mercoledì 6 ottobre 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    I cattolici e il Té Lorenzo Albacete mercoledì 6 ottobre 2010 – ilsussidiario.net
2)    IL CASO/ C'è un'Europa che vuole eliminare la famiglia di Gianfranco Amato mercoledì 6 ottobre 2010 – il sussidiario.net
3)    Avvenire.it – Cultura - 5 ottobre 2010 - LA CRITICA -Giorello senza Dio (infatti non ne parla) di Vittorio Possenti
4)    Vercelli Book, i valori straordinari della nostra civiltà di Massimo Introvigne - Intervento in occasione della proroga della mostra Vercelli Book. Percorsi straordinari - Seminario Arcivescovile, Vercelli, 5 ottobre 2010
5)    Avvenire.it, 6 ottobre 2010 – DIBATTITI - Non ci sono più gli atei di una volta di Èmile Poulat


I cattolici e il Té Lorenzo Albacete mercoledì 6 ottobre 2010 – ilsussidiario.net
Il “Canone del Tea Party”: così Kate Zernike sul New York Times definisce le principali idee filosofiche (e teologiche) che influenzano i teorici del “Tea Party Movement”, mentre le lezioni di mezza legislatura si avvicinano. Ed ecco il tipo di idee che, secondo il suo articolo del 1 ottobre, vengono promosse ovunque, dai cartelli di protesta alle piattaforme del Partito Repubblicano.

«I pamphlet del Tea Party chiedono una seconda Rivoluzione Americana», scrive la Zernike. Le opere che i teorici del movimento suggeriscono comprendono The Law (La Legge), di Frédéric Bastiat, pubblicato nel 1850, in cui si proclama che tassare il popolo per sovvenzionare scuole o strade è un furto sancito dal governo, e Road to Serfdom (La strada verso la schiavitù) di Friedrich Hayek (1944), dove si afferma che un governo che interviene nell’economia finisce inevitabilmente per interferire in ogni aspetto della vita dei suoi cittadini.

C’è anche The 5000 Year Leap (Il balzo di 5000 anni), pubblicato in proprio nel 1981 da un crociato anticomunista mormone, isolato dai suoi correligionari per le sue posizioni molto controverse, come la accesa difesa della John Birch Society, un’organizzazione di estrema destra. Il suo libro “asserisce” che i Padri Fondatori non volevano la separazione tra Chiesa e Stato e avrebbero considerato “peccato” le tasse destinate al benessere di altri.

Questi libri, scrive la Zernike, «hanno fornito zavorra intellettuale per un segmento di elettori arrabbiati o frustrati dalla situazione economica e dal crescente intervento del governo. Sono riusciti a convincere i loro lettori che gli economisti, i Padri Fondatori e, perfino, Dio, sono con loro nell’accusare il Presidente Obama e i Democratici di essere “socialisti”. Hanno, quindi, offerto una lettura alternativa a quella che i sostenitori del Tea Party denunciano come l’interpretazione “progressista” dell’economia e della storia nei testi che vanno per la maggiore».
Zernike riassume così: «In sintesi, il canone sostiene una visione del Paese dove il ruolo del governo è di proteggere la proprietà privata, contro le tasse quanto contro i ladri. Dove la religione ha un ruolo maggiore nella vita pubblica e dove ogni rete di protezione sociale è incostituzionale».

Esiste un «codice non scritto che vieta al governo di interferire con il ”perseguimento di fini e desideri personali”».

Zernike ci ricorda che nel Maine, la scorsa primavera, gli attivisti del Tea Party costrinsero la convention repubblicana a rigettare la piattaforma del partito per sostituirla con una che incitava a «tornare ai principi di economia della Scuola Austriaca» come esposta da Hayek, e alla convinzione che «la libertà di religione non significa libertà dalla religione». Questa nuova piattaforma includeva anche l’idea che «è immorale rubare quanto guadagnato da una persona e darlo a un altro che non ha nessun titolo o diritto per usufruirne».

Queste idee sono fortemente basate sui classici della Scuola Austriaca e chi le propone pensa ad una nuova prospettiva sulla Costituzione e sui Padri Fondatori. Tuttavia, come osserva la Zernike, questa interpretazione della Costituzione avviene «in un modo che la maggior parte degli studiosi non accetterebbe, perfino quelli che sostengono una sua interpretazione “originalista”».
Secondo questa concezione, i Padri Fondatori erano guidati da 28 “principi di libertà”, derivanti dalla convinzione che il governo dovrebbe essere fondato sulla “Legge Naturale” o su “un codice di retta ragione dal Creatore stesso.” I fondatori credevano nella protezione di diritti uguali, non nell’uguale distribuzione delle cose…

Quando Jefferson parlava di «un muro di separazione tra Chiesa e Stato» si riferiva solo al governo federale ed era, in realtà, «ansioso» che i governi statali «promuovessero la religione (…), che le scuole pubbliche fossero usate per lo studio della religione e si incoraggiasse la lettura della Bibbia».

