lunedì 4 ottobre 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    La vera attrattiva di Pigi Colognesi - lunedì 4 ottobre 2010 – il sussidiario.net
2)    40 ragazze, martiri sconosciute a Bologna di Antonio Socci - Da “Libero”, 3 ottobre 2010
3)    IL PAPA ESORTA I FEDELI ALLA PREGHIERA ALL'INIZIO DEL MESE DEL ROSARIO - Angelus durante la visita pastorale a Palermo
4)    Avvenire.it, 3 ottobre 2010 - La nuova fase politica e i cattolici - Non per tattica ma per ciò che vale di Marco Tarquinio
5)    Pakistan, trucidato l’avvocato dei cristiani - Massacrati anche la moglie e i cinque figli Punito dagli usurai che aveva denunciato - La fiorente attività criminale dei prestiti alimenta il terrorismo legato ai taleban e pesa sulle fedi diverse dall’islam Che si trovano prive di difesa - DA BANGKOK STEFANO VECCHIA
6)    Strage silenziosa e senza possibilità di giustizia - A BANGKOK di Stefano Vecchia d casi - Nella regione degli hazara, inclusa nel Khyber Pakhtunkwa, si moltiplicano le persecuzioni. Shazia Bashir, minorenne, è stata torturata prima di essere uccisa Kiran George, violentata e bruciata viva dal figlio dei suoi datori di lavoro – Avvenire, 3 ottobre 2010
7)    IL PAPA AI RELIGIOSI: PREGARE PER ESSERE MAESTRI DI PREGHIERA - Se non si è interiormente in comunione con Dio non si può dar niente agli altri - di Roberta Sciamplicotti (ZENIT.org)
8)    DISCORSO DEL PAPA AI GIOVANI E ALLE FAMIGLIE A PALERMO - PALERMO, domenica, 3 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo del discorso che Papa Benedetto XVI ha pronunciato questa domenica pomeriggio in Piazza Politeama a Palermo incontrando i giovani e le famiglie della Sicilia.
9)    OMELIA DEL PAPA AL FORO ITALICO UMBERTO I DI PALERMO - In occasione della visita pastorale nel capoluogo siciliano (ZENIT.org)
10)                      San Giuseppe Cafasso (1811-1860) e l'ethos nazionale italiano. Massimo Introvigne per l'Anno Cafassiano - lunedì 4 ottobre 2010
11)                      Il Papa ai siciliani: «Non cedete alle suggestioni della mafia» - di Andrea Tornielli - © Copyright Il Giornale, 4 ottobre 2010
12)                      PERSECUZIONI/ Edwin Paul, trucidato con la famiglia per aver difeso un taxista cristiano di Giorgio Paolucci - lunedì 4 ottobre 2010 – il sussidiario.net
13)                      Rivoluzione Francese. Fosse comuni scoperte in Vandea - Corrispondenza Romana dal sito http://www.pontifex.roma.it
14)                      Avvenire.it, 3 ottobre 2010 - L'INTERVISTA - «Benedetto parla al cuore - I siciliani lo seguiranno» di Paolo Viana


La vera attrattiva di Pigi Colognesi - lunedì 4 ottobre 2010 – il sussidiario.net
Ormai le luci dei riflettori mediatici si sono spente sul viaggio di Benedetto XVI in Inghilterra e Scozia. Rimane il tesoro dei discorsi pronunciati, col loro carico di suggerimenti, riflessioni, scoperte. Rimane la scia, per noi imponderabile, lasciata dal Papa nell’animo di chi lo ha ascoltato, visto, salutato. Rimane lo strano fenomeno di un viaggio annunciato – e probabilmente non era una esagerazione – come il più difficile del pontificato e conclusosi con un successo riconosciuto anche dai più esigenti e maldisposti osservatori.

Qui c’è un paradosso evidente: questo successo non è stato per nulla cercato dal Santo Padre. Ed è facile pensare che gli elogi del post viaggio non lo abbiano entusiasmato, tanto quanto gli attacchi del pre viaggio non lo avevano scoraggiato. La sua prospettiva è un’altra. Nel corso della tradizionale conferenza stampa nel viaggio di andata, è stato chiesto a Benedetto XVI cosa i cattolici debbano fare per rendere «più attrattiva» la Chiesa cattolica. Sembrerebbe una domanda sensata e più che motivata dalle contingenze storiche.

Per mesi sulla stampa del mondo occidentale la Chiesa è stata illuminata da una torva luce di sospetto, descritta come moribonda, accusata di non avere adeguate strategie comunicative, barcollate nella confusione. Non sono mancate dotte analisi su cosa il Papa avrebbe dovuto fare per risalire la china e giudizi pieni di sicumera sulle riforme più o meno radicali da intraprendere. Insomma, la domanda su come la Chiesa potesse recuperare un capacità «attrattiva» che veniva data per irrimediabilmente offuscata sembrava del tutto legittima.
Ma ascoltate cosa ha risposto il Papa: «Una Chiesa che cerca soprattutto di essere attrattiva sarebbe già su una strada sbagliata. Perché la Chiesa non lavora per sé, non lavora per aumentare i propri numeri e così il proprio potere. La Chiesa è al servizio di un Altro, serve non per sé, per essere un corpo forte, ma serve per rendere accessibile l’annuncio di Gesù Cristo, le grandi verità e le grandi forze di amore, di riconciliazione apparse in questa figura e che sempre vengono dalla presenza di Gesù Cristo. In questo senso la Chiesa non cerca la propria attrattività, ma deve essere trasparente per Gesù Cristo».

Non c’è dubbio: questa è una prospettiva assolutamente rivoluzionaria. Tutte le organizzazioni – dall’Onu ai governi nazionali, dalla grande azienda alla microscopica associazione – hanno il problema di difendere e promuovere la propria immagine. Ancor più in un contesto comunicativo in cui la mole dei messaggi è infinita e la conseguente concorrenza è ferocissima. Tanto è vero che, per ottenere un posticino al sole, per aumentare la propria capacità attrattiva non si esita ad alzare i toni, a spararla sempre più grossa, a ingigantire le promesse.

È la cura dell’immagine, si dice. E anche in ambito ecclesiale non sono infrequenti i cedimenti a questa lusinga. Il Papa ha detto semplicemente che, invece, per la Chiesa – e per lui personalmente – le cose non stanno così. La missione non è propaganda e l’annuncio non è abile strategia comunicativa. Il cristianesimo infatti – ebbe a dire il cardinale Ratzinger – si comunica «da persona a persona», in modo completamente libero dai ricatti della propria «immagine» e di quella della Chiesa. L’unica attrattiva è quella di un uomo guardando il quale ti viene da dire: «Mi piacerebbe rivederla quella faccia».

La stessa attrattiva di Gesù verso i primi che l’hanno seguito. La Chiesa è al servizio di questa attrattiva.


40 ragazze, martiri sconosciute a Bologna di Antonio Socci - Da “Libero”, 3 ottobre 2010
Questa è la storia di quaranta ragazze, fra i 25 e i 35 anni, che hanno consapevolmente accettato di morire – per di più con atroci sofferenze – per poter curare e (letteralmente) servire degli ammalati gravi che neanche conoscevano. Finora questo loro eroismo e il loro martirio, consapevolmente accettato, sono rimasti nell’ombra.

Siamo cresciuti in un’Italia capace di trasformare in divi personaggi senza arte né parte, un’Italia capace di esaltare come eroi dei tipi tremendi (che hanno pure dei morti sulla coscienza).

Ma nessuno, nell’Italia che conta, che parla e scrive, sembra si sia mai accorto di queste giovani donne straordinarie.

Eppure è accaduto tutto alla luce del sole, addirittura in una istituzione pubblica di in una città importante e attenta ai valori civili (e alla “questione femminile”) come Bologna, dove queste ragazze sono vissute e morte fra 1930 e 1960.

A Bologna esiste “Viale Lenin”, la strada dedicata a un tiranno che ha fondato il regime dei Gulag dove sono stati massacrati moltitudini di innocenti inermi, fra cui migliaia di religiosi. 

Ma non esiste alcun ricordo pubblico invece di quelle donne che hanno curato tanti sofferenti dando la loro stessa vita.

Erano religiose, cioè ragazze che avevano rinunciato a se stesse perché innamorate di Gesù Cristo e per suo amore erano diventate silenziosamente capaci di donare ogni loro giornata ai malati e anche di affrontare la morte.

Tutto accadde all’Ospedale Pizzardi di Bologna, oggi Bellaria, aperto nel 1930 per l’assistenza e la cura delle malattie polmonari, in particolari per tubercolotici.

La Tbc era una malattia mortale assai diffusa, soprattutto dopo la Grande guerra, ed era contagiosissima (si contraeva per via aerea, quindi era molto più contagiosa, per esempio, dell’Aids di oggi).

Fino agli anni Cinquanta, quando arrivarono dei farmaci capaci di debellare la malattia e abbatterne enormemente la mortalità.

Ebbene, aprendo l’Ospedale nel 1930  fu richiesta dall’amministrazione degli ospedali di Bologna la presenza delle “Piccole suore della Sacra Famiglia” per assistere come personale infermieristico i circa seicento malati.

Arrivarono subito 55 suore e poi, nel corso degli anni, il loro numero giunse fino a 95, con la qualifica di infermiere diplomate e infermiere generiche (in totale, dal 1930, hanno servito al Pizzardi 574 religiose).

Garantivano assistenza giorno e notte, a continuo contatto con i malati. A quel tempo le suore-infermiere provvedevano a tutto, pure a lavare i pavimenti dei lunghi corridoi, durante il turno della notte.

Erano tutte consapevoli di recarsi in un ambiente ad altissimo rischio. E infatti delle centinaia che hanno accettato  e hanno servito lì, circa 40 hanno contratto la Tbc morendone (32 di loro sono decedute in età compresa fra 25 e 35 anni).

Si trattava di una morte dolorosa e drammatica. Erano giovani suore e oblate.

Nella convenzione che fu stipulata l’amministrazione degli ospedali, considerata la pericolosità della missione, si impegnava, fra l’altro, a “concedere visite mediche” e, in caso di contagio, a “fornire loro i medicinali e in caso di morte un modesto funerale”.

Oltretutto il loro lavoro fu reso molto duro dal fatto che i degenti erano in gran parte giovani e il clima spesso turbolento. Le proteste per il cibo erano all’ordine del giorno, perfino per il fatto che il personale addetto all’igiene dei letti e della biancheria si proteggeva con una mascherina (a quel tempo non esistevano lavatrici ed elettrodomestici).

Negli anni Quaranta e Cinquanta il clima era surriscaldato anche per motivi politici (si formò pure una “Commissione degenti”). Le suore dovevano moltiplicare i loro sforzi per mantenere un clima sereno, mentre soccorrevano i malati in tutte le loro sofferenze.

