mercoledì 20 ottobre 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    Radio Vaticana, 20 ottobre 2010 - Santa Elisabetta d'Ungheria al centro della catechesi del Papa all'udienza generale
2)    LA SANTA SEDE ALL'ONU: BASTA CON L'UTILIZZO DEI BAMBINI SOLDATO - “Una delle peggiori forme di schiavitù”, denuncia l'Osservatore Permanente di Roberta Sciamplicotti (ZENIT.org)
3)    Cristiani nel Medio Oriente. Schiacciati tra l'islam e Israele - Il dramma della Chiesa nelle sue terre d'origine analizzato da un sinodo a Roma. I punti critici. Le proposte di cambiamento. Ma c'è ancora chi vede nello stato ebraico la causa di tutti i mali di Sandro Magister
4)    I giovani e il bisogno di certezze - Autore: Bruschi, Franco  Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 18 ottobre 2010
5)    L'apparenza della vita in diretta Giuseppe Feyles - mercoledì 20 ottobre 2010 – il sussidiario.net
6)    Educazione - IL RICORDO/ Giorgio Pontiggia, il dono di un educatore di genio Luca Doninelli mercoledì 20 ottobre 2010 – il sussidiario.net
7)    Avvenire.it, 20 ottobre 2010 - CINEMA E MARTIRI - «Uomini di Dio»: il vero film dei magnifici 7 - Alessandra De Luca
8)    Avvenire.it, 20 ottobre 2010 - La vita e la morte di sette monaci - Appartenevano a un Altro - E parlano a tutti di Enzo Bianchi
9)    20/10/2010 – IRAN - In carcere da mesi un pastore protestante iraniano. Rischia la condanna a morte per apostasia - La moglie di Youcef Nadarkhani è stata liberata nei giorni scorsi dopo quattro mesi di detenzione. L’arresto avviene mentre i cristiani evangelici lamentano una crescente pressione nei loro confronti, una persecuzione senza precedenti dall’avvento del regime degli ayatollah.


Radio Vaticana, 20 ottobre 2010 - Santa Elisabetta d'Ungheria al centro della catechesi del Papa all'udienza generale

Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei parlarvi di una delle donne del Medioevo che ha suscitato maggiore ammirazione; si tratta di santa Elisabetta d’Ungheria, chiamata anche Elisabetta di Turingia.

Nacque nel 1207 in Ungheria, gli storici discutono ancora sul luogo. Suo padre era Andrea II, ricco e potente re di Ungheria, il quale, per rafforzare i legami politici, aveva sposato la contessa tedesca Gertrude di Andechs-Merania, sorella di santa Edvige, la quale era moglie del duca di Slesia. Elisabetta visse nella Corte ungherese solo i primi quattro anni della sua infanzia, assieme a una sorella e tre fratelli. Amava il gioco, la musica e la danza; recitava con fedeltà le sue preghiere e mostrava già particolare attenzione verso i poveri, che aiutava con una buona parola o con un gesto affettuoso.

La sua fanciullezza felice fu bruscamente interrotta quando, dalla lontana Turingia, giunsero dei cavalieri per portarla nella sua nuova sede in Germania centrale. Secondo i costumi di quel tempo, infatti, suo padre aveva stabilito che Elisabetta diventasse principessa di Turingia. Il langravio o conte di quella regione era uno dei sovrani più ricchi ed influenti d’Europa all’inizio del XIII secolo, e il suo castello era centro di magnificenza e di cultura. Ma dietro le feste e l’apparente gloria si nascondevano le ambizioni dei principi feudali, spesso in guerra tra di loro e in conflitto con le autorità reali ed imperiali. In questo contesto, il langravio Hermann accolse ben volentieri il fidanzamento tra suo figlio Ludovico e la principessa ungherese. Elisabetta partì dalla sua patria con una ricca dote e un grande seguito, comprese le sue ancelle personali, due delle quali le rimarranno amiche fedeli fino alla fine. Sono loro che ci hanno lasciato preziose informazioni sull’infanzia e sulla vita della Santa.

Dopo un lungo viaggio giunsero ad Eisenach, per salire poi alla fortezza di Wartburg, il massiccio castello sopra la città. Qui si celebrò il fidanzamento tra Ludovico ed Elisabetta. Negli anni successivi, mentre Ludovico imparava il mestiere di cavaliere, Elisabetta e le sue compagne studiavano tedesco, francese, latino, musica, letteratura e ricamo. Nonostante il fatto che il fidanzamento fosse stato deciso per motivi politici, tra i due giovani nacque un amore sincero, animato dalla fede e dal desiderio di compiere la volontà di Dio. All’età di 18 anni, Ludovico, dopo la morte del padre, iniziò a regnare sulla Turingia. Elisabetta divenne però oggetto di sommesse critiche, perché il suo modo di comportarsi non corrispondeva alla vita di corte. Così anche la celebrazione del matrimonio non fu sfarzosa e le spese per il banchetto furono in parte devolute ai poveri. Nella sua profonda sensibilità Elisabetta vedeva le contraddizioni tra la fede professata e la pratica cristiana. Non sopportava i compromessi. Una volta, entrando in chiesa nella festa dell’Assunzione, si tolse la corona, la depose dinanzi alla croce e rimase prostrata al suolo con il viso coperto. Quando la suocera la rimproverò per quel gesto, ella rispose: “Come posso io, creatura miserabile, continuare ad indossare una corona di dignità terrena, quando vedo il mio Re Gesù Cristo coronato di spine?”. Come si comportava davanti a Dio, allo stesso modo si comportava verso i sudditi. Tra i Detti delle quattro ancelle troviamo questa testimonianza: “Non consumava cibi se prima non era sicura che provenissero dalle proprietà e dai legittimi beni del marito. Mentre si asteneva dai beni procurati illecitamente, si adoperava anche per dare risarcimento a coloro che avevano subito violenza” (nn. 25 e 37). Un vero esempio per tutti coloro che ricoprono ruoli di guida: l’esercizio dell’autorità, ad ogni livello, dev’essere vissuto come servizio alla giustizia e alla carità, nella costante ricerca del bene comune.

Elisabetta praticava assiduamente le opere di misericordia: dava da bere e da mangiare a chi bussava alla sua porta, procurava vestiti, pagava i debiti, si prendeva cura degli infermi e seppelliva i morti. Scendendo dal suo castello, si recava spesso con le sue ancelle nelle case dei poveri, portando pane, carne, farina e altri alimenti. Consegnava i cibi personalmente e controllava con attenzione gli abiti e i giacigli dei poveri. Questo comportamento fu riferito al marito, il quale non solo non ne fu dispiaciuto, ma rispose agli accusatori: “Fin quando non mi vende il castello, ne sono contento!”. In questo contesto si colloca il miracolo del pane trasformato in rose: mentre Elisabetta andava per la strada con il suo grembiule pieno di pane per i poveri, incontrò il marito che le chiese cosa stesse portando. Lei aprì il grembiule e, invece del pane, comparvero magnifiche rose. Questo simbolo di carità è presente molte volte nelle raffigurazioni di santa Elisabetta.

Il suo fu un matrimonio profondamente felice: Elisabetta aiutava il coniuge ad elevare le sue qualità umane a livello soprannaturale, ed egli, in cambio, proteggeva la moglie nella sua generosità verso i poveri e nelle sue pratiche religiose. Sempre più ammirato per la grande fede della sposa, Ludovico, riferendosi alla sua attenzione verso i poveri, le disse: “Cara Elisabetta, è Cristo che hai lavato, cibato e di cui ti sei presa cura”. Una chiara testimonianza di come la fede e l’amore verso Dio e verso il prossimo rafforzino la vita familiare e rendano ancora più profonda l’unione matrimoniale.

La giovane coppia trovò appoggio spirituale nei Frati Minori, che, dal 1222, si diffusero in Turingia. Tra di essi Elisabetta scelse frate Ruggero (Rüdiger) come direttore spirituale. Quando egli le raccontò la vicenda della conversione del giovane e ricco mercante Francesco d’Assisi, Elisabetta si entusiasmò ulteriormente nel suo cammino di vita cristiana. Da quel momento, fu ancora più decisa nel seguire Cristo povero e crocifisso, presente nei poveri. Anche quando nacque il primo figlio, seguito poi da altri due, la nostra Santa non tralasciò mai le sue opere di carità. Aiutò inoltre i Frati Minori a costruire ad Halberstadt un convento, di cui frate Ruggero divenne il superiore. La direzione spirituale di Elisabetta passò, così, a Corrado di Marburgo.

