Nella rassegna stampa di oggi:
1) La sindrome di Klinefelter
2) Napoli, aborto o eugenetica?
3) Caro Francesco Merlo, non credo tu voglia far tacere la verità
4) La verità e la tv. Lettera a Pannella
5) Con la 194 aborti ridotti? Magari fosse così
6) Quello che per noi è vita per gli altri che cos’è?
7) America, quanto pesa la fede?
La sindrome di Klinefelter
Curatore: Buggio, Nerella
Fonte: www.samizdatonline.it
sabato 16 febbraio 2008
Conosciamo meglio la sindrome di cui era affetto il bambino abortito a Napoli, perché per capire bisogna conoscere.
Per la cronaca, visto che in pochi sembrano dare importanza alla cosa, vi segnalo una istruttiva scheda che descrive bene in cosa consiste la sindrome di Klinefelter, ovvero la malattia da cui (probabilmente) era affetto il bambino abortito a Napoli pochi giorni fa.
Apparentemente, nessuno dei medici con cui ha parlato questa sfortunata signora le ha spiegato che una semplice cura a base di iniezioni di testosterone, avviata all'inizio della pubertà, avrebbe consentito a suo figlio di superare i problemi connessi alla suddetta sindrome.
Sembra invece che la donna sia stata sottoposta a diverse sedute di "terrorismo psicologico", nelle quali le si prospettava che suo figlio avrebbe sofferto di "ritardo mentale, problemi al cuore, diabete e l'assenza di alcuni ormoni".
Come stupirsi poi se la donna si è sentita, oltre che sola, anche spaventata a morte?
Nella realtà invece, le statistiche mediche dicono che questa malattia ha le seguenti conseguenze:
"in età adulta, circa nel 93% dei casi la sola sterilità, mentre il paventato ritardo mentale si presenta in casi molto rari e coinvolgerebbe soprattutto la capacità verbale e di lettura, sulle quali si può facilmente intervenire con pratiche riabilitative adeguate".
Se non è selezione eugenetica questa...
Invece di scandalizzarsi dell'intervento della magistratura, perché non ci si chiede se siamo in presenza di un caso isolato oppure se questa è ormai diventata la norma?
Quanti bambini che potrebbero avere una vita normalissima, vengono "scartati" per motivi banali, nel nome di un inquietante "perfettismo biologico"?
Gino socio di SamizdatOnLine
Dal sito dell'Unione Italiana Sindrome di Klinefelter:
"[...] Ho 43 anni e sono affetto dalla sindrome di Klinefelter.
In effetti una malattia che sino a 3, 5 anni fa non sapevo nemmeno che esistesse.
Come tanti altri, ho vissuto molti anni senza esserne consapevole. Poi, il mancato concepimento di figli durante la vita matrimoniale ha reso necessari degli accertamenti clinici, tra i quali il cariotipo, e la mia sorgente genetica è risultata 47xxy. [...]"
Dal portale ClicMedicina.it:
"[...] In Italia oggi esistono migliaia di maschi con questa sindrome, vivono, occupano posti di responsabilità, e in alcuni casi di mosaicismo, sono anche fertili, ma la bagarre mediatica in corso verte, come abbiamo detto, sulle solite questioni relative alla legge 194 (morale, chiesa, liceità ecc...), sull'eccessività dell'intervento della polizia in reparto (anche i medici cattolici non hanno esitato a definire eccessivo il blitz), e sulle presunte irregolarità dell'aborto. E tutto questo perché? perché molte volte c’è ignoranza, non si conoscono bene i contenuti di ciò che si discute.
Il tragico e il deludente di tutta la situazione è che, ancora oggi, non si è ancora provveduto a spostare il punto di vista sulle affermazioni rilasciate sulla Sindrome di Klinefelter che viene ovunque definita come alterazione cromosomica con conseguenza gravissime. [...]
FORSE la donna è stata vittima di disinformazione da parte dei medici??? Oppure ha sovrastimato le notizie che le sono state fornite???
Speriamo che l’UNITASK, l’associazione dei soggetti con sindrome di Klinefelter, al più presto, possa far capire che il maschio con sindrome di Klinefelter non provoca dei mostri né dei ritardati mentali."
Napoli, aborto o eugenetica?
Autore: Buggio, Nerella
Fonte: CulturaCattolica.it
venerdì 15 febbraio 2008
Silvana è una donna di 39 anni, abita alla periferia di Napoli, attende un figlio malato e si sottopone ad un intervento di interruzione di gravidanza alla ventunesima settimana.