Il dottor Gaetano Rossini che lì lavorò e le vide all’opera ha lasciato scritto in una memoria conservata negli archivi:

“non meno grave era la emottisi,  specie se soffocante, scioccante non solo per il malato, ma anche per chi doveva assistere e provvedere con gli scarsissimi mezzi disponibili. Terribile a vedersi e molto di più ‘intervenire’.

In quei momenti mi veniva di pensare: ‘oh sante suore, quale amore vi tiene inchiodate a quel letto di sofferenza inesprimibile pur di aiutare, salvare quel ‘prossimo’ che forse in altri momenti era stato poco riguardoso o indisciplinato!.

Le Suore non tenevano davvero conto del rischio personale o interesse umano alcuno; quante di loro riposano nel cimitero di Castelletto perché avevano contratto la malattia nell’adempimento del loro servizio”.

Quale amore, si chiede il dottor Rossini? Suor Arcangela Casarotti risponde: “Le suore inviate al ‘Pizzardi’ di Bologna avevano ben scolpito nella mente l’insegnamento dei Fondatori: ‘Se nei casi di epidemia… fosse necessario mettere in pericolo anche la vita, io mi immagino che anche al presente, com’è successo in altri tempi, le Suore del nostro istituto andrebbero a gara per offrirsi vittime della carità. Memori delle parole del Divino Maestro: Non v’è maggior carità che di dare la vita per i propri fratelli’ ”.

Le suore aiutavano centinaia di malati, perlopiù giovani, non solo nelle loro sofferenze fisiche, ma anche in quelle morali. Li aiutavano a non lasciarsi andare alla disperazione di una malattia gravissima e di una degenza molto lunga (talora vi furono suicidi).

Suor Arcangela sulla rivista dell’ordine ha pubblicato qualche memoria dei malati di allora. Liliana per esempio scrive:

“Ho passato tre anni molto belli al Pizzardi pur essendo lontano dalla famiglia perché ero ammalata. Le suore con noi malati avevano un rapporto molto familiare. Esse cercavano in ogni modo di aiutarci a mangiare e di alleviare le sofferenze. Quante volte le ho viste piangere di nascosto per le condizioni gravi dei malati! Io credo che la medicina fece molto per curarmi, ma molto contribuirono anche le parole di conforto e di incoraggiamento delle suore nei momenti più tristi”.

Fra i malati vi furono suore che testimoniarono l’ardore di quel loro Amore fino all’incredibile. Come suor Maria Rosa Pellesi, Francescana Missionaria di Cristo, che trascorse 27 anni in sanatorio di cui 24 proprio al Pizzardi, morta in fama di santità e oggi dichiarata “Serva di Dio”.

Dice il dottor Rossini: “fu, a mio modo di vedere, un miracolo vivente perché non aveva un organo sano, la tubercolosi aveva devastato il suo corpo. Svolse la sua missione in offerta a Dio per il bene di tutti gli uomini”.

La eroiche suore del Pizzardi appartengono all’ordine fondato da don Giuseppe Nascimbeni e da suor Maria Domenica Mantovani (entrambi beati), sono le Piccole Suore della Sacra Famiglia. che negli ospedali bolognesi hanno svolto un lavoro eccezionale e tuttora gestiscono la “Casa di Cura Madre Toniolo”.

Nessuno ha raccontato al mondo la storia delle suore martiri del Pizzardi e ne ha celebrato la grandezza. Di loro ho trovato qualche notizie solo in pubblicazioni dell’ordine e qualche rapido cenno in volumi celebrativi, a ristretta diffusione. 

Forse perché, essendo suore, appartenevano – secondo i nostri criteri mondani – a una categoria umana di serie B? O a una categoria che è tenuta a sacrificare la propria vita per noi? 

A volte, a considerare come il mondo tratta i cristiani, viene in mente la frase di san Paolo: “Siamo la spazzatura del mondo”.

Probabilmente anche in altre città e altri ospedali vi sono state simili storie di eroica carità cristiana che aspettano di essere conosciute.

Perché la presenza della suore e più ampiamente la presenza della Chiesa accanto ai sofferenti, per portare loro la carezza del Nazareno e per alleviare i loro dolori, è una storia immensa e tuttora misconosciuta.

Eppure parla, anzi grida più di tante parole. Annuncia al mondo quello che ogni essere umano cerca e aspetta: un amore incondizionato, gratuito e totale. Come dice una nota preghiera: “Tutta la terra desidera il Tuo volto”.


IL PAPA ESORTA I FEDELI ALLA PREGHIERA ALL'INIZIO DEL MESE DEL ROSARIO - Angelus durante la visita pastorale a Palermo
PALERMO, domenica, 3 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito le parole pronunciate da Benedetto XVI questa domenica recitando a mezzogiorno la preghiera mariana dell'Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini riuniti presso il Foro Italico a Palermo.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
In questo momento di profonda comunione con Cristo, presente e vivo in mezzo a noi e in noi, è bello, come famiglia ecclesiale, rivolgerci in preghiera alla sua e nostra Madre, Maria Santissima Immacolata. La Sicilia è costellata di Santuari mariani, e da questo luogo, mi sento spiritualmente al centro di questa "rete" di devozione, che congiunge tutte le città e tutti i paesi dell’Isola.
Alla Vergine Maria desidero affidare tutto il popolo di Dio che vive in questa amata terra. Sostenga le famiglie nell’amore e nell’impegno educativo; renda fecondi i germi di vocazione che Dio semina largamente tra i giovani; infonda coraggio nelle prove, speranza nelle difficoltà, rinnovato slancio nel compiere il bene. La Madonna conforti i malati e tutti i sofferenti, e aiuti le comunità cristiane affinché nessuno in esse sia emarginato o bisognoso, ma ciascuno, specialmente i più piccoli e deboli, si senta accolto e valorizzato.
Maria è il modello della vita cristiana. A Lei chiedo soprattutto di farvi camminare spediti e gioiosi sulla via della santità, sulle orme di tanti luminosi testimoni di Cristo, figli della terra siciliana. In questo contesto desidero ricordare che oggi, a Parma, viene proclamata beata Anna Maria Adorni, che nel secolo XIX fu sposa e madre esemplare e poi, rimasta vedova, si dedicò alla carità verso le donne carcerate e in difficoltà, per il cui servizio fondò due Istituti religiosi. Madre Adorni, a motivo della sua costante preghiera, veniva chiamata "Rosario vivente". Mi piace rilevarlo all’inizio del mese dedicato al santo Rosario. La quotidiana meditazione dei misteri di Cristo in unione con Maria, Vergine orante, ci fortifichi tutti nella fede, nella speranza e nella carità.
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]


Avvenire.it, 3 ottobre 2010 - La nuova fase politica e i cattolici - Non per tattica ma per ciò che vale di Marco Tarquinio
Si è dunque aperta una nuova fase nella XVI legi slatura, con solidi intendimenti da parte di chi regge il timone dell’Esecutivo, ma in un quadro po litico che si è fatto complicato e fragile. E poiché nessuno ha la sfera di cristallo, nessuno è davvero in grado di dire fin dove potrà spingersi l’orizzonte dell’azione di governo e dell’attività parlamentare.

I nostri lettori sanno che noi ci auguriamo anni di lavoro intenso e utile per il Paese. E sanno anche che apprezziamo una maggioranza e un’opposi zione capaci di assumersi con chiarezza le rispetti ve responsabilità, ma ancor più forze politiche che si dimostrino in grado di convergere – ogni volta che sarà possibile e opportuno – sulle iniziative e sulle scelte riformatrici necessarie per preparare e ben orientare il futuro dell’Italia. Le cinque 'e' – etica, educazione, energia, equità fiscale, equilibrio istituzionale – sono forse solo un esempio dei terreni sui quali sarebbe indispensabile dare segnali positivi a gli italiani. Ma è un esempio calzante, che spiega quanto sia urgente concentrarsi con stile adeguato e lungimiranza su una seria agenda di legislatura.

La sensazione è che invece, in questa fase nuova, più che su contenuti legislativi e obiettivi strategici, in troppi – e, sorprendentemente, anche tra coloro che fanno esplicito richiamo all’ispirazione cristiana – si stiano dedicando alla tattica e alle meccaniche di schieramento. Quasi che si fosse imparato poco o nulla dagli errori del passato più recente, quelli che hanno segnato i sedici anni di vita della cosiddetta Seconda Repubblica.

Di quegli errori, qui, ce ne in teressa, appunto, il principale: la presunzione e quilibrista di poter costruire coalizioni o soggetti politici solo sulla base di una polemica con il 'ne mico' prescelto e in forza di 'numeri' potenzial mente sufficienti a vincere una determinata scom messa elettorale. Così sono nati e caduti il primo governo Berlusconi, il primo governo Prodi, due go verni D’Alema e il secondo governo Berlusconi. Co sì è stato messo a rischio il governo in carica, quel lo che ora cerca un rilancio.

Nel frattempo, certo, si è governato. Ma quante riforme di sistema sono sta te portate a buon fine? È un’incompiutezza che pe sa e, lunedì scorso, il presidente della Cei lo ha ri cordato a tutti con lucidità e angustia. La democrazia dell’alternanza che si è affermata negli ultimi tre lustri si è portata, insomma, in cuo re un’alternanza delle instabilità, e nessuna alchi mia elettorale maggioritaria riesce a curarla. Perché i numeri – cioè il consenso popolare e la rappre­sentanza parlamentare – in qualunque democra zia sono indispensabili, ma non bastano e non ten gono senza le idee-cardine che danno vera forza a un progetto politico. L’essenzialità di questo punto è sempre più eviden te.

Lo sforzo per avvicinare culture ed esperienze politiche diverse è certo importante e può diventa re addirittura meritorio, ma non può mai essere pa gato in termini di chiarezza. Perché non tutti i pro getti sono compatibili, e i fatti si sono incaricati di confermare – e questo a noi importa molto – una condizione di disagio e persino d’insignificanza per i politici di ispirazione cristiana disposti a mettere tra parentesi, per tattica, un impegno coerente su ciò che davvero conta. E ciò che davvero conta per chi voglia fare politica con una limpida visione umani stica e, a maggior ragione, da cristiano e da cattoli co è la determinazione a non dimenticare mai e a tenere per bussola i «valori non negoziabili».

Papa Benedetto XVI li indicò magistralmente, era il mar zo del 2007, ai leader del Partito popolare europeo. Il cardinale Angelo Bagnasco, nella sua prolusione ai lavori del Consiglio permanente dell’episcopato che si è appena concluso e in questa vigilia della Settimana Sociale dei cattolici di Reggio Calabria, li ha richiamati con altrettanta forza e chiarezza: vita (dal concepimento alla morte naturale), famiglia uomo-donna, libertà religiosa e libertà educativa. È questo il «fondamento» che garantisce ogni altro valore e impegno, ha detto il presidente della Cei. Sta alla base di un’azione politica davvero orienta ta alla costruzione del bene comune. Perciò, ieri, non doveva essere messo tra parentesi e, oggi, non può essere lasciato cadere sotto il tavolo di alcuna trattativa.


