Nella rassegna stampa di oggi:
1) BENEDETTO XVI SU SANTA BRIGIDA DI SVEZIA, CO-PATRONA D’EUROPA - Catechesi all'Udienza generale del mercoledì (ZENIT.org)
2) DISCORSO DEL PAPA AL SIMPOSIO INTERNAZIONALE SU ERIK PETERSON (ZENIT.org).
3) Avvenire.it, 28 ottobre 2010 - PER UNA SOCIETA' CHE DIA VALORI E VALORIZZI La vocazione più bella - Francesco D'Agostino
4) GLI ORIENTAMENTI PASTORALI DELLA CHIESA ITALIANA - Educare, compito di tutti – il documento all’indirizzo http://www.chiesacattolica.it/cci_new_v3/allegati/15926/Orientamenti%20pastorali%202010.pdf - Avvenire.it, 28 ottobre 2010
5) Avvenire.it, 28 ottobre 2010 – INTERVISTA - Bagnasco: «Proposte di vita oltre il nichilismo» di Francesco Ognibene
6) BRASILE: ASSASSINATO UN SACERDOTE A FORTALEZA - Josenir Morais Santana era parroco di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso (ZENIT.org)
7) Sarà possibile cambiare le cose? - Autore: Mangiarotti, Don Gabriele Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 26 ottobre 2010
8) Un fondamento per le scelte politiche - di Gianni Letta (©L'Osservatore Romano - 28 ottbre 2010)
9) Editoriale - Da Rimini al Cairo Roberto Fontolan - giovedì 28 ottobre 2010 – il sussidiario.net
10) MEETING CAIRO/ Prove di amicizia tra i popoli Redazione - giovedì 28 ottobre 2010 – il sussidiario.net
11) Cultura - J’ACCUSE/ Barcellona: io, da ex Pci, vi spiego chi è il potere che ci governa Pietro Barcellona - giovedì 28 ottobre 2010 – il sussidiario.net
12) Avvenire.it, 28 ottobre 2010 - LA SCURE SULLE PUBBLICHE NON STATALI Genitori delle paritarie all'attacco: «Verità sui soldi alle statali» - Paolo Ferrario
BENEDETTO XVI SU SANTA BRIGIDA DI SVEZIA, CO-PATRONA D’EUROPA - Catechesi all'Udienza generale del mercoledì (ZENIT.org)
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 27 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il testo dell'intervento pronunciato da Benedetto XVI questo mercoledì durante l'Udienza generale tenutasi in piazza San Pietro.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa si è soffermato sulla figura di santa Brigida di Svezia, Co-patrona d’Europa.
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Cari fratelli e sorelle,
nella fervida vigilia del Grande Giubileo dell’Anno Duemila, il Venerabile Servo di Dio Giovanni Paolo II proclamò santa Brigida di Svezia compatrona di tutta l’Europa. Questa mattina vorrei presentarne la figura, il messaggio, e le ragioni per cui questa santa donna ha molto da insegnare – ancor oggi – alla Chiesa e al mondo.
Conosciamo bene gli avvenimenti della vita di santa Brigida, perché i suoi padri spirituali ne redassero la biografia per promuoverne il processo di canonizzazione subito dopo la morte, avvenuta nel 1373. Brigida era nata settant’anni prima, nel 1303, a Finster, in Svezia, una nazione del Nord-Europa che da tre secoli aveva accolto la fede cristiana con il medesimo entusiasmo con cui la Santa l’aveva ricevuta dai suoi genitori, persone molto pie, appartenenti a nobili famiglie vicine alla Casa regnante.
Possiamo distinguere due periodi nella vita di questa Santa.
Il primo è caratterizzato dalla sua condizione di donna felicemente sposata. Il marito si chiamava Ulf ed era governatore di un importante distretto del regno di Svezia. Il matrimonio durò ventott’anni, fino alla morte di Ulf. Nacquero otto figli, di cui la secondogenita, Karin (Caterina), è venerata come santa. Ciò è un segno eloquente dell’impegno educativo di Brigida nei confronti dei propri figli. Del resto, la sua saggezza pedagogica fu apprezzata a tal punto che il re di Svezia, Magnus, la chiamò a corte per un certo periodo, con lo scopo di introdurre la sua giovane sposa, Bianca di Namur, nella cultura svedese.