Il fisco è visto come un “saccheggio legalizzato”. Permettere al governo di prendere qualcosa da una persona e utilizzarlo a beneficio di qualcun altro è «fare ciò che il cittadino non può fare senza commettere un crimine».

Secondo questa concezione, le tariffe agevolate, il salario minimo, i programmi di pubblica assistenza, presi nel loro insieme «costituiscono socialismo».
Cosa si deve pensare di tutto questo? Lo si confronti con le seguenti citazioni.

Le entrate fiscali e la spesa pubblica sono di cruciale importanza per ogni comunità civile e politica. L’obiettivo che deve essere ricercato è un finanziamento del pubblico che diventi esso stesso capace di diventare strumento di sviluppo e solidarietà. Un finanziamento del pubblico equo, efficiente ed efficace ha effetti estremamente positivi sull’economia, perché incoraggia la crescita dell’occupazione, sostiene le imprese e le attività non profit, aiutando ad aumentare la credibilità dello Stato come garante dei sistemi di protezione e sicurezza sociale, progettati soprattutto per proteggere i membri più deboli della società.

La spesa pubblica è diretta al bene comune quando vengono osservati alcuni principi fondamentali: il pagamento delle tasse come parte del dovere di solidarietà; un’applicazione della tassazione ragionevole ed equa; precisione e integrità nell’amministrare e distribuire le risorse pubbliche. Nella redistribuzione delle risorse devono essere rispettati i principi di solidarietà, equità e deve essere fatto uso dei talenti. Occorre anche prestare la massima attenzione alle famiglie, destinando un ammontare adeguato di risorse a questo scopo.

Questi brani sono tratti dal Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, preparato dal Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace, par.355. Questo discernimento è il frutto della rivelazione di Dio come Carità e della creazione della persona umana come essere chiamato a partecipare alla vita divina attraverso l’unione con Cristo.

Questo è ciò che la ricerca della santità apporta alla vita della società. La differenza tra questa posizione e un’ideologia, nata dalla rabbia o dalla frustrazione, è ovvia.


IL CASO/ C'è un'Europa che vuole eliminare la famiglia di Gianfranco Amato mercoledì 6 ottobre 2010 – il sussidiario.net
In Europa tira una preoccupante aria antifamilista. Il governo spagnolo ha irrogato una sanzione pecuniaria di 100.000 euro ad un’associazione cattolica denominata Intereconomía Corporación, che si occupa di comunicazione multimediale, per aver mandato in onda una campagna pubblicitaria televisiva in difesa dei valori legati al concetto tradizionale di famiglia.

Ciò che è stato ritenuto intollerabile dagli occhiuti censori ispanici del politically correct, è che l’immagine pubblicitaria, trasmessa 273 volte, mostrasse la scena di un gruppo di omosessuali durante la parata di un Gay Pride, e ponesse ai telespettatori una serie di domande, del tipo: «E’ questo il modello di società che desiderate?», «E’ questo l’esempio che vorreste per i vostri figli?». Inevitabile che venisse invocata la mannaia della legge spagnola che vieta forme comunicative discriminatorie basate su razza, sesso, nazionalità, religione ed opinione. Con buona pace del diritto di opinione dell’associazione cattolica multata.

La stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, peraltro, ha più volte affermato che la libertà di espressione rappresenta un pilastro essenziale di una società democratica, e che tale libertà non si applica solo alle idee condivisibili da tutti o ritenute inoffensive, ma anche ad espressioni che possono irritare, scioccare, dispiacere le autorità pubbliche o altri gruppi della popolazione. Anche la Corte Suprema della laicissima Francia, per esempio, con la recente sentenza n.7-83.398, ha stabilito, nel caso Vannest contro l’Associazione Act Up Paris, che l’affermazione secondo cui l’omosessualità è una condizione inferiore all’eterosessualità, non eccede i limiti della libertà di espressione.