La sua storia finisce sui giornali, a causa, più che di ciò che ha fatto, della voglia di certo giornalismo di creare un caso politicamente “sfruttabile”, si vuole far credere che viviamo in un periodo di intimidazione nei confronti delle donne che ricorrono all’aborto.
In realtà, indagando meglio, si scopre che la donna a cui è stato indotto il parto si è sentita male ed ha iniziato il parto in bagno e qualcuno, presumibilmente un infermiere, temendo si trattasse di infanticidio ha avvisato la polizia, che ha fatto il suo lavoro, ha controllato quanto denunciato.
La donna è stata intervistata da una poliziotta in borghese mentre era nella sua stanza e non come pareva in un primo momento mentre era ancora sotto anestesia.
Ma si è scatenata la corsa a denunciare il clima di violazione della privacy della donna e di intimidazione dei medici.
I giornalisti le avranno chiesto il permesso di sbattere la sua storia sui giornali?
Si saranno preoccupati della sua salute psichica, per aver dovuto affrontare la popolarità a causa di un fatto così doloroso?
Nel leggere un’intervista rilasciata da Silvana a Repubblica, appare chiaro e tragico come nella sua semplicità i fatti che racconta, siano comuni a tante donne che abortiscono oltre il terzo mese di gravidanza, abortiscono un figlio che rischia di venire al mondo non perfetto e sono lasciate sole nella decisione, in nome di una asettica, quanto inumana, libertà della donna.
Racconta Silvana che quel figlio lo voleva, anche se avrebbe dovuto crescerlo da sola, senza l’aiuto del padre, poi gli esami e quello che lei definisce - il terribile verdetto-.
“Sul foglio c’era scritto Sindrome di Klinfelter, poi mi hanno tradotto il significato una cosa terribile”.
Una brutta malattia? Chiede il giornalista.
“Sì, un difetto dei cromosomi che poteva comportare ritardo mentale, problemi al cuore, diabete e l’assenza di alcuni ormoni”. “Non c’era altra scelta. Appena mi hanno comunicato che mio figlio sarebbe stato un malato per tutta la sua vita, non ho avuto dubbi. Ho deciso al momento, d’istinto: abortisco. Anche se sapevo che per me rappresentava una scelta particolarmente dolorosa”.
D’istinto dice Silvana, certo, d’istinto e nella solitudine è umano cercare di sottrarsi a una fatica, fosse anche un figlio.
Mi Chiedo dov’erano i consultori previsti dalla Legge 194/78 - art.2 - lettera d – che dovrebbero affiancare la donna “contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza. I consultori sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato”
Dove erano quelli che dovrebbero garantire che la Legge sia applicata, in tutte le sue parti?
Perché una donna sola e spaventata non ha via di scampo, non è libera di scegliere se non ha alternative tra le quali scegliere.
Silvana racconta che le hanno detto che quel bambino imperfetto era una minaccia per la sua salute psicofisica, ma le hanno detto che anche l’aborto è una terribile minaccia psicologica, che ci sono donne che non si sono riprese da questo gesto?
Non nascondiamoci dietro al solito dito, sappiamo benissimo che per tutte le gravidanze dove vi è anche solo il rischio, che il figlio non sia sano, il medico certifica che il proseguimento della gravidanza rappresenta una minaccia per la salute psicofisica della donna.
Non possiamo far finta di nulla e trincerarsi dietro alla pietà per quei poveri bambini sofferenti, chiamali pure “feto”, la sostanza non cambia e la loro eliminazione non ha nulla del gesto di pietà, sono creature di quattro/cinquecento grammi vengono eliminati perché imperfetti, la pratica si chiama eugenetica e non aborto terapeutico, perché di terapeutico non c’è nulla per il bambino che viene eliminato, né per la madre che ricorderà per sempre quel figlio non nato, né per la società.
La società, si, la società, perché quale società abbiamo costruito, se chiamiamo libertà, il libero arbitrio delle donne sulla vita dei loro figli.
Quale società stiamo costruendo se chi non è perfetto o si sospetta non lo sia, non ritenuto degno di essere messo al mondo?
Quale società stiamo costruendo se lasciamo le donne sole e senza alternative di fronte alla scelta di eliminare o di accettare un figlio?