Brigida, spiritualmente guidata da un dotto religioso che la iniziò allo studio delle Scritture, esercitò un influsso molto positivo sulla propria famiglia che, grazie alla sua presenza, divenne una vera "chiesa domestica". Insieme con il marito, adottò la Regola dei Terziari francescani. Praticava con generosità opere di carità verso gli indigenti; fondò anche un ospedale. Accanto alla sua sposa, Ulf imparò a migliorare il suo carattere e a progredire nella vita cristiana. Al ritorno da un lungo pellegrinaggio a Santiago di Compostela, effettuato nel 1341 insieme ad altri membri della famiglia, gli sposi maturarono il progetto di vivere in continenza; ma poco tempo dopo, nella pace di un monastero in cui si era ritirato, Ulf concluse la sua vita terrena.
Questo primo periodo della vita di Brigida ci aiuta ad apprezzare quella che oggi potremmo definire un’autentica "spiritualità coniugale": insieme, gli sposi cristiani possono percorrere un cammino di santità, sostenuti dalla grazia del Sacramento del Matrimonio. Non poche volte, proprio come è avvenuto nella vita di santa Brigida e di Ulf, è la donna che con la sua sensibilità religiosa, con la delicatezza e la dolcezza riesce a far percorrere al marito un cammino di fede. Penso con riconoscenza a tante donne che, giorno dopo giorno, ancor oggi illuminano le proprie famiglie con la loro testimonianza di vita cristiana. Possa lo Spirito del Signore suscitare anche oggi la santità degli sposi cristiani, per mostrare al mondo la bellezza del matrimonio vissuto secondo i valori del Vangelo: l’amore, la tenerezza, l’aiuto reciproco, la fecondità nella generazione e nell’educazione dei figli, l’apertura e la solidarietà verso il mondo, la partecipazione alla vita della Chiesa.
Quando Brigida rimase vedova, iniziò il secondo periodo della sua vita. Rinunciò ad altre nozze per approfondire l’unione con il Signore attraverso la preghiera, la penitenza e le opere di carità. Anche le vedove cristiane, dunque, possono trovare in questa Santa un modello da seguire. In effetti, Brigida, alla morte del marito, dopo aver distribuito i propri beni ai poveri, pur senza mai accedere alla consacrazione religiosa, si stabilì presso il monastero cistercense di Alvastra. Qui ebbero inizio le rivelazioni divine, che l’accompagnarono per tutto il resto della sua vita. Esse furono dettate da Brigida ai suoi segretari-confessori, che le tradussero dallo svedese in latino e le raccolsero in un’edizione di otto libri, intitolati Revelationes (Rivelazioni). A questi libri si aggiunge un supplemento, che ha per titolo appunto Revelationes extravagantes (Rivelazioni supplementari).
Le Rivelazioni di santa Brigida presentano un contenuto e uno stile molto vari. A volte la rivelazione si presenta sotto forma di dialoghi fra le Persone divine, la Vergine, i santi e anche i demoni; dialoghi nei quali anche Brigida interviene. Altre volte, invece, si tratta del racconto di una visione particolare; e in altre ancora viene narrato ciò che la Vergine Maria le rivela circa la vita e i misteri del Figlio. Il valore delle Rivelazioni di santa Brigida, talvolta oggetto di qualche dubbio, venne precisato dal Venerabile Giovanni Paolo II nella Lettera Spes Aedificandi: "Riconoscendo la santità di Brigida la Chiesa, pur senza pronunciarsi sulle singole rivelazioni, ha accolto l'autenticità complessiva della sua esperienza interiore" (n. 5).
Di fatto, leggendo queste Rivelazioni siamo interpellati su molti temi importanti. Ad esempio, ritorna frequentemente la descrizione, con dettagli assai realistici, della Passione di Cristo, verso la quale Brigida ebbe sempre una devozione privilegiata, contemplando in essa l’amore infinito di Dio per gli uomini. Sulla bocca del Signore che le parla, ella pone con audacia queste commoventi parole: "O miei amici, Io amo così teneramente le mie pecore che, se fosse possibile, vorrei morire tante altre volte, per ciascuna di esse, di quella stessa morte che ho sofferto per la redenzione di tutte" (Revelationes, Libro I, c. 59). Anche la dolorosa maternità di Maria, che la rese Mediatrice e Madre di misericordia, è un argomento che ricorre spesso nelle Rivelazioni.