In realtà, è proprio l’idea di difendere la famiglia tradizionale che è stata colpita dal provvedimento del governo socialista spagnolo. E non è soltanto una questione politica, poiché l’attacco alla famiglia in Europa sta assumendo, purtroppo, dimensioni trasversali. Mi viene in mente l’ultima trovata dell’impareggiabile Boris Johnson, sindaco conservatore di Londra, che lo scorso 3 luglio si è fatto vedere, sorridente e festante, alla testa del Gay Pride, in occasione del 40° anniversario del Gay Liberation Front (GLF), organizzazione che propugna l’eliminazione della famiglia.
Nel 1971 il GLF, allora considerato fuori legge, pubblicò un manifesto in cui si teorizzava lo sradicamento e l’abolizione dell’odiato istituto, identificato come la condizione di «un uomo in catene, di una donna schiava e di figli costretti a subire quei modelli». Da qui l’esigenza di una «cultural revolution» per archiviare definitivamente dalla storia dell’umanità l’idea stessa di famiglia.

Neppure la Chiesa veniva risparmiata dagli strali del manifesto, perché si imputava proprio agli «arcaici ed irrazionali insegnamenti» del cristianesimo la definizione regressiva e oscurantista del concetto di famiglia e di matrimonio. L’ignoranza gioca sempre brutti scherzi. Se gli attivisti del GLF si fossero informati, avrebbero scoperto che famiglia e matrimonio sono istituti ben antecedenti all’avvento del cristianesimo, e che le evolute civiltà classiche già ne conoscevano l’importanza.

L’idea che la famiglia fosse considerata una cellula della società e che il matrimonio fosse l’unione di un uomo e di una donna finalizzata alla procreazione, si perde nella notte dei tempi della civiltà umana. Se avessero studiato, gli stessi militanti del GLF, avrebbero saputo che gli unici due tentativi di abolire la famiglia attuati nella storia recente (il codice di famiglia sovietico del 1918 e l’organizzazione sociale dei kibbutz israeliani) si sono rivelati un tragico fallimento, al quale è stato subito posto rimedio.

Non è davvero soltanto una questione di fede. Il cristianesimo si è semplicemente limitato a riconoscere e valorizzare ciò che la ragione umana ha sempre percepito come un ineludibile fattore positivo. La famiglia come luogo dell’educazione all’appartenenza e al rapporto con l’altro, resta un elemento imprescindibile per la stessa coesione sociale dell’umanità.


Avvenire.it – Cultura - 5 ottobre 2010 - LA CRITICA -Giorello senza Dio (infatti non ne parla) di Vittorio Possenti
Ateo non è «chi logora il proprio tempo nel cercare di dimostrare che Dio non c’è, ma chi decide di vivere senza e perfino contro Dio». Così Giulio Giorello che, preoccupato come Bertrand Russell (cui in parte si ispira) del decadere del liberalismo e del libero pensiero, eleva una veemente critica contro cinque «bestie»: la reverenza, la rassegnazione, l’autorità, la proibizione, la sottomissione. Questi termini, preceduti dal «contro», formano il titolo dei capitoli del volume Senza Dio (Longanesi, pp. 230, euro 15). Ma la differenza con Russell è notevole, poiché Giorello, diversamente dal filosofo inglese, ritiene di scarso interesse il problema di Dio.

Da questo assunto il libro assume il suo carattere fortemente elusivo sul nucleo teologico, affrontato solo obliquamente attraverso la critica di vere o presunte deviazioni delle religioni, in specie del cristianesimo e della sua versione cattolica. La sostanziale omissione del «tema Dio», e delle scoperte sempre nuove che vi si possono fare, rende forse incongruo il titolo del volume. «Senza religione» renderebbe meglio il punto. Giorello provvede a limitare il suo ateismo, definendolo come ateismo metodologico, che appunto non si attarda a mostrare che Dio non è. Se tale ateismo meriti questo nome rimane controverso: il problema in realtà non sta nel nome, ma nel fatto che l’ateismo metodologico può evolvere verso una vera ricerca di Dio oppure ritenere che Dio sia un pensiero inutile. Senza Dio, pur lasciando sussistere margini di ambiguità, sembra propendere per la seconda possibilità.

