Nella rassegna stampa di oggi:
1) CATECHESI DI BENEDETTO XVI SU SANTA GERTRUDE LA GRANDE - All’Udienza generale del mercoledì
2) ARRIVA IN EGITTO IL MEETING PER L’AMICIZIA TRA I POPOLI - Intervista al responabile per l’Oriente della comunità di Comunione e Liberazione - di Antonio Gaspari
3) LE MAMME SALVANO IL MONDO - ROMA, mercoledì, 6 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Le testimonianze che vengono dalle missioni a volte sono veramente belle e commoventi. Un giovane missionario del Pime a Prey Veng in Cambogia da dieci anni, padre Alberto Caccaro, mi manda questo racconto di vita vissuta. Ci fa bene ricordare com’eravamo anche noi in tempi non lontani. Lo mando volentieri a ZENIT e ringrazio l’amico Alberto [padre Piero Gheddo].
4) Primato papale. La Russia guida la resistenza a Roma - Il patriarcato di Mosca è grande ammiratore dell'attuale pontefice. Ma è anche il più restio a riconoscerne l'autorità sulle Chiese ortodosse d'oriente. I risultati dei colloqui di Vienna - di Sandro Magister
5) CRESCE LA FAMA DI “SANTITÀ” DI CHESTERTON - Incontri, preghiere e dibattiti per ricordare il grande scrittore - di Antonio Gaspari
6) «La stampa cattolica non sia di parte» Bertone avvisa «Famiglia cristiana» - di Andrea Tornielli - © IL GIORNALE ON LINE S.R.L.
7) Avvenire.it, 7 ottobre 2010 – TESTIMONI - De Foucauld, ovvero la Chiesa del «non fare» - Pierangelo Sequeri
8) Avvenire.it, 7 ottobre 2010 – IDEE - E Gödel fa i conti con Anselmo di Roberto Timossi
CATECHESI DI BENEDETTO XVI SU SANTA GERTRUDE LA GRANDE - All’Udienza generale del mercoledì
ROMA, mercoledì, 6 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Riportiamo il testo dell'intervento pronunciato da Papa Benedetto XVI questo mercoledì mattina in piazza San Pietro in Vaticano in occasione dell'Udienza generale.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa si è soffermato sulla figura di Santa Gertrude la Grande (1256-1302), religiosa tedesca cistercense.
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Cari fratelli e sorelle,
Santa Gertrude la Grande, della quale vorrei parlarvi oggi, ci porta anche questa settimana nel monastero di Helfta, dove sono nati alcuni dei capolavori della letteratura religiosa femminile latino-tedesca. A questo mondo appartiene Gertrude, una delle mistiche più famose, unica donna della Germania ad avere l’appellativo di "Grande", per la statura culturale ed evangelica: con la sua vita e il suo pensiero ha inciso in modo singolare sulla spiritualità cristiana. È una donna eccezionale, dotata di particolari talenti naturali e di straordinari doni di grazia, di profondissima umiltà e ardente zelo per la salvezza del prossimo, di intima comunione con Dio nella contemplazione e di prontezza nel soccorrere i bisognosi.
A Helfta si confronta, per così dire, sistematicamente con la sua maestra Matilde di Hackeborn, di cui ho parlato nell’Udienza di mercoledì scorso; entra in rapporto con Matilde di Magdeburgo, altra mistica medioevale; cresce sotto la cura materna, dolce ed esigente, della Badessa Gertrude. Da queste tre consorelle attinge tesori di esperienza e sapienza; li elabora in una propria sintesi, percorrendo il suo itinerario religioso con sconfinata confidenza nel Signore. Esprime la ricchezza della spiritualità non solo del suo mondo monastico, ma anche e soprattutto di quello biblico, liturgico, patristico e benedettino, con un timbro personalissimo e con grande efficacia comunicativa.
Nasce il 6 gennaio del 1256, festa dell’Epifania, ma non si sa nulla né dei genitori né del luogo di nascita. Gertrude scrive che il Signore stesso le svela il senso di questo suo primo sradicamento: "L'ho scelta per mia dimora perché mi compiaccio che tutto ciò che c'è di amabile in lei sia opera mia […]. Proprio per questa ragione io l'ho allontanata da tutti i suoi parenti perché nessuno cioè l'amasse per ragione di consanguineità e io fossi il solo motivo dell'affetto che le si porta" (Le Rivelazioni, I, 16, Siena 1994, p. 76-77).
All’età di cinque anni, nel 1261, entra nel monastero, come si usava spesso in quella epoca, per la formazione e lo studio. Qui trascorre tutta la sua esistenza, della quale lei stessa segnala le tappe più significative. Nelle sue memorie ricorda che il Signore l’ha prevenuta con longanime pazienza e infinita misericordia, dimenticando gli anni della infanzia, adolescenza e gioventù, trascorsi - scrive - "in un tale accecamento di mente che sarei stata capace […] di pensare, dire o fare senza alcun rimorso tutto ciò che mi fosse piaciuto e dovunque avessi potuto, se tu non mi avessi prevenuta, sia con un insito orrore del male ed una naturale inclinazione per il bene, sia con la vigilanza esterna degli altri. Mi sarei comportata come una pagana […] e ciò pur avendo tu voluto che fin dall'infanzia e cioè dal mio quinto anno di età, abitassi nel santuario benedetto della religione per esservi educata fra i tuoi amici più devoti" (Ibid., II, 23, p. 140s).
Gertrude è una studentessa straordinaria, impara tutto ciò che si può imparare delle scienze del Trivio e del Quadrivio, la formazione di quel tempo; è affascinata dal sapere e si dà allo studio profano con ardore e tenacia, conseguendo successi scolastici oltre ogni aspettativa. Se nulla sappiamo delle sue origini, molto ella ci dice delle sue passioni giovanili: letteratura, musica e canto, arte della miniatura la catturano; ha un carattere forte, deciso, immediato, impulsivo; sovente dice di essere negligente; riconosce i suoi difetti, ne chiede umilmente perdono. Con umiltà chiede consiglio e preghiere per la sua conversione. Vi sono tratti del suo temperamento e difetti che l’accompagneranno fino alla fine, tanto da far stupire alcune persone che si chiedono come mai il Signore la prediliga tanto.
Da studentessa passa a consacrarsi totalmente a Dio nella vita monastica e per vent’anni non accade nulla di eccezionale: lo studio e la preghiera sono la sua attività principale. Per le sue doti eccelle tra le consorelle; è tenace nel consolidare la sua cultura in svariati campi. Ma, durante l’Avvento del 1280, inizia a sentire disgusto di tutto ciò, ne avverte la vanità e il 27 gennaio del 1281, pochi giorni prima della festa della Purificazione della Vergine, verso l’ora di Compieta, la sera, il Signore illumina le sue dense tenebre. Con soavità e dolcezza calma il turbamento che l’angoscia, turbamento che Gertrude vede come un dono stesso di Dio "per abbattere quella torre di vanità e di curiosità che, pur portando ahimè e il nome e l'abito di religiosa, io ero andata innalzando con la mia superbia, onde almeno così trovar la via per mostrarmi la tua salvezza" (Ibid., II,1, p. 87). Ha la visione di un giovanetto che la guida a superare il groviglio di spine che opprime la sua anima, prendendola per mano. In quella mano, Gertrude riconosce "la preziosa traccia di quelle piaghe che hanno abrogato tutti gli atti di accusa dei nostri nemici" (Ibid., II,1, p. 89), riconosce Colui che sulla Croce ci ha salvati con il suo sangue, Gesù.