Pakistan, trucidato l’avvocato dei cristiani - Massacrati anche la moglie e i cinque figli Punito dagli usurai che aveva denunciato - La fiorente attività criminale dei prestiti alimenta il terrorismo legato ai taleban e pesa sulle fedi diverse dall’islam Che si trovano prive di difesa - DA BANGKOK STEFANO VECCHIA

L’ uccisione di un avvocato e il massacro della sua famiglia nella cittadina nord occidentale pachistana di Haripur col pisce ancora una volta al cuore la minoranza cristiana e ancora una volta chia ma in causa le inadempienze se non le complicità delle autorità e delle forze di sicurezza.

La vittima, Edwin Paul, di fede cri stiano- evangelica, la moglie Ruby e i loro cinque figli in età com presa tra 6 e 17 anni, sono stati ammazzati nella prima mattina ta del 28 settembre. A dare l’allar me è stata la gente del loro quar tiere, l’enclave di Sher Khan: i vi cini avevano sentito numerosi colpi d’arma da fuoco e visto scappare un gruppo di persone. Al loro arrivo, attorno alle 8, i po liziotti hanno trovato i sette cadaveri. A ordi nare il massacro – secondo fonti concordi – un notabile locale Noor Khan, al centro di un giro d’usura esteso su diverse aree della provincia del Punjab e nelle aree tribali. Un’attività cri minale che alimenta il terrorismo islamista e che viene a pesare in particolare sulle mino ranze, di fatto senza difesa. Contro Noor Khan, Edwin Paul stava avviando una causa per usu ra assistendo la vittima cristiana. Secondo vici ni di casa, già il giorno precedente un gruppo di uomini armati aveva fatto visita al legale e lo aveva minacciato.

«Lunedì alcune persone con armi da fuoco han no fermato Paul e lo hanno afferrato per la ca micia imponendogli di lasciare la città entro 24 ore», dicono i testimoni. Minacce esplicite quel le degli aggressori: «Noi sappiamo come toglie re di mezzo i cristiani e non permetteremo a u­no solo di voi di vivere qui. Vi impiccheremo tutti per strada in modo che nessun cristiano o serà più entrare nella terra degli hazara».

Gli hazara – un gruppo etnico di origini miste in cui è predominante l’influenza pashtun, et nia maggioritaria in Afghanistan e nelle regio ni pachistane che confinano con quel Paese –, da tempo sono diventati una sponda per l’in tegralismo di stampo taleban. In particolare hanno un ruolo nel finanziamento dei gruppi estremisti e i loro fondi arrivano da attività sia legali che illecite, tra cui l’usura. Una situazio ne, quest’ultima che ricade soprattutto sulle mi noranze, come quella cristiana, alle quali ven gono chiesti interessi che moltiplicano di al meno 4-5 volte la somma iniziale.

Una pratica che ovviamente provoca malcon tento ma che, per le minacce e la difficoltà di tro vare una difesa nelle istituzioni locali, normal­mente non viene denunciata. Così non è stato nel caso del tassista cristiano che, indebitatosi oltre le sue possibilità per acquistare una nuo­va vettura, aveva chiesto aiuto a Edwin Paul, che si era trasferito a Haripur lo scorso febbraio. «Avevo dato il documento di pro prietà della mia casa come ga ranzia per un prestito di 160mi la rupie con l’impegno a resti tuirne 224mila – ricorda il tassi sta Robin Mehboob – ma quan do l’interesse è stato elevato al 500 per cento (1,12 milioni di ru pie, circa 9.500 euro) perché so no un cristiano, ho dovuto rifiu tare e per questo mi sono state sequestrati la casa e anche il taxi, mia unica fonte di reddito».

La richiesta di assistenza di Meh boob era stata accettata da Paul, che lo aveva accompagnato al posto di polizia per sporgere denuncia. «Pos siamo raccogliere la denuncia, ma non troverete qualcuno pronto a testimoniare contro Noor Khan», era stato loro detto. Gli stessi poliziotti, secondo le testimonianze dei cristiani locali, a vrebbero immediatamente informato l’usuraio della denuncia, condannando così a morte l’av vocato cristiano e altri cinque innocenti.


Strage silenziosa e senza possibilità di giustizia - A BANGKOK di Stefano Vecchia d casi - Nella regione degli hazara, inclusa nel Khyber Pakhtunkwa, si moltiplicano le persecuzioni. Shazia Bashir, minorenne, è stata torturata prima di essere uccisa Kiran George, violentata e bruciata viva dal figlio dei suoi datori di lavoro – Avvenire, 3 ottobre 2010

Nel silenzio dei mass media loca li, nell’indifferen za delle autorità, nella re gione degli hazara, inclusa nel Khyber Pakhtunkwa, va lentamente consuman dosi il massacro dei cri stiani. Crescono le minac ce, ma crescono anche at ti di violenza aperta. Il pa store Rehmat Neem della Chiesa di San Paolo a Ha ripur è stato più volte mi nacciato, molti cristiani sono costretti a vendere i propri bene e ad andarsene. «Edwin Paul ha cercato di aiutarci, parlando an che con le autorità – conferma il pastore Neem – ma nessuno è pronto a parlare contro gli estremisti». Nella stesa aree due me si fa vennero rapiti otto missionari protestanti, di cui sei rilasciati, mentre di due non si è più saputo nulla.

Come evidenziano i casi drammatici di Haripur, va crescendo la pressione fondamentalista sui cri stiani e sulle minoranza, ma ancor più cresce l’evi dente incapacità del governo di garantire i diritti delle mino ranze, scritti nella Costituzione ma ignorati per far posto a in teressi politici, economici o religiosi. Questo spiega anche la costante pressione integralista sulle sparse comunità cristiane, come pure l’insicurezza che accompagna le giovani donne che la necessità spinge a lavorare fuori dal contesto familiare. Dram maticamente esemplari sono i casi di Shazia Bashir, minoren ne stuprata e torturata prima di essere uccisa alla fine dello scor so gennaio da un influente avvocato di Lahore nella cui casa la vorava, oppure di Kiran George, violentata e bru ciata viva a marzo dal figlio dei suoi datori di la voro perché non lo accusasse. Tuttavia, in una cultura dell’impunità che fa da contraltare alla possibilità per i musulmani di accusare, fare incarcerare e magari condannare un cristiano in base alla cosiddetta “Legge anti blasfemia”, le violenze si trasferiscono dalle aree tribali sotto controllo dei taleban fino nel cuore delle metropoli. Come per la giovane cattolica Magdalene Ashraf, praticante infermiera, che a luglio si salvò dal tentativo di violenza di un medico in un o spedale di Karachi (maggiore città del Paese) saltando da una finestra del quarto piano. Contro il medico responsabile del ge sto disperato della ragazza, sopravvissuta pur con gravi frattu re, si mobilitarono allora esponenti della minoranza religiose e della società civile, primo accenno di una reazione che nel tor mentato e impoverito Pakistan chiede non privilegi ma il ripri stino della legalità.


IL PAPA AI RELIGIOSI: PREGARE PER ESSERE MAESTRI DI PREGHIERA - Se non si è interiormente in comunione con Dio non si può dar niente agli altri - di Roberta Sciamplicotti (ZENIT.org)
PALERMO, domenica, 3 ottobre 2010 (ZENIT.org).- La preghiera è il pilastro della vita religiosa, perché se non si è in comunione interiore con Dio non si ha ricchezza da offrire agli altri.

E' il messaggio che Benedetto XVI ha lasciato questa domenica pomeriggio incontrando nella Cattedrale di Palermo i sacerdoti, i religiosi, le religiose e i seminaristi in occasione della sua visita nel capoluogo siciliano per il Raduno ecclesiale regionale delle Famiglie e dei Giovani.

Il Papa è giunto alla Cattedrale a piedi per il primo impegno del pomeriggio dopo l'affollatissima Messa del mattino al Foro Italico Umberto I, alla quale hanno assistito più di 200.000 persone.

Ha quindi raggiunto la Cappella di Santa Rosalia, nel transetto destro, dove in un'urna d'argento sono conservate le reliquie della patrona di Palermo, che ottenne il miracolo della liberazione della città dalla peste nel 1624.

Dopo qualche istante di raccoglimento, il Pontefice è stato salutato dall'Arcivescovo di Palermo, Paolo Romeo, che ha presentato i religiosi presenti come “uomini e donne innamorati di Gesù Cristo” che “divengono pietre profetiche capaci di annunziare all'uomo di oggi il Dio dell'amore”.

Il presule ha aggiunto che il dono della vita per amare Cristo e la Chiesa è “l'unica strada maestra per rendere splendente la consacrazione” che i religiosi hanno ricevuto.

Rivolgendosi al Papa, che ha definito “dolce Vicario di Cristo in terra”, l'Arcivescovo gli ha poi chiesto una “parola forte che possa confermare non solo la nostra fede, ma anche il nostro impegno di totale dedizione al Vangelo”.

La preghiera, base della vita religiosa

Il Papa si è rivolto in primo luogo ai sacerdoti, che lavorano “con zelo e intelligenza, senza risparmio di energie”.

“Siate sempre uomini di preghiera, per essere anche maestri di preghiera – ha chiesto loro –. Le vostre giornate siano scandite dai tempi dell’orazione, durante i quali, sul modello di Gesù, vi intrattenete in colloquio rigenerante con il Padre”.

Il Vescovo di Roma ha riconosciuto che “non è facile mantenersi fedeli a questi quotidiani appuntamenti con il Signore, soprattutto oggi che il ritmo della vita si è fatto frenetico e le occupazioni assorbono in misura sempre maggiore”.

“Dobbiamo tuttavia convincerci: il momento della preghiera è fondamentale: in essa, agisce con più efficacia la grazia divina, dando fecondità al ministero. Tante cose ci premono, ma se non siamo interiormente in comunione con Dio non possiamo dare niente neppure agli altri”.

Vero pastore

Il sacerdote, ha aggiunto, deve agire nel “campo immenso del servizio delle anime, per la loro salvezza in Cristo e nella Chiesa”, “un servizio che deve essere completamente ispirato dalla carità di Cristo”, perché “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi, che nessuno si perda”.

“Il sacerdote è per i fedeli: li anima e li sostiene nell’esercizio del sacerdozio comune dei battezzati, nel loro cammino di fede, nel coltivare la speranza, nel vivere la carità, l’amore di Cristo”.

A questo proposito, il Papa ha chiesto “una particolare attenzione” per il mondo giovanile. “Spalancate le porte delle vostre parrocchie ai giovani, perché possano aprire le porte del loro cuore a Cristo! - ha esclamato - Mai le trovino chiuse!”

Se il sacerdote deve essere centrato su Cristo, ha proseguito, non può comunque restare lontano dalle preoccupazioni quotidiane del Popolo di Dio; “anzi, deve essere vicinissimo, ma da sacerdote, sempre nella prospettiva della salvezza e del Regno di Dio”.