La sua posizione è riassunta così: «Vedo l’ateismo non come una rete di dogmi, ma come un repertorio di strumenti intellettuali e pratici, che riguardano il nostro modo di indagare l’universo e scegliere il nostro destino». L’individualismo libertario, vera anima del volume, è assunto come metro di giudizio e di protesta: quella di Giorello è infatti una posizione «protestante» nel senso letterale del termine, e l’autore si definisce come un «ateo protestante» che all’occasione può anche criticare teologi che fanno a meno dell’elemento escatologico della fede. La protesta è una parte importante della nostra libertà e sensibilità morale, e perciò mi guardo bene dal rifiutarla: anche il credente deve protestare, e il monopolio della protesta non sta da una parte sola. Semmai saranno la qualità e gli obiettivi della protesta a renderla fondata. Combattere l’intolleranza, il fanatismo, l’autoritarismo, la rassegnazione è bene, a patto di saper individuare il bersaglio in modo adeguato. Il volume vi riesce? Forse non aiuta l’amplissima varietà di casi, autori, situazioni accumulati senza andare troppo per il sottile. La questione del male e del dolore innocente avrebbe richiesto un’istruzione più articolata e parimenti l’assunto dell’impossibile coesistenza in Dio dell’onnipotenza e della bontà. Sintomatico poi il «contro l’autorità» che non si ferma neppure un attimo a stabilirne il concetto. Non c’è da scandalizzarsi oltre misura di ciò, dal momento che larga parte del pensiero contemporaneo non ha la minima idea dell’autorità. Sarebbe perciò vano attendersi dal volume un chiarimento sul suo compito e la sua differenza dal dogmatismo.

Qualcosa di analogo capita per la sottomissione su cui l’individualismo libertario dice con forza: non serviam, «non sarò servo». Un tale individualismo protesta contro Dio-Padrone, confondendo il Signore con il Padrone. Certo, espressioni religiose deviate possono aver dato occasione per questo equivoco, che rimane comunque tale se non si intende l’enorme differenza tra servire un padrone duro e servire nell’amore. Una certa mancanza di grandezza nel comprendere la grandezza del servire sembra costituire un serio limite dell’individualismo libertario. L’atteggiamento contrario si ritrova nella figura di Hammarskjöld che scrisse: «Una volta risposi sì a qualcuno – o a qualcosa. A quel momento risale la certezza che l’esistenza ha un senso e che perciò la mia vita, nella sottomissione, ha un fine». Nonostante l’esteso ricorso al fallibilismo epistemologico che, applicato al di là delle scienze, occulta l’esistenza di acquisti per sempre, Giorello non è uno scientista. Il suo schierarsi per la scienza, la conoscenza che ne viene, la libertà di ricerca, la tolleranza è un atteggiamento sano. Kierkegaard avrebbe aggiunto: sano ma incompleto, poiché per stare in equilibrio fecondo gli manca il lato della costruzione positiva. Da dove partire per questo? L’assunto del libro è netto: «Nessuno venga a dettar legge alla nostra coscienza».

Accettiamo la sfida e domandiamo dove e come l’individualista libertario trovi un canone per agire. Se non ci deve essere una legge imposta alla coscienza, bisognerà pur dire che o non vi è legge, oppure che la coscienza la trova in sé come dato sorgivo: ed allora il libertario deve chiedersi dove si fondi. Protestare contro Dio-padrone, il papa-re, il soggetto subordinato può essere necessario, ma non è sufficiente. Noi dobbiamo ad ogni istante nutrirci di liberazione dal male (fisico e morale), e per questo occorre mettere in campo una coscienza che sappia dove richiedere luce per l’azione, e che sia in grado di compiere un atto originario di libertà per il bene, il vero, la giustizia.