Una dura prova fu l’addio al marito, a fine giugno del 1227 quando Ludovico IV si associò alla crociata dell’imperatore Federico II, ricordando alla sposa che quella era una tradizione per i sovrani di Turingia. Elisabetta rispose: “Non ti tratterrò. Ho dato tutta me stessa a Dio ed ora devo dare anche te”. La febbre, però, decimò le truppe e Ludovico stesso cadde malato e morì ad Otranto, prima di imbarcarsi, nel settembre 1227, all’età di ventisette anni. Elisabetta, appresa la notizia, ne fu così addolorata che si ritirò in solitudine, ma poi, fortificata dalla preghiera e consolata dalla speranza di rivederlo in Cielo, ricominciò ad interessarsi degli affari del regno. La attendeva, tuttavia, un’altra prova: suo cognato usurpò il governo della Turingia, dichiarandosi vero erede di Ludovico e accusando Elisabetta di essere una pia donna incompetente nel governare. La giovane vedova, con i tre figli, fu cacciata dal castello di Wartburg e si mise alla ricerca di un luogo dove rifugiarsi. Solo due delle sue ancelle le rimasero vicino, la accompagnarono e affidarono i tre bambini alle cure degli amici di Ludovico. Peregrinando per i villaggi, Elisabetta lavorava dove veniva accolta, assisteva i malati, filava e cuciva. Durante questo calvario sopportato con grande fede, con pazienza e dedizione a Dio, alcuni parenti, che le erano rimasti fedeli e consideravano illegittimo il governo del cognato, riabilitarono il suo nome. Così Elisabetta, all’inizio del 1228, poté ricevere un reddito appropriato per ritirarsi nel castello di famiglia a Marburgo, dove abitava anche il suo direttore spirituale Fra’ Corrado. Fu lui a riferire al Papa Gregorio IX il seguente fatto: “Il venerdì santo del 1228, poste le mani sull’altare nella cappella della sua città Eisenach, dove aveva accolto i Frati Minori, alla presenza di alcuni frati e familiari, Elisabetta rinunziò alla propria volontà e a tutte le vanità del mondo. Ella voleva rinunziare anche a tutti i possedimenti, ma io la dissuasi per amore dei poveri. Poco dopo costruì un ospedale, raccolse malati e invalidi e servì alla propria mensa i più miserabili e i più derelitti. Avendola io rimproverata su queste cose, Elisabetta rispose che dai poveri riceveva una speciale grazia ed umiltà” (Epistula magistri Conradi, 14-17).

Possiamo scorgere in quest’affermazione una certa esperienza mistica simile a quella vissuta da san Francesco: il Poverello di Assisi dichiarò, infatti, nel suo testamento, che, servendo i lebbrosi, quello che prima gli era amaro fu tramutato in dolcezza dell’anima e del corpo (Testamentum, 1-3). Elisabetta trascorse gli ultimi tre anni nell’ospedale da lei fondato, servendo i malati, vegliando con i moribondi. Cercava sempre di svolgere i servizi più umili e lavori ripugnanti. Ella divenne quella che potremmo chiamare una donna consacrata in mezzo al mondo (soror in saeculo) e formò, con altre sue amiche, vestite in abiti grigi, una comunità religiosa. Non a caso è patrona del Terzo Ordine Regolare di San Francesco e dell’Ordine Francescano Secolare.

Nel novembre del 1231 fu colpita da forti febbri. Quando la notizia della sua malattia si propagò, moltissima gente accorse a vederla. Dopo una decina di giorni, chiese che le porte fossero chiuse, per rimanere da sola con Dio. Nella notte del 17 novembre si addormentò dolcemente nel Signore. Le testimonianze sulla sua santità furono tante e tali che, solo quattro anni più tardi, il Papa Gregorio IX la proclamò Santa e, nello stesso anno, fu consacrata la bella chiesa costruita in suo onore a Marburgo.

Cari fratelli e sorelle, la figura di Santa Elisabetta, vediamo come la fede, l’amicizia con Cristo, crea il senso della giustizia, dell’uguaglianza di tutti, dei diritti degli altri, e crea l’amore, la carità e da questa carità nasce anche la speranza, la certezza che siamo amati da Cristo e che l’amore di Cristo ci aspetta. E così ci renda capaci di imitare Cristo, di vedere Cristo negli altri. Santa Elisabetta ci invita a scoprire Cristo, ad amare Cristo, ad avere la fede e così trovare la vera giustizia, l’amore e la gioia che un giorno saremo immersi nell’amore divino, nella gioia dell’eternità con Dio.


LA SANTA SEDE ALL'ONU: BASTA CON L'UTILIZZO DEI BAMBINI SOLDATO - “Una delle peggiori forme di schiavitù”, denuncia l'Osservatore Permanente di Roberta Sciamplicotti (ZENIT.org)

ROMA, martedì, 19 ottobre 2010 (ZENIT.org).- L'utilizzo dei bambini come combattenti nei conflitti è “una delle peggiori forme di schiavitù”, ha denunciato venerdì a New York monsignor  Francis Chullikatt, Osservatore Permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite.

Di fronte a questa piaga, la delegazione vaticana ha voluto ribadire il valore dei Protocolli Opzionali alla Convenzione sui Diritti del Fanciullo - sul coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati e su vendita di bambini, prostituzione infantile e pedopornografia -, di cui si celebra il decimo anniversario dell'adozione.

Anche se “nessuno strumento internazionale è perfetto”, ha spiegato monsignor Chullikatt, i Protocolli “servono a rafforzare l'implementazione dei diritti dei bambini affermati nella Convenzione dei Diritti del Fanciullo”.

Per questa ragione, la delegazione vaticana “incoraggia tutti gli Stati che ancora non lo hanno fatto a unirsi nella promozione della difesa legale dei bambini e degli adolescenti ratificando o accedendo ai Protocolli Opzionali”, e “chiede una corretta applicazione di questi strumenti legali che implica il rispetto per il diritto alla vita di tutti i bambini”.

Nel mondo attuale, lamenta l'Osservatore Permanente, “bambini e giovani adolescenti continuano a essere vittime di gravi violazioni in situazioni di conflitto nel mondo, ed è deplorevole l'apparente aumento del clima di impunità di quanti le perpetrano”.

Tra le violenze che subiscono, spicca la loro “maggiore vulnerabilità in quelle situazioni in cui vengono implementate nuove tattiche belliche”.

“E' stata definita come una delle peggiori forme di schiavitù, ma continua ancora oggi: i bambini vengono usati come soldati in un'età in cui dovrebbero imparare come amare e rispettare i propri vicini”.

Si calcola che al mondo circa 250.000 piccoli vengano usati a questo scopo, “costretti a uccidere i propri vicini, a volte perfino i propri familiari, fratelli e amici”.

Secondo l'Osservatore Permanente, “ciò è deprecabile, ma è anche evitabile”.

Tutte le parti interessate devono “impegnarsi concretamente per la difesa” dei più giovani e promuovere “piani d'azione” per far fronte a questi “crimini scioccanti”, affinché “cessino per sempre”.

“La comunità internazionale ha questo dovere nei confronti di tutti i bambini e i giovani che soffrono tali violazioni della loro dignità”.

Monsignor Chullikatt ha ricordato che la Chiesa cattolica “è stata una partner costante delle Nazioni Unite nel combattere l'uso dei bambini-soldato, e attraverso le sue varie strutture che operano in molte zone di conflitto è attivamente impegnata nell'assistere le vittime di questa violenza”.

Negli ultimi anni, “molte iniziative nazionali, regionali e internazionali hanno ottenuto dei successi nel prevenire e combattere altre violazioni della dignità dei bambini”, dimostrando “quanto l'impegno concertato per il benessere dei bambini possa favorire risultati positivi”.

In questo contesto, è importante che i Governi adottino “strategie comprensive sulla prevenzione della violenza e la sua prevenzione, permettendo una legislazione forte ed efficace e promuovendo la raccolta di prove e dati accurati per comprendere i fattori di rischio e informare le decisioni politiche”.