Egli, infatti, “è testimone e dispensatore di una vita diversa da quella terrena”, “è portatore di una speranza forte, di una 'speranza affidabile', quella di Cristo, con la quale affrontare il presente, anche se spesso faticoso”.

Il mondo contemplativo

Il Pontefice ha quindi rivolto “un particolare pensiero ai monaci e alle monache di clausura, il cui servizio di preghiera è così prezioso per la Comunità ecclesiale”.

“Continuate a seguire Gesù senza compromessi, come viene proposto nel Vangelo, dando così testimonianza della bellezza di essere cristiani in maniera radicale”, ha chiesto.

“La vostra stessa presenza e il vostro stile infondono alla Comunità ecclesiale un prezioso impulso verso la 'misura alta' della vita vocazione cristiana; anzi potremmo dire che la vostra esistenza costituisce come una predicazione, assai eloquente, anche se spesso silenziosa”.

Quello dei contemplativi, ha sottolineato, “è un genere di vita antico e sempre nuovo, nonostante la diminuzione del numero e delle forze”.

“Abbiate fiducia – ha detto –: i nostri tempi non sono quelli di Dio e della sua provvidenza. E’ necessario pregare e crescere nella santità personale e comunitaria. Il Signore poi provvede!”.

Seminaristi

Il Papa ha quindi salutato “con affetto di predilezione” i seminaristi, esortandoli “a rispondere con generosità alla chiamata del Signore e alle attese del Popolo di Dio, crescendo nell’identificazione con Cristo, il Sommo Sacerdote, preparandovi alla missione con una solida formazione umana, spirituale, teologica e culturale”.

Il seminario, ha dichiarato, è prezioso per il loro futuro, “perché, attraverso un’esperienza completa e un lavoro paziente, vi conduce ad essere pastori d’anime e maestri di fede, ministri dei santi misteri e portatori della carità di Cristo”.

“Vivete con impegno questo tempo di grazia e conservate nel cuore la gioia e lo slancio del primo momento della chiamata e del vostro 'sì', quando, rispondendo alla voce misteriosa di Cristo, avete dato una svolta decisiva alla vostra vita”.

L'esempio di don Puglisi

Il Papa ha quindi ricordato che il 15 settembre la Chiesa di Palermo ha commemorato il “barbaro assassinio” di don Giuseppe Puglisi, ucciso dalla mafia nel 1993.

“Egli aveva un cuore che ardeva di autentica carità pastorale – ha sottolineato –; nel suo zelante ministero ha dato largo spazio all’educazione dei ragazzi e dei giovani, ed insieme si è adoperato perché ogni famiglia cristiana vivesse la fondamentale vocazione di prima educatrice della fede dei figli”.

“Vi esorto a conservare viva memoria della sua feconda testimonianza sacerdotale imitandone l’eroico esempio”, ha concluso, ricordando che è in corso la causa di beatificazione di don Puglisi.

Dopo l'incontro con i religiosi, il Papa si è recato in papamobile dalla piazza della Cattedrale a Piazza Politeama, dove lo attendevano circa 20.000 persone tra giovani e famiglie.


DISCORSO DEL PAPA AI GIOVANI E ALLE FAMIGLIE A PALERMO - PALERMO, domenica, 3 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo del discorso che Papa Benedetto XVI ha pronunciato questa domenica pomeriggio in Piazza Politeama a Palermo incontrando i giovani e le famiglie della Sicilia.
* * *
Cari giovani e care famiglie della Sicilia!
Vi saluto con tanto affetto e tanta gioia e grazie per la gioia della vostra fede! Questo incontro con voi è l’ultimo della mia visita di oggi a Palermo, ma in un certo senso è quello centrale; in effetti, è l’occasione che ha dato il motivo per invitarmi: il vostro incontro regionale di giovani e famiglie. Allora oggi devo iniziare da qui, da questo avvenimento; e lo faccio prima di tutto ringraziando Mons. Mario Russotto, Vescovo di Caltanissetta, che è delegato per la pastorale giovanile e familiare a livello regionale, e poi i due giovani Giorgia e David. Il vostro, cari amici, è stato più di un saluto: è stata una condivisione di fede e di speranza. Vi ringrazio di cuore. Il Vescovo di Roma va dovunque per confermare i cristiani nella fede, ma torna a casa a sua volta confermato dalla vostra fede, dalla vostra speranza!
Dunque, giovani e famiglie. Dobbiamo prendere sul serio questo accostamento, questo trovarsi insieme, che non può essere solamente occasionale, o funzionale. Ha un senso, un valore umano, cristiano, ecclesiale. E voglio partire non da un ragionamento, ma da una testimonianza, una storia vissuta e attualissima. Penso che tutti voi sappiate che sabato 25 settembre scorso, a Roma, è stata proclamata beata una ragazza italiana di nome Chiara, Chiara Badano. Vi invito a conoscerla: la sua vita è stata breve, ma è un messaggio stupendo. Chiara è nata nel 1971 ed è morta nel 1990, a causa di una malattia inguaribile. Diciannove anni pieni di vita, di amore, di fede. Due anni, gli ultimi, pieni anche di dolore, ma sempre nell’amore e nella luce, una luce che irradiava intorno a sé e che veniva da dentro: dal suo cuore pieno di Dio! Com’è possibile questo? Come può una ragazza di 17, 18 anni vivere una sofferenza così, umanamente senza speranza, diffondendo amore, serenità, pace, fede? Evidentemente si tratta di una grazia di Dio, ma questa grazia è stata anche preparata e accompagnata dalla collaborazione umana: la collaborazione di Chiara stessa, certamente, ma anche dei suoi genitori e dei suoi amici. Prima di tutto i genitori, la famiglia. Oggi voglio sottolinearlo in modo particolare. I genitori della beata Chiara Badano sono vivi, erano a Roma per la beatificazione - io stesso li ho incontrati personalmente - e sono testimoni del fatto fondamentale, che spiega tutto: la loro figlia era ricolma della luce di Dio! E questa luce, che viene dalla fede e dall’amore, l’hanno accesa loro per primi: il papà e la mamma hanno acceso nell’anima della figlia la fiammella della fede, e hanno aiutato Chiara a tenerla accesa sempre, anche nei momenti difficili della crescita e soprattutto nella grande e lunga prova della sofferenza, come fu anche per la Venerabile Maria Carmelina Leone, morta a 17 anni. Questo, cari amici, è il primo messaggio che vorrei lasciarvi: il rapporto tra i genitori e i figli – lo sapete – è fondamentale; ma non solo per una giusta tradizione – so che questa è molto sentita dai siciliani. E’ qualcosa di più, che Gesù stesso ci ha insegnato: è la fiaccola della fede che si trasmette di generazione in generazione; quella fiamma che è presente anche nel rito del Battesimo, quando il sacerdote dice: “Ricevete la luce di Cristo … segno pasquale … fiamma che sempre dovete alimentare”.
La famiglia è fondamentale perché lì germoglia nell’anima umana la prima percezione del senso della vita. Germoglia nella relazione con la madre e con il padre, i quali non sono padroni della vita dei figli, ma sono i primi collaboratori di Dio per la trasmissione della vita e della fede. Questo è avvenuto in modo esemplare e straordinario nella famiglia della beata Chiara Badano; ma questo avviene in tante famiglie. Anche in Sicilia ci sono splendide testimonianze di giovani cresciuti come piante belle, rigogliose, dopo essere germogliate nella famiglia, con la grazia del Signore e la collaborazione umana. Penso alla Beata Pina Suriano, alle Venerabili Maria Carmelina Leone e Maria Magno, grande educatrice; ai Servi di Dio Rosario Livatino, Mario Giuseppe Restivo, e a tanti giovani che voi conoscete! Spesso la loro azione non fa notizia, perché il male fa più rumore, ma sono la forza, il futuro della Sicilia! L’immagine dell’albero è molto significativa per rappresentare l’uomo. La Bibbia la usa, ad esempio, nei Salmi. Il Salmo 1 dice: Beato l’uomo che medita la legge del Signore, “è come albero piantato lungo corsi d’acqua, / che dà frutto a suo tempo” (v. 3). Questi “corsi d’acqua” possono essere il “fiume” della tradizione, il “fiume” della fede da cui si attinge la linfa vitale. Cari giovani di Sicilia, siate alberi che affondano le loro radici nel “fiume” del bene! Non abbiate paura di contrastare il male! Insieme, sarete come una foresta che cresce, forse silenziosa, ma capace di dare frutto, di portare vita e di rinnovare in modo profondo la vostra terra! Non cedete alle suggestioni della mafia, che è una strada di morte, incompatibile con il Vangelo, come tante volte i vostri Vescovi hanno detto e dicono!
L’apostolo Paolo riprende questa immagine nella Lettera ai Colossesi, dove esorta i cristiani ad essere “radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede” (cfr Col 2,7). Voi giovani sapete che queste parole sono il tema del mio Messaggio per la Giornata Mondiale della Gioventù dell’anno prossimo a Madrid. L’immagine dell’albero dice che ognuno di noi ha bisogno di un terreno fertile in cui affondare le proprie radici, un terreno ricco di sostanze nutritive che fanno crescere la persona: sono i valori, ma sono soprattutto l’amore e la fede, la conoscenza del vero volto di Dio, la consapevolezza che Lui ci ama infinitamente, fedelmente, pazientemente, fino a dare la vita per noi. In questo senso la famiglia è “piccola Chiesa”, perché trasmette Dio, trasmette l’amore di Cristo, in forza del sacramento del Matrimonio. L’amore divino che ha unito l’uomo e la donna, e che li ha resi genitori, è capace di suscitare nel cuore dei figli il germoglio della fede, cioè la luce del senso profondo della vita.
Ed eccoci all’altro passaggio importante, che posso solo accennare: la famiglia, per essere “piccola Chiesa”, deve vivere ben inserita nella “grande Chiesa”, cioè nella famiglia di Dio che Cristo è venuto a formare. Anche di questo ci dà testimonianza la beata Chiara Badano, come tutti i giovani santi e beati: insieme con la famiglia di origine, è fondamentale la grande famiglia della Chiesa, incontrata e sperimentata nella comunità parrocchiale, nella diocesi; per la beata Pina Suriano è stata l’Azione Cattolica - ampiamente presente in questa terra -, per la beata Chiara Badano il Movimento dei Focolari; infatti, anche i movimenti e le associazioni ecclesiali non servono se stessi, ma Cristo e la Chiesa.
Cari amici! Conosco le vostre difficoltà nell’attuale contesto sociale, che sono le difficoltà dei giovani e delle famiglie di oggi, in particolare nel sud d’Italia. E conosco anche l’impegno con cui voi cercate di reagire e di affrontare questi problemi, affiancati dai vostri sacerdoti, che sono per voi autentici padri e fratelli nella fede, come è stato Don Pino Puglisi. Ringrazio Dio di avervi incontrato, perché dove ci sono giovani e famiglie che scelgono la via del Vangelo, c’è speranza. E voi siete segno di speranza non solo per la Sicilia, ma per tutta l’Italia. Io vi ho portato una testimonianza di santità, e voi mi offrite la vostra: i volti dei tanti giovani di questa terra che hanno amato Cristo con radicalità evangelica; i vostri stessi volti, come un mosaico! Ecco il dono più grande che abbiamo ricevuto: essere Chiesa, essere in Cristo segno e strumento di pace, di unità, di vera libertà. Nessuno può toglierci questa gioia! Nessuno può toglierci questa forza! Coraggio, cari giovani e famiglie di Sicilia! Siate santi! Alla scuola di Maria, nostra Madre, mettetevi a piena disposizione di Dio, lasciatevi plasmare dalla sua Parola e dal suo Spirito, e sarete ancora, e sempre più, sale e luce di questa vostra amata terra. Grazie!
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]