Vercelli Book, i valori straordinari della nostra civiltà di Massimo Introvigne - Intervento in occasione della proroga della mostra Vercelli Book. Percorsi straordinari - Seminario Arcivescovile, Vercelli, 5 ottobre 2010
Una circostanza veramente felice ci porta a riflettere sul Vercelli Book a pochi giorni dalla visita in Gran Bretagna di Benedetto XVI. Infatti, il Vercelli Book è un testo essenziale per comprendere le radici cristiane dell’Inghilterra. Risale al decimo secolo ed è uno dei quattro più antichi codici poetici in inglese, essenziali per lo studio della formazione di questa lingua, senza che si possa dire con certezza quale di questi quattro testi sia il più antico. La presenza a Vercelli di questo libro, casuale o se si preferisce provvidenziale, è dovuta a un intreccio di strade che portavano monaci e pellegrini dalla lontana Gran Bretagna a Roma e ritorno, già di per sé un elemento che mostra l’unità spirituale dell’Europa del Medioevo. Il Vercelli Book è una prova particolarmente eloquente, che ancora oggi possiamo vedere e consultare, delle radici cristiane della Gran Bretagna e dell’Europa. I temi che tratta sono profondamente religiosi e cristiani, e nello stesso tempo profondamente britannici ed europei. Le storie dei santi e dei primordi della Cristianità intrecciano elementi biblici e altri che derivano dai poemi epici celtici, non giustapposti ma fusi insieme armonicamente. Dalle pagine del Vercelli Book esce viva una cultura che è insieme celtica e cristiana, formata nei monasteri, e che ci ricorda come alle radici greche, romane e bibliche dell’Europa se ne aggiunga, a formare la Cristianità, una quarta, anglo-germanica e appunto celtica, che non va mai trascurata.
In qualunque Paese di tradizione cristiana si siano recati, il venerabile Giovanni Paolo II (1920-2005) e Benedetto XVI sempre hanno insistito sul fatto che le origini e la storia di questo Paese sono segnate dall’opera dei santi. Infatti, «le antiche nazioni dell'Europa hanno un’anima cristiana, che costituisce un tutt’uno col “genio” e la storia dei rispettivi popoli, e la Chiesa non cessa di lavorare per mantenere continuamente desta questa tradizione spirituale e culturale» (Benedetto XVI, 2010d).
Benedetto XVI è tornato sistematicamente nel suo recente viaggio al tema della «lunga storia dell’Inghilterra, così profondamente segnata dalla predicazione del Vangelo e dalla cultura cristiana dalla quale è nata» (Benedetto XVI 2010c), e delle «profonde radici cristiane che sono tuttora presenti in ogni strato della vita britannica» (Benedetto XVI 2010a). Il Papa ha richiamato il ruolo essenziale svolto per la nascita delle nazioni che compongono la Gran Bretagna dai «monaci che hanno così tanto contribuito alla evangelizzazione di queste isole. Sto pensando ai Benedettini che accompagnarono Sant’Agostino [di Canterbury, 534-604] nella sua missione in Inghilterra, ai discepoli di San Columba [521-597], che hanno diffuso la fede in Scozia e nell’Inghilterra del Nord, a San Davide [ca. 512-601] e ai suoi compagni nel Galles» (Benedetto XVI 2010b).
E nel secolo successivo all’epoca d’oro dei santi inglesi, il settimo, il Papa evoca la figura del benedettino san Beda il Venerabile (672-735), dalla cui testimonianza preziosa ricaviamo qualche notizia sui primi grandi poeti cristiani in lingua inglese, Cynewulf e Caedmon, i cui testi più antichi ci sono conservati nel Vercelli Book: Il destino degli Apostoli, Elena e forse Andreas per Cynewulf, Il sogno della croce per Caedmon, senza peraltro che le attribuzioni siano del tutto sicure. Certo invece è che questa altissima poesia nasce come si è accennato dall’incontro fra l’epica celtica e la lettura della Bibbia nei monasteri, nell’epoca d’oro del primo cristianesimo inglese.
«Fu l’impegno dei monaci nell’imparare la via sulla quale incontrare la Parola Incarnata di Dio che gettò le fondamenta della nostra cultura e civiltà occidentali» (Benedetto XVI 2010b). In Inghilterra il Papa ha specificamente richiamato il suo discorso del 12 settembre 2008 al Collège des Bernardins a Parigi (Benedetto XVI 2008), da molti giudicato uno dei grandi discorsi del suo pontificato insieme a quello del 12 settembre 2006 all’Università di Ratisbona che lo precede esattamente di due anni. Al Collège des Bernardins il Papa fa notare che le radici cristiane dell’Europa sono, più precisamente, radici monastiche.
Le «radici della cultura europea» si trovano nei monasteri, i quali «nel grande sconvolgimento culturale prodotto dalla migrazione di popoli e dai nuovi ordini statali che stavano formandosi» non solo conservano «i tesori della vecchia cultura» ma insieme ne formano una nuova (ibid.). Per la verità, i monaci non avevano come scopo la cultura: «si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio» (ibid.). Non si trattava però di una ricerca senza bussole né di «una spedizione in un deserto senza strade» (ibid.). Al contrario, «Dio stesso aveva piantato delle segnalazioni di percorso» e dato ai cercatori una via: «la sua Parola», consegnata agli uomini nelle Sacre Scritture (ibid.).
La cultura dei monaci era così necessariamente una «cultura della parola», e i monaci avevano bisogno di studiare le «scienze profane», a partire dalla grammatica, non perché coltivassero la scienza per la scienza ma perché per la loro ricerca di Dio avevano bisogno di comprendere la Scrittura, e questo non poteva avvenire senza le scienze. Benedetto XVI cita ripetutamente lo storico benedettino dom Jean Leclercq, O.S.B. (1911-1993), per il quale nell’esperienza dei monaci del Medioevo désir de Dieu e amour des lettres procedevano necessariamente insieme. Così, ogni monastero aveva sempre una biblioteca e una scuola, perché senza questi strumenti era impossibile prepararsi e preparare a comprendere la Parola di Dio e quindi cercare Dio. Dunque, anche se lo scopo dei monaci non era creare la cultura europea di fatto essi furono condotti a crearla e a trasmetterla alle generazioni successive.