Per queste ragioni, l'Osservatore Permanente e la delegazione vaticana incoraggiano i Governi “ad affermare e sostenere la famiglia, in cui i bambini sviluppano il proprio potenziale, diventano consapevoli della loro dignità e si preparano per il futuro”.

“In un mondo che per milioni di bambini è caratterizzato dalla dura realtà della violenza”, la delegazione vaticana incoraggia “tutti gli Stati a lavorare insieme, in una partnership produttiva, per porre fine a tutte le forme di violenza contro i bambini”.

Allo stesso modo, non bisogna dimenticare “la necessità di dare una parola di speranza e incoraggiamento a quei bambini e ai quei giovani la cui innocenza e la cui dignità umana sono state ferite dalla crudeltà del mondo degli adulti”.

“Tutti gli Stati, le agenzie dell'ONU, la società civile e le istituzioni interreligiose basate sulla fede dovrebbero collaborare in una partnership più efficace per assicurare assistenza a quanti sono colpiti da violenza e abusi, e lavorare per promuovere un mondo di speranza in cui questi bambini possano perseguire i loro sogni e le loro aspirazioni di un futuro libero da violenza e da spargimento di sangue”, ha concluso monsignor Chullikatt.


Cristiani nel Medio Oriente. Schiacciati tra l'islam e Israele - Il dramma della Chiesa nelle sue terre d'origine analizzato da un sinodo a Roma. I punti critici. Le proposte di cambiamento. Ma c'è ancora chi vede nello stato ebraico la causa di tutti i mali di Sandro Magister

ROMA, 19 ottobre 2010 – Il sinodo speciale per il Medio Oriente che è in corso da dieci giorni in Vaticano getta luce su una porzione di cristianità in drammatico movimento, in più direzioni e dal futuro incerto.

L'esodo dei cristiani da quelle terre è una parte importante di questo movimento. Ma non è un fenomeno nuovo. Nella prima metà del Novecento lo sterminio e la cacciata degli armeni, e poi dei greci, dalla Turchia furono di colossali proporzioni. Oggi l'esodo continua da più luoghi e in varia misura. Sta di fatto che a fronte dei dodici milioni di fedeli delle antiche Chiese d'Oriente che oggi vivono tra l'Egitto e l'Iran, circa sette milioni vivono ormai fuori.

Gli armeni sono da molti decenni più numerosi nella diaspora che nella terra d'origine. I maroniti libanesi hanno diocesi di loro emigrati negli Stati Uniti, in Canada, Messico, Brasile, Argentina, Australia. I siro ortodossi hanno una eparchia in Svezia. Gli iracheni hanno creato una "Chaldean Town" nell'area metropolitana di Detroit. I cristiani di Betlemme emigrano per la gran parte in Cile.

Contemporaneamente, però, è in atto nel Medio Oriente anche un movimento inverso. Nella sola penisola arabica – stando a quanto hanno detto in sinodo i due vicari apostolici della regione, Paul Hinder e Camillo Ballin – i cattolici venuti da fuori in cerca di lavoro sono già tre milioni, per la maggior parte dalle Filippine e dall'India.

I paesi arabi del Golfo "hanno grande bisogno di manodopera", ha spiegato il vescovo indiano di rito siro-malabarese Bosco Puthur, dalla cui regione sono partiti in 430 mila. Ma l'avventura di questi emigranti è molto amara, se misurata sulle libertà religiose e civili. L'arcivescovo di Addis Abeba, Berhaneyesus Demerew Souraphiel, ha detto che le migliaia di donne che partono ogni anno dall'Etiopia per il Medio Oriente, come lavoratrici domestiche, per ottenere i visti d'ingresso "cambiano i loro nomi cristiani in nomi musulmani e si vestono come musulmane, così indirettamente forzate a rinnegare le loro radici", e in ogni caso vanno incontro a una vita di "sfruttamento e abusi".

Nel descrivere la condizione in cui vivono i cristiani nei paesi musulmani del Medio Oriente i vescovi hanno usato parole comprensibilmente prudenti. Con poche eccezioni.

Uno dei più crudi è stato il rappresentante in Giordania del patriarcato dei caldei iracheni. Ha detto che c'è "una deliberata campagna per cacciare i cristiani. Ci sono piani satanici dei gruppi fondamentalisti estremisti contro i cristiani non solo in Iraq ma in tutto il Medio Oriente".

L'iraniano Thomas Meram, arcivescovo di Urmya del Caldei, non ha esitato a citare il salmo di Davide: "Per te ogni giorno veniamo massacrati". E ha proseguito: "Ogni giorno i cristiani si sentono dire, dagli altoparlanti, dalla televisione, dai giornali, che sono infedeli e per questo vengono trattati come cittadini di seconda categoria".

Tutto l'opposto di quanto ha asserito in aula lo stesso giorno, giovedì 14 ottobre, l'ayatollah iraniano Seyed Mostafa Mohaghegh Ahmadabadi, ospite del sinodo, secondo il quale "in molti paesi islamici, soprattutto in Iran, i cristiani vivono fianco a fianco in pace con i loro fratelli musulmani. Essi godono di tutti i diritti legali come ogni altro cittadino ed esercitano liberamente le proprie pratiche religiose".

Ma il sinodo è più che una semplice ricognizione sullo stato di vita dei cristiani nel Medio Oriente.

Dal dibattito sono emersi giudizi critici sulla Chiesa cattolica in quei paesi e proposte di cambiamento.


CRISTIANI DIVISI


Un primo giudizio critico riguarda la disunione della Chiesa cattolica nel Medio Oriente.

Le cinque grandi tradizioni a cui essa si richiama – alessandrina, antiochena, armena, caldea, bizantina – e gli ancor più numerosi riti in cui si articola producono spesso divisione, incomprensioni e chiusure, invece che arricchimento reciproco.

"Una Chiesa etnica e nazionalistica si oppone all'opera dello Spirito Santo", ha ammonito l'arcivescovo iraniano di Teheran dei caldei, Ramzi Garmou.

E ne aveva i motivi. Il vescovo egiziano di Assiut dei copti, Kyrillos William, si è scagliato in aula contro i confratelli di rito latino poiché, celebrando anch'essi in arabo le loro liturgie, "attirano i nostri fedeli e li distaccano dalla nostra Chiesa".

Anche il vescovo dei greco-melchiti d'Australia, Issam John Darwich, ha lamentato la "crescente intolleranza fra le Chiese cattoliche orientali". E ha portato ad esempio "la triste situazione del Libano, dove ogni Chiesa sembra essere interessata a ottenere benefici politici per se stessa e più delle altre Chiese".

In effetti il Libano è sì un paese nel quale i cristiani godono di libertà maggiori che in altri paesi del Medio Oriente, ma è anche quello così descritto in sinodo da un suo vescovo greco-melchita, Georges Nicolas Haddad:

"La libertà di religione e di coscienza resta appannaggio delle 18 comunità storicamente riconosciute (12 cristiane, 4 musulmane, una drusa e una ebrea). Chiunque non ne faccia parte è escluso da ogni diritto all'esercizio delle sue libertà. Ogni tentativo caratterizzato da un proselitismo da parte dell'una o dell'altra comunità può provocare reazioni estreme e talvolta violente. Ogni conversione è percepita come un colpo profondo inferto alla comunità d'origine del convertito e costituisce una rottura sociale".

Muhammad Al-Sammak, consigliere del Gran Mufti del Libano e altra personalità musulmana invitata a parlare nel sinodo, non ha detto molto di diverso quando ha dichiarato – in aula – che "la presenza cristiana in Oriente è una necessità sia cristiana che islamica" e – fuori dall'aula, in una conferenza stampa – che "il credere è materia di coscienza ma quando il cambiare religione è anche cambiare 'parte' diventa un atto di tradimento dello stato e così deve essere trattato".

Su questo sfondo, numerose voci si sono levate nel sinodo per raccomandare più unità tra le Chiese cattoliche della regione, e tra queste e le Chiese ortodosse e le confessioni protestanti.

In particolare, si è proposto di concordare al più presto una data comune per la celebrazione della Pasqua.

Alcuni hanno esortato al dialogo con i musulmani "illuminati", disposti a una "lettura critica del Corano" e a una "interpretazione delle leggi musulmane nel loro contesto storico".