OMELIA DEL PAPA AL FORO ITALICO UMBERTO I DI PALERMO - In occasione della visita pastorale nel capoluogo siciliano (ZENIT.org)
PALERMO, domenica, 3 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo dell'omelia che Papa Benedetto XVI ha pronunciato questa domenica mattina al Foro Italico Umberto I di Palermo durante la sua visita pastorale nel capoluogo siciliano in occasione del Raduno ecclesiale regionale delle Famiglie e dei Giovani. * * *
Cari fratelli e sorelle!
E’ grande la mia gioia nel poter spezzare con voi il pane della Parola di Dio e dell’Eucaristia. Vi saluto tutti con affetto e vi ringrazio per la vostra calorosa accoglienza! Saluto in particolare il vostro Pastore, l’Arcivescovo Mons. Paolo Romeo; lo ringrazio per le espressioni di benvenuto che ha voluto rivolgermi a nome di tutti, e anche per il significativo dono che mi offerto. Saluto anche gli Arcivescovi e i Vescovi presenti, i Sacerdoti, i Religiosi e le Religiose, i rappresentanti delle Associazioni e dei Movimenti ecclesiali. Rivolgo un deferente pensiero al Sindaco, On. Diego Cammarata, grato per il cortese indirizzo di saluto, al Rappresentante del Governo ed alle Autorità civili e militari, che con la loro presenza hanno voluto onorare questo nostro incontro. Un ringraziamento speciale a quanti hanno generosamente offerto la loro collaborazione per l’organizzazione e preparazione di questa giornata.
Cari amici! La mia Visita avviene in occasione di un importante raduno ecclesiale regionale dei giovani e delle famiglie, che incontrerò nel pomeriggio. Ma sono venuto anche per condividere con voi gioie e speranze, fatiche e impegni, ideali e aspirazioni di questa comunità diocesana. Quando gli antichi Greci approdarono in questa zona, come ha anche ricordato il Sindaco nel suo saluto, la chiamarono "Panormo", cioè "tutto porto": un nome che voleva indicare sicurezza, pace e serenità. Venendo per la prima volta fra di voi, il mio augurio è che veramente questa Città, ispirandosi ai valori più autentici della sua storia e della sua tradizione, sappia sempre realizzare per i suoi abitanti, come pure per l’intera Nazione, l’auspicio di serenità e di pace sintetizzato nel suo nome.
So che a Palermo, come anche in tutta la Sicilia, non mancano difficoltà, problemi e preoccupazioni: penso, in particolare, a quanti vivono concretamente la loro esistenza in condizioni di precarietà, a causa della mancanza del lavoro, dell’incertezza per il futuro, della sofferenza fisica e morale e, come ha ricordato l’Arcivescovo, a causa della criminalità organizzata. Oggi sono in mezzo a voi per testimoniare la mia vicinanza ed il mio ricordo nella preghiera. Sono qui per darvi un forte incoraggiamento a non aver paura di testimoniare con chiarezza i valori umani e cristiani, così profondamente radicati nella fede e nella storia di questo territorio e della sua popolazione.
Cari fratelli e sorelle, ogni assemblea liturgica è spazio della presenza di Dio. Riuniti per la santa Eucaristia, i discepoli del Signore sono immersi nel sacrificio redentore di Cristo, proclamano che Egli è risorto, è vivo e datore di vita, e testimoniano che la sua presenza è grazia, forza e gioia. Apriamo il cuore alla sua parola ed accogliamo il dono della sua presenza! Tutti i testi della liturgia di questa domenica ci parlano della fede, che è il fondamento di tutta la vita cristiana. Gesù ha educato i suoi discepoli a crescere nella fede, a credere e ad affidarsi sempre di più a Lui, per costruire sulla roccia la propria vita. Per questo essi gli chiedono: «Accresci in noi la fede» (Lc 17,6). E’ una bella domanda che rivolgono al Signore, è la domanda fondamentale: i discepoli non chiedono doni materiali, non chiedono privilegi, ma chiedono la grazia della fede, che orienti e illumini tutta la vita; chiedono la grazia di riconoscere Dio e di poter stare in relazione intima con Lui, ricevendo da Lui tutti i suoi doni, anche quelli del coraggio, dell’amore e della speranza.
Senza rispondere direttamente alla loro preghiera, Gesù ricorre ad un’immagine paradossale per esprimere l’incredibile vitalità della fede. Come una leva muove molto più del proprio peso, così la fede, anche un pizzico di fede, è in grado di compiere cose impensabili, straordinarie, come sradicare un grande albero e trapiantarlo nel mare (Ibid.). La fede - fidarci di Cristo, accoglierlo, lasciare che ci trasformi, seguirlo fino in fondo - rende possibili le cose umanamente impossibili, in ogni realtà. Ne dà testimonianza anche il profeta Abacuc nella prima lettura. Egli implora il Signore a partire da una situazione tremenda di violenza, d’iniquità e di oppressione; e proprio in questa situazione difficile e di insicurezza, il profeta introduce una visione che offre uno spaccato del progetto che Dio sta tracciando e sta attuando nella storia: «Soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede» (Ab 2,4). L’empio, colui che non agisce secondo Dio, confida nel proprio potere, ma si appoggia su una realtà fragile e inconsistente, perciò si piegherà, è destinato a cadere; il giusto, invece, confida in una realtà nascosta ma solida, confida in Dio e per questo avrà la vita.
Nei secoli passati la Chiesa che è in Palermo è stata arricchita ed animata da una fede fervida, che ha trovato la sua più alta e riuscita espressione nei Santi e nelle Sante. Penso a santa Rosalia, che voi venerate e onorate e che, dal monte Pellegrino, veglia sulla vostra Città, di cui è Patrona. Né va dimenticato come il vostro senso religioso abbia sempre ispirato e orientato la vita familiare, alimentando valori, quali la capacità di donazione e di solidarietà verso gli altri, specialmente i sofferenti, e l’innato rispetto per la vita, che costituiscono una preziosa eredità da custodire gelosamente e da rilanciare ancor più ai nostri giorni. Cari amici, conservate questo prezioso tesoro di fede della vostra Chiesa; siano sempre i valori cristiani a guidare le vostre scelte e le vostre azioni!
La seconda parte del Vangelo odierno presenta un altro insegnamento, un insegnamento di umiltà, che tuttavia è strettamente legato alla fede. Gesù ci invita ad essere umili e porta l’esempio di un servo che ha lavorato nei campi. Quando torna a casa, il padrone gli chiede ancora di lavorare. Secondo la mentalità del tempo di Gesù, il padrone aveva tutto il diritto di farlo. Il servo doveva al padrone una disponibilità completa; e il padrone non si riteneva obbligato verso di lui perché aveva eseguito gli ordini ricevuti. Gesù ci fa prendere coscienza che, di fronte a Dio, ci troviamo in una situazione simile: siamo servi di Dio; non siamo creditori nei suoi confronti, ma siamo sempre debitori, perché dobbiamo a Lui tutto, perché tutto è suo dono. Accettare e fare la sua volontà è l’atteggiamento da avere ogni giorno, in ogni momento della nostra vita. Davanti a Dio non dobbiamo mai presentarci come chi crede di aver reso un servizio e di meritare una grande ricompensa. Questa è un’illusione che può nascere in tutti, anche nelle persone che lavorano molto al servizio del Signore, nella Chiesa. Dobbiamo, invece, essere consapevoli che, in realtà, non facciamo mai abbastanza per Dio. Dobbiamo dire, come ci suggerisce Gesù: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10). Questo è un atteggiamento di umiltà che ci mette veramente al nostro posto e permette al Signore di essere molto generoso con noi. Infatti, in un altro brano del Vangelo egli ci promette che «si cingerà le sue vesti, ci farà mettere a tavola e passerà a servirci» (cfr Lc 12,37). Cari amici, se faremo ogni giorno la volontà di Dio, con umiltà, senza pretendere nulla da Lui, sarà Gesù stesso a servirci, ad aiutarci, ad incoraggiarci, a donarci forza e serenità.
Anche l’apostolo Paolo, nella seconda lettura odierna, parla della fede. Timoteo è invitato ad avere fede e, per mezzo di essa, ad esercitare la carità. Il discepolo viene esortato a ravvivare nella fede anche il dono di Dio che è in lui per l’imposizione delle mani di Paolo, cioè il dono dell’Ordinazione, ricevuto per svolgere il ministero apostolico come collaboratore di Paolo (cfr 2Tm 1,6). Egli non deve lasciar spegnere questo dono, ma deve renderlo sempre più vivo per mezzo della fede. E l’Apostolo aggiunge: «Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza» ( v. 7).
Cari Palermitani e cari Siciliani! La vostra bella Isola è stata tra le prime regioni d’Italia ad accogliere la fede degli Apostoli, a ricevere l’annunzio della Parola di Dio, ad aderire alla fede in modo così generoso che, anche in mezzo a difficoltà e persecuzioni, è sempre germogliato in essa il fiore della santità. La Sicilia è stata ed è terra di santi, appartenenti ad ogni condizione di vita, che hanno vissuto il Vangelo con semplicità ed integralità. A voi, fedeli laici, ripeto: non abbiate timore di vivere e testimoniare la fede nei vari ambiti della società, nelle molteplici situazioni dell’esistenza umana, soprattutto in quelle difficili! La fede vi dona la forza di Dio per essere sempre fiduciosi e coraggiosi, per andare avanti con nuova decisione, per prendere le iniziative necessarie a dare un volto sempre più bello alla vostra terra. E quando incontrate l’opposizione del mondo, sentite le parole dell’Apostolo: «Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro» (v. 8). Ci si deve vergognare del male, di ciò che offende Dio, di ciò che offende l’uomo; ci si deve vergognare del male che si arreca alla Comunità civile e religiosa con azioni che non amano venire alla luce! La tentazione dello scoraggiamento, della rassegnazione, viene a chi è debole nella fede, a chi confonde il male con il bene, a chi pensa che davanti al male, spesso profondo, non ci sia nulla da fare. Invece, chi è saldamente fondato sulla fede, chi ha piena fiducia in Dio e vive nella Chiesa, è capace di portare la forza dirompente del Vangelo. Così si sono comportati i Santi e le Sante, fioriti, nel corso dei secoli, a Palermo e in tutta la Sicilia, come pure laici e sacerdoti di oggi a voi ben noti, come, ad esempio, Don Pino Puglisi. Siano essi a custodirvi sempre uniti e ad alimentare in ciascuno il desiderio di proclamare, con le parole e con le opere, la presenza e l’amore di Cristo. Popolo di Sicilia, guarda con speranza al tuo futuro! Fa’ emergere in tutta la sua luce il bene che vuoi, che cerchi e che hai! Vivi con coraggio i valori del Vangelo per far risplendere la luce del bene! Con la forza di Dio tutto è possibile! La Madre di Cristo, la Vergine Odigitria da voi tanto venerata, vi assista e vi conduca alla profonda conoscenza del suo Figlio. Amen!
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]