Da quel momento la sua vita di comunione intima con il Signore si intensifica, soprattutto nei tempi liturgici più significativi - Avvento-Natale, Quaresima-Pasqua, feste della Vergine - anche quando, ammalata, era impedita di recarsi in coro. È lo stesso humus liturgico di Matilde, sua maestra, che Gertrude, però, descrive con immagini, simboli e termini più semplici e lineari, più realistici, con riferimenti più diretti alla Bibbia, ai Padri, al mondo benedettino.
La sua biografa indica due direzioni di quella che potremmo definire una sua particolare "conversione": negli studi, con il passaggio radicale dagli studi umanistici profani a quelli teologici, e nell’osservanza monastica, con il passaggio dalla vita che ella definisce negligente alla vita di preghiera intensa, mistica, con un eccezionale ardore missionario. Il Signore, che l’aveva scelta dal seno materno e fin da piccola l’aveva fatta partecipare al banchetto della vita monastica, la richiama con la sua grazia "dalle cose esterne alla vita interiore e dalle occupazioni terrene all'amore delle cose spirituali". Gertrude comprende di essere stata lontana da Lui, nella regione della dissomiglianza, come ella dice con sant’Agostino; di essersi dedicata con troppa avidità agli studi liberali, alla sapienza umana, trascurando la scienza spirituale, privandosi del gusto della vera sapienza; ora è condotta al monte della contemplazione, dove lascia l’uomo vecchio per rivestirsi del nuovo. "Da grammatica diventa teologa, con l'indefessa e attenta lettura di tutti i libri sacri che poteva avere o procurarsi, riempiva il suo cuore delle più utili e dolci sentenze della Sacra Scrittura. Aveva perciò sempre pronta qualche parola ispirata e di edificazione con cui soddisfare chi veniva a consultarla, e insieme i testi scritturali più adatti per confutare qualsivoglia opinione errata e chiudere la bocca ai suoi oppositori" (Ibid., I,1, p. 25).
Gertrude trasforma tutto ciò in apostolato: si dedica a scrivere e divulgare la verità di fede con chiarezza e semplicità, grazia e persuasività, servendo con amore e fedeltà la Chiesa, tanto da essere utile e gradita ai teologi e alle persone pie. Di questa sua intensa attività ci resta poco, anche a causa delle vicende che portarono alla distruzione del monastero di Helfta. Oltre all’Araldo del divino amore o Le rivelazioni, ci restano gli Esercizi Spirituali, un raro gioiello della letteratura mistica spirituale.
Nell'osservanza religiosa la nostra Santa è "una salda colonna […], fermissima propugnatrice della giustizia e della verità" (Ibid., I, 1, p. 26), dice la sua biografa. Con le parole e l’esempio suscita negli altri grande fervore. Alle preghiere e alle penitenze della regola monastica ne aggiunge altre con tale devozione e tale abbandono fiducioso in Dio, da suscitare in chi la incontra la consapevolezza di essere alla presenza del Signore. E di fatto Dio stesso le fa comprendere di averla chiamata ad essere strumento della sua grazia. Di questo immenso tesoro divino Gertrude si sente indegna, confessa di non averlo custodito e valorizzato. Esclama: "Ahimè! Se Tu mi avessi dato per tuo ricordo, indegna come sono, anche un filo solo di stoppa, avrei pur dovuto riguardarlo con maggior rispetto e reverenza di quanto ne abbia avuta per questi tuoi doni!" (Ibid., II,5, p. 100). Ma, riconoscendo la sua povertà e la sua indegnità, ella aderisce alla volontà di Dio, "perché – afferma - ho così poco approfittato delle tue grazie che non posso risolvermi a credere che mi siano state elargite per me sola, non potendo la tua eterna sapienza venir frustrata da alcuno. Fa’ dunque, o Datore di ogni bene che mi hai gratuitamente elargito doni così indebiti, che, leggendo questo scritto, il cuore di uno almeno dei tuoi amici sia commosso al pensiero che lo zelo delle anime ti ha indotto a lasciare per tanto tempo una gemma di valore così inestimabile in mezzo al fango abominevole del mio cuore" (Ibid., II,5, p. 100s).
In particolare due favori le sono cari più di ogni altro, come Gertrude stessa scrive: "Le stimmate delle tue salutifere piaghe che mi imprimesti, quasi preziosi monili, nel cuore, e la profonda e salutare ferita d'amore con cui lo segnasti. Tu mi inondasti con questi Tuoi doni di tanta beatitudine che, anche dovessi vivere mille anni senza nessuna consolazione né interna né esterna, il loro ricordo basterebbe a confortarmi, illuminarmi, colmarmi di gratitudine. Volesti ancora introdurmi nell’inestimabile intimità della tua amicizia, aprendomi in diversi modi quel sacrario nobilissimo della tua Divinità che è il tuo Cuore divino […]. A questo cumulo di benefici aggiungesti quello di darmi per Avvocata la santissima Vergine Maria Madre Tua, e di avermi spesso raccomandata al suo affetto come il più fedele degli sposi potrebbe raccomandare alla propria madre la sposa sua diletta" (Ibid., II, 23, p. 145).
Protesa verso la comunione senza fine, conclude la sua vicenda terrena il 17 novembre del 1301 o 1302, all’età di circa 46 anni. Nel settimo Esercizio, quello della preparazione alla morte, santa Gertrude scrive: "O Gesù, tu che mi sei immensamente caro, sii sempre con me, perché il mio cuore rimanga con te e il tuo amore perseveri con me senza possibilità di divisione e il mio transito sia benedetto da te, così che il mio spirito, sciolto dai lacci della carne, possa immediatamente trovare riposo in te. Amen" (Esercizi, Milano 2006, p. 148).
Mi sembra ovvio che queste non sono solo cose del passato, storiche, ma l’esistenza di santa Gertrude rimane una scuola di vita cristiana, di retta via, e ci mostra che il centro di una vita felice, di una vita vera, è l’amicizia con Gesù, il Signore. E questa amicizia si impara nell’amore per la Sacra Scrittura, nell’amore per la liturgia, nella fede profonda, nell’amore per Maria, in modo da conoscere sempre più realmente Dio stesso e così la vera felicità, la meta della nostra vita. Grazie.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i Missionari Oblati di Maria Immacolata, che stanno tenendo il loro Capitolo Generale ed auguro ad essi di impegnarsi con rinnovato slancio apostolico a rendere sempre più attuale il carisma dell’Istituto, per cooperare generosamente nell'opera della nuova evangelizzazione. Sono lieto di accogliere i sacerdoti, provenienti da varie Nazioni, iscritti presso il Pontificio Collegio San Paolo Apostolo per il completamento dei loro studi, come pure i Seminaristi dei Servi della Carità-Opera Don Guanella. A tutti auguro un proficuo anno accademico.
