesimo. In realtà, egli aveva ricevuto dalla madre Monica, alla quale restò sempre legatissimo, un’educazione cristiana e, benché avesse vissuto durante gli anni giovanili una vita sregolata, sempre avvertì un’attrazione profonda per Cristo, avendo bevuto l’amore per il nome del Signore con il latte materno, come lui stesso sottolinea (cfr Confessiones, III, 4, 8). Ma anche la filosofia, soprattutto quella d’impronta platonica, aveva contribuito ad avvicinarlo ulteriormente a Cristo manifestandogli l’esistenza del Logos, la ragione creatrice. I libri dei filosofi gli indicavano che c’è la ragione, dalla quale viene poi tutto il mondo, ma non gli dicevano come raggiungere questo Logos, che sembrava così lontano. Soltanto la lettura dell’epistolario di san Paolo, nella fede della Chiesa cattolica, gli rivelò pienamente la verità. Questa esperienza fu sintetizzata da Agostino in una delle pagine più famose delle Confessiones: egli racconta che, nel tormento delle sue riflessioni, ritiratosi in un giardino, udì all’improvviso una voce infantile che ripeteva una cantilena, mai udita prima: tolle, lege, tolle, lege, "prendi, leggi, prendi, leggi" (VIII, 12,29). Si ricordò allora della conversione di Antonio, padre del monachesimo, e con premura tornò al codice paolino che aveva poco prima tra le mani, lo aprì e lo sguardo gli cadde sul passo dell’epistola ai Romani dove l’Apostolo esorta ad abbandonare le opere della carne e a rivestirsi di Cristo (13, 13-14). Aveva capito che quella parola in quel momento era rivolta personalmente a lui, veniva da Dio tramite l’Apostolo e gli indicava cosa fare in quel momento. Così sentì dileguarsi le tenebre del dubbio e si ritrovò finalmente libero di donarsi interamente a Cristo: "Avevi convertito a te il mio essere", egli commenta (Confessiones, VIII, 12,30). Fu questa la prima e decisiva conversione.
A questa tappa fondamentale del suo lungo cammino il retore africano arrivò grazie alla sua passione per l’uomo e per la verità, passione che lo portò a cercare Dio, grande e inaccessibile. La fede in Cristo gli fece capire che il Dio, apparentemente così lontano, in realtà non lo era. Egli, infatti, si era fatto vicino a noi, divenendo uno di noi. In questo senso la fede in Cristo portò a compimento la lunga ricerca di Agostino sul cammino della verità. Solo un Dio fattosi "toccabile", uno di noi, era finalmente un Dio che si poteva pregare, per il quale e con il quale si poteva vivere. E’ questa una via da percorrere con coraggio e nello stesso tempo con umiltà, nell’apertura a una purificazione permanente di cui ognuno di noi ha sempre bisogno. Ma con quella Veglia pasquale del 387, come abbiamo detto, il cammino di Agostino non era concluso. Tornato in Africa e fondato un piccolo monastero vi si ritirò con pochi amici per dedicarsi alla vita contemplativa e di studio. Questo era il sogno della sua vita. Adesso era chiamato a vivere totalmente per la verità, con la verità, nell’amicizia di Cristo che è la verità. Un bel sogno che durò tre anni, fino a quando egli non venne, suo malgrado, consacrato sacerdote a Ippona e destinato a servire i fedeli, continuando sì a vivere con Cristo e per Cristo, ma a servizio di tutti. Questo gli era molto difficile, ma capì fin dall’inizio che solo vivendo per gli altri, e non semplicemente per la sua privata contemplazione, poteva realmente vivere con Cristo e per Cristo. Così, rinunciando a una vita solo di meditazione, Agostino imparò, spesso con difficoltà, a mettere a disposizione il frutto della sua intelligenza a vantaggio degli altri. Imparò a comunicare la sua fede alla gente semplice e a vivere così per essa in quella che divenne la sua città, svolgendo senza stancarsi un’attività generosa e gravosa che così descrive in uno dei suoi bellissimi sermoni: "Continuamente predicare, discutere, riprendere, edificare, essere a disposizione di tutti – è un ingente carico, un grande peso, un’immane fatica" (Serm. 339, 4). Ma questo peso egli prese su di sé, capendo che proprio così poteva essere più vicino a Cristo. Capire che si arriva agli altri con semplicità e umiltà, fu questa la sua vera e seconda conversione.