PIÙ POTERI AI PATRIARCHI


Una seconda serie di proposte ha riguardato la cura pastorale dei fedeli delle Chiese cattoliche del Medio Oriente emigrati all'estero, il ruolo dei patriarcati e il loro rapporto con la sede di Roma.

Di norma, i patriarchi e i vescovi hanno giurisdizione sui rispettivi territori, non sui fedeli emigrati in paesi lontani. Ma in alcuni casi questi ultimi sono ormai più numerosi dei fedeli rimasti in patria. E se lasciati senza cura, tendono ad abbandonare le tradizioni delle loro Chiese d'origine. Parecchie voci, nel sinodo, hanno quindi chiesto di dare autorità ai patriarchi e ai vescovi sull'intero gregge dei loro fedeli, dovunque essi siano, in patria e all'estero.

Assieme a questa richiesta, alcuni hanno anche rivendicato la libertà di inviare dei sacerdoti sposati per la cura pastorale dei fedeli orientali in diaspora. In Occidente, infatti, dove il clero è celibe, non è consentita la presenza con incarichi pastorali di sacerdoti orientali sposati. Ma aumentando il numero degli emigrati ed essendo il basso clero delle Chiese orientali quasi tutto sposato, è sempre più difficile per i patriarchi e i vescovi orientali trovare dei sacerdoti celibi da inviare all'estero per la cura dei loro fedeli. Da cui la richiesta di far cadere il divieto.

Quanto al ruolo dei patriarcati, è affiorata più volte nel sinodo la richiesta di "restituire" loro l'autorità che avevano nei primi secoli della Chiesa, in rapporto al papa. In particolare dando loro più autonomia nel nominare i vescovi del luogo. E anche associandoli "ipso facto" al collegio che elegge il sommo pontefice, "senza la necessità di ricevere il titolo latino di cardinali". Insomma, assegnando al papa "una nuova forma di esercizio del primato ispirata alle forme ecclesiali del primo millennio", con il ruolo dei patriarchi rafforzato. Tutto questo anche al fine di avvicinare le posizioni della Chiesa cattolica a quelle delle Chiese ortodosse d'Oriente.


IN MISSIONE TRA I MUSULMANI


Un terzo blocco di proposte ha riguardato la "necessità di ricuperare l'aspetto missionario della Chiesa". Una proposta nuova e coraggiosa in paesi a dominante musulmana, da parte di Chiese che per ragioni storiche e per motivi di sopravvivenza si sono in larga misura chiuse su se stesse.

Il vescovo egiziano di Luqsor dei copti, Youhannes Zakaria, ha detto che nonostante le difficoltà e i pericoli "la nostra Chiesa non deve avere paura né vergogna, e non deve esitare a obbedire al mandato del Signore, che le chiede di continuare la predicazione del Vangelo".

E l'arcivescovo iraniano di Teheran dei caldei, Ramzi Garmou, è andato ancora più al fondo di questa esigenza. Dopo aver detto che "un nuovo soffio missionario" è vitale "per far cadere le barriere etniche e nazionaliste che rischiano di asfissiare e rendere sterili le Chiese d'Oriente", ha richiamato "l'importanza fondamentale della vita monastica per il rinnovamento e il risveglio delle nostre Chiese".

E così ha proseguito:

"Questa forma di vita, nata in Oriente, è stata all'origine di un'espansione missionaria straordinaria e di una testimonianza ammirevole delle nostre Chiese nei primi secoli. La storia ci insegna che i vescovi venivano scelti tra i monaci, vale a dire tra uomini di preghiera e di vita spirituale profonda, con una grande esperienza delle 'cose di Dio'. Oggi purtroppo la scelta dei vescovi non obbedisce agli stessi criteri e ne constatiamo i risultati, che non sempre sono positivi. L'esperienza bimillenaria della Chiesa ci conferma che la preghiera è l'anima della missione; è grazie a essa che tutte le attività della Chiesa sono rese feconde e danno molti frutti. D'altronde, tutti coloro che hanno partecipato alla riforma della Chiesa e le hanno restituito la sua bellezza innocente e la sua giovinezza eterna sono stati fondamentalmente uomini e donne di preghiera. Non per nulla nostro Signore ci invita a pregare incessantemente. Constatiamo con rammarico e amarezza che i monasteri di vita contemplativa, fonte di abbondanti grazie per il popolo di Dio, sono quasi scomparsi dalle nostre Chiese d'Oriente. Che grande perdita! Che peccato!".

È facile ravvisare in queste parole l'eco della tesi di papa Joseph Ratzinger secondo cui il segreto del buon governo della Chiesa – e della sua riforma – è il "pensiero illuminato dalla preghiera".


ISRAELE "CORPO ESTRANEO"?


In un sinodo dedicato al Medio Oriente c'era infine da aspettarsi un importante riferimento a Israele e agli ebrei.

Quasi nessuno, invece, ne ha parlato. L'unico padre sinodale che vi ha dedicato l'intero intervento è stato, l'11 ottobre, il vicario patriarcale di Gerusalemme per i cattolici di lingua ebraica, il gesuita David Neuhaus, il quale ha auspicato più comunione, in Israele, tra i cattolici di lingua araba e quelli ebreofoni.

Questi ultimi, si sa, sono considerati da molti confratelli arabi un corpo estraneo. E la Santa Sede non li aiuta, rinunciando a nominare un vescovo che si dedichi alla loro cura.

Il 13 ottobre ha preso la parola nel sinodo, in qualità di invitato, il rabbino David Rosen, consigliere del Gran Rabbinato di Israele. Il suo è stato un intervento di ampio respiro, molto positivo e di grande apprezzamento dell'opera dell'attuale papa e del suo predecessore.

Ma dopo di lui nessuno, nel sinodo, ha dato seguito alle sue parole di dialogo tra ebrei e cristiani.

Rimanendo l'aula in quasi totale silenzio sul tema, ha così avuto maggior risonanza un documento fatto circolare fuori dell'aula sinodale: un documento intitolato "Kairòs – Un momento di verità" e sfrenatamente anti-israeliano nei contenuti. In esso l'occupazione da parte di Israele dei territori è definita "un peccato contro Dio e l'umanità" e la stessa fondazione dello stato ebraico è fatta risalire a un senso di colpa dell'Occidente a motivo dell'Olocausto, per sanare il quale si sarebbe occupata la terra dei palestinesi. Il documento termina con l'invito a boicottare Israele.

La genesi di "Kairòs" risale a diversi mesi fa. Quando fu reso pubblico per la prima volta, l'11 dicembre 2009 a Betlemme, il documento recava le firme del patriarca emerito di Gerusalemme dei latini, Michel Sabbah, dell'arcivescovo greco-ortodosso Atallah Hanna (acerrimo rivale del patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme Teofilo III), del vescovo luterano di Gerusalemme Munib Younan e di tredici altri esponenti arabo-cristiani.

Il suo più attivo propagatore era il luterano Younan. Questi coinvolse con successo il Consiglio Ecumenico delle Chiese, che raggruppa 349 denominazioni cristiane di tutto il mondo, con sede a Ginevra. E infatti, quando il 15 ottobre è stato letto nel sinodo un messaggio del segretario generale del CEC, Olav Fykse Tveit, il documento "Kairòs" vi era citato e raccomandato.

Ma Younan e gli altri autori del documento fecero pressione, nei giorni successivi alla sua pubblicazione, anche su tutti i leader delle Chiese cristiane a Gerusalemme, per ottenerne l'appoggio.

Quello che ottennero, il 15 dicembre 2009, fu una dichiarazione di poche righe, senza alcun riferimento esplicito a "Kairòs", che iniziava con queste parole: "Noi, i patriarchi e capi delle Chiese cristiane di Gerusalemme, abbiamo ascoltato il grido di speranza che i nostri figli hanno lanciato in questi tempi difficili che stiamo vivendo in questa Terra Santa. Noi li sosteniamo".