Non può non pesarci sulle spalle quel numero impressionante di uomini e donne a cui è stato negato il diritto di vivere perché la loro non sarebbe stata una vita sana, dove sta scritto che la vita è dignitosa solo se sana?
Il Foglio, 16.2.2008
Giuliano Ferrara
Caro Francesco Merlo, non credo tu voglia far tacere la verità
Caro Francesco Merlo, è sabato ore 8 e trenta del mattino. Sono a Fiumicino. In partenza per Genova, e saranno parole. Poi Albenga, e saranno parole. A me il silenzio piace. Ma tu chiedi quel silenzio, quello lì, il silenzio sulla verità. Come faccio? Lo chiedi in nome del dramma di una donna a Napoli, e mi rimproveri di volerla fare impazzire di dolore dopo l’aborto di un bambino malato. Riguardati il Foglio e il tuo giornale in questi giorni. Vedrai che di Napoli non abbiamo nemmeno dato notizia, mentre Repubblica sparava in prima pagina la montatura sul blitz. Vedrai che abbiamo parlato solo per dire che in tutto quel disgustoso chiasso ideologico e cronistico, violatore della privacy di una donna intervistata dopo essere stata interrogata, e sbattuta sul giornale, e gridata nelle piazze come simbolo di un diritto, solo la verità delle cose era rimasta imprigionata nel silenzio: un bambino ucciso perché malato. Non ti conosco come un ipocrita. Non credo tu voglia far tacere la verità con l’arte della retorica sofistica. Rileggi i fatti e concludine come ti detterebbe, non una citazione fuori squadra di sant’Ambrogio, ma la tua ragione e la tua ragione del cuore, perfino. Provaci, Francesco. La verità abita dentro l’uomo, si sa. Ma un giornalista o semplicemente un laico, che alla verità sia devoto, deve dirla senza fanatismo, senza accettare un banale litigio con Pannella. Ripensaci, se vuoi.
Il Foglio, 15 febbraio 2008
La verità e la tv. Lettera a Pannella
Caro Pannella, questa mattina hai fatto una tremenda scenataccia in tv, a Raiuno, perché non ho accettato di discutere con te di aborto. Duilio Giammaria e la sua collega Elisa Ansaldi erano sconcertati dalla tua violenza verbale. Io invece la capivo. Hai dato scandalo perché pensavi che io rifiutassi di parlare con te della questione decisiva che ci divide aspramente. Ma non è così, e te lo spiego.
Io non discuterò della vita umana, come se fosse un’opinione, con alcun candidato in tv. La tv è antiveritativa. Un bel mezzo per comunicare, rispettabile e fatto da persone rispettabili, tra cui io stesso fino a ieri. Ma sul ponte di Messina o sull’Ici valgono le opinioni, sulla vita umana e l’amore vale la solitaria e pubblica ricerca della verità. Senza fanatismo, io penso di averla trovata, la verità sulla vita umana, e credo che sia giusto non esporla alla futilità delle opinioni a confronto.
Se le norme non mi consentiranno di esporre, in par condicio con altri candidati, le mie idee sulla strage eugenetica in corso nel mondo, pazienza. Entrerò in clandestinità mediatica. I cittadini hanno il diritto di essere informati sulle idee di chi si candida alle elezioni, ma anche i cittadini hanno un’anima razionale. E le anime razionali possono comunicare tra di loro, liberalmente (o liberamente?), anche fuori dalla televisione, se necessario.
In qualunque momento sono disposto a discutere con te in un teatro di aborto. A Milano, per esempio. La settimana prossima, se lo vuoi. Il teatro lo pago io con i miei soldi.
Un abbraccio severamente dissenziente dal tuo vecchio amico talebano. Riguardati e stammi bene
IMPOSSIBILE RISULTATO SENZA PREVENZIONE
Con la 194 aborti ridotti? Magari fosse così
Avvenire, 16.2.2008
GIAN CARLO BLANGIARDO
L a legge 194 ha realmente dimezzato il numero di aborti? Alcuni lo affermano, molti lo pensano.
D’altra parte, perché stupirci se una norma – che la recente relazione ministeriale segnala essere «non solo efficace, ma saggia e lungimirante. profondamente rispettosa dei principi etici della tutela della salute della donna e della responsabilità femminile rispetto alla procreazione» così come «dei valori sociali della maternità e del valore della vita umana dal suo inizio» – viene poi largamente interpretata come artefice del ridimensionamento che ha portato le interruzioni volontarie di gravidanza da quasi 250mila nei primi anni Ottanta a circa 140mila secondo l’ultimo dato disponibile?