San Giuseppe Cafasso (1811-1860) e l'ethos nazionale italiano. Massimo Introvigne per l'Anno Cafassiano - lunedì 4 ottobre 2010
Celebrazioni dell’Anno Cafassiano, Castelnuovo Don Bosco (Torino) 3 ottobre 2010
Benedetto XVI è un Papa straordinariamente sensibile agli anniversari. Non poteva dunque mancare di ricordare l’anno di san Giuseppe Cafasso (1811-1860), anno «lungo» che è iniziato nel 2010 con il 150° anniversario della morte e prosegue nel 2011 con il 200° anniversario della nascita. Nel suo discorso del 30 giugno 2010 dedicato a san Giuseppe Cafasso (Benedetto XVI 2010), il Papa ha voluto aggiungervi uno di quegli anniversari di cui – senza fare torto a nessuno – mi sento di dire che li ricorda solo Benedetto XVI: i sessant’anni dall’esortazione apostolica Menti nostrae, del 23 settembre 1950, del venerabile Pio XII (1939-1958), documento molto importante sulla vita spirituale dei sacerdoti in cui il Cafasso è proposto «come modello ai sacerdoti impegnati nella confessione e nella Direzione spirituale» (ibid.).
Benedetto XVI mette in relazione il Cafasso con altri tre santi. Il primo è il santo curato d’Ars, san Giovanni Maria Vianney (1786-1859), la figura che è stata al centro dell’Anno sacerdotale concluso nello scorso mese di giugno. Il Papa ha ricordato che «che il Papa Pio XI [1922-1939], il 1° novembre 1924, approvando i miracoli per la canonizzazione di san Giovanni Maria Vianney e pubblicando il decreto di autorizzazione per la beatificazione del Cafasso, accostò queste due figure di sacerdoti con le seguenti parole: “Non senza una speciale e benefica disposizione della Divina Bontà abbiamo assistito a questo sorgere sull’orizzonte della Chiesa cattolica di nuovi astri, il parroco d’Ars, ed il Venerabile Servo di Dio, Giuseppe Cafasso. Proprio queste due belle, care, provvidamente opportune figure ci si dovevano oggi presentare; piccola e umile, povera e semplice, ma altrettanto gloriosa la figura del parroco d’Ars, e l’altra bella, grande, complessa, ricca figura di sacerdote, maestro e formatore di sacerdoti, il Venerabile Giuseppe Cafasso”» (ibid.).
Entrambi i santi meditarono profondamente sulla straordinaria sacralità della figura del sacerdote come è stata pensata e voluta dallo stesso Gesù Cristo, lasciando un «messaggio vivo e attuale» (ibid.) in questi tempi di crisi del sacerdozio. Il Cafasso, in particolare, si dedicò a un’attività particolarmente necessaria oggi, la formazione dei sacerdoti prima e dopo l’ordinazione. «Non fu parroco come il curato d’Ars, ma fu soprattutto formatore di parroci e preti diocesani, anzi di preti santi, tra i quali san Giovanni Bosco. Non fondò, come gli altri santi sacerdoti dell’Ottocento piemontese, istituti religiosi, perché la sua “fondazione” fu la “scuola di vita e di santità sacerdotale” che realizzò, con l’esempio e l’insegnamento, nel “Convitto Ecclesiastico di S. Francesco d’Assisi” a Torino» (ibid.).
Ed è soprattutto per proporre i suoi insegnamenti ai sacerdoti che il Cafasso entra in relazione con la seconda figura cui lo accosta Benedetto XVI: sant’Ignazio di Loyola (1491-1556). Il santo piemontese studia con attenzione gli Esercizi spirituali e li ripropone ai preti del suo tempo. La sua era una «vera e propria scuola di vita sacerdotale, dove i presbiteri si formavano nella spiritualità di sant’Ignazio di Loyola» (ibid.). Lo stesso Benedetto XVI ha ripetutamente proposto gli Esercizi spirituali di sant’Ignazio ai sacerdoti come rimedio alle diverse crisi che oggi attraversano. Naturalmente, restano di straordinaria utilità anche per i laici.
Il tema che mi è stato chiesto di trattare mi suggerisce però di concentrarmi sulla terza figura evocata da Benedetto XVI in relazione al Cafasso: «il grande Vescovo sant’Alfonso Maria de’ Liguori [1696-1787]» (ibid.). Vorrei esaminare brevemente due aspetti di questa relazione, non perché siano gli unici – al contrario, tutti gli studiosi del Cafasso hanno mostrato il carattere cruciale dei suoi rapporti con il magistero liguoriano – ma perché sono di particolare attualità.
Il primo aspetto riguarda la teologia morale di sant’Alfonso, alla scuola del quale – cui, formato a sua volta nella gioventù da professori rigoristi, il Cafasso aderì gradualmente (cfr. Casto 2003) – il santo piemontese, come ricorda Benedetto XVI, «educava ad essere buoni confessori e direttori spirituali, preoccupati del vero bene spirituale della persona, animati da grande equilibrio nel far sentire la misericordia di Dio e, allo stesso tempo, un acuto e vivo senso del peccato» (Benedetto XVI 2010). Gli stessi Esercizi spirituali di sant’Ignazio erano predicati ai sacerdoti dal Cafasso con un taglio tipicamente liguoriano, dopo l’incontro con l’opera di sant’Alfonso Selva di materie predicabili ed istruttive per dare gli Esercizi a’ preti (Liguori 1760) di cui, secondo Lucio Casto, il santo piemontese non conobbe la prima edizione napoletana ma «poté utilizzare l’edizione pubblicata a Bassano nel 1833» (Casto 2003, 47). Attraverso il rapporto con sant’Alfonso il Cafasso svolge opera decisiva per la sconfitta del giansenismo, di cui il santo napoletano era implacabile avversario. La teologia morale di sant’Alfonso e del Cafasso si oppone energicamente al rigorismo giansenista influenzato dal protestantesimo puritano, e anche a un certo lassismo volgare sorto come reazione eccessiva al rigorismo.
Non si tratta di polemiche antiche ma di un tema, contrariamente a quanto potrebbe sembrare a prima vista, di grande attualità. Oggi molti s’interrogano sulle cause profonde della presenza in una piccola minoranza di sacerdoti – i cui numeri sono talora amplificati da statistiche polemiche, ma che purtroppo esiste – di gravi deviazioni sessuali. Mi sono occupato anch’io, in chiave sociologica e storica, di questo tema (cfr. Introvigne 2010). Le sue radici sono molto complesse. Una delle molte cause tuttavia può essere ricondotta a errori nella teologia morale che rimandano a problemi secolari. L’atteggiamento radicalmente negativo nei confronti dei rapporti sessuali e delle donne considerate come occasioni prossime di peccato, contrariamente a quanto molti pensano, non fa parte del patrimonio comune del Medioevo cattolico. È piuttosto in un certo ambiente protestante che assume profili di una durezza senza precedenti, i quali penetrano anche all’interno del mondo cattolico attraverso il rapporto tra puritanesimo e giansenismo, che è storicamente complesso ma tutt’altro che irrilevante (cfr. Cottret, Cottret e Michel 2002). Paradossalmente – ma non troppo – l’atteggiamento che mira a preservare i ministri di culto, i sacerdoti e i seminaristi da ogni contatto non strettamente necessario con le donne e la visione negativa della sessualità hanno come conseguenza la formazione di circoli di pastori e preti omosessuali o pedofili, rilevati e denunciati nei secoli XVII e XVIII un po’ dovunque, dal New England puritano alla Francia giansenista.
Beninteso, questa radice remota del problema dell’immoralità di una minoranza del clero si combina oggi con una radice prossima, la rivoluzione sessuale e la contestazione di ogni autorità morale all’esterno e all’interno della Chiesa che risale agli anni 1960. E la radice prossima ha un peso quantitativo maggiore della radice remota nella genesi dei fenomeni che oggi tanto preoccupano Benedetto XVI. Tuttavia anche la radice remota esiste, e la lotta di sant’Alfonso e di san Giuseppe Cafasso contro il giansenismo – che, come si è accennato, era anche lotta contro il lassismo che si diffondeva come reazione al rigorismo giansenista – va ricordata come prezioso e determinante contributo al tentativo di estirpare questa radice prima che desse frutti di corruzione e di morte.
Vengo al secondo aspetto per cui il rapporto fra il Cafasso e sant’Alfonso mi sembra di particolare rilievo. Il Cafasso è un santo molto piemontese, e sant’Alfonso – autore tra l’altro dei famosissimi inni natalizi Tu scendi dalle stelle e Quanne’ nascette Ninno – è molto napoletano. Il fatto che negli anni 1830 la principale lettura e il principale riferimento pastorale di un teologo piemontese come san Giuseppe Cafasso sia un vescovo del Regno delle Due Sicilie dovrebbe fare riflettere tutti quelli che pensano che l’Italia sia nata nel 1861. I centocinquant’anni dall’unità politica dell’Italia che ricorrono nel 1861 non devono far dimenticare, anzi dovrebbero essere occasione di ricordare, che molto prima dell’unificazione politica l’Italia esisteva con una sua unità culturale, assicurata dalla identità cattolica, che era stata difesa con i libri e con il sangue prima contro l’attacco militare islamico, poi contro quelli insieme propagandistici e militari del protestantesimo dell’Europa del Nord e dell’ideologia della Rivoluzione francese che veniva dalla Francia con le armate napoleoniche.
L’opera del Cafasso costituisce eloquente smentita pratica alla tesi – elaborata dagli Illuministi e resa celebre nel secolo XIX dall’economista ginevrino Jean-Charles Léonard Simonde de Sismondi (1773-1842: Sismondi 1809-1818), cui aveva risposto nel 1819 anche Alessandro Manzoni (1785-1873) con le sue Osservazioni sulla morale cattolica (Manzoni 1870) – secondo cui la Chiesa Cattolica sarebbe stata fattore di arretratezza morale e culturale in Italia, un Paese la cui sciagura sarebbe stata appunto l’avere rifiutato la Riforma protestante. Nell’ambiente culturale torinese questa tesi – che molti anni dopo la morte del Cafasso avrebbe cercato di appoggiarsi alle idee del sociologo tedesco Max Weber (1864-1920), peraltro lette male e capite peggio, sui rapporti fra un certo protestantesimo e il capitalismo – incontrerà poi un grande diffusore in Piero Gobetti (1901-1926), la cui influenza arriva fino ai giorni nostri. In un bel libro del 1934 Amintore Fanfani (1908-1999), che prima di darsi alla politica fu uno storico dell’economia di fama internazionale, aveva già confutato queste tesi sostenendo che, quand’anche non si voglia risalire ai monaci, l’economia moderna non è stata inventata nel Nord Europa ma in Italia e nel Medioevo da banchieri cattolici toscani (Fanfani 1934).
L’opera a Torino del Cafasso conferma anche in modo eminente – ma lo stesso vale, naturalmente, in tutte le regioni d’Italia e per tanti altri santi – come sia stata la Chiesa a prendersi cura dei poveri più poveri, compresi i malati inguaribili e i carcerati, che il liberalismo trionfante rischiava di considerare solo come scarti di produzione nel ciclo del progresso. Del Cafasso Benedetto XVI esalta «l’attenzione agli ultimi, in particolare ai carcerati, che nella Torino ottocentesca vivevano in luoghi disumani e disumanizzanti. Anche in questo delicato servizio, svolto per più di vent’anni, egli fu sempre il buon pastore, comprensivo e compassionevole: qualità percepita dai detenuti, che finivano per essere conquistati da quell’amore sincero, la cui origine era Dio stesso. La semplice presenza del Cafasso faceva del bene: rasserenava, toccava i cuori induriti dalle vicende della vita e soprattutto illuminava e scuoteva le coscienze indifferenti» (Benedetto XVI 2010). Non si trattava di semplice umanitarismo, ma di invito cattolico alla conversione: il Cafasso con i poveri e con i carcerati «affrontava i grandi temi della vita cristiana, parlando della confidenza in Dio, dell’adesione alla Sua volontà, dell’utilità della preghiera e dei sacramenti, il cui punto di arrivo è la Confessione, l’incontro con Dio fattosi per noi misericordia infinita» (ibid.).
Non solo quest’opera a favore dei più abbandonati era stata svolta nel Regno delle Due Sicilie dal vescovo sant’Alfonso de’ Liguori, ma il legame particolare fra i due santi ricordato da Benedetto XVI può essere considerato – conclusivamente – anche sotto un altro aspetto. Del già citato Max Weber possiamo rigettare come discutibili alcuni elementi di storia religiosa ed economica: ma forse possiamo considerare ancora attuale la tesi fondamentale secondo cui l’ethos di una nazione ne influenza tutta la storia, anche economica, e l’indagine sulla natura di questo ethos non può prescindere dalla religione. Se si volessero applicare le categorie di Weber all’ethos nazionale italiano, occorrerebbe partire – come appunto suggeriva il sociologo tedesco – dalle idee e dalle tendenze religiose prevalenti nell’insieme della popolazione, e chiedersi in che cosa queste idee si differenziano dal tipo di protestantesimo che Weber prende in esame. Situandosi di fronte al fatto della modernità l’ethos nazionale italiano radicato nel cattolicesimo presenta una caratteristica saliente: il realismo.
La modernità si presenta spesso con il manto dell’utopismo, dei sogni di un’età dell’oro che sarebbe possibile instaurare in terra grazie agli sforzi degli uomini. L’ascetica del capitalismo dovrebbe garantire una perfetta organizzazione dell’economia, e il culto laico dello Stato dovrebbe condurci al migliore degli Stati possibili. Questa è l’ideologia che il filosofo cattolico italiano Augusto Del Noce (1910-1989) chiamava «perfettismo» (Del Noce 1994, 61), intendendo con tale espressione «la dottrina che estende il concetto di progresso dal campo dove è legittimo, la scienza e la tecnica, al mondo morale e umano, e di conseguenza pensa a un processo della storia per cui la presenza del male andrebbe continuamente diminuendo sino all’estinzione» (ibid.). Secondo Del Noce il perfettismo consiste ultimamente nel rifiuto di prendere in considerazione le conseguenze sociali del peccato originale. L’ethos nazionale italiano di fronte alla modernità e alla sfida del perfettismo si costituisce, precisamente, come rifiuto delle utopie, come scetticismo di fronte alla prospettiva di un’economia paradisiaca, di uno Stato etico o garante dell’etica, di una società perfetta. Un ruolo cruciale nella formazione di questa ostilità italiana al perfettismo lo ha precisamente sant’Alfonso de’ Liguori.
La dottrina probabilistica di sant’Alfonso costituisce la più sicura garanzia contro i sogni utopistici, e il più equilibrato monito agli uomini tentati dal perfettismo, ai quali è ricordato che la perfezione non è di questo mondo e che i nostri sforzi possono al massimo avvicinarsi a quanto sembra buono con un grado ragionevole di probabilità. Il vescovo napoletano ha avuto un ruolo decisivo nel radicare in Italia – nel dialogo e nella dialettica con la modernità – un sano realismo che resta scettico di fronte a tutte le utopie e che ha preservato per buona parte l’Italia da ubriacature ideologiche, «religioni civili» e culti dello Stato che hanno avuto ben più ampio corso in altri Paesi. Se il realismo di sant’Alfonso si diffuse anche nell’Italia Settentrionale, ispirando in particolare san Giovanni Bosco (1815-1888), un’altra figura cruciale per definire l’ethos italiano, il merito è di quel «formatore […] di preti santi, tra i quali san Giovanni Bosco» (Benedetto XVI 2010) che fu il Cafasso.
Leggiamo in questi giorni, a fronte di divisioni e polemiche, d’iniziative gastronomiche per riunificare l’Italia in cui i sindaci di Milano e di Roma si offrono a vicenda risotto allo zafferano e rigatoni con pagliata. Senza nulla togliere all’eccellenza del risotto e dei rigatoni, che confesso di apprezzare entrambi, penso che i molti cattolici che celebreranno in quest’anno cafassiano san Giuseppe Cafasso, ricordando alla scuola di Benedetto XVI il suo speciale legame con sant’Alfonso de’ Liguori, potranno farsi un’idea più precisa della vera unità del popolo italiano.