Niente di più. Ma da lì in poi il documento "Kairòs" è stato fatto sempre circolare con in testa questa dichiarazione, come se fosse il suo prologo, e con le firme di tutti i leader delle Chiese cristiane a Gerusalemme, compreso il patriarca latino Fouad Twal e il custode di Terra Santa, il francescano Pierbattista Pizzaballa, come se fossero loro i veri autori dell'intero documento

Per chi conosce e ha letto gli scritti di padre Pizzaballa, una sua adesione alle tesi di "Kairòs" e al boicottaggio di Israele è semplicemente impensabile. Eppure anche la Custodia di Terra Santa, da lui presieduta, ha contribuito assieme ad altre associazioni cattoliche, come Pax Christi, e al patriarca emerito di Gerusalemme Sabbah a dare pubblicità al documento, il 19 ottobre, in un salone di proprietà del Vaticano, a pochi passi dall'aula del sinodo.

Non solo. Il 14 ottobre è intervenuto nel sinodo l'arcivescovo maronita Edmond Farhat, già nunzio apostolico e rappresentante ufficiale della politica vaticana.

E i giudizi da lui espressi fanno pensare che per la Santa Sede – che pure accetta l'obiettivo di due stati per ebrei e palestinesi – continua a valere il presupposto che la causa ultima di tutti i mali del Medio Oriente sia proprio quel "corpo estraneo" che è Israele.

Ha detto il nunzio Farhat:

"La situazione del Medio Oriente oggi è come un organo vivente che ha subito un trapianto che non riesce ad assimilare e che non ha avuto specialisti che lo curassero. Come ultima risorsa l'Oriente arabo musulmano ha guardato alla Chiesa credendo, come dentro di sé pensa, che sia capace di ottenergli giustizia. Non è stato così. È deluso, ha paura. La sua fiducia si è trasformata in frustrazione. È caduto in una crisi profonda. Il corpo estraneo, non assimilato, lo corrode e gli impedisce di occuparsi del suo stato generale e del suo sviluppo. Il Medio Oriente musulmano nella sua schiacciante maggioranza è in crisi. Non può farsi giustizia. Non trova alleati né sul piano umano né sul piano politico, meno ancora sul piano scientifico. È frustrato. Si rivolta. La sua frustrazione ha avuto come effetto le rivoluzioni, il radicalismo, le guerre, il terrore e l'appello (da'wat) al ritorno agli insegnamenti radicali (salafiyyah). Volendo farsi giustizia da solo il radicalismo ricorre alla violenza. Crede di fare più scalpore se si attacca ai corpi costituiti. E il più accessibile e il più fragile è la Chiesa".

Se un proposito delle autorità vaticane era di "moderare" l'intransigente avversione a Israele delle Chiese arabe del Medio Oriente, le parole del nunzio Farhat hanno fatto l'opposto.


I giovani e il bisogno di certezze - Autore: Bruschi, Franco  Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 18 ottobre 2010

Accade che una lezione sul “Purgatorio” di Dante diventi sorprendentemente un avvenimento.
L’altra mattina nella mia quarta introducendo il “Purgatorio” parlavo delle tre parole chiave della cantica: l’amore, il perdono e la misericordia, la libertà.
A tema della “Divina Commedia”, dicevo, c’è una domanda grandissima: tutto quello che di bello e di vero desidero, che amo e stimo sopra ogni cosa (la mia felicità, il bene per la persona che amo, il rapporto con un carissimo amico) durerà per sempre? Si realizzerà pienamente, totalmente? O tutto si corromperà e finirà nel nulla? Dante risponde con una certezza: la vita è per un positivo perché tutto esiste per amore. Ho citato don Giussani che a questo proposito afferma: “Non è tragedia la vita: la tragedia è ciò che fa finire tutto nel niente, la vita è dramma: è drammatica perché rapporto fra il nostro io e il Tu di Dio, il nostro io che deve seguire i passi che Dio segna”. E aggiunge: “L’arte anticipa qualcosa dell’eterno”. La poesia di Dante anticipa qualcosa a proposito del nostro destino: la vita o è certezza di essere amati o è tragedia; o è responsabilità, risposta di fronte a un Tu che ti stima infinitamente, o è il nulla; o è un dialogo o è una tragica solitudine, l’esperienza più diffusa ai giorni nostri anche tra i giovani.
La stessa cosa si può dire per l’esigenza del perdono e della misericordia: la vita è letizia, è positiva in qualunque situazione ci troviamo se abbiamo la certezza del perdono, di una presenza misteriosa che ci accoglie e ci perdona sempre, gratuitamente, senza chiedere nulla in contraccambio. Non c’è male, non c’è peccato, non c’è delitto che non possa essere perdonato, neanche la tragica uccisione della giovane Sara di Avetrana. L’unico peccato che non può essere perdonato è il peccato contro lo Spirito: Dio non esiste, o se per caso esiste non mi può perdonare, l’abisso della disperazione.
Dante dice a ciascuno di noi: “Franco, Laura, Stefania… tocca a te decidere: con sulle spalle il carico pesante del tuo male, dei tuoi limiti, della tua istintività o ti affidi con fiducia alla misericordia infinita di un Padre che perdona, o ti perderai sotto i colpi della disperazione e della solitudine.
Oppure puoi fare come fanno molti: evitare di guardare in faccia al tuo male, incolpando gli altri, la società o peggio affidandoti passivamente a tutto ciò che il potere ti offre per non pensare al tuo male, per non pensare a niente: ma una posizione così non può durare nel tempo”.
A quel punto una alunna, Giulia, alza la mano e chiede: “Ma lei, prof, ha delle certezze?” E io a lei: “Certezze a proposito di che cosa?” Lei risponde: “Certezze a proposito dell’esistenza di Dio, della Sua presenza?” Io le dico: “Ma perché mi chiedi questo?” Lei risponde: “Perché io ho molti dubbi. Per questo le volevo chiedere: ma lei come ha fatto ad arrivare a delle certezze su Dio?”
Le ho detto: “Guarda, non mi interessa dirti qualcosa da un punto di vista teorico, posso raccontarti la mia esperienza. Io sono arrivato ad avere delle certezze in tre modi: prima di tutto osservando, stando attento alla realtà che mi circonda, lasciandomi provocare dalla sua bellezza (un tramonto, un cielo stellato, il viso di una bella donna, una sinfonia) e ponendomi della domande: se non ho fatto io tutte queste cose che mi affascinano per la loro bellezza chi le ha fatte? E perché il mio cuore si emoziona, si esalta alla vista di queste cose? Chi ha fatto il mio cuore così? Perché sono fatto così?
Poi quando ero giovane ho incontrato qualcuno che mi ha detto: “C’è un uomo nella storia che ha detto: “Io sono la verità, la via, la vita.” Che è come dire: “Io sono la tua felicità”. Sentire delle simili parole mi ha cambiato la vita, mi è venuto un gran desiderio di conoscere e di scoprire quell’Uomo che prometteva quel che da sempre desideravo, che mi offriva quella certezza che dava un senso, una prospettiva infinita, una speranza a tutte le cose che più amavo. Mi è apparso subito chiaro che la cosa più semplice per conoscerlo era quella di stare, di diventare amico di chi mi aveva comunicato una notizia così decisiva, di chi aveva spalancato la mia vita a un orizzonte che comprendeva e valorizzava tutti i miei interessi. Da allora la mia vita è stata una continua scoperta.
Infine ho avuto la grazia di conoscere, di incontrare dei santi sia direttamente, sia leggendo le testimonianze della loro vita. I santi sono delle persone che avendo incontrato Cristo hanno dato tutto per Lui, mostrando a tutti per che cosa vale la pena vivere. Ad esempio, mi ha sempre colpito la vicenda che tutti conosciamo di San Massimiliano Kolbe. Ha detto alle SS che aveva di fronte: “Prendete me, uccidete me al posto di quel padre di famiglia che avete scelto”. Ho subito pensato: o uno così è un pazzo, o grazie alla compagnia di Gesù, ha sperimentato e ha capito che la vera vita, quella che non finisce, che non delude non è quel breve lasso di tempo costituito dalla vita terrena, ma è quella che Gesù ci ha promesso e ci ha manifestato con la sua Resurrezione.”
Giulia e il resto della classe si sono dimostrate molto colpite dalle mie risposte.
Allora all’intervallo ho detto a Giulia: “Mi piacerebbe iniziare con te e con le persone che hanno la tua stessa esigenza un cammino per arrivare a quelle certezze che ti stanno tanto a cuore”. Lei ha risposto: “Anche a me piacerebbe”. E io a lei: “Allora ci vediamo presto”. Da quel momento diverse compagne hanno manifestato lo stesso desiderio.
E’ stata la grazia di un’ora di scuola che ha saputo toccare l’esigenza più profonda del cuore di un gruppo di giovani, perché una persona senza certezze non si ritrova più. Quella delle certezze è veramente la più grande e affascinante sfida per noi educatori.