Indirizzo, infine, un affettuoso pensiero ai giovani, ai malati ed agli sposi novelli. Domani la Chiesa celebrerà la festa della Madonna del Rosario. Ottobre è il mese del Santo Rosario, che ci invita a valorizzare questa preghiera così cara alla tradizione del popolo cristiano. Invito voi, cari giovani, a fare del Rosario la vostra preghiera d'ogni giorno. Incoraggio voi, cari malati, a crescere, grazie alla recita del Rosario, nel fiducioso abbandono nelle mani di Dio. Esorto voi, cari sposi novelli, a fare del Rosario una costante contemplazione dei misteri di Cristo.
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]
ARRIVA IN EGITTO IL MEETING PER L’AMICIZIA TRA I POPOLI - Intervista al responabile per l’Oriente della comunità di Comunione e Liberazione - di Antonio Gaspari
ROMA, mercoledì, 6 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Il Meeting per l'amicizia fra i popoli diRimini, manifestazione organizzata dal movimento ecclesiale cattolico di Comunione e Liberazione, arriva anche in Egitto.
Su iniziativa di un’élite di intellettuali e giudici egiziani, dal 28 al 29 ottobre si terrà in Egitto una due giorni del Meeting di Rimini.
L’Evento è promosso dalla Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli, insieme al Centro Culturale Ta’Wassul de Il Cairo e il Centro Culturale Sakakini di Alessandria ed avrà come tema “La bellezza, lo spazio del dialogo”.
Nel linguaggio dei promotori “la bellezza del reale è un avvenimento che in ogni uomo può creare quello spazio per il dialogo”.
All’incontro che sarà declinato attraverso dibattiti, una mostra e spettacoli vari, interverranno quattro ministri del governo egiziano. Sarà il ministro della cultura Farouq Hosni ad aprire i lavori nella cena inaugurale del 28 sera, insieme a Hosam Kamil, Rettore dell’Università de Il Cairo e Tahani al-Jibaly, Vice Presidente della Suprema Corte Costituzionale e Presidente del Comitato Organizzativo.
Il Meeting si terrà in alcuni dei luoghi più importanti dal punto di vista storico e culturale dell’Egitto: la memorabile sala dell’Università (dove il presidente USA Obama lanciò qualche mese fa il suo messaggio all’Islam), l’Opera House egiziana e la Cittadella di Saladino, che rappresentano, oggi come nel passato, uno spazio di bellezza per l’incontro e il dialogo con l’altro.
Per cercare di capire come è nata questa splendida occasione per il dialogo culturale e religioso tra Italia ed Egitto, ZENIT ha intervistato don Ambrogio Pisoni, assistente pastorale dell’Università Cattolica di Milano e responabile per l’Oriente della comunità di Comunione e Liberazione.
Come è nata l’idea di portare il Meeting in Egitto?
Don Ambrogio: L’idea è nata dal nostro amico professor Wael Farouq, docente all’Università Americana de Il Cairo, che ha visitato il Meeting di Rimini prima da solo e poi, l’anno scorso, con tre suoi amici tra cui una signora che attualmente ricopre l’incarico di Vicepresidente della Corte Costituzionale egiziana. Partecipando all’evento riminese in qualità di ospiti ne sono rimasti colpiti al punto tale da cominciare a pensare al modo di farlo conoscere anche nel loro Paese.
In che modo pensate di sviluppare un dialogo con i musulmani e con i copti?
Don Ambrogio: Non ci poniamo obiettivi particolari: questo evento nasce in modo inatteso e nello stesso modo procederà. Per noi è importante rimanere fedeli all’amicizia nata con queste persone. Staremo a vedere quali altre sorprese vedranno la luce: giudicheremo insieme come poi procedere.
Allo stesso modo, per noi il dialogo non è oggetto di discussioni “a tavolino”: il metodo cristiano è quello dell’incontro. Quello che accade supera sempre ogni nostra previsione. Ci aiuteremo a guardare quello che sarà accaduto.
Dopo la pubblicazione del libro “Il senso religioso” di don Giussani in arabo avete in mente qualche altra iniziativa editoriale?
Don Ambrogio: Dopo la pubblicazione in lingua araba de “Il senso religioso”, pubblicato sia a Gerusalemme sia a Il Cairo, è appena uscita l’edizione araba di un altro volume di don Luigi Giussani: “All’origine della pretesa cristiana”. Inoltre è in corso la traduzione del terzo volume del “Percorso” giussaniano: “Perché la Chiesa”.
LE MAMME SALVANO IL MONDO - ROMA, mercoledì, 6 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Le testimonianze che vengono dalle missioni a volte sono veramente belle e commoventi. Un giovane missionario del Pime a Prey Veng in Cambogia da dieci anni, padre Alberto Caccaro, mi manda questo racconto di vita vissuta. Ci fa bene ricordare com’eravamo anche noi in tempi non lontani. Lo mando volentieri a ZENIT e ringrazio l’amico Alberto [padre Piero Gheddo].
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“Se la vostra vita quotidiana vi sembra povera, non l’accusate;
accusate voi stesso, che non siete assai poeta da evocarne la ricchezza”[1].
Due giorni fa è venuta una mamma, vedova. Voleva iscrivere la figlia adolescente alla nostra scuola. L’ho vista entrare alla guida di una motoretta scassata, claudicante, ma in movimento. Erano in tre, sulla moto. Con la figlia si portava anche una nipote, sempre da iscrivere a scuola. Venivano da un villaggio non lontano, ma difficile da raggiungere per via della strada alquanto dissestata. Gli occhiali da sole che indossava, vecchi come la moto, servivano a nascondere una menomazione all’occhio sinistro. Me ne sono accorto solo dopo la chiacchierata. Pian piano mi raccontava che per venire fino a scuola aveva dovuto chiedere la moto in prestito ad un vicino. E siccome la moto era senza targa, aveva dovuto chiedere in prestito la targa ad un secondo vicino. Una targa che avesse i fori al posto giusto per essere attaccata all’apposita sede ed evitare di essere fermata dalla polizia stradale. E siccome non aveva il casco, ormai d’obbligo anche in campagna, aveva dovuto chiederlo in prestito ad un terzo vicino … Per non chiedere tutto ad uno solo, aveva preferito confondere la propria indigenza rivolgendosi a tre vicini diversi.