Ricevendo questi carismi, Brigida era consapevole di essere destinataria di un dono di grande predilezione da parte del Signore: "Figlia mia – leggiamo nel primo libro delle Rivelazioni –, Io ho scelto te per me, amami con tutto il tuo cuore ... più di tutto ciò che esiste al mondo" (c. 1). Del resto, Brigida sapeva bene, e ne era fermamente convinta, che ogni carisma è destinato ad edificare la Chiesa. Proprio per questo motivo, non poche delle sue rivelazioni erano rivolte, in forma di ammonimenti anche severi, ai credenti del suo tempo, comprese le Autorità religiose e politiche, perché vivessero coerentemente la loro vita cristiana; ma faceva questo sempre con un atteggiamento di rispetto e di fedeltà piena al Magistero della Chiesa, in particolare al Successore dell’Apostolo Pietro.
Nel 1349 Brigida lasciò per sempre la Svezia e si recò in pellegrinaggio a Roma. Non solo intendeva prendere parte al Giubileo del 1350, ma desiderava anche ottenere dal Papa l’approvazione della Regola di un Ordine religioso che intendeva fondare, intitolato al Santo Salvatore, e composto da monaci e monache sotto l’autorità dell’abbadessa. Questo è un elemento che non deve stupirci: nel Medioevo esistevano fondazioni monastiche con un ramo maschile e un ramo femminile, ma con la pratica della stessa regola monastica, che prevedeva la direzione dell’Abbadessa. Di fatto, nella grande tradizione cristiana, alla donna è riconosciuta una dignità propria, e – sempre sull’esempio di Maria, Regina degli Apostoli – un proprio posto nella Chiesa, che, senza coincidere con il sacerdozio ordinato, è altrettanto importante per la crescita spirituale della Comunità. Inoltre, la collaborazione di consacrati e consacrate, sempre nel rispetto della loro specifica vocazione, riveste una grande importanza nel mondo d’oggi.
A Roma, in compagnia della figlia Karin, Brigida si dedicò a una vita di intenso apostolato e di orazione. E da Roma si mosse in pellegrinaggio in vari santuari italiani, in particolare ad Assisi, patria di san Francesco, verso il quale Brigida nutrì sempre grande devozione. Finalmente, nel 1371, coronò il suo più grande desiderio: il viaggio in Terra Santa, dove si recò in compagnia dei suoi figli spirituali, un gruppo che Brigida chiamava "gli amici di Dio".
Durante quegli anni, i Pontefici si trovavano ad Avignone, lontano da Roma: Brigida si rivolse accoratamente a loro, affinché facessero ritorno alla sede di Pietro, nella Città Eterna.
Morì nel 1373, prima che il Papa Gregorio XI tornasse definitivamente a Roma. Fu sepolta provvisoriamente nella chiesa romana di San Lorenzo in Panisperna, ma nel 1374 i suoi figli Birger e Karin la riportarono in patria, nel monastero di Vadstena, sede dell’Ordine religioso fondato da santa Brigida, che conobbe subito una notevole espansione. Nel 1391 il Papa Bonifacio IX la canonizzò solennemente.