L'apparenza della vita in diretta Giuseppe Feyles - mercoledì 20 ottobre 2010 – il sussidiario.net

La diretta è la cifra distintiva dei media d’oggi. Contemporaneità, simultaneità. Tutto sembra avvenire sotto i nostri occhi. Tutto sembra poter accadere ora, davanti a noi. Lo vediamo “live”. Lo sentiamo “dal vivo”. Ecco il rumore dell’argano che sputa fuori dalla terra nera i minatori cileni. Ecco la cugina cattiva che sfila incappucciata proprio in questo istante, rasente il muro, davanti alle nostre telecamere.

Totti ha appena segnato, se fai in fretta lo rivedi subito. Tra poco Santoro parla alla nazione. Anche il video di Fini non si può dire davvero registrato, è caldo caldo, ribatte all’ultimo lancio d’agenzia. Questa stagione televisiva ha decretato, per le grandi tv, il dominio dei prodotti di attualità.

Resistono ancora programmi preconfezionati di successo, ma paiono quasi stonare. Il tramonto di ascolti dei film sulle tv generaliste è un segnale del cambiamento. Quella digitale è l’era della abbondanza televisiva, nella quale l’offerta di prodotti finiti (film, telefilm, programmi ever green, documentari, rubriche precotte) è potenzialmente infinita.

Per le tv leader c’è una sola strada: produrre sul fatto, andare in diretta, tenersi accesi sul mondo. Il successo della cronaca, dei talk politici, perfino del calcio testimonia un grande bisogno di attualità, di essere informati sul presente, di entrare nella realtà, conoscerla davvero, oltre il velo della notizia guidata o preconcetta.

Ma la diretta è davvero garanzia di verità? Naturalmente no. Innanzitutto, non esiste la neutralità mediatica né tantomeno televisiva. Ogni prodotto tv, anche se in diretta, deriva da scelte autorali. In secondo luogo, la sola moltiplicazione di rappresentazioni del reale non ne aumenta la possibilità di comprensione. In questi giorni l’Italia intera è stata per ore davanti al pianto disperato di un padre e una figlia, per scoprire poi che le loro, forse, erano le menzogne di un tremendo delitto.

Sembra di vivere la realtà perché la vediamo in tv. Dire “ero lì mentre succedeva…” diventa sinonimo di “ero lì mentre lo trasmettevano…”. Simultaneo deriva da “simul”, come se la vicinanza temporale garantisse veridicità (ma, invece, tante volte, non è proprio il passare del tempo che rende giustizia alla verità di un fatto?).

E’ il concetto stesso di esperienza che viene travisato. Fare esperienza non è solo assistere. La diretta tv, la simultaneità del web, la immediatezza degli altri media sono grandi conquiste, che non dispensano, però, dal lavoro di giudizio per comprendere ciò che succede. Invece, il carosello delle rappresentazioni di realtà può ubriacare e lasciare inebetiti, come davanti a un film montato da un pazzo, in cui non si capisce niente.

In terzo luogo, il sistema dei media si è ormai organizzato in modo complesso, con l’integrazione di tre livelli. Tutto inizia sempre su internet, in cui viene seminata una anticipazione, un lancio, una indiscrezione. Poi è la tv che crea l’evento, porgendolo a tutti con la facilità del suo linguaggio e rendendolo universale. Infine la stampa torna sul fatto con i commenti. Questo vero e proprio “sistema dei media” può essere gestito solo da grandi gruppi imprenditoriali o finanziari.

Di fronte a tanta potenza di fuoco, che abilmente crea eventi e li diffonde a pioggia, vale la domanda: è possibile mettere al centro delle discussioni, del pensiero quotidiano, della stessa esperienza qualcosa che non nasca da questo “sistema”? Il meccanismo è potente e oliato, ma - come scriveva il ceco Havel nel 1978 (ma sarà davvero lo stesso Vaclav dei nostri giorni?) - il potere dei senza potere è il granello di sabbia che ferma tutto l’ingranaggio, affinché – diremo noi - si senta finalmente la voce di colui che grida nel deserto.


Educazione - IL RICORDO/ Giorgio Pontiggia, il dono di un educatore di genio Luca Doninelli mercoledì 20 ottobre 2010 – il sussidiario.net

“Voi non ci crederete - disse una volta a me e a qualche altro amico - ma quando, la mattina, io guardo in faccia i ragazzi che entrano, so già chi tra loro, quel giorno, farà una stupidaggine. Ce l’hanno scritto in faccia”. Per chi sa leggere tra le righe, il ritratto di don Giorgio potrebbe finire qui, perché dentro c’è già tutto. Ci sono la sua intelligenza, la sua passione, il suo struggimento per il bene dei ragazzi, la sua sospettosità (soprattutto nei riguardi degli insegnanti, ma non solo), la sua tendenza a vedere il negativo prima del positivo, il suo senso dell’obbedienza a un compito ricevuto, e molte altre cose.

Durante gli scrutini o i consigli di classe più importanti teneva sempre davanti a sé un faldone pieno di cartellette dedicate ciascuna a un ragazzo. In quelle cartellette c’erano svariate notizie sul loro andamento scolastico - tutte redatte dagli insegnanti - che comprendevano anche episodi particolari di cui il ragazzo (o la ragazza) era stato/a protagonista, frasi da lui (o da lei) dette in un certo contesto, appunti di conversazioni personali e, soprattutto, c’era la fotografia graffettata sulla prima pagina della cartelletta.

Se la foto mancava, si arrabbiava: “Come mai non c’è ancora la foto?” Don Giorgio non poteva parlare di un ragazzo senza avere davanti agli occhi la sua immagine fisica. Se non riusciva a ricordare la sua faccia, i dati raccolti sul suo conto non avevano senso: l’uomo è innanzitutto la sua faccia. Quei dati avevano senso perché riguardavano un volto, una fisionomia, un destino. Una volta fissato il volto, tutte le notizie sul conto del ragazzo, per quanto contraddittorie, servivano a precisare la sua immagine.

Tutte le volte che qualcuno di noi insegnanti cominciava a parlare di un ragazzo, dei suoi voti, del suo comportamento in classe, dell’andamento del suo trimestre, doveva tenere conto che don Giorgio ne sapeva, a proposito di quel ragazzo, molto più di lui. In questo modo, noi insegnanti arricchivamo il suo quadro, ma siccome era lui ad avere il quadro del ragazzo in esame, era poi lui a spiegare a noi il senso (o il non senso) delle nostre stesse osservazioni.

Prima di diventare rettore del Sacro Cuore, don Giorgio era stato coadiutore della parrocchia di Santa Maria alla Fontana, non distante dal quartiere milanese dell’Isola. E alla Fontana, don Giorgio è stato il capo indiscusso della comunità parrocchiale di Comunione e Liberazione, anche lì con una specialità: l’educazione dei ragazzi. Nelle messe mattutine rimproverava le mamme dei ragazzi, così come avrebbe fatto anni dopo con noi professori del Sacro Cuore.

Fu alla Fontana che imparò cosa significa fissare dentro di sé l’immagine di qualcuno. “La prima volta che sono andato all’oratorio per fare catechismo ai bambini, ne ho visto uno che, pur di non venire a lezione, saltava giù dalla finestra”. In seguito, quel bambino è diventato uno dei suoi ragazzi più amati, all’università ha guidato per anni la comunità di Cl della Cattolica, ha preso due lauree, è diventato giornalista, ha fondato un proprio settimanale e oggi è un giornalista famoso.

“Ma per me - diceva don Giorgio - lui continua a essere il bambino che salta giù dalla finestra per non venire al catechismo. È il tipo di persone che mi sono istintivamente più simpatiche”. Tra l’altro, quel “bambino” è stato per qualche tempo incerto se fare o meno il giornalista, e avrebbe insegnato volentieri anche al Sacro Cuore. “In questa scuola finché ci sono io - mi disse don Giorgio - lui non metterà mai piede”. “Ma non è uno dei tuoi ragazzi preferiti?” “Certo. Ma un conto è la stima personale, un conto la fiducia che dai a un professore”.