Alla fine, completa di tutto, di moto, di targa e di casco, aveva accompagnato le due ragazze fino a scuola. Di fronte a me, mentre mi parlava, come sfondo alle sue parole, vedevo gli unici due denti dell’arcata superiore ed uno dell’arcata inferiore. Niente più. Ma mi parlava con tanta passione di sua figlia, di sua nipote e della loro voglia di studiare che, in tutta quella mancanza, ho visto una pienezza. Un senso compiuto alle cose. E’ vero quello che dice Rainer Maria Rilke: dobbiamo saper evocare la ricchezza di ciò che altrimenti sembrerebbe e rimarrebbe povero. Ho capito che sono a Prey Veng non per fare grandi cose. Devo solo osservare ed e-vocare, nominare la ricchezza che si nasconde nel cuore di tante madri, povere e un po’ svirgole … ma in movimento, sempre. Nominare fino ad e-vocare[2], e così sottrarre all’oblio. Le mamme salvano il mondo ...
Hang ha avuto il suo primo figlio due mesi fa. Sposata da circa un anno, è diventata madre di un bellissimo bambino. Da quando ha partorito il piccolo, non è più venuta alla Messa. Finalmente qualche giorno fa l’ho incontrata. Mi ha spiegato che suo marito, non cattolico, è spesso fuori casa. Il lavoro lo trattiene lontano e non potrà nemmeno partecipare al battesimo del piccolo, il giorno dell’Assunta. Mi racconta che il bambino piange spesso la notte e nessuno riesce a dormire. Il marito lontano, torna ogni tanto per visite brevi, al massimo una notte, poi se ne và. Anche il giorno del parto continuavano a chiamarlo perché tornasse al lavoro. Poi la nascita e le notti insonni …
Ha però notato una cosa: quando il papà torna e dorme una notte a casa, anche il bimbo dorme tranquillo. Allora, una notte, l’ennesima notte senza papà, impotente di fronte al pianto del bambino, ha preso una camicia di suo marito e ha avvolto il corpicino del piccolo. Dopo qualche istante il bimbo ha smesso di piangere. “Forse – mi dice questa giovane mamma - il mio bambino riconosce l’odore del suo papà e si calma, pensa che il papà sia lì”. Ha riprovato più volte e ha funzionato. Mi ha commosso pensare che un bimbo di due mesi possa riconoscere l’assenza e la presenza, e possa dire la sua, piangendo. Ho detto alla mamma di fare presente a suo marito che il lavoro, per quanto necessario, non può diventare un alibi per sottrarsi a suo figlio. Non so come andranno a finire le cose, ma quel piccolo principe piange se il suo papà si sottrae e la casa diventa un insieme di mura disabitate.
Pensando a queste due mamme ho ripreso le parole di un poeta contemporaneo: “Il mondo lo salvano le madri. Certo, i padri lo lavorano, i figli lo fanno avventuroso e lo rinnovano. Ma lo salvano le madri. Lo si capisce quando il tempo si fa duro. Quando i conflitti esplodono. E non si sa come fare. Allora le madri, certe madri, lo salvano. La loro semina paziente, la loro forza segreta lo custodisce e lo rinfranca”[3].
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[1] Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, Milano 1997, p. 15.
[2] Secondo il mio vecchio dizionario di italiano, il famoso Devoto – Oli, evocare significa “chiamare dal mondo del mistero a quello dell’esperienza sensibile”.
[3] Testo di Davide Rondoni.
Primato papale. La Russia guida la resistenza a Roma - Il patriarcato di Mosca è grande ammiratore dell'attuale pontefice. Ma è anche il più restio a riconoscerne l'autorità sulle Chiese ortodosse d'oriente. I risultati dei colloqui di Vienna - di Sandro Magister
ROMA, 6 ottobre 2010 – Mentre le Chiese d'oriente pian piano camminano verso la convocazione di quel "Grande e Santo Concilio" panortodosso che le dovrebbe finalmente riunire in un'unica assise dopo secoli di "sinodalità" incompiuta, fa passettini avanti anche l'altra marcia di avvicinamento, quella che vede l'oriente in dialogo con la Chiesa di Roma.
L'oggetto di questo dialogo riguarda l'unico vero nodo che divide il cattolicesimo dall'ortodossia, cioè il primato del papa.
L'ultima verifica si è avuta pochi giorni fa, a Vienna, dove tra il 20 e il 27 settembre si è riunita la commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa nel suo insieme, proprio sul ruolo universale del vescovo di Roma nel primo millennio di storia cristiana, prima dello scisma.
A capo della delegazione cattolica c'era il nuovo presidente del pontificio consiglio per l'unità dei cristiani, l'arcivescovo svizzero Kurt Koch. Mentre per le Chiese d'oriente c'era il metropolita di Pergamo Joannis Zizioulas, grande ecumenista e teologo di fiducia del patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I, nonché amico di lunga data di Joseph Ratzinger teologo e papa (vedi foto, di Rupprecht/Kathbild).
Gli ortodossi erano rappresentati al completo, con la sola eccezione del patriarcato di Bulgaria. C'era l'arcivescovo metropolita di Cipro Crisostomo II, altro campione dell'ecumenismo incontrato quest'anno da Benedetto XVI durante il suo viaggio nell'isola. Il patriarcato di Mosca aveva mandato a Vienna il suo uomo più in vista, il metropolita Hilarion di Volokolamsk, anche lui fresco di un incontro col papa, col quale ha un rapporto di grande stima.
Tanto più importante è stata la presenza a Vienna del patriarcato di Mosca perché a Ravenna, nel 2007, quando si concordò il documento base della discussione sul ruolo universale del vescovo di Roma, la Chiesa russa non c'era, a motivo di un suo contrasto con il patriarcato di Costantinopoli.
Il contrasto fu poi appianato e il documento di Ravenna fu approvato anche dal patriarcato di Mosca, che peraltro aveva partecipato alla sua preparazione.
Quel documento afferma che "primato e conciliarità sono reciprocamente interdipendenti". E nel suo paragrafo 41 mette a fuoco così i punti di accordo e di disaccordo:
"Entrambe le parti concordano sul fatto che [...] Roma, in quanto Chiesa che 'presiede nella carità', secondo l’espressione di Sant’Ignazio d’Antiochia, occupava il primo posto nella 'taxis', e che il vescovo di Roma è pertanto il 'protos' tra i patriarchi. Tuttavia essi non sono d’accordo sull’interpretazione delle testimonianze storiche di quest’epoca per ciò che riguarda le prerogative del vescovo di Roma in quanto 'protos', questione compresa in modi diversi già nel primo millennio".
"Protos" è parola greca che significa primo. E "taxis" è l'ordinamento della Chiesa universale.
Da allora, la discussione sui punti controversi è proseguita con ritmo accelerato. E ha cominciato ad esaminare, anzitutto, come le Chiese d'Oriente e d'Occidente interpretavano il ruolo del vescovo di Roma nel primo millennio, cioè quando ancora erano unite.
La traccia della discussione è stata, fino a qui, un testo di lavoro elaborato da una sottocommissione mista all'inizio dell'autunno del 2008, in un incontro a Creta.
Nell'ottobre del 2009, a Cipro, la commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, con i russi presenti, ha esaminato e discusso la prima parte di questa traccia, su alcuni casi storici di esercizio universale del "primato" del vescovo di Roma, nei primi secoli dell'era cristiana.