La santità di Brigida, caratterizzata dalla molteplicità dei doni e delle esperienze che ho voluto ricordare in questo breve profilo biografico-spirituale, la rende una figura eminente nella storia dell’Europa. Proveniente dalla Scandinavia, santa Brigida testimonia come il cristianesimo abbia profondamente permeato la vita di tutti i popoli di questo Continente. Dichiarandola compatrona d’Europa, il Papa Giovanni Paolo II ha auspicato che santa Brigida – vissuta nel XIV secolo, quando la cristianità occidentale non era ancora ferita dalla divisione – possa intercedere efficacemente presso Dio, per ottenere la grazia tanto attesa della piena unità di tutti i cristiani. Per questa medesima intenzione, che ci sta tanto a cuore, e perché l’Europa sappia sempre alimentarsi dalle proprie radici cristiane, vogliamo pregare, cari fratelli e sorelle, invocando la potente intercessione di santa Brigida di Svezia, fedele discepola di Dio e compatrona d’Europa. Grazie per l’attenzione.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i fedeli della diocesi di Sulmona-Valva, guidati dal Vescovo Mons. Angelo Spina, qui convenuti per ricambiare la visita, che ho avuto la gioia di compiere nella loro terra nello scorso mese di luglio. Cari amici, ancora una volta vi ringrazio per l’affetto con cui mi avete accolto, ed auspico che da quel nostro incontro scaturisca per la vostra Comunità diocesana una rinnovata e generosa adesione a Cristo e alla sua Chiesa. Saluto il pellegrinaggio promosso dalle Suore del Preziosissimo Sangue e guidato dall’Arcivescovo di Vercelli, Mons. Enrico Masseroni, in occasione della beatificazione di Alfonsa Clerici ed esorto ciascuno a proseguire, sull'esempio della nuova Beata, nell'impegno di testimonianza evangelica. Saluto i rappresentanti del Gruppo di preghiera "Madonna Pellegrina di Schoenstatt" di Sant’Angelo di Alife, accompagnati dal loro Pastore, Mons. Valentino Di Cerbo, ed assicuro la mia preghiera perché si rafforzi in ciascuno il fermo desiderio di annunciare a tutti Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo. Saluto le Suore dell’Ordine del Santissimo Salvatore e Santa Brigida – Brigidine, riunite per il loro Capitolo generale e prego il Signore perché da questa assemblea scaturiscano generosi propositi di vita evangelica per l’intero Istituto.
Mi rivolgo, infine, ai giovani, ai malati ed agli sposi novelli. Carissimi, celebreremo domani la festa dei santi Apostoli Simone e Giuda Taddeo. La loro gloriosa testimonianza sostenga voi tutti nel rispondere generosamente alla chiamata del Signore.
[APPELLO DEL SANTO PADRE]
Nelle ultime ore, un nuovo terribile tsunami si è abbattuto sulle coste dell’Indonesia, colpita anche da un’eruzione vulcanica, provocando numerosi morti e dispersi. Ai familiari delle vittime esprimo il più vivo cordoglio per la perdita dei loro cari ed a tutta la popolazione indonesiana assicuro la mia vicinanza e la mia preghiera.
Sono, inoltre, vicino alla cara popolazione del Benin, colpita da continue alluvioni, che hanno lasciato molte persone senza tetto e in precarie situazioni igienico-sanitarie. Sulle vittime e sull’intera Nazione invoco la benedizione ed il conforto del Signore.
Alla comunità internazionale chiedo di prodigarsi per fornire il necessario aiuto e per alleviare le pene di quanti soffrono per queste devastazioni.
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]
DISCORSO DEL PAPA AL SIMPOSIO INTERNAZIONALE SU ERIK PETERSON (ZENIT.org).
ROMA, mercoledì, 27 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI nel ricevere in udienza in Vaticano i partecipanti al Simposio internazionale su Erik Peterson.
* * *
Eminenze,
cari fratelli nel sacerdozio,
gentili Signore e Signori,
cari amici,
con grande gioia saluto tutti Voi che siete venuti qui a Roma in occasione del Simposio internazionale su Erik Peterson. In particolare ringrazio Lei, caro Cardinale Lehmann, per le cordiali parole con cui ha introdotto il nostro incontro.
Come Lei ha affermato, quest’anno ricorrono i 120 anni dalla nascita ad Amburgo di questo illustre teologo; e, quasi in questo stesso giorno di 50 anni fa, il 26 ottobre 1960, Erik Peterson moriva, sempre nella sua città natale di Amburgo. Egli ha abitato qui a Roma, con la sua famiglia, per alcuni periodi a partire dal 1930 e poi vi si è stabilito dal 1933: prima sull’Aventino, vicino a Sant’Anselmo, e, successivamente, nei pressi del Vaticano, in una casa di fronte a Porta Sant’Anna. Per questo, è per me una gioia particolare poter salutare la famiglia Peterson presente tra noi, le stimate figlie e il figlio con le rispettive famiglie. Nel 1990, insieme con il Cardinale Lehmann, ho potuto consegnare a Vostra madre, nel vostro comune appartamento, in occasione del suo 80° compleanno, un autografo con l’immagine di Papa Giovanni Paolo II, e ricordo volentieri questo incontro con Voi.
"Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura" (Eb 13,14). Questa citazione dalla Lettera agli Ebrei, si potrebbe porre come motto della vita di Erik Peterson. In realtà, egli non ha trovato un vero posto in tutta la sua vita, dove poter ottenere riconoscimento e stabile dimora. L’inizio della sua attività scientifica cade in un periodo di rivolgimenti nella Germania dopo la Prima Guerra Mondiale. La monarchia era crollata. L’ordine civile sembrava a rischio di fronte agli sconvolgimenti politici e sociali. Ciò si rifletteva anche nell’ambito religioso, e, in modo particolare, nel protestantesimo tedesco. La teologia liberale fino ad allora predominante, con il proprio ottimismo nel progresso, era entrata in crisi e lasciava spazio a nuove spinte teologiche in contrasto tra loro. La situazione contemporanea poneva un problema esistenziale al giovane Peterson. Con interesse sia storico che teologico, egli aveva già scelto la materia dei suoi studi, come afferma, secondo la prospettiva "che quando rimaniamo soli con la storia umana, ci troviamo davanti ad un enigma senza senso" (Eintrag in das Bonner „Album Professorum" 1926/27, Ausgewählte Schriften, Sonderband S. 111). Peterson, lo cito di nuovo, decise di "lavorare in campo storico e di affrontare specialmente problemi di storia delle religioni", perché nella teologia evangelica di allora egli non riusciva "a farsi strada, nel folto delle opinioni, fino alle cose in se stesse" (ibid.). In questo cammino giunse sempre di più alla certezza che non c’è alcuna storia staccata da Dio e che in questa storia la Chiesa ha un posto speciale e trova il suo significato. Cito di nuovo: "Che la Chiesa c’è e che essa è costituita in un modo tutto particolare, dipende strettamente dal fatto che (…) c’è una determinata storia specificamente teologica" (Vorlesung „Geschichte der Alten Kirche" Bonn 1928, Ausgewählte Schriften, Sonderband S.88). La Chiesa riceve da Dio il mandato di condurre gli uomini dalla loro esistenza limitata e isolata ad una comunione universale, dal naturale al soprannaturale, dalla fugacità al compimento alla fine dei tempi. Nel bel libretto sugli Angeli afferma in proposito: "Il cammino della Chiesa conduce dalla Gerusalemme terrestre a quella celeste, (…) alla città degli Angeli e dei Santi" (Buch von den Engeln, Einleitung).
Il punto di partenza di questo cammino è il carattere vincolante della Sacra Scrittura. Secondo Peterson, la Sacra Scrittura diventa ed è vincolante non in quanto tale, essa non sta solo in se stessa, ma nell’ermeneutica della Tradizione apostolica, che, a sua volta, si concretizza nella successione apostolica e così la Chiesa mantiene la Scrittura in un’attualità viva e contemporaneamente la interpreta. Attraverso i Vescovi, che si trovano nella successione apostolica, la testimonianza della Scrittura rimane viva nella Chiesa e costituisce il fondamento per le convinzioni di fede permanentemente valide della Chiesa, che incontriamo innanzitutto nel credo e nel dogma. Tali convinzioni si dispiegano continuamente nella liturgia quale spazio vissuto della Chiesa per la lode di Dio. L’Ufficio divino celebrato sulla terra si trova, quindi, in una relazione indissolubile con la Gerusalemme celeste: là è offerto a Dio e all’Agnello il vero ed eterno sacrifico di lode, di cui la celebrazione terrena è solamente immagine. Chi partecipa alla Santa Messa si ferma quasi alla soglia della sfera celeste, dalla quale contempla il culto che si compie tra gli Angeli e i Santi. In qualsiasi luogo in cui la Chiesa terrestre intona la sua lode eucaristica, essa si unisce a questa festosa assemblea celeste, nella quale, nei Santi, è già arrivata una parte di se stessa, e dà speranza a quanti sono ancora in cammino su questa terra verso il compimento eterno.