Eppure non è difficile rendersi conto che alla causa ipotizzata (la legge 194) non può essere ricondotto alcun effetto di riduzione delle Ivg, semplicemente perché rispetto agli anni in cui il ricorso all’aborto volontario era ai massimi livelli nulla è cambiato sul piano normativo. Sarebbe plausibile attribuire alla 194 il merito di aver ridotto gli aborti, solo se con il passare degli anni dalla sua entrata in vigore le si potesse accreditare una qualche azione di prevenzione. Ma chi si sentirebbe oggi di affermare onestamente che è proprio grazie alla legge 194 che si sono potute prevenire più di 100mila Ivg annue? Negli ultimi 30 anni, le donne hanno forse trovato attraverso la legge 194 la soluzione ai problemi di varia natura che suggerivano loro di interrompere una gravidanza? No di certo.
Così come non hanno trovato nell’applicazione della legge alcuna azione di disincentivo o di contrasto. È innegabile che l’offerta e il quadro entro cui avvalersi della 194 non si è affatto modificato nel tempo in senso restrittivo. Anzi, si potrebbe legittimamente affermare che una decisione che i primi anni scontava ancora qualche resistenza di ordine morale e culturale, a lungo andare viene ormai percepita, per quanto difficile e dolorosa, come 'normale'.
Soprattutto da parte di chi – si pensi alle meno che trentenni – ha sempre convissuto con l’attuale normativa. Non è dunque la «saggia e lungimirante» legge 194 che ha modificato la realtà delle statistiche sull’aborto volontario. Se una riduzione c’è stata e se è stata di quelle dimensioni – il dubbio è legittimo, posto che oggi è certamente più agevole «risolvere i problemi» con tecniche che sfuggono alla rilevazione statistica e quindi al relativo conteggio – il merito non va certo attribuito alla 194, che proprio sul piano della prevenzione ha dimostrato la sua assoluta inefficacia: è semplicemente la domanda di Ivg che, nonostante il crescente contributo delle donne straniere (comunque ancora relativamente modesto), si è ridotta.
Verosimilmente, a seguito di una contraccezione più diffusa, così come della comparsa di metodiche di intervento – si pensi alla pillola del giorno dopo – che non esistevano negli anni Ottanta e, in positivo, anche delle crescenti iniziative del volontariato pro-life che si è prodigato nell’aiutare a risolvere i problemi che inducono ad abortire. Smettiamola di credere, e di proclamare, che la legge 194 abbia meriti per gli oltre 100mila casi che mancano alla conta rispetto a trent’anni fa. Semmai, ricordiamoci delle sue responsabilità per i 140mila che ancora oggi avvengono.
La legge non ha meriti per gli oltre 100mila casi che mancano rispetto a 30 anni fa
Quello che per noi è vita per gli altri che cos’è?
Avvenire, 16.2.2008
DI DON MAURIZIO PATRICIELLO
Lungo. Lungo e pasticcione l’articolo di Natalia Aspesi su La Repubblica
del 14 febbraio. Al Policlinico Federico II di Napoli, c’è stato un aborto terapeutico, che a qualcuno non è sembrato tale e lo ha denunciato. La Polizia, avvertita, è arrivata in ospedale per controllare. A quanto pare tutto era avvenuto rispettando la legge. A questo punto si è scatenato il finimondo. Il fatto viene cavalcato, con molto spreco di parole, da chi vede in esso una manovra politica, un attentato alla 194 e alla libertà della donna.
È veramente così? Ci si chiede: «La Polizia ha fatto il suo dovere? Poteva trovarsi anche a dover registrare una violazione della legge, e salvare un bambino?». Nei giorni scorsi si è tanto parlato di malasanità da intimorire gli ammalati e i loro familiari. Potrebbe succedere che oltre a chirurghi e pediatri distratti o negligenti, vi siano anche ginecologi sbarazzini? Abbiamo dimenticato ciò che avvenne un anno fa all’ospedale Careggi di Firenze? Ci fu un aborto terapeutico di un bimbo sano – ritenuto affetto da atresia dell’esofago – al quinto mese. Cosa ne è stato di quel bimbo? Quanto valeva quella vita? E dei suoi genitori chi si è preso cura?