A Vienna, la discussione doveva proseguire. Ma vi sono stati degli imprevisti fin dall'inizio. La delegazione russa ha elevato obiezioni contro il testo di lavoro predisposto a Creta e alla fine ha ottenuto che venga riscritto.
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La principale obiezione della Chiesa russa è quella che il metropolita Hilarion ha riassunto, poco dopo il meeting, in una nota pubblicata sul sito web del patriarcato di Mosca:
"Il 'documento di Creta' è esclusivamente storico e, parlando del ruolo del vescovo di Roma, quasi non fa menzione dei vescovi delle altre Chiese locali nel primo millennio, creando quindi una errata immagine di come i poteri erano distribuiti nella Chiesa primitiva. Inoltre il documento manca di una chiara affermazione che la giurisdizione del vescovo di Roma non si estendeva all'oriente nel primo millennio. È sperabile che questi errori e omissioni siano corretti in una revisione del testo".
Di conseguenza, la delegazione russa ha chiesto e ottenuto che il testo di Creta – reso pubblico da www.chiesa lo scorso gennaio – non sia assunto tra i documenti ufficiali della commissione, non porti la firma di nessuno dei suoi membri e sia semplicemente utilizzato come materiale di lavoro per una nuova riscrittura della traccia di lavoro. Una riscrittura più attenta alle dimensioni teologiche della questione.
In effetti, al termine dei colloqui di Vienna, i partecipanti hanno concordato di costituire "una sottocommissione incaricata di esaminare gli aspetti teologici ed ecclesiologici del primato in relazione alla sinodalità".
La sottocommissione presenterà l'anno prossimo il nuovo testo al comitato di coordinamento della commissione per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa. Così che l'anno successivo, il 2012, la commissione potrà riprendere e proseguire – sulla base della nuova traccia – la discussione iniziata a Cipro e a Vienna.
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I due co-presidenti della commissione, l'arcivescovo Koch per la parte cattolica e il metropolita Joannis per gli ortodossi, in una conferenza stampa del 24 settembre, hanno espresso una valutazione positiva dei colloqui in corso.
Koch ha riconosciuto la diversità di visione tra cattolici e ortodossi: mentre la Chiesa cattolica ha un forte primato e una debole sinodalità, per le Chiese ortodosse accade il contrario. Quindi occorre "che ci scambiamo i rispettivi doni come fa, ad esempio, Benedetto XVI quando accoglie nella Chiesa cattolica gli anglicani con tutte le loro tradizioni e liturgie".
Joannis si è detto d'accordo: gli ortodossi devono chiarire la loro concezione del primato così come i cattolici devono rafforzare la sinodalità. Ha osservato che la storia del primo millennio mostra che alla Chiesa di Roma era riconosciuto universalmente un ruolo speciale, ma il papa lo esercitava consultandosi con gli altri vescovi.
Quanto al prosieguo dei colloqui, il metropolita di Pergamo ha detto che si procederà a "una leggera variazione dell'oggetto, con una più marcata attenzione agli aspetti teologici".
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In realtà il cammino non sarà facile, se si guarda ai giudizi molto restrittivi che il patriarcato di Mosca, per la penna del metropolita Hilarion, dà del ruolo del papa nel primo millennio:
"Per gli ortodossi è chiaro che nel primo millennio la giurisdizione del vescovo di Roma fu esercitata solo in occidente, mentre in oriente i territori erano divisi tra quattro patriarchi: quelli di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Il vescovo di Roma non esercitava alcuna diretta giurisdizione in oriente, nonostante il fatto che in alcuni casi le gerarchie orientali facessero appello a lui come arbitro in controversie teologiche. Questi appelli non erano sistematici e in nessun modo potrebbero essere interpretati nel senso che il vescovo di Roma fosse visto in oriente come l'autorità suprema nell'intera Chiesa universale. Si spera che, nei prossimi incontri della commissione, la parte cattolica concordi con questa posizione che è confermata da numerose prove storiche".
A questo proposito, né il patriarcato di Mosca né la Chiesa ortodossa nel suo insieme dimenticano che Benedetto XVI, in uno dei primi atti del suo pontificato, cancellò tra gli attributi del papa riportati nell'Annuario pontificio proprio quello di "patriarca d'occidente".
Quando divenne nota, tale decisione sollevò le proteste di molti esponenti delle Chiese orientali. Alcuni vi videro "una prova delle pretese del vescovo di Roma al primato universale".
Il 22 marzo 2006 il pontificio consiglio per l'unità dei cristiani pubblicò un comunicato giustificativo.
L'8 giugno di quello stesso anno, una nota del patriarcato ecumenico di Costantinopoli affermò che, caso mai, il papa avrebbe fatto meglio a rinunciare a qualificarsi come "sommo pontefice della Chiesa universale", poiché "gli ortodossi non hanno mai accettato una sua giurisdizione su tutta la Chiesa".
Dopo di che le polemiche si acquietarono e le due parti iniziarono quell'esame diretto della questione che, iniziato a Ravenna e proseguito a Cipro e a Vienna, promette ulteriori passi avanti.
Ma la questione, come si vede, è sicuramente impervia, di non vicina soluzione.
CRESCE LA FAMA DI “SANTITÀ” DI CHESTERTON - Incontri, preghiere e dibattiti per ricordare il grande scrittore - di Antonio Gaspari
ROMA, giovedì, 7 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Dopo la visita del Pontefice Benedetto XVI e la beatificazione di John Henry Newman, sta crescendo in Gran Bretagna un movimento popolare che chiede la beatificazione del famosissimo scrittore e giornalista Gilbert Keith Chesterton.
Anche nel nostro Paese l’Associazione Chestertoniana Italiana si sta dando molto da fare: sta promuovendo la pubblicazione di tutte le opere dell’autore britannico, organizza incontri e dibattiti, oltre ad animare un vivacissimo blog.
Per cercare di capire in che modo la figura e le opere di Chesterton siano ancora così attuali e perchè questa fama di santità, ZENIT ha intervistato Marco Sermarini, Presidente della Società Chestertoniana Italiana.
Il 9 ottobre in Gran Bretagna, insieme alla celebrazione della festa del beato Newman, membri della Chesterton Society terranno una conferenza su Chesterton e Newman (Chesterton in the Chilterns) e rilanceranno la proposta per la beatificazione di Chesterton. Chi sono le persone che propongono la beatificazione dello scrittore britannico?
Sermarini: Io credo sia una presa di coscienza diffusa nel mondo chestertoniano, e non solo in quello di lingua inglese. Tutto partì da un intervento di William Oddie, presidente della Società Chestertoniana Inglese, durante la Conference annuale della American Chesterton Society. Qualcuno dal numeroso auditorio gli chiese a che punto fosse la causa di beatificazione di Chesterton, ma Oddie non poté che deludere le aspettative dei presenti dicendo che non c’era alcuna causa in corso, sembrava non ci fossero evidenze di una devozione. Qualcuno disse: “e noi cinquecento che cosa saremmo?”. Da lì la conference inglese dell’anno successivo ad Oxford, il 4 Luglio 2009, tutta sulla fama di “santità” di Chesterton (le virgolette sono obbligatorie, nessuno di noi vuole anticipare il giudizio della Chiesa).