Riferimenti
Benedetto XVI. 2010. San Giuseppe Cafasso. Udienza generale del 30-6-2010. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/39ax96c.
Cafasso, [san] Giuseppe. 2003. Esercizi spirituali al clero – Meditazioni (Edizione nazionale delle opere di san Giuseppe Cafasso, vol. I). Effatà, Cantalupa (Torino).
Casto, Lucio. «Introduzione alle Meditazioni al clero». In Cafasso 2003, pp. 34-54.
Cottret, Bernard - Monique Cottret - Marie-José Michel (a cura di). 2002 Jansénisme et puritanisme. Nolin, Parigi.
Del Noce, Augusto. 1994. I cattolici e il progressismo. Leonardo, Milano.
Fanfani, Amintore. 1934. Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo. Vita e Pensiero, Milano.
Liguori, [sant’]Alfonso Maria de’. 1760. Selva di materie predicabili ed istruttive per dare gli Esercizi a’ preti. Stamperia di Giuseppe di Domenico, Napoli.
Manzoni, Alessandro. 1870. Osservazioni sulla morale cattolica. In Opere varie di Alessandro Manzoni, edizione riveduta dall’Autore. Stabilimento dei Fratelli Rechiedei, Milano.
Introvigne, Massimo. 2010. Preti pedofili. La vergogna, il dolore e la verità sull’attacco a Benedetto XVI. San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano).
Sismondi, Jean-Charles Léonard Simonde de. 1809-1818. Histoire des républiques italiennes du Moyen age. 20 voll. H. Nicolle - Treuttel et Würtz, Parigi (trad. it. Storia delle repubbliche Italiane dei secoli di mezzo, 16 voll., Francesco Pagnoni, Milano 1817-1819).


Il Papa ai siciliani: «Non cedete alle suggestioni della mafia» - di Andrea Tornielli - © Copyright Il Giornale, 4 ottobre 2010
«Non abbiate paura di contrastare il male! Non cedete alle suggestioni della mafia, che è una strada di morte, incompatibile con il Vangelo!».
Un boato di applausi sommerge le parole di Benedetto XVI ai giovani radunati in piazza Politeama a Palermo. E la Sicilia rivive l’emozione dell’invettiva contro la mafia che Giovanni Paolo II lanciò dalla Valle dei Templi di Agrigento il 9 maggio 1993.
In 200mila, una folla rarissima nei viaggi italiani, hanno salutato ieri Papa Ratzinger durante la giornata trascorsa nel capoluogo siciliano. Una visita che ha avuto uno speciale «santo patrono», non ancora beatificato, don Pino Puglisi, il prete di Brancacaccio assassinato dalla mafia diciassette anni fa. Benedetto XVI, arrivato in un isola che vive come sospesa in un clima di incertezza e di paura a causa della disoccupazione, della malavita e di una politica lontana dai bisogni della gente, è stato accolto come un «defensor civitatis», un pastore capace di ridare speranza.
Nell’omelia della messa celebrata al Foro Italico, Ratzinger ha manifestato la sua vicinanza a coloro che «vivono concretamente la loro esistenza in condizioni di precarietà, a causa della mancanza del lavoro, dell’incertezza per il futuro, della sofferenza fisica e morale e a causa della criminalità organizzata». Commentando le letture ha ribadito che gli empi sono destinati a cadere. Ha ricordato che la Sicilia è stata tra le prime regioni italiane ad essere evangelizzate, ha detto che essa «è stata ed è terra di santi». Ha rinnovato a tutti l’appello a non avere «timore di vivere e testimoniare la fede», soprattutto nelle situazioni difficili. Quindi ha aggiunto: «Ci si deve vergognare del male, di ciò che offende Dio, di ciò che offende l’uomo; ci si deve vergognare del male che si arreca alla comunità civile e religiosa con azioni che non amano venire alla luce!». In una terra così martoriata dove ci si rassegna facilmente, pensando che « davanti al male, spesso profondo, non ci sia nulla da fare», Benedetto XVI ha invitato a guardare ai santi e all’esempio di chi non si è arreso, come quello di don Puglisi. L’applauso, alla prima citazione del sacerdote assassinato dai sicari di Cosa nostra, è stato scrosciante. Il Papa è tornato a parlare di lui nel pomeriggio, incontrando i religiosi e le religiose, e ha ricordato il processo di beatificazione in corso: «Vi esorto a conservare viva memoria della sua feconda testimonianza sacerdotale imitandone l’eroico esempio». Com’è noto, la causa di don Puglisi ha avuto dei problemi, e fino ad oggi la sua morte non è stata equiparata al martirio, come voleva la diocesi di Palermo.
Il messaggio del Pontefice ai siciliani, è quello del coraggio e della speranza: «Popolo di Sicilia, guarda con speranza al tuo futuro! Fa emergere in tutta la sua luce il bene che vuoi, che cerchi e che hai! Vivi con coraggio i valori del Vangelo per far risplendere la luce del bene!» Un richiamo che nel tardo pomeriggio, prima di lasciare Palermo per fare ritorno a Roma, Ratzinger ripete con forza ai giovani in piazza Politeama: «Cari giovani di Sicilia, siate alberi che affondano le loro radici nel “fiume” del bene! Non abbiate paura di contrastare il male! Insieme, sarete come una foresta che cresce, forse silenziosa, ma capace di dare frutto, di portare vita e di rinnovare in modo profondo la vostra terra! Non cedete alle suggestioni della mafia, che è una strada di morte, incompatibile con il Vangelo!».
Sulla strada per l’aeroporto, Benedetto XVI si è fermato sul luogo della strage di Capaci per deporre dei fiori dove morirono il giudice Falcone e gli uomini della scorta.
© Copyright Il Giornale, 4 ottobre 2010