Ma c’è un’ultima tappa del cammino agostiniano, una terza conversione: quella che lo portò ogni giorno della sua vita a chiedere perdono a Dio. Inizialmente aveva pensato che una volta battezzato, nella vita di comunione con Cristo, nei Sacramenti, nella celebrazione dell'Eucaristia, sarebbe arrivato alla vita proposta del Discorso della montagna: alla perfezione donata nel battesimo e riconfermata nell'Eucaristia. Nell’ultima parte della sua vita capì che quello che aveva detto nelle sue prime prediche sul Discorso della montagna — cioè che adesso noi da cristiani viviamo questo ideale permanentemente — era sbagliato. Solo Cristo stesso realizza veramente e completamente il Discorso della montagna. Noi abbiamo sempre bisogno di essere lavati da Cristo, che ci lava i piedi, e da Lui rinnovati. Abbiamo bisogno di una conversione permanente. Fino alla fine abbiamo bisogno di questa umiltà che riconosce che siamo peccatori in cammino, finché il Signore ci dà la mano definitivamente e ci introduce nella vita eterna. In questo ultimo atteggiamento di umiltà, vissuto giorno dopo giorno, Agostino è morto.
Questo atteggiamento di umiltà profonda davanti all’unico Signore Gesù lo introdusse all’esperienza di un’umiltà anche intellettuale. Agostino, infatti, che è una delle più grandi figure nella storia del pensiero, volle negli ultimi anni della sua vita sottoporre a un lucido esame critico tutte le sue numerosissime opere. Ebbero così origine le Retractationes ("revisioni"), che in questo modo inseriscono il suo pensiero teologico, davvero grande, nella fede umile e santa di quella che chiama semplicemente con il nome di Catholica, cioè della Chiesa. "Ho compreso – scrive appunto in questo originalissimo libro (I, 19, 1-3) – che uno solo è veramente perfetto e che le parole del discorso della montagna sono totalmente realizzate in uno solo: in Gesù Cristo stesso. Tutta la Chiesa invece – tutti noi, inclusi gli apostoli – dobbiamo pregare ogni giorno: rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori".
Convertito a Cristo, che è verità e amore, Agostino lo ha seguito per tutta la vita ed è diventato un modello per ogni essere umano, per noi tutti in cerca di Dio. Per questo ho voluto concludere il mio pellegrinaggio a Pavia riconsegnando idealmente alla Chiesa e al mondo, davanti alla tomba di questo grande innamorato di Dio, la mia prima enciclica, intitolata Deus caritas est. Questa infatti molto deve, soprattutto nella sua prima parte, al pensiero di sant’Agostino. Anche oggi, come al suo tempo, l’umanità ha bisogno di conoscere e soprattutto di vivere questa realtà fondamentale: Dio è amore e l’incontro con lui è la sola risposta alle inquietudini del cuore umano. Un cuore che è abitato dalla speranza, forse ancora oscura e inconsapevole in molti nostri contemporanei, ma che per noi cristiani apre già oggi al futuro, tanto che san Paolo ha scritto che "nella speranza siamo stati salvati" (Rm, 8, 24). Alla speranza ho voluto dedicare la mia seconda enciclica, Spe salvi, e anch’essa è largamente debitrice nei confronti di Agostino e del suo incontro con Dio.
In un bellissimo testo sant’Agostino definisce la preghiera come espressione del desiderio e afferma che Dio risponde allargando verso di Lui il nostro cuore. Da parte nostra dobbiamo purificare i nostri desideri e le nostre speranze per accogliere la dolcezza di Dio (cfr In I Ioannis, 4, 6). Questa sola, infatti, aprendoci anche agli altri, ci salva. Preghiamo dunque che nella nostra vita ci sia ogni giorno concesso di seguire l’esempio di questo grande convertito, incontrando come lui in ogni momento della nostra vita il Signore Gesù, l’unico che ci salva, ci purifica e ci da la vera gioia, la vera vita.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto i Vescovi amici del Movimento dei Focolari, ed assicuro la mia preghiera affinché il Signore li sostenga nel quotidiano ministero pastorale a servizio del Popolo di Dio. Saluto i rappresentanti della Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione "Auxilium" e quelli della Scuola Antonio Rosmini di Roma ringraziando ciascuno perché, con la partecipazione a questo incontro, hanno voluto rinnovare la loro filiale devozione verso il Successore di Pietro. Saluto i partecipanti al convegno promosso dall’Associazione Italiana di Medicina Nucleare ed auguro di portare avanti il loro impegnativo lavoro diagnostico e terapeutico con rinnovati sentimenti di profondo rispetto per la persona umana. Saluto poi gli esponenti della Marina Militare Italiana, i militari del Reggimento Lancieri di Montebello e i rappresentanti della Polizia di Stato di Isernia. Tutti incoraggio a seguire con generosa fedeltà Gesù e il suo Vangelo, per essere cristiani autentici in famiglia, nel lavoro e in ogni altro ambiente.