Si alternarono al tavolo dei relatori nella cappellania cattolica di St. Aldate della Oxford University lo stesso Oddie, che tenne un intervento su «Fede, speranza e carità: le virtù fondamentali di Chesterton», quindi Sheridan Gilley che analizzò la «santità di GKC come giornalista», mentre padre Ian Kerr parlo della relazione tra «humour e santità» in Chesterton.
Il domenicano Aidan Nichols (autore tra l’altro di un volume dal titolo “G. K. Chesterton, Theologian”) esaminò la possibilità di considerare Chesterton alla stregua di un «padre della Chiesa».
Pochi giorni dopo l’eco sui mezzi di comunicazione provocò qualcosa di simile a quanto accaduto per il beato John Henry Newman: qualcuno mise mano ad una preghiera (che potete trovare sia sul sito della Chesterton Society inglese che nel nostro italiano e che è tradotta in diverse lingue) e questa preghiera ora si sta rapidamente diffondendo. L’idea che Gilbert Keith Chesterton non sia stato uno tra i tanti, ma che abbia vissuto eroicamente il cattolicesimo è molto diffusa anche tra di noi italiani. Sabato 9 a Beaconsfield, la cittadina di Gilbert e di sua moglie Frances, si alterneranno le voci di William Oddie, di padre Ian Ker, di Russell Sparkes e di Martine Thompson.
Perché la propongono?
Sermarini: Lo ha detto bene William Oddie in un suo recentissimo intervento sull’edizione on line del Catholic Herald inglese, che noi abbiamo tradotto e diffuso: Oddie riprende le parole dello storico JJ Scarisbrick e dice che Chesterton “era un uomo tanto enormemente buono quanto enorme. Il punto è che lui era più di questo. C'era una speciale integrità e innocenza su di lui, una speciale devozione al bene e alla giustizia... Soprattutto, c'era quel possesso della Verità mozzafiato, intuitivo (quasi angelico) e la consapevolezza del soprannaturale che solo una persona veramente santa può godere. Questo è stato il dono eroico dell'intelligenza e comprensione - e dell'eroica profezia. Era un gigante, sia spiritualmente che fisicamente. C'è mai stato nessuno come lui nella storia cattolica?". Inoltre pone (come molti di noi hanno fatto in questi giorni, dopo la beatificazione del card. John Henry Newman) Chesterton in continuità con Newman. Seppur molto diversi tra loro, sono entrambi due giganti della fede che va a braccetto con la ragione. Proprio come si sforza di ricordarci ogni giorno Papa Benedetto XVI. Ritengo quindi che additare Chesterton come esempio ed aiuto consolidi una delle idee portanti di questo pontificato.
Quali le virtù eroiche e le ragioni che indicano in Chesterton anche un eventuale beato?
Sermarini: Le ha espresse bene, tempo fa Paolo Gulisano in una intervista su questo stesso argomento. Io sento di dire che leggendolo si rimane colpiti dalla sua gioia e si acquista subito un vivace senso di conforto e -insisto- speranza. Gilbert aveva una fede cristallina, un’innocenza di bambino buono, un tratto spontaneamente caritatevole verso tutti quelli che incontrava, soprattutto verso gli avversari, ed era un uomo di grande speranza, ne distribuì attorno a sé davvero tanta e continua a farlo oggi. Suscita in me un grandissimo stupore la massa di persone che dichiara di essere grata a Chesterton per la propria conversione o per una forte ripresa di speranza nella propria vita. Anche questo ritengo abbia un grande peso.
Qual è il parere in proposito della Società Chestertoniana Italiana che lei dirige?
Sermarini: Quello che ci colpisce, come chestertoniani italiani, è la sua persistente vitalità, Chesterton continua ad oltre settanta anni dalla morte ad essere avanti a noi nella visione delle cose. Ritengo che questo sia un elemento da non sottovalutare, perché solo chi vive un rapporto stretto e vitale con la Verità possa continuare a parlare alle generazioni. Tra noi gira una specie di identificazione: siamo in molti a considerarlo il San Tommaso d’Aquino del XX e del XXI secolo. Posso testimoniare che sono molto frequenti e cordiali le attestazioni da parte di soci, lettori del nostro blog e simpatizzanti del fatto che Chesterton continua ad infondere speranza, ad insegnare e additare la Verità e ad infondere cattolicissimo buon umore a chi lo legge e lo frequenta.
Pensate di organizzare qualcosa di simile anche in Italia?
Sermarini: In verità è da un po’ che ci pensiamo, assieme ad una riflessione sulla “rinascita chestertoniana” a cui assistiamo in questi ultimi anni in Italia, con un forte e sincero impegno di diversi editori nella pubblicazione anche di opere inedite di Chesterton e con questo ritorno di attualità del suo pensiero. Sarà il compito dei prossimi mesi, a Dio piacendo.
C’è una preghiera che voi proponete in proposito, vero?
Sermarini: L’ho ricordata poco fa. Voglio anche dire che quando organizziamo annualmente il nostro Chesterton Day le sue immaginette con suoi aforismi vanno a ruba. Molti vogliono averla tra le mani perché è come contare sulla presenza di un amico che è anche sorridente.
Cosa è cambiato in Gran Bretagna dopo la visita del Pontefice Benedetto XVI?
Sermarini: Ho seguito il bellissimo e commovente avvenimento sui media inglesi e dai riverberi che mi giungono anche da amici presenti alla beatificazione e che frequentano la patria di Chesterton sento che si è trattata di una occasione irripetibile e felicissima per Papa Benedetto di dimostrare ai nostri amici inglesi e scozzesi e anche a noi come vivere per la Verità che è Cristo sia un guadagno per la società. Credo che possa essere confortante per le genti di questo paese sentirsi dire che la fede è amica dell’intelligenza e porta gioia, che è una marcia in più.
«La stampa cattolica non sia di parte» Bertone avvisa «Famiglia cristiana» - di Andrea Tornielli - © IL GIORNALE ON LINE S.R.L.
Dopo mesi di polemiche il segretario di Stato Vaticano ammonisce i media vicini alla Chiesa: «Non ospitate interessi settari, che siano politici o economici»
La stampa cattolica non deve mai essere «di parte» e dare spazio a «interessi politici». Lo ha detto ieri mattina il cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone, durante l’omelia della messa celebrata in San Pietro per il congresso della stampa cattolica che si tiene a Roma. Quello del «primo ministro» di Papa Ratzinger è un invito a volare alto, a non farsi intrappolare in certe polemiche, a non servire altro interesse che non sia la verità.