PERSECUZIONI/ Edwin Paul, trucidato con la famiglia per aver difeso un taxista cristiano di Giorgio Paolucci - lunedì 4 ottobre 2010 – il sussidiario.net
Un’altra strage di cristiani in Pakistan. Un altro episodio drammaticamente emblematico della condizione in cui vive la minoranza di tre milioni di persone in un Paese di 170 milioni di abitanti, dove il 96 per cento della popolazione è di fede musulmana. Il fatto (in Italia riportato con ampio risalto solo dal quotidiano “Avvenire”) è accaduto nella cittadina di Haripur, le vittime sono Edwin Paul, avvocato di fede cristiano-evangelica, la moglie Rudy e i cinque figli di età compresa tra 6 e 17 anni, trucidati il 28 settembre.

Secondo fonti concordi, a ordinare il massacro sarebbe stato un notabile locale, al centro di un giro di usura che interessa alcune aree della provincia del Punjab. Un’attività che a sua volta è una delle fonti di finanziamento del terrorismo di matrice islamica e pesa in particolare sulle minoranze della regione, sempre più indifese.

Ai cristiani vengono imposti interessi che moltiplicano fino a cinque volte la somma iniziale: così è accaduto a un tassista che dopo avere richiesto un prestito di 160mila rupie con l’impegno di restituirne 224mila, ha dovuto fare fronte a una richiesta divenuta di 1,12 milioni di rupie (somma che equivale a 9500 euro). L’avvocato Edwin Paul sarebbe stato eliminato perché “colpevole” di avere assistito legalmente il tassista, accompagnandolo al posto di polizia per sporgere denuncia. Pochi giorni dopo, la punizione che ha colpito lui e la sua intera famiglia.

Continua così, nel silenzio dei media locali, nell’indifferenza sostanziale delle autorità e nel disinteresse pressoché totale dell’Occidente, la carneficina dei cristiani in Pakistan, Paese chiave del delicato scacchiere asiatico in cui si sta ridisegnando una parte importante dei nuovi assetti mondiali. Uno dei problemi pronunciati denunciati dalla Chiesa locale è la legge sulla blasfemia, che punisce con il carcere o la pena di morte chi viene ritenuto colpevole di avere dissacrato Maometto o i testi sacri dell’islam.
Una norma che, nonostante alcune modifiche recentemente apportate, in questi anni è stata usata come arma per eliminare avversari politici ritenuti scomodi, per regolare conti personali o perpetrare soprusi, e che colpisce sia cristiani sia musulmani. Una piccola nota positiva in un orizzonte plumbeo è venuta dall’abolizione del sistema degli “elettorati separati” che imponeva a ogni minoranza di votare per i propri candidati.

In molte regioni del Pakistan i cristiani devono fare i conti con discriminazioni, minacce o violenze esplicite, e molti di loro sono indotti a vendere i propri beni e ad andarsene. Nell’area in cui è avvenuto il massacro dei giorni scorsi, due mesi fa erano stati rapiti otto missionari protestanti: sei di loro sono stati successivamente rilasciati, mentre di altri due non si sono avute più notizie.

Nel Paese crescono l’influenza e la pressione del fondamentalismo islamico, sempre più minaccioso nei confronti delle minoranze religiose e sempre più influente sul governo centrale di Islamabad, che si rivela incapace di garantire i diritti delle minoranze, teoricamente affermati nella Costituzione ma ignorati nei fatti. A quando un intervento deciso delle cancellerie occidentali perché la libertà religiosa venga difesa e promossa? E non sarebbe il caso che i media di casa nostra - così appassionati alle inchieste sugli appartamenti e sulle gaffe dei politici, o al gossip che detta l’agenda della comunicazione - alzassero lo sguardo e dedicassero attenzione ai drammi che si consumano lontano dall’italico ombelico?


Rivoluzione Francese. Fosse comuni scoperte in Vandea - Corrispondenza Romana dal sito http://www.pontifex.roma.it
Le ricerche dell’antropologa Elodie Cabot hanno recentemente portato alla luce nuove, agghiaccianti verità sul genocidio compiuto dai rivoluzionari francesi nella regione della Vandea, i cui abitanti insorsero nel 1793 per difendere il proprio Re e la propria Chiesa. I crimini commessi dai giacobini sono ormai conosciuti da molti per merito di un’accurata opera di ricerca storica, ma raramente anche l’archeologia aveva contribuito a svelare gli aspetti più crudi della repressione rivoluzionaria. La studiosa francese ha infatti scoperto, durante gli scavi condotti nella città di Mans dall’Istituto Nazionale delle Ricerche Archeologiche Preventive, la presenza di ben nove fosse comuni. Al loro interno sono stati rinvenuti centinaia di scheletri che, stando alle dichiarazioni di Elodie Cabot, portano tracce di ferite «da arma bianca al cranio e agli arti» nonché segni di un «accanimento feroce». La violenza rivoluzionaria non si fermò allo sterminio dei soli insorgenti, ...

... ma anche dei loro figli e delle loro mogli: molti degli scheletri contenuti nelle fosse sono, infatti, quelli di bambini di dodici-tredici anni. Sono stati addirittura trovati i resti del corpo di un bimbo di tre anni. Alle donne, affinché non facessero più «nascere briganti» – parole del generale Westermann, incaricato da Parigi della repressione – vennero brutalmente squarciati i ventri.

La reazione a tali scoperte, in Francia, non si è fatta attendere. È sempre la stessa Cabot infatti a rendere noto, su “La Stampa” (20 luglio 2010), che le sue ricerche hanno attirato su di lei accuse e minacce, provenienti soprattutto da Internet. La “libertà, l’uguaglianza e la fraternità” vennero così macchiate in tutta la Francia col sangue di 350.000 morti, di cui 5.000 solo nella città di Mans. Potrà mai la Repubblica riuscire a fare i conti con i crimini commessi in nome della Rivoluzione?
Corrispondenza Romana


Avvenire.it, 3 ottobre 2010 - L'INTERVISTA - «Benedetto parla al cuore - I siciliani lo seguiranno» di Paolo Viana
Ad Agrigento, nel 1993, Giovanni Paolo II esclamò ai giovani: «Voi dovete essere una nuova umanità ricca di promesse e di speranza». Papa Benedetto XVI può dire lo stesso?
Da allora la situazione di povertà dell’isola si è aggravata – risponde Pietro Barcellona, filosofo del diritto, siciliano – ma il popolo siciliano ha un senso del sacro che attende solo di essere risvegliato e il suo carattere lo porta ad affidarsi senza reticenze a chi parla al cuore. In breve, la Sicilia che accoglie Benedetto XVI può dare la sensazione della disperazione ma ha ancora in sé la scintilla della volontà.
Sta dicendo che i siciliani sono disperati?
Questa terra ha perso fiducia in se stessa. La desertificazione morale è sotto gli occhi di tutti, un grande guasto che colpisce i giovani: oggi troppi adolescenti non sanno neanche spiegare cosa sia la religione, mentre noi, negli anni Settanta, la combattevamo (Barcellona è stato dirigente del Pci; ndr) salvo poi prendere atto che la festa patronale era uno dei momenti unificanti di tutto il popolo. L’ignoranza attuale riguarda anche i sentimenti: non ci si innamora ma ci si inonda di sms, non ci si incontra in piazza ma si resta incollati al web e quando si costruisce una famiglia la si sfascia dopo pochi anni. Oggi le giovani generazioni vivono in uno stato di apatia che è peggiore di ogni ateismo. Ci aspettiamo dal Papa un richiamo forte, che risvegli l’amore per la vita.
La Sicilia religiosa e magica di Ernesto De Martino è stata spazzata via dai media?
Una modernizzazione perversa ha devastato anche questa terra che aveva radici familiari e un senso del sacro fortissimi. La Sicilia ha problemi di lavoro, di mafia, tutto vero, ma è stata intaccata la generosità affettiva, la fiducia delle ragazze e dei ragazzi. Il guasto deriva dal rapporto con Dio ed è lì che va riparato.
Non è più urgente riparare l’economia siciliana?
Il Vangelo di Cristo è un Vangelo dei «poveri» ma la povertà che colpisce le popolazioni del Sud va oltre il dato economico: è il segno di un’emarginazione che incide anche sull’amore per la vita e per gli altri. Non si sfameranno i siciliani solo dando loro del pane, perché anche nella preghiera di Gesù Cristo al Padre il pane è richiesto come effetto di una consapevolezza di sé e del proprio rapporto con il Figlio.
In che Dio credono i siciliani?
Sull’isola ebraismo e islam hanno influenzato nei cattolici il modo di concepire il rapporto con Dio. La nostra cultura religiosa è spesso orientata verso un Dio che punisce, un soprannaturale lontano e sconosciuto, tipico di alcune religioni monoteiste ma diverso dal Cristo dell’amore, che mobilita nel credente l’affettività e la cooperazione amorosa. Il rapporto con i Vangeli e il farsi uomo del Figlio di Dio rompono con le tradizioni che rappresentano un Dio lontano al quale offrire sacrifici e penitenze: i Vangeli sono una continua invocazione di amore richiesto e donato, un amore concreto e reale verso una Persona che assume sempre il volto di un uomo o di una donna. L’apatia che isola i giovani è l’ostacolo principale a vivere questa fede.
Il messaggio del Papa è in grado di scalfire questa apatia?
Sono convinto di sì, perché i ragazzi hanno un sesto senso, colgono la credibilità delle parole dette con amore. Attraverso una forte testimonianza affettiva nei confronti delle nuove generazioni, coinvolgendosi nel loro smarrimento esistenziale e nel senso di vuoto, la visita del Papa susciterà una reazione profonda e i siciliani ritroveranno la capacità di guardare alla vita con amore, cercando il sacro, cercando Cristo.
Paolo Viana