Saluto, infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. Cari fratelli e sorelle, proseguendo l’itinerario quaresimale, la Chiesa ci invita a seguire le orme di Cristo che si dirige verso Gerusalemme, dove darà compimento alla sua missione redentrice. Lasciatevi illuminare dalla sua parola affinché sia nello studio, sia nella malattia, sia nella vita di famiglia possiate sperimentare la sua presenza e percorrere un cammino di autentica conversione in questo sacro tempo di penitenza.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Pio XII e Fatima «Ho rivisto il miracolo»
di Andrea Tornielli
«Ho visto» il miracolo del sole, «questa è la pura verità». Nel 1950, poco prima di proclamare il dogma dell’Assunta, Pio XII mentre passeggiava nei giardini vaticani assistette più volte allo stesso fenomeno verificatosi nel 1917 al termine delle apparizioni di Fatima e lo considerò una conferma celeste di quanto stava per compiere. Una circostanza fino ad oggi nota solo grazie alla testimonianza indiretta del cardinale Federico Tedeschini che ne parlò durante un’omelia. Ora dall’Archivio privato Pacelli, conservato dalla famiglia del Pontefice, riemerge un documento eccezionale e inedito su quella visione: un appunto manoscritto dello stesso Pio XII, vergato a matita sul retro di un foglio nell’ultimo periodo della sua vita, nel quale in prima persona il Papa racconta ciò che gli è accaduto. L’appunto sarà esposto il prossimo novembre nella mostra vaticana dedicata a Papa Pacelli nel cinquantesimo della morte. Il resoconto è asciutto, quasi notarile, senza alcun cedimento al sensazionalismo.
«Era il 30 ottobre 1950», antivigilia del giorno della solenne definizione dell’assunzione, spiega Pio XII. Il Papa stava dunque per proclamare dogma di fede l’assunzione corporea in cielo della Madonna al momento della morte, e lo faceva dopo aver consultato l’episcopato mondiale, unanimemente concorde: soltanto sei risposte su 1.181 manifestavano qualche riserva. Verso le quattro di quel pomeriggio faceva «la consueta passeggiata nei giardini vaticani, leggendo e studiando». Pacelli ricorda che, mentre saliva dal piazzale della Madonna di Lourdes «verso la sommità della collina, nel viale di destra che costeggia il muraglione di cinta», sollevò gli occhi dai fogli. «Fui colpito da un fenomeno, mai fino allora da me veduto. Il sole, che era ancora abbastanza alto, appariva come un globo opaco giallognolo, circondato tutto intorno da un cerchio luminoso», che però non impediva in alcun modo di fissare lo sguardo «senza riceverne la minima molestia. Una leggerissima nuvoletta trovavasi davanti». «Il globo opaco - continua Pio XII nell’appunto inedito - si muoveva all’esterno leggermente, sia girando, sia spostandosi da sinistra a destra e viceversa. Ma nell'interno del globo si vedevano con tutta chiarezza e senza interruzione fortissimi movimenti». Il Papa attesta di aver assistito allo stesso fenomeno il giorno seguente, 31 ottobre, e il 1° novembre, giorno della definizione del dogma dell’Assunta, quindi di nuovo l’8 novembre. Poi non più». Ricorda pure di aver cercato «varie volte» negli altri giorni, alla stessa ora e in condizioni atmosferiche simili, «di guardare il sole per vedere se appariva il medesimo fenomeno, ma invano; non potei fissare nemmeno per un istante, rimaneva subito la vista abbagliata».
Nei giorni seguenti Pio XII riferisce il fatto «a pochi intimi e a un piccolo gruppo di Cardinali (forse quattro o cinque), fra i quali era il Cardinal Tedeschini». Quest’ultimo, nell’ottobre dell’anno seguente, 1951, si deve recare a Fatima per chiudere le celebrazioni dell’Anno Santo. Prima di partire viene ricevuto in udienza e chiede al Papa di poter citare la visione nell’omelia. «Gli risposi: “Lascia stare, non è il caso”. Ma egli insistette - continua Pio XII nel manoscritto - sostenendo l’opportunità di tale annuncio, ed io allora gli spiegai alcuni particolari dell’avvenimento». «Questa è, in brevi e semplici termini - conclude Papa Pacelli - la pura verità». «Pio XII era persuasissimo della realtà del fenomeno straordinario, cui aveva assistito ben quattro volte», ha dichiarato suor Pascalina Lehnert, la religiosa governante dell’appartamento papale.