Forse è questo il punto, in cui devo inserire una riflessione personale. Ho scoperto per la prima volta la figura di Erik Peterson nel 1951. Allora ero Cappellano a Bogenhausen e il direttore della locale casa editrice Kösel, il signor Wild, mi diede il volume, appena pubblicato, «Theologische Traktate» (Trattati teologici). Lo lessi con curiosità crescente e mi lasciai davvero appassionare da questo libro, perché lì c’era la teologia che cercavo: una teologia, che impiega tutta la serietà storica per comprendere e studiare i testi, analizzandoli con tutta la serietà della ricerca storica, e che non li lascia rimanere nel passato, ma che, nella sua investigazione, partecipa all’autosuperamento della lettera, entra in questo autosuperamento e si lascia condurre da esso e così viene in contatto con Colui dal quale la teologia stessa proviene: con il Dio vivente. E così lo iato tra il passato, che la filologia analizza, e l’oggi è superato di per se stesso, perché la parola conduce all’incontro con la realtà, e l’attualità intera di quanto è scritto, che trascende se stesso verso la realtà, diventa viva e operante. Così, da lui ho imparato, in modo più essenziale e profondo, che cosa sia realmente la teologia e ho provato perfino ammirazione, perché qui non si dice solo ciò che si pensa, ma questo libro è espressione di un cammino, che era la passione della sua vita.
Paradossalmente, proprio lo scambio di lettere con Harnack esprime al massimo l’improvvisa attenzione, che Peterson stava ricevendo. Harnack ha confermato, anzi aveva scritto già precedentemente e indipendentemente, che il principio formale cattolico secondo cui «la Scrittura vive nella Tradizione e la Tradizione vive nella forma vivente della Successione», è il principio originario e oggettivo e che il «sola Scriptura» non funziona. Peterson ha colto questa affermazione del teologo liberale in tutta la sua serietà e da questa si è fatto scuotere, sconvolgere, piegare, trasformare e così ha trovato la via alla conversione. E con ciò, ha compiuto veramente un passo come Abramo, secondo quanto abbiamo ascoltato all’inizio dalla Lettera agli Ebrei: "Non abbiamo quaggiù una città stabile". Egli è passato dalla sicurezza di una cattedra all’incertezza, senza dimora, ed è rimasto per tutta la vita privo di una base sicura e senza una patria certa, veramente in cammino con la fede e per la fede, nella fiducia che in questo essere in cammino senza dimora era a casa in un altro modo e si avvicinava sempre più alla liturgia celeste, che lo aveva toccato.
Da tutto questo si comprende che molte cose pensate e scritte da Peterson sono rimaste frammentarie a causa della situazione precaria della sua vita, dopo la perdita dell’insegnamento, in seguito alla sua conversione. Ma pur dovendo vivere senza la sicurezza di uno stipendio fisso, si sposò qui a Roma e costituì una famiglia. Con ciò egli ha espresso in modo concreto la sua convinzione interiore che noi, sebbene stranieri - e lui lo era in modo particolare - troviamo tuttavia un sostegno nella comunione dell’amore, e che nell’amore stesso vi è qualcosa che dura per l’eternità. Egli ha vissuto questo essere straniero del cristiano. Era divenuto straniero nella teologia evangelica ed è rimasto straniero anche nella teologia cattolica, come era allora. Oggi sappiamo che egli appartiene a entrambe, che entrambe devono imparare da lui tutto il dramma, il realismo e l’esigenza esistenziale e umana della teologia. Erik Peterson, come ha affermato il Cardinale Lehmann, è stato certamente apprezzato e amato da molti, un autore raccomandato in una cerchia ristretta, ma non ha ricevuto il riconoscimento scientifico che avrebbe meritato; sarebbe stato, in qualche modo, troppo presto. Come ho detto, lui era qui e là [nella teologia cattolica e in quella evangelica] uno straniero. Quindi non si potrà mai lodare abbastanza il Cardinale Lehmann per aver preso l’iniziativa di pubblicare le opere di Peterson in una magnifica edizione completa, e la signora Nichtweiß, alla quale ha affidato questo compito, che ella svolge con ammirevole competenza. Così l’attenzione che gli viene rivolta attraverso questa edizione è più che giusta, considerando che ora varie opere sono state anche tradotte in italiano, francese, spagnolo, inglese, ungherese e perfino in cinese. Auspico che con questo sia diffuso ulteriormente il pensiero di Peterson, che non si ferma nei dettagli, ma che ha sempre una visione dell’insieme della teologia.
Di cuore ringrazio tutti i presenti per essere venuti. Il mio ringraziamento particolare agli organizzatori di questo Simposio, soprattutto al Cardinale Farina, il Patrono di questo evento, e al Dottor Giancarlo Caronello. Volentieri rivolgo i miei migliori auguri per una discussione interessante e stimolante nello spirito di Erik Peterson. Aspetto abbondanti frutti da tale Convegno, e imparto a tutti Voi e a quanti Vi stanno a cuore la Benedizione Apostolica.