Per comprendere bene la Parola di Dio e per annunciarla i monaci dovevano studiare il greco, il latino, la cultura biblica e anche le tradizioni dei popoli in mezzo ai quali vivevano e cui dovevano annunciare il Vangelo. Nasce qui quel grande dialogo fra tradizione culturale celtica e sapienza biblica della cui espressione in forma poetica il Vercelli Book è eloquente testimone. Si pensi al primo poema del Vercelli Book, Andreas. Qui sant’Andrea, il santo patrono della Scozia la cui crux decussata o croce diagonale, su cui fu martirizzato, costituisce la bandiera scozzese ed è parte della bandiera britannica detta Union Jack, cerca di salvare il collega apostolo san Matteo che è stato rapito dai cannibali Mirmidoni. Del leale equipaggio della sua nave – un tipico comitatus, o gruppo di uomini, come s’incontra tanto spesso nella letteratura celtica e britannica – fanno parte un timoniere e due marinai, che sono in realtà Gesù e due angeli sotto mentite spoglie. Ma sant’Andrea non lo sa, e annuncia loro il Vangelo. Gesù ne è così soddisfatto che gli concede prima il dono dell’invisibilità, grazie al quale sant’Andrea riesce a penetrare nelle terre dei Mirmidoni, poi la forza – quando è scoperto – di resistere alle loro torture e infine di convertire i cannibali al Vangelo e liberare san Matteo. Anche questo poema ci fa vedere come nasce l’Europa nei monasteri: le radici della storia sono greche e derivano dagli Atti di Andrea nel quarto secolo, con un’ovvia eco dell’Odissea di Omero, ma la materia è rielaborata con l’andamento fiero e quasi militare delle epopee celtiche, su una base che rimane quella della Bibbia e della storia della salvezza cristiana.
E il messaggio è cristiano. I Mirmidoni che si cibano della carne degli uomini rappresentano, come il drago ucciso da san Giorgio, il paganesimo con i suoi sacrifici umani e con tutti i suoi aspetti oscuri che il cristianesimo sconfigge e incatena. Ma i Mirmidoni non sono il drago, cioè Satana: sono uomini, vittime del drago. Sant’Andrea dunque li sconfigge, ma non li distrugge: li converte. Così fa il cristianesimo europeo, che non distrugge l’eredità precristiana ma la purifica dai suoi aspetti inaccettabili e, convertendola, la preserva e ne fa una componente del tessuto dell’Europa.
Non potendo citare tutti i testi del Vercelli Book, vorrei fare almeno un riferimento a Elena, capolavoro di Cynewulf che vi appone anche la sua firma, una classica storia di inventio di una reliquia, anzi della reliquia per eccellenza, la Santa Croce, da parte di sant’Elena (ca. 250-330), madre dell’imperatore Costantino (272-337). L’episodio è storico, come la grande passione di sant’Elena per le reliquie, ma il poema è deliziosamente anacronistico, perché mette in scena nella Gerusalemme dei tempi di Costantino gli Unni e i Franchi. Sant’Elena è trasfigurata in una tipica eroina della mitologia celtica. Arriva a Gerusalemme alla testa di un’armata e compie diverse azioni eroiche e meritorie per ritrovare la Vera Croce, compresa la conversione di quello che emerge come il suo principale oppositore, l’ebreo Giuda. Alla fine di una ricerca davvero epica, in cui Satana stesso ostacola l’intrepida Elena, si scoprono non una ma tre croci, e nessuno sa quale sia quella di Gesù Cristo. Sono poste sopra un morto, e solo la Vera Croce lo fa risorgere. La Elena guerriera e nordica si trasfigura in una zelante ed eloquente predicatrice della verità del cristianesimo.
Forse il testo del Vercelli Book che ha avuto la maggiore influenza nella formazione della cultura britannica è The Dream of the Rood, talora tradotto come «Il sogno della croce».  Rood è il legno dell’albero da cui è tratta la Vera Croce, oggetto di una visione in cui il legno stesso appare, parla e racconta la storia della crocefissione dal punto di vista della Croce stessa. Ora, un albero che vive e parla è un elemento tipico del folklore celtico, e se ne ritrovano le tracce ancora nell’opera di John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973). Ma i tentativi moderni di ridurre The Dream of the Rood a un testo pagano non possono che fallire. Lo specifico albero da cui è tratta la Vera Croce è eminente per il suo rapporto con la Passione di Gesù Cristo, e il suo messaggio annuncia Cristo crocifisso e destinato a risorgere, non gli alberi o un mito pagano della natura. Contrapporre la radice celtica e quella cristiana del poema è, anche qui, un errore. I due elementi vivono e compongono un gioiello della poesia europea proprio in quanto stanno insieme.
Porzioni di The Dream of the Rood sono incise sulla croce di Ruthwell, un’opera dell’arte anglo-sassone dell’ottavo secolo che è una vera Biblia pauperum e corrisponde a un vasto programma catechistico sviluppato attraverso le immagini. È significativo che la croce sia stata distrutta da protestanti iconoclasti nel 1664, i quali però provvidenzialmente non ne dispersero i pezzi, così che nel secolo XIX è stato possibile il restauro dell’opera che oggi si trova nella chiesa scozzese di Ruthwell.
Il Vercelli Book non contiene solo poesia. C’è anche prosa: in particolare, una vita di san Guthlac di Croyland (673-714), un santo tuttora molto venerato nell’Inghilterra Orientale. San Guthlac ci richiama a un’altra radice del cristianesimo inglese ricordata da Benedetto XVI nel suo viaggio, quella regale e nobiliare. Rivolgendosi alla regina Elisabetta II il Papa così si è espresso: «I monarchi d’Inghilterra e Scozia erano cristiani sin dai primissimi tempi ed includono straordinari Santi come Edoardo il Confessore [1002-1066] e Margherita di Scozia [1045-1093]. Come Le è noto, molti di loro hanno esercitato coscienziosamente i loro doveri sovrani alla luce del Vangelo, modellando in tal modo la nazione nel bene al livello più profondo. Ne risultò che il messaggio cristiano è diventato parte integrale della lingua, del pensiero e della cultura dei popoli di queste isole per più di un millennio. Il rispetto dei vostri antenati per la verità e la giustizia, per la clemenza e la carità giungono a voi da una fede che rimane una forza potente per il bene nel vostro regno» (Benedetto XVI 2010a).
San Guthlac, nobile guerriero imparentato con re degli antichi popoli inglesi e maestro di futuri re come Etebaldo di Mercia (?-757), conclude – come altri nobili inglesi di quell’epoca – la sua vita diventando monaco, nutrendosi – come ci assicura il Vercelli Book – di pane ed acqua e vestendosi di sole pelli di animale. A riprova dell’intreccio culturale di cui il libro è testimone, il testo di Vercelli deriva da una più antica Vita Sancti Guthlaci in latino, quasi contemporanea al santo e per questo particolarmente attendibile. Insieme, la duplice vita di san Guthlac come guerriero e come monaco ci richiama alla complessità delle radici dell’Europa, la cui identità è stata difesa contro tanti nemici, con le armi e con i libri. In questo senso, la riflessione sulle radici monastiche e regali della cultura europea costituisce un nuovo richiamo a riscoprire quel segreto dell’Europa, l’armonia fra fede e ragione, fra religione e vita civile che già era al cuore del discorso di Benedetto XVI a Ratisbona.