Dopo di che, non tornò mai più sull’argomento. Al Sacro Cuore don Giorgio ha sempre usato questo metodo per conoscere le persone: guardarle da diversi punti di vista, accumulare dati e notizie fino a che scatta quell’immagine, qual flash che solo una lunga consuetudine rende possibile, e che riesce ad abbracciare una porzione più vasta della persona. È il metodo della certezza morale. Diceva: “Se io ti faccio ascoltare la Settima di Beethoven (una delle sue passioni) e tu l’hai sentita solo un’altra volta, farai un po’ fatica a riconoscerla. Se invece l’hai già sentita mille volte, ti basterà la prima nota”.

 La dimestichezza che occorre con la musica, ci vuole anche con l’uomo. Questo non deve farci concludere che il suo problema sia stato quello di tenere le persone sotto controllo. Non dico che una certa tendenza al controllo e all’esercizio di un potere non ci fosse, però usare questo aspetto come chiave di lettura significherebbe non capire niente dell’uomo. Questo i ragazzi l’hanno sempre saputo.

I ragazzi, loro, ai quali don Giorgio ha dedicato tutta la propria vita, fino a sviluppare una certa incapacità, una certa goffaggine nei rapporti con le persone adulte (talvolta ho avuto l’impressione che in molti sedicenti “adulti” lui vedesse perlopiù dei mentitori, dei borghesi che avevano seppellito le loro domande fondamentali sotto una coltre di perbenismo e di quieto vivere). Per i ragazzi, don Giorgio era e resterà sempre una persona speciale, anche quando questi ragazzi saranno diventati nonni: DJ, Baviera, Pontiac, Magnifico Reattore sono alcuni tra i moltissimi nomignoli che gli sono stati appioppati.

Molti l’hanno adorato, altri l’hanno detestato, ma nessuno può negare che il rapporto con lui sia stato in qualche modo fondamentale, e che il contenuto di questo rapporto sia stato uno e uno solo: il loro stesso destino. Tutto il resto veniva in sottordine: andamento scolastico, rapporti familiari, problemi affettivi, e così via. Perfino la malattia e la morte. “Sono pochi - ripeteva - quelli che vogliono veramente bene ai ragazzi”.

Questa sua passione totale, divorante per il destino dei ragazzi è il dato fondamentale per capire don Giorgio. Come trasmettere loro la stima, l’amore e la tenerezza che Gesù Cristo nutre per ogni uomo? Don Giorgio tutte le mattine, alle otto meno un quarto, guardava bambini e ragazzi di tutte le età entrare in scuola: chi non voleva abbandonare la mano della mamma, chi se ne liberava con uno strappo, chi ti guardava con occhi di sfida, chi se ne stava incappucciato nella sua felpa con il walkman nelle orecchie e faceva finta di non vederti, chi ti diceva buongiorno per farsi notare da te e chi te lo diceva perché sperava davvero che quello fosse un buon giorno.

Li guardava uno per uno e si chiedeva: che ne sarà di loro? Una mattina lo vedo furibondo: un ragazzino di prima superiore gli aveva appena detto che di tutte le “faccende religiose” a lui non importava un fico secco, tanto lui era lì solo per diplomarsi, perché dopo si sarebbe iscritto alla Bocconi, e una volta laureato avrebbe lavorato nell’azienda di suo papà e poi l’avrebbe sostituito. Non lo addolorava tanto che non gl’importasse della religione, ma che già a quindici anni concepisse la vita come un calcolo. “Cosa dici a uno così?” mi diceva, stringendomi le spalle.


Non ci sono risposte preconfezionate: o gli spacchi la faccia o accetti che sia così, confidando in Dio. Un’altra volta lo vedo ancora più furibondo: un altro ragazzino, anche lui di prima superiore, gli aveva detto che delle sue parole se ne fregava, perché don Giussani era amico della sua famiglia e parlava spesso con lui personalmente. “Usare don Giussani contro la sua stessa opera! È questo che gli insegnano i loro genitori?” C’erano molti ragazzi in grave difficoltà: chi era in crisi con la scuola, chi era stato provato da un dolore da cui non riusciva a risollevarsi, chi soffriva di depressione, chi era malato.

Spesso, alle sette, sette e mezza del mattino, don Giorgio telefonava a questi ragazzi mentre si alzavano e si vestivano e recitava con loro una preghiera: lì, al telefono. Che un ragazzo fosse o meno “bravo” a scuola, a lui non importava molto: l’educabilità di una persona, ripeteva sempre, il più delle volte passa attraverso le sue difficoltà. Essere “bravi” è spesso un modo di evitare il rapporto.

Questo non significa che non fosse sensibile al fascino dell’intelligenza, questa meravigliosa dote che non sempre ti è utile per salvarti l’anima, ma in compenso ti fa risparmiare un sacco di tempo. L’intelligenza (che spesso non ha nulla a che vedere col rendimento scolastico) è la più bella tra le doti secondarie dell’uomo.

È sempre la necessità, è sempre il bisogno, e non l’intelligenza, ad arrivare per primo al nocciolo delle questioni; ma la vera intelligenza tien subito dietro, accende il desiderio di imitazione, sa guardare dove è necessario guardare.

Don Giorgio è stato, questo lo riconoscono tutti, un educatore di genio, e la sua genialità sta soprattutto nella forza con cui ha saputo tenere in pugno il principio primo dell’educazione in atto di un giovane, e cioè che “ogni educazione è un’educazione completamente sbagliata” (come disse lo scrittore Thomas Bernhard) se non riesce a trasmettere una ragione per cui la vita - tutta la vita! - valga la pena di essere vissuta. Il cristianesimo suggerisce all’uomo questa ragione decisiva.

Vivere l’antropologia cristiana nel concreto delle cose quotidiane, da quelle che ci toccano per forza a quelle che possiamo scegliere, è il senso del cammino educativo, ossia di quell’accompagnamento (proprio come quello musicale, che adorna il canto) con cui possiamo aiutare una persona a compiere il cammino cominciato con la nascita, con il seno materno, e che deve condurre alla piena, libera responsabilità dell’uomo adulto.


Avvenire.it, 20 ottobre 2010 - CINEMA E MARTIRI - «Uomini di Dio»: il vero film dei magnifici 7 - Alessandra De Luca

All’ultimo Festival di Cannes ha profondamente commosso il pubblico internazionale raccontando la vita quotidiana di un gruppo di monaci trappisti nell’Algeria degli anni Novanta. E non ha lasciato indifferente neppure la giuria presieduta da Tim Burton, che gli ha assegnato il prestigioso Grand Prix. Perché «Uomini di Dio» di Xavier Beauvois, fortemente voluto dal produttore cattolico Etienne Comar, nelle nostre sale dal 22 ottobre, è un perfetto esempio di come si possa fare grande cinema affidandosi, proprio come facevano Robert Bresson e Carl Dreyer, ai silenzi, agli sguardi, alla spiritualità e a temi che affrontano le grandi domande dell’uomo drammaticamente calato nell’arena della storia.

Il film, opera profondamente religiosa, rievoca infatti la drammatica vicenda dei religiosi rapiti e assassinati a Tibhirine, sulle montagne dell’Atlante, nel marzo del 1996, ancora oggi al centro di una complessa indagine giudiziaria riaperta dopo il reportage del giornalista americano John Kiser. Se infatti la strage era stata inizialmente attribuita al Gia (Gruppo Islamico Armato), in una fase processuale successiva si è invece parlato di un «errore dell’esercito algerino». La verità è ancora da stabilire, ma il regista non si addentra nella controversia, evitando di fare del film un thriller politico su un intrigo internazionale; non mostra le teste ritrovate senza i corpi (anche per rispetto alle famiglie delle vittime l’atrocità della loro morte resta fuori campo e la storia si conclude con una scena ricca di emozione) e non fa dei protagonisti dei martiri da strumentalizzare.