Bertone ha invitato i media cattolici a non «cedere alla tentazione, purtroppo sempre presente, di dare spazio a interessi di parte o settari - politici, economici o persino religiosi - per servire senza tradimenti soltanto quello che Manzoni chiamò “il santo vero”, la verità». Il cardinale ha continuato: «È a voi ben noto che i media non sono mai del tutto mezzi “neutri”. Sono al contempo mezzo e messaggio, generando una nuova cultura; pertanto i responsabili dei processi comunicativi, come ha osservato Benedetto XVI in occasione della Giornata mondiale delle comunicazioni sociali dello scorso anno, sono chiamati a promuovere una cultura di rispetto per la dignità e il valore della persona umana. È questa una delle strade nelle quali la Chiesa è chiamata ad esercitare una diaconia della cultura».
Ma i mezzi di comunicazione cattolici hanno un compito ancora più importante. «Grande è la loro responsabilità nei diversi Paesi», ha spiegato il Segretario di Stato. Certo, «come gli altri, sono chiamati a informare e formare, ma con il compito di contribuire all’annuncio di Cristo e all’apertura delle società a Dio». Dunque devono dare il loro contributo come mezzi di comunicazione. Ma non soltanto. Essi hanno, infatti, ha detto ancora il cardinale, il compito di mostrare «la plausibilità del rapporto che lega ragione e fede in un confronto rispettoso e chiaro con le diverse posizioni presenti nel dibattito pubblico».
L’opera dei giornalisti cattolici, ha aggiunto Bertone, «attraverso l’inculturazione del Vangelo dentro il linguaggio giornalistico, tende a rendere i media più capaci di trasmettere e lasciare trasparire il messaggio evangelico. La vostra propria modalità di comunicare il Vangelo risponde ad un’urgente esigenza della fede oggi: l’esigenza che essa sia sempre più una fede pensata, per diventare chiave interpretativa e criterio valutativo di ciò che accade».
Proprio per questo, il principale collaboratore di Benedetto XVI, che oggi riceverà i congressisti, ha insistito sul fatto che i media cattolici non devono cedere alla tentazione di dare spazio «a interessi di parte o settari, politici, economici o persino religiosi». Un richiamo a tutto campo, rivolto alla stampa cattolica di ogni Paese, ma che ha il suo peso anche in Italia, dove di recente non sono mancate le polemiche per alcune prese di posizioni particolarmente forti e provocatorie, prese ad esempio da Famiglia cristiana, e dove è cresciuto esponenzialmente il numero di siti web e blog cattolici fortemente caratterizzati.
Quello dei media cattolici è dunque un compito grande, se si tiene anche conto «della povertà delle risorse disponibili. Ma proprio questa condizione fa parte dello stile con cui il Regno di Dio si fa strada. La vostra ricchezza e forza è nel Vangelo che comunicate, il vostro sostegno è Dio. Fategli spazio».
Nell’omelia, Bertone ha infine ricordato che l’evangelizzazione sta a fondamento di tutta l’opera della Chiesa e la promozione umana è parte integrante e costitutiva di essa. Ma, ha ammonito «non è però sostitutiva dell’evangelizzazione, né a essa alternativa» perché «nulla si deve anteporre alla proclamazione del Vangelo».
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Avvenire.it, 7 ottobre 2010 – TESTIMONI - De Foucauld, ovvero la Chiesa del «non fare» - Pierangelo Sequeri
«Scelgo Tamanrasset, villaggio di venti famiglie in piena montagna, nel cuore dell’Hoggar e del Dag Rali, sua principale tribù, in disparte da tutti i centri importanti. Sembra che non debba mai esservi né guarnigione, né telegrafo, né europeo, e che per lungo tempo non ci sarà nessuna missione. Scelgo questo luogo abbandonato e mi ci stabilisco, supplicando Gesù di benedire questa fondazione in cui voglio, per la mia vita, prendere come unico esempio la sua vita di Nazaret». Un misterioso legame con il deserto scandisce tutte le fasi dell’inquieta ricerca di Charles de Foucauld: la vita militare, la vita di esploratore, la vita della ricerca religiosa, la vita del ministero del Deus absconditus nel contesto domestico degli uomini ai margini della civiltà, secondo la forma di Nazaret. Il deserto è spoliazione.
Ma conduce alla scoperta dell’essenziale: e qui l’essenziale è sempre ritrovato come sollecitudine per l’umanità dell’altro uomo. Lo diventa per l’ufficiale, giudicato intelligente e neghittoso dai superiori, che si rivela guida affidabile e sicura per i suoi sottoposti. Così come diventa attenzione commossa per la dignità delle culture e la marginalità del vivere delle popolazioni che l’esploratore de Foucauld frequenta nel suo lungo viaggio di scoperta. Assume infine il valore di un vero e proprio simbolo di ciò che deve essere indossato come una nuova pelle, assimilato come una seconda natura, a motivo dell’Evangelo. Il deserto è distanza, ma non è vuoto, solitudine fine a se stessa, abbandono dell’umano per una migliore ricerca di sé.
La vocazione alla condizione monastica, la cura della povertà radicale, l’inquietudine che spinge alla ricerca dell’ultimo posto assumono in fratel Carlo il linguaggio tradizionale dell’ascesi. Ma prendono distanza, nel fulcro delle loro motivazioni e della loro pratica, dall’ideale astratto di una perfezione che si risolve nella privazione. Il fatto essenziale, per de Foucauld, è che non c’è nessuna solitudine, nessuna povertà, nessuno svuotamento dell’umano che non siano già sempre abitati da umani. L’elemento catalizzatore di questa trasformazione è lo spirito evangelico dell’immedesimazione con il popolo del deserto, che fa lucidamente percepire a de Foucauld, al di là delle formule, la necessità di una nuova evangelizzazione, che tenga conto precisamente di quelli che oggi abbiamo imparato a chiamare problemi di inculturazione della fede.
Da un lato si tratta di riconoscere umilmente la differenza culturale del nostro cristianesimo occidentale, senza trascriverla immediatamente in una distanza dell’altro dalla relazione teologale con Dio. Vigilanza tanto più necessaria a motivo della storica commistione fra gesto evangelizzatore e gesto colonizzatore. Dall’altro, si tratta di considerare la consuetudine affettuosa dei modi di vita e la rigorosa conoscenza delle forme culturali (comprese quelle religiose) come parte integrante della missione evangelica in quanto tale. «Il mio tempo è diviso tra la preghiera, le relazioni con gli indigeni e i lavori di lingua tuareg; do molto spazio a questi ultimi, innanzitutto per terminarli presto ed essere del tutto disponibile al resto, ma anche perché mi sono necessari.
Non posso fare del bene ai Tuareg se non parlando con loro e conoscendo la loro lingua». In questo duplice solco della sua evoluzione, fratel Carlo matura l’ultima grande svolta della sua mistica, a partire dal 1907, che fa intravedere nettamente le potenzialità teologiche e spirituali della profezia che egli incarna per la Chiesa del nostro tempo. L’immagine evocata da fratel Carlo, che si immagina come sacerdote dove non se ne sono visti, per spezzare il pane e invitare al banchetto invitati improbabili rispetto ai soliti noti, è particolarmente commovente da leggere oggi. Da qualche tempo ci siamo così abituati all’idea del sacerdote come guida e animatore di una Chiesa-comunità già formata, con tutti i suoi ministeri sussidiari, i suoi laici impegnati, le sue iniziative caritative e culturali, che quasi abbiamo rischiato di dimenticarci che dove un cristiano si trova a vivere la sequela e l’imitazione del Signore, la Chiesa è già arrivata. Un sacerdote, un religioso, un cristiano, non sono mai senza Chiesa. Al contrario, i luoghi dell’umano che rimangono senza Chiesa sono sempre molti. Non basta che la Chiesa viva la sua vita, nei luoghi in cui abita l’uomo. Né è sufficiente che essa viva la vita di coloro che la abitano già.