Riferimenti
Benedetto XVI. 2008. Incontro con il mondo della cultura al Collège des Bernardins. Discorso del Santo Padre, Parigi, 12-9-2008.Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/6d9grq.
Benedetto XVI. 2010a. Visita a Sua Maestà la Regina e incontro con le Autorità nel Parco del Palazzo Reale di Holyroodhouse a Edimburgo, del 16-9-2010. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/326oxo3.
Benedetto XVI. 2010b. Incontro con il mondo dell’educazione cattolica nella cappella e nel campo sportivo del St Mary’s University College a Twickenham (London Borough of Richmond), del 17-9-2010. Indirizzo agli insegnanti ai religiosi. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/3xlcshd.
Benedetto XVI. 2010c. Celebrazione Ecumenica nella Westminster Abbey (City of Westminster), del 17-9-2010. Parole introduttive nella recita dei Vespri. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/38438hj.
Benedetto XVI. 2010d. Il viaggio apostolico nel Regno Unito, Udienza generale in Piazza San Pietro, del 22-9-2010. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/34qjaxw.


Avvenire.it, 6 ottobre 2010 – DIBATTITI - Non ci sono più gli atei di una volta di Èmile Poulat
Sylvain Maréchal (1750-1803) è ancora conosciuto per il suo Dizionario degli atei antichi e moderni (1800), dove non si lesina sui nomi: ci sono Pascal, sant’Agostino e perfino Gesù, ovvero tutti quelli che sono stati critici con la religione della loro epoca. Però questo discepolo di Lucrezio detestava gli atei del suo tempo, gente che veniva da un’aristocrazia libertina, dissoluta, perversa. Per reazione aveva fondato una «lega dei senza-Dio» e le aveva dato una liturgia che, ogni dieci giorni, celebrava il culto della virtù. Di certo non si tratta della maggior preoccupazione dei nostri contemporanei, tuttavia questa distinzione merita di essere annotata e ripresa in un altro senso.