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]
Avvenire.it, 28 ottobre 2010 - PER UNA SOCIETA' CHE DIA VALORI E VALORIZZI La vocazione più bella - Francesco D'Agostino
Strano tempo, il nostro. Da una parte si vuole destrutturare ogni istanza pedagogica, arrivando a teorizzare che l’educazione è una missione impossibile, che ogni forma di disciplina familiare e scolastica è repressiva, che mai e poi mai bisogna forzare la spontaneità infantile e adolescenziale e che le stesse materie di insegnamento veicolano contenuti necessariamente arbitrari e ideologici. Dall’altra si prende atto con sconforto, se non con angoscia, che la crisi valoriale sta dilagando, che vengono progressivamente meno sentimenti e valori condivisi tra le generazioni, che cresce il degrado delle istituzioni scolastiche e universitarie e aumenta la disaffezione dei docenti all’insegnamento.
L’urgenza di fronteggiare una tale situazione schizofrenica è avvertita da tutti, ma è paralizzata dall’idea che quello di una "vita buona" sia un ideale irrealizzabile, o, peggio ancora, che non esista un unico, vero modello di vita buona da proporre pedagogicamente alle nuove generazioni.
È in questa chiave che vanno letti e meditati gli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020 che vengono proposti all’attenzione di tutti dalla Conferenza episcopale italiana e attraverso i quali la Cei risponde con parole di impegno e di speranza a una situazione che molti qualificano ormai come disperata. Orientamenti pensati per un decennio di intenso lavoro: un programma già solo per questo coraggioso, perché rinuncia a ipotizzare interventi di breve periodo, per una questione così incancrenita e che solo in periodi medi e lunghi si può sperare che venga adeguatamente fronteggiata.
Quello della Cei è un programma intelligente e realistico, sotto diversi profili. In primo luogo perché è offerto all’attenzione di tutti e non solo dei credenti, nella convinzione che il problema educativo non sia un problema strettamente confessionale, ma antropologico, nel senso più ampio del termine e tale quindi da coinvolgere tutti gli uomini di buona volontà, credenti e non credenti. In secondo luogo perché percepisce la piena corrispondenza che esiste tra relazione generativa e relazione educativa: solo una società che sa dare valore alla generatività ed è capace di dire di sì alla vita può trovare in se stessa la forza necessaria per educare le nuove generazioni. In terzo luogo perché ribadisce come la buona novella evangelica sia intrinsecamente pedagogica e come non sia lecito né "imporla" al mondo (secondo l’eterna tentazione fondamentalistica), né "adattarla" al mondo (secondo la più recente, ma comunque ormai radicata, tentazione modernista): bisogna piuttosto (per usare le parole del Papa) attingere al Vangelo la capacità di comprendere il mondo (e soprattutto quello attuale) tenendo nel giusto equilibrio le istanze del passato e le esigenze del futuro. Colui che "fa nuove tutte le cose" non agisce distruggendo il bene passato, ma dandogli nuova linfa vitale, trasfigurandolo. Questa è, in buona sostanza, l’unica forma di impegno educativo che abbia un senso e che giustifichi quella passione per l’educazione che induce tanti a ritenere che la vocazione educativa sia la più bella del mondo.
Anche sotto un altro profilo gli Orientamenti pastorali sono coraggiosi, nel ribadire come la trasmissione della fede sia parte irrinunciabile della formazione integrale della persona. Qualche laicista sciocco penserà che in tal modo la Chiesa altro non faccia che tornare a legittimare se stessa come "agenzia educativa fondamentale". Anche se questo retropensiero fosse presente (ma non c’è) negli Orientamenti pastorali, la questione è un’altra. Tramontata l’illusione che la fede religiosa sia un’esigenza premoderna, destinata a dissolversi in un mondo globalizzato e tecnicizzato, resta come punto fermo che la vocazione alla realizzazione di un bene trascendente e assoluto, che caratterizza ogni fede, se non viene presentata, offerta, spiegata ai giovani può gravemente alterarsi e deformarsi in mille forme, da quelle semplicemente stravaganti a quelle più gravemente aberranti. L’educazione pubblica, nei sistemi pluralistici moderni, non può certamente avere carattere confessionale, ma non può nemmeno ignorare la vocazione per la verità del bene che è presente in ogni uomo, fin dalla sua infanzia. Rispettare e orientare questa vocazione, perché si ponga al servizio del bene umano universale, ripudiando la tentazione del relativismo, è la parte più complessa di ogni progetto educativo, ma ne è anche una parte irrinunciabile.