Il cosiddetto «miracolo del sole» si era già verificato il 13 ottobre 1917 a Fatima, al termine delle apparizioni ai tre pastorelli. Così lo raccontò nella sua cronaca M. Avelino di Almeida, giornalista laico e non credente, inviato del quotidiano O Seculo e testimone oculare: «E si assiste allora ad uno spettacolo unico ed incredibile allo stesso tempo per chi non ne è stato testimone... Si vede l’immensa folla voltarsi verso il sole sgombro di nuvole, in pieno giorno. Il sole ricorda un disco d’argento sbiadito ed è possibile guardarlo in faccia senza subire il minimo disagio. Non scotta, non acceca. Si direbbe un’eclisse». Pio XII era molto legato a Fatima: la prima apparizione ai tre pastorelli era infatti avvenuta il 13 maggio 1917, lo stesso giorno in cui Pacelli veniva consacrato arcivescovo nella cappella Sistina. È attestato che Pio XII e l’unica sopravvissuta dei tre veggenti, suor Lucia Dos Santos, rimarranno sempre in contatto, e il Pontefice, nell’ultimo anno della sua vita, conserverà il testo del Terzo segreto di Fatima nel suo appartamento. «Varie volte - ha dichiarato la marchesa Olga Nicolis di Robilant Alves Pereira de Melo testimoniando al processo di beatificazione di Pacelli, «trasmisi messaggi del Santo Padre per Suor Lucia e di questa per lui, ma siccome promisi di mai rivelare nulla a chicchessia, non mi sento autorizzata a farlo adesso».
Andrea Tornielli
Diritto alla vita, insieme, del feto e della madre
DI CARLO CASINI
Avvenire, 28.2.2008
S ul Corsera del 22 scorso è comparso un fondo che mi ha dato l’illusione di poter contribuire a un dialogo sereno sulla Legge 194. Purtroppo il Corriere ha rifiutato la pubblicazione e mi rivolgo ad Avvenire. Ostellino scrive: «Quello della vita è un diritto naturale soggettivo fondamentale.
Incommensurabile, non negoziabile». Ma l’azione di Ferrara, chiarisce subito il fondo del Corriere, è morale, non politica, perché «anche la libertà, come la vita, è un diritto fondamentale, incommensurabile, non negoziabile». Nella contraddizione eticamente insanabile tra diritto alla vita (del nascituro) e diritto di libertà (delle donne) deve intervenire la legge per distinguere il peccato dal reato. Mi aggrappo al riconoscimento del diritto alla vita del nascituro. Dunque egli è un soggetto.
Un 'altro' rispetto alla madre.
Abbiamo già superato gran parte delle argomentazioni abortiste che qualificano il nuovo essere umano come «un grumo di cellule». Ostellino dice che non è la scienza in grado di definire la persona o la cosa. Ma la scienza fornisce i presupposti perché l’uomo possa dare un nome a ciò che vede. Diversità di opinioni? Ma il principio di precauzione, continuamente utilizzato in materia ecologica, non vale quando si tratta di decidere della vita o della morte di un possibile «individuo vivente appartenente alla specie umana»? Ma la libertà finisce dove inizia la vita di un altro. Chi potrebbe considerare libertà l’uccisione di uno già nato? E allora? Quella dell’aborto come può essere solo questione morale? Il senso nobile della laicità non è forse quello di assicurare la convivenza costruttiva di tutti? Eppure, nonostante l’evidente cogenza di queste domande che portano a negare la possibilità di concepire l’aborto come espressione di un inesistente diritto di autodeterminazione della donna (così Zagrebelsky su La Repubblica del 28 gennaio), io avverto difficoltà a trarne come conseguenza la punizione della donna. La gravidanza è il solo tempo in cui un essere umano vive all’interno di un altro essere umano. È comprensibile che la sua difesa debba svolgersi in modi diversi da quelli usati per proteggere i già nati. Essa passa essenzialmente attraverso la mente e il cuore della madre. Ma questa mente e questo cuore non sono estranei alla società in cui la donna vive. Di fatto ella ha il potere di eliminare suo figlio, potere difficilmente controllabile, anche per ragioni tecniche, dalla società che, invece, può fare molto per restituire alla donna la vera libertà, quella di non abortire. Va aggiunto che una giovane madre in gravidanza suscita tenerezza. All’origine vi è il suo dono, non solo nel gesto sessuale, ma anche nel fatto stesso della gestazione, che è modello di ogni possibile solidarietà per gli oneri e i rischi che comporta.
In questo la donna cammina davanti e indica la strada a tutta l’umanità.
C’è qualcosa che può far pensare al suo potere di vita o di morte sul figlio, non come diritto di libertà, ma come scommessa sul suo innato coraggio di accoglienza, che è potentemente mortificato dalla solitudine («è affar tuo, veditela tu») e, invece, è esaltato dall’affetto, dalle parole, dalla condivisione orientata verso la vita che sente intorno a sé. Il ragionamento può continuare ponendosi la domanda: c’è un modo nuovo, alto, efficace, umano e razionale per conciliare il limpido riconoscimento del diritto alla vita del figlio con la rinuncia alla sanzione contro la madre che abortisce? Credo di sì. Ma non è questa la linea della legge 194, preoccupata essenzialmente soltanto, al di là di qualche parola equivoca, di garantire l’aborto, non di difendere il diritto alla vita, insieme e non contro alla madre.