Non estraneo alle riflessioni sulla vita e la morte (N’oublie pas que tu vas mourir), Beauvois – che si è confrontato con religiosi e teologi trascorrendo un periodo nel convento cistercense di Notre-Dame de Tamié – si concentra piuttosto (come il bel documentario Il grande silenzio di Philip Gröning) sulla quotidiana vita monastica dei protagonisti, corpi immersi nella natura tra lavoro, preghiere, canti, pasti e impegno per il prossimo, secondo una ritualità capace di unire il cielo e la terra. Perfettamente integrati in terra musulmana, i monaci guidati dal priore Christian de Chergé sono «fratelli» degli islamici di cui si prendono cura e con i quali recitano anche passi del Corano («Amen» è sempre seguito da «inshallah»), testimoniando con la propria vita un amore per l’umanità che va oltre le barriere culturali e religiose.

Una vocazione ben resa dal titolo originale del film, Des hommes et des dieux, e in parte tradita da quello italiano. Il 30 ottobre 1994 il Gia ordinò a tutti gli stranieri di abbandonare l’Algeria, ma quei monaci decisero di restare al fianco di chi aveva bisogno di loro, convinti di non poter tradire la loro fede e la fiducia in una comunità basata sulla tolleranza. «Non temo la morte, sono un uomo libero» dice Lambert Wilson nei panni di padre Christian. La forza, il rigore e il coraggio del film stanno proprio in questo, nella decisione di riflettere sulla difficoltà di una scelta non priva di dubbi, angosce e tensioni.

E di offrire a un pubblico abituato a velocità ed effetti speciali, adrenalina e 3D un mondo fatto di lentezza, contemplazione e popolato di persone capaci di un amore e una compassione straordinari, pronti all’estremo sacrificio pur di dedicare la propria vita agli altri. Ritiratisi per alcuni giorni nella pace del monastero prima dell’inizio delle riprese, gli attori hanno più volte dichiarato di aver sentito su di loro la protezione e la fratellanza dei religiosi a cui stavano per ridare vita. E non c’è bisogno di essere credenti per sentire in quei personaggi una verità che viene da lontano.


Avvenire.it, 20 ottobre 2010 - La vita e la morte di sette monaci - Appartenevano a un Altro - E parlano a tutti di Enzo Bianchi

Un film umanissimo – che fin dalla sua presentazione a Cannes ha conosciuto un grande successo di critica e che in poche settimane di programmazione in Francia ha attirato milioni e milioni di spettatori – ha riacceso le luci sui monaci di Tibhirine in Algeria, toccando corde che a volte la predicazione e la testimonianza dei cristiani fatica a raggiungere e stimolare. Il regista di "Uomini di Dio", in uscita nelle sale italiane venerdì 22, ha saputo sapientemente restituire la dimensione umana di quella comunità monastica, centrata sull’essenziale della preghiera comune dei salmi, sul lavoro quotidiano, sui rapporti fraterni in comunità e con i vicini musulmani. È una vicenda che parla di vita e non di morte, di pienezza di vissuto proprio nell’assunzione dell’eventualità di una morte violenta.

Nel pacato e intenso scorrere delle immagini e dei dialoghi, riemerge con forza l’impressione suscitata dai loro scritti (raccolti nel volume "Più forti dell’odio" appena riedito da Qiqajon): siamo di fronte a persone diversissime che giungono a poco a poco – sottomettendosi gli uni agli altri e assumendo la tragica situazione così come si va delineando – fino a un "sentire comune" che pure si manifesta con accenti propri a ciascuno. Non è allora un caso se al profilarsi dell’ad-Dio questi monaci paiono affrettarsi a ritrovarsi insieme all’Atlas: uno vi arriva dal Marocco, pochi giorni prima, per partecipare al voto per il rinnovo della carica di priore, l’altro rientra veloce dalla Francia, arriva il pomeriggio precedente il rapimento, non ha neanche il tempo di disfare le valigie per estrarne vanghe e piantine per abbellire Tibhirine, il giardino.

E proprio la vita comune ha affinato il loro sguardo, li ha portati all’autentica contemplazione cristiana: vedere gli uomini – ogni uomo, anche il nemico – e le cose – tutte le cose, anche la morte violenta – con gli occhi di Dio. È nella vita comune autentica che si affina la sensibilità spirituale, che diventa possibile il dono del discernimento, quell’abbagliante luce evangelica che emana dal testamento di Christian: una luce che gli consente di discernere nel volto dell’«amico dell’ultimo minuto» il profilo di un ad-Dio. Non una fine ma un compimento: «Potrò immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo».

Davvero, come ha scritto frère Christian a proposito di un fratello e una sorella vittime di un agguato mortale, «quelli che hanno rivendicato il loro assassinio non potevano appropriarsi della loro morte. Apparteneva a un Altro, come tutto il resto, e da molto tempo». È il caso serio del cristianesimo, quello che il film "Uomini di Dio" porta alla ribalta, è il nocciolo duro della fede cristiana: la croce! Con il martirio un cristianesimo che a tanti sembra incapace di comunicare agli uomini d’oggi ritrova improvvisamente la capacità di suscitare domande e di inquietare le coscienze. In effetti, come annotava alla fine del I secolo Ignazio di Antiochia mentre era condotto al martirio a Roma, è nelle situazioni in cui il cristianesimo è odiato e avversato che emerge con forza che esso «non è opera di persuasione, ma di grandezza».

Sì, grazie a uomini di Dio come i monaci di Tibhirine è possibile a ogni vivente sulla terra credere che l’amore è più forte dell’odio, che la vita è più forte della morte, perché solo chi ha una ragione per morire può anche avere una ragione per vivere.


20/10/2010 – IRAN - In carcere da mesi un pastore protestante iraniano. Rischia la condanna a morte per apostasia - La moglie di Youcef Nadarkhani è stata liberata nei giorni scorsi dopo quattro mesi di detenzione. L’arresto avviene mentre i cristiani evangelici lamentano una crescente pressione nei loro confronti, una persecuzione senza precedenti dall’avvento del regime degli ayatollah.

 Teheran (AsiaNews/Agenzie) –. Il pastore Youcef Nadarkhani è stato accusato di “apostasia” il mese scorso dall’11° Camera della Corte di Assise della provincia di Gilan, nell’Iran del Nord. Il suo avvocato sta per presentare ricorso dopo aver rilevato “seri errori procedurali”. Nadarkhani è stato arrestato per aver messo in questione l’istruzione islamica nelle scuole. “Noi siamo una famiglia cristiana – avrebbe detto. – Voglio che i miei figli ricevano un’istruzione religiosa cristiana, non islamica”.

 Fatemeh Passandideh, moglie di un noto pastore protestante iraniano, è stata liberata qualche giorno fa dopo quattro mesi di detenzione; ma suo marito, ancora in prigione, potrebbe dover affrontare una condanna a morte per apostasia, ha detto la “Church of Iran”.

La comunità cristiana che fa riferimento al pastore imprigionato ha espresso preoccupazione per l’esito del processo alla coppia, che ha due figli piccoli. Questo caso esplode nel momento in cui ci sono notizie di una pressione crescente da parte delle autorità verso la “Church of Iran”, un movimento protestante che comprende parecchie chiese “sotterranee” in una nazione rigorosamente islamica. “Church of iran” afferma di essere “oggetto di una campagna di persecuzione senza precedenti dall’avvento della rivoluzione del 1979. Parecchi membri del movimento sono stati arrestati a partire dall’ottobre dello scorso anno, fra cui il pastore Behrouz Khandjani, che è ancora in isolamento nel “braccio 100” dell’area di Shiraz”.

“Elam Ministries” un gruppo protestante specializzato nella missione verso i musulmani dichiara di conoscere il caso di almeno un giovane iraniano convertito ucciso qualche settimana fa da un parente a causa della sua conversione, lasciando moglie e due bambini. “Middle East Concern”, un gruppo di attivisti per i diritti umani afferma che almeno tre dei quindici cristiani arrestati a luglio a Mashhad  sono ancora in prigione, e “sotto pressione affinché rinneghino la loro fede; ma si rifiutano di farlo”. “Middle East Concern” cita inoltre la notizia della TV iraniana secondo cui nove convertiti sono stati arrestati a Hamedan, con l’accusa di proselitismo, che potenzialmente comporta il rischio di una condanna a morte.  “Elam Ministries” sostiene che nel 1979 c’erano meno di 500 cristiani provenienti dall’Islam. “Oggi le stime più prudenti parlano di almeno centomila credenti nel paese”.