È necessario che essa mostri di saper vivere la vita di coloro che abitano ai confini della sua: anzi, che essa viva proprio la vita di coloro che non la abitano per nulla. E forse non arriveranno ad abitarla, su questa terra, con la comprensione e la libertà che sono necessarie affinché siano onorate insieme – secondo la limpida intenzione di Dio, significata da Gesù – la qualità del discepolo e la dignità dell’ospite. Non è questione di scelta. Il fatto è che dove la divina proporzione dell’incarnazione e della missione non è mantenuta nel suo essenziale rapporto, ne va della qualità di entrambe. E corrispondentemente, della qualità del discepolato come dell’ospitalità, dell’annuncio come della testimonianza, del ministero sacerdotale come dell’identità religiosa. Dove si tratta di stabilire – o ristabilire – questa proporzione, l’alternativa in termini di specificità del ministero ordinato o di tutela della dignità della consacrazione religiosa non si pone proprio. Charles de Foucauld raggiunge, di fatto, nella sua inedita maturazione della cristologia di Nazaret, un’effettiva radicalizzazione dei due momenti.
Avvenire.it, 7 ottobre 2010 – IDEE - E Gödel fa i conti con Anselmo di Roberto Timossi
Una delle più grandi menti del XX secolo è sicuramente quella del moravo Kurt Gödel (1906-1978). Nato nell’odierna Brno, la vita di Gödel, come per altro quella di molti geni, fu piuttosto tormentata e dominata da quello che è stato chiamato "il male di vivere". Fin da giovane si dimostrò brillante negli studi, ma lungo il corso della sua esistenza dovette spesso combattere contro la depressione. Nel 1926 fu tra i frequentatori del Circolo di Vienna e in questo vivace ambiente culturale neopositivista maturò definitivamente la sua vocazione nei confronti della ricerca logico-matematica. Mai scelta risultò più azzeccata visto che già nel 1931, a soli venticinque anni, esponeva in un celebre articolo i presupposti dei suoi teoremi di incompletezza destinati a sconvolgere tutte le teorie logico-matematiche elaborate fino a quel momento.
Se di Gödel sono molto noti i rivoluzionari contributi alla teoria logico-matematica, meno noto è il fatto che formulò una sua rielaborazione della prova ontologica di sant’Anselmo di Aosta, ossia di quella dimostrazione logica che ritiene di poter inferire l’esistenza di Dio a priori, partendo dal concetto che abbiamo di lui. Del resto, fino al 1987 la prova ontologica gödeliana era nota esclusivamente a pochi amici dell’autore ed è inoltre rimasta a lungo tra le sue carte inedite.
Su questo tema è ritornato di recente David P. Goldman (un redattore capo che dichiara di collocarsi in una prospettiva giudaico-cristiana) sulla prestigiosa rivista First Things, facendo un rapido riassunto del dibattito apertosi in filosofia sulla cosiddetta "prova a priori" e avanzando alcune osservazioni critiche. Goldman rileva innanzitutto come la scoperta dell’impossibilità di fare della matematica un sistema formale in sé compiuto quale conseguenza dei teoremi di incompletezza conduca lo stesso Gödel a concludere che noi non possiamo conseguire un credibile approccio con la realtà senza la presenza di Dio.
Dopo aver infatti tentato nel 1949 di prospettare una soluzione originale delle equazioni della teoria generale della relatività del suo amico Albert Einstein sulla base dell’ipotesi di un universo in rotazione su se stesso, dopo aver cioè proposto una descrizione logica del cosmo, Gödel sancì che pure così al "sistema" continuava a mancare qualcosa di essenziale: la ragione dell’esistenza del mondo secondo un ordine logico-matematico. E la soluzione di questo problema poteva venire soltanto da una dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio, ossia dalla necessità logica della presenza di un ente che assommi in sé tutte le qualità positive. È dunque da presupposti sia logici sia esistenziali che è scaturita nella mente di Gödel l’esigenza di concepire una nuova prova ontologica modale.
Ma, come nota correttamente Goldman, il Dio di Gödel non è né la divinità benevola della vecchia teologia naturale né il perfetto armonizzatore dei seguaci del disegno intelligente, dal momento che egli cela totalmente il proprio volto nel mondo e può essere colto soltanto nel paradosso e nell’intuizione razionale. Nonostante ciò, Dio non è un’astrazione perché «può agire come una persona» ed è quanto constata facilmente chi come Gödel lo cerca nel paradosso.
Chi si imbatte nella prova ontologica di Gödel difficilmente riesce a non provare nello stesso istante ammirazione e sconcerto: ammirazione per il rigore logico della dimostrazione; sconcerto per l’arditezza della prova. Si tratta, infatti, di un teorema logico costituito da ventotto passaggi e strutturato con formule ben formate di logica simbolica (accompagnate da alcune annotazioni piuttosto scarne dell’autore), la cui conclusione equivale alla seguente perentoria affermazione: «Dio esiste necessariamente, come volevasi dimostrare». La ritrosia dell’autore a renderla nota la dice lunga sui pregiudizi del suo ambiente universitario contro fede religiosa. Come ricorda sempre Goldman riportando le parole di Adele, la moglie di Gödel, «sebbene non andasse in chiesa era religioso e leggeva la Bibbia a letto ogni domenica mattina».
Non manifestava pubblicamente le sue convinzioni religiose perché temeva di risultare ridicolo, visto che – come scriveva alla madre nel 1961 – «il novanta percento dei filosofi contemporanei considerava loro principale dovere espellere dalla testa degli uomini la beatitudine religiosa». Trattando della prova a priori dell’esistenza di Dio nel mio libro intitolato Prove logiche dell’esistenza di Dio da Anselmo d’Aosta a Kurt Gödel (Marietti), ho osservato che una dimostrazione di questo tipo può essere accolta se si accetta una qualche forma di platonismo delle idee o delle essenze per cui i concetti sono dotati di una realtà oggettiva.
Con questa tesi pare concordare anche David P. Goldman, il quale lascia intendere che Gödel in matematica era un "platonista", ovvero aderiva alla posizione di chi ritiene che i numeri e le funzioni matematiche non sono una mera "costruzione" del nostro intelletto, ma possiedono una realtà propria. A detta di Goldman, tuttavia, la sfida maggiore lanciata dal pensiero religioso di Gödel è rivolta non ai matematici, bensì ai teologi, che lo hanno fino ad ora volutamente evitato forse perché si tratta di una sfida troppo impegnativa.