Parte in quarta, l’Aspesi, e, nell’articolo, vi infila di tutto, da Giuliano Ferrara al Darfur; dal ’68 liberatorio, alle vecchie mammane. Logicamente non potevano mancare «le alte gerarchie in vesti nere e zucchetti cremisi». Ricorda un articolo di Guido Ceronetti che - dice - iniziava più o meno così : «Un’assassina ogni mattina mi rifà il letto, un’assassina mi prepara la colazione, un’assassina..». Si capisce dove vuole arrivare. Riporta tristi storie di egoismi maschili che non possono non trovare consensi da parte di chiunque abbia un minimo, non dico di amore per il prossimo, ma di rispetto per se stesso e per gli altri. Rivela, però, il nocciolo della questione, quando, parlando dei pro-life, li definisce «paladini che amano qualcosa che chiamano vita...».
Ecco, forse inavvertitamente, ci è arrivata. Il re è nudo. Ritorna la grande domanda che non può non trovare pensoso chiunque non sia accecato da vecchie o nuove ideologie. Quel qualcosa che per noi è vita, per costoro che cos’è? Continuando a scrivere e a parlare con tanta enfasi e gratuite offese, è molto probabile che il problema non si chiarisca, ma che, anzi, lo si ingarbugli ancora di più. Anziché abbattere gli antichi steccati, se ne costruiscono di nuovi. È troppo pacchiana la reazione al fatto di Napoli, per non accorgersi che lo si sta strumentalizzando. Insomma, al di là del chiasso, torna la domanda: «Doveva la polizia, allertata da una telefonata anonima, intervenire?». Se la risposta è negativa, si corre un grave rischio per il futuro. Constatando che tutto era avvenuto secondo la legge, oltre al fastidio e all’imbarazzo, che altro di grave è successo? C’è paragone tra l’imbarazzo provato e una vita salvata, qualora fosse stato possibile?
Definendo i pro-life persone che «odiano la vita e soprattutto il potere delle donne sul proprio corpo», non si rende un buon servizio a nessuno, né ai lettori, né tantomeno alla verità. Essi, i lettori, andrebbero rispettati di più. Ritenerli sprovveduti fino a questo punto, vuol dire offenderli inutilmente. Il tema della vita è troppo serio per essere affrontato con vecchi rancori e nuovi tentativi di depistaggi. Nessuno si sogna di rinnegare i disagi della donna che abortisce, ma è possibile che oltre alla comprensione per la sofferenza di chi sceglie di ricorrere all’aborto ci sia anche il dolore per una vita alla quale non si è permesso di venire al mondo? Il vero problema, purtroppo, è questo. La vita, ogni vita, ha un valore enorme, unico. La comprensione per la mamma può andare assieme alla simpatia per il bimbo che nasce: anche in questo non siamo manichei. Errori e convenienze ce ne saranno sempre. Vigliacchi – sia uomini che donne – ne troveremo ancora e dappertutto. Il male e il bene continueranno ad andare a braccetto, sovente nella stessa persona, ma che c’entra tutto questo con il diritto di un bimbo a nascere? Non ci è lecito offendere nessuno, nemmeno in risposta a offese ricevute. Siamo chiamati a farci prossimo a tutti, senza indagare il motivo del loro malessere. Permetteteci, però, di allargare il cuore anche a quei poveri, tanto poveri da non aver nemmeno la possibilità di fare udire la loro voce per ricordarci che non sono qualcosa, ma fratelli nostri in umanità.
America, quanto pesa la fede?
Avvenire, 16.2.2008
DI CARLO DIGNOLA
N egli Stati Uniti, all’interno del Partito repubblicano la destra religiosa sembra in ritirata.
Anche se alle prossime elezioni non dovesse vincere Barak Obama ma John McCain, a governare sarebbe un repubblicano pragmatico, molto diverso da George Bush.