Ateo e ateismo sono parole attestate nella lingua francese dalla metà del XVI secolo. La loro diffusione sarà lenta e a volte curiosa (vedi Balzac e la sua Messa dell’ateo). Oggi l’ateismo fa pochi seguaci: in Francia, l’Unione degli atei non dovrebbe superare i 2 o 3000 aderenti. Vi si aggiungono quanti preferiscono definirsi liberi pensatori, umanisti, razionalisti, materialisti (termine però caduto in disuso) o libertari («Né Dio, né maestro»).

Tutti costoro esprimono una convinzione forte e chiara, spesso militante. Si contrappongono così a quelli che si dicono decisamente, profondamente religiosi in base a un’appartenenza: in genere cattolica, protestante, ortodossa, ebraica, musulmana, buddhista. Il mondo vago della «non credenza» oggi è maggioritario in Francia. I sociologi hanno mostrato la sua differenza e misurato il grado e le forme di legame alle grandi denominazioni religiose, nel senso di un crescente allontanamento. Ciò che domina oggi è quello che in termini dotti si chiama agnosticismo e indifferentismo, accompagnato da un crollo – in una o due generazioni – della cultura religiosa tradizionale veicolata dal catechismo, dalla scuola e dall’ambiente. Resiste in modo oscuro, celato a un’osservazione frettolosa, ciò che Serge Bonnet ha definito le «preghiere segrete dei francesi moderni» e la loro alchimia: un immenso terreno incolto o quasi.

Gli atteggiamenti e le iniziative «missionarie» della Chiesa francese di fronte all’ateismo aspettano ancora il loro studio sistematico e ragionato. Nel 1940, nella piccola serie «Cattolica» di Gallimard, padre Sertillanges, domenicano conosciuto per la sua apertura, pubblicava un opuscoletto, Atei, fratelli miei. «Non esistono atei, ci sono soltanto persone che credono di esserlo; ci sono soltanto degli incoscienti», scriveva. È il pensiero espresso da Jean-Luc Marion in una recente conferenza in Svezia: l’ateismo è impossibile. Il cardinal Veuillot, futuro arcivescovo di Parigi, esigeva dai padri Le Sourd e Liégé, autori di Credenti e non credenti oggi (1962), la sottolineatura che l’ateismo era peccato grave. Nel 1965, il Vaticano II lo collocava «tra i fatti più gravi del nostro tempo» e creava un Segretariato per i non credenti di cui il cardinal Poupard ha assunto la direzione per un quarto di secolo.

Siamo così passati dal Dio-Sole (i nostri ostensori), luce del mondo (lux mundi), a ciò che Léon Brunschwig, professore alla Sorbona, definiva nel 1928 La disputa dell’ateismo e il suo successore Étienne Souriau nel 1955 L’Ombra di Dio. Torna qui la vecchia distinzione di Sylvain Maréchal, pronta per un nuovo uso: l’ateo è colui che – a torto o a ragione – afferma la sua convinzione che Dio non esiste o almeno che non c’è alcuna prova della sua esistenza. L’uomo senza Dio è colui che, molto semplicemente, senza farsi troppi problemi, fa a meno di Dio, pensa senza di lui ed esiste senza di lui. È decisivo cioè non quanto si agita nel cuore delle persone, e neppure il movimento di un mondo che deve tutto al proprio sforzo, bensì la condizione umana – comune a tutti, credenti e non credenti – compresa tra queste due istanze.

«E Dio in tutto ciò?», chiedeva Jacques Chancel agli ospiti alla fine del suo programma Radioscopia. Ad ognuno la sua risposta, ma – quale che sia – dovrà tener conto del rullo compressore all’opera «in tutto ciò». Dio era onnipresente. Esclusa una serie di nicchie a volte anche di una certa importanza, è diventato o diventa onni-assente nella vita sociale, pubblica o privata. È la crescente pressione della quotidianità a costruire l’uomo contemporaneo. Si tratta di un dato essenziale per una riflessione cattolica preoccupata dell’«apertura al mondo» e sempre a rischio di ripiegamento su se stessa.
(per gentile concessione del quotidiano «La Croix»)