L’immagine di un mondo teocon – in contrasto con quella di una società profondamente secolarizzata – nei prossimi anni è destinata probabilmente a sbiadire. Martedì sarà a Milano Stanley Hauerwas, protestante, docente di Etica teologica all’Università Duke, nella Carolina del Nord: la rivista Time nel 2001 lo ha indicato come il miglior teologo americano. Nell’Aula magna dell’Università Cattolica (ore 10,30) parlerà di «Eredità e futuro dell’Occidente. La democrazia e l’apporto del senso religioso», invitato dal dipartimento di Filosofia in collaborazione con il Centro culturale di Milano. Pensatore sottile, Hauerwas conosce bene anche le pieghe del problema, e non si lascia andare a semplificazioni. Sulla situazione reale della fede però è piuttosto pessimista. L’America non ha l’aspetto di un Paese in cui «Dio è morto»: i sondaggi di opinione continuano a registrare una percentuale molto elevata di cittadini che credono; tanti, soprattutto lontano dalle metropoli – dove vivono i giornalisti - –non solo partecipano ai riti ma restano anche molto legati alla vita delle comunità religiose. «In America – dice Hauerwas – sopravvive un’abbondante energia morale ispirata dalla religione», ma la fede a livello profondo non è così salda come a noi sembra, osservando le cose dall’altra sponda dell’Atlantico. Il Dio nel quale credono gli americani, dice Hauerwas, è «il Dio americano», una sorta di riferimento spirituale nazionale che non ha più molto a che fare con il Dio cristiano.
È in atto solo una «libera uscita» dei credenti sulle materie legate alla morale, oppure è davvero la fede ad aver fatto dei passi indietro?
«Per prima cosa, forse dovremmo parlare di numeri. I metodisti, ad esempio, credo siano circa sei milioni in un Paese che ha più di trecento milioni di abitanti, e probabilmente il sessantasettanta per cento di loro ha più di sessant’anni. Le Chiese stanno andando verso la bancarotta».
L’arcivescovo di Chicago, monsignor Francis E. George, ha detto che anche il cattolicesimo in America rischia di diventare «una forma di cristianesimo protestante».
«Si sentono persone che dicono frasi di questo tipo: 'Io sono cattolico, ma per me è solo una questione di appartenenza etnica'. Quando è così, ciò significa che sei diventato sostanzialmente un protestante. Il cristianesimo in America tende a diventare una forma di deismo. E un modo di sentire del genere sta intaccando anche la cultura cattolica. Molto spesso sento gente che dice: 'Io credo che Gesù è il Signore. Ma questa, naturalmente, è solo una mia opinione personale'».
Una contraddizione di termini.
«È l’esito di una certa idea di tolleranza. In America nessuno vorrebbe mai essere, né apparire intollerante. La prima regola della vita di oggi è: devi mostrarti simpatico. Questo produce un genere di superficialità che a lungo andare non arriva mai a misurarsi con una reale, seria differenza di convinzioni, anche religiose».
Esiste però una forma positiva di avvicinamento tra protestanti e cattolici.
«Diciamo che non esiste più, a livello di Chiese, una contesa basata su differenze dottrinali.
Difficilmente sentirai qualche teologo discutere sul contenuto del Credo di Nicea. Io rappresento il lato più 'cattolico' del protestantesimo, quello che vorrebbe recuperare la tradizione cristiana. Spesso oggi molti teologi protestanti hanno più cose in comune con certi teologi cattolici di quante ne abbiano alcuni cattolici o protestanti con altre persone della loro stessa confessione.
Viviamo un tempo decisamente strano».
Negli Stati Uniti è più forte la New Age o l’ateismo pratico?
«Di sicuro l’agnosticismo pratico è davanti ai nostri occhi. Non ho alcuna idea di cosa accadrà in futuro però. A tanti piacerebbe pensare che ci sarà qualche forma rinnovamento, che la gente finirà per essere completamente disperata e comincerà a pensare che la nazione ha bisogno di un punto di riferimento morale e da ciò avrà inizio un rinnovamento religioso. Io invece non credo che andrà così. Finché starà bene di salute, l’America continuerà a pensare di non avere molto bisogno di Dio. Non credo, però, che potremo continuare in questo modo a lungo. Quando l’America perderà la sua posizione di preminenza internazionale, nei prossimi cinquanta o cento anni, sarà meglio stare attenti: il logoramento di una civiltà cristiana morente come la nostra potrebbe essere pericoloso».
Non è ottimista. Eppure lei non è un «antiamericano».
«Io sono un americano. Sarebbe una manifestazione di ingratitudine non riconoscere che, nonostante le profonde critiche che esprimo nei confronti del mio paese, esso ha fatto di me ciò che sono. Ma essere un cristiano significa che la tua vita è resa vulnerabile anche da ciò che accade a gente che americana non è.
Io credo che questo sia il significato della parola 'cattolico', e mi pare che sia una cosa molto importante».
«Negli Stati Uniti i praticanti sono molti, ma sui dogmi manca una consapevole scelta. Tra le Chiese