Per riprendere alcune tra le più belle espressioni del documento della Cei, tra chi annuncia la buona novella e chi educa «c’è la medesima sollecitudine verso la persona, c’è un’analoga volontà di farsene con amore e premura costante, perché sboccino, nella libertà, tutte le sue potenzialità».
4) GLI ORIENTAMENTI PASTORALI DELLA CHIESA ITALIANA - Educare, compito di tutti – il documento all’indirizzo http://www.chiesacattolica.it/cci_new_v3/allegati/15926/Orientamenti%20pastorali%202010.pdf - Avvenire.it, 28 ottobre 2010
Con la pubblicazione, oggi, degli Orientamenti pastorali "Educare alla vita buona del Vangelo" per il decennio 2010-2020, la Chiesa italiana compie la scelta di un tema quantomai attuale e urgente che spinge le comunità e i cattolici a un rinnovato impegno. Ma chiama anche in causa tutta la società su una questione decisiva.
Il documento
"Educare alla vita buona del Vangelo" è un documento in cinque capitoli più un’introduzione e una preghiera conclusiva di affidamento a Maria. Gli "Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il decennio 2010-2020" si aprono con la presentazione del cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei; in appendice il discorso di Benedetto XVI alla 61ª assemblea generale della Cei (27 maggio 2010). In totale 56 paragrafi, i primi sei per l’introduzione. La prima parte, Educare in un mondo che cambia, fa riferimento all’«opera educativa della Chiesa strettamente legata al momento e al contesto in cui essa si trova a vivere, alle dinamiche culturali di cui è parte e che vuole contribuire a orientare», e invita al discernimento credente circa la situazione dell’educazione segnalando criticità e attese.
Il secondo capitolo – Gesù, il Maestro – presenta lo sfondo teologico-biblico della visione cristiana dell’educazione, centrata sull’esempio e l’insegnamento di Gesù, non un ma il Maestro: «La sua autorità, grazie alla presenza dinamica dello Spirito, raggiunge il cuore e ci forma interiormente, aiutandoci a gestire, nei modi e nelle forme più idonee, anche i problemi educativi» (n. 16). La terza parte – Educare, cammino di relazione e di fiducia – spiega come il compito educativo debba generare persone mature attraverso un percorso centrato sui formatori e la relazione educativa: «Siamo coinvolti nell’opera educatrice del Padre e siamo generati come uomini nuovi, capaci di stabilire relazioni vere con ogni persona. È questo il punto di partenza e il cuore di ogni azione educativa» (n. 25).
Il quarto capitolo – La Chiesa, comunità educante – fornisce indicazioni pastorali che sottolineano il ruolo di famiglia, parrocchia e scuola, senza dimenticare l’influsso educativo dell’ambiente sociale e, in particolare, della comunicazione nella cultura digitale. «L’impegno educativo sul versante della nuova cultura mediatica – si legge al paragrafo 51 – dovrà costituire negli anni a venire un ambito privilegiato per la missione della Chiesa».
Il quinto capitolo – Indicazioni per la progettazione pastorale – suggerisce «alcune linee di fondo, perché ogni Chiesa particolare possa progettare il proprio cammino pastorale in sintonia con gli orientamenti nazionali. La condivisione di queste prospettive, accolte e sviluppate a livello locale, favorirà l’azione concorde delle comunità ecclesiali».
Dagli anni Settanta un percorso lineare
Gli Orientamenti 2010-2020 «Educare alla vita buona del Vangelo» intendono offrire alcune linee di fondo per la pastorale di tutta la Chiesa italiana. La pubblicazione di un documento che sia espressione dell’intero episcopato ha fornito negli ultimi quarant’anni alla comunità ecclesiale italiana uno spunto unitario di riflessione e di azione. È negli anni Settanta col documento dal titolo «Evangelizzazione e sacramenti» che si dà avvio a questo percorso comune. La scelta di adottare un testo di riferimento unitario dà avvio alla stagione dei convegni ecclesiali nazionali, anch’essi a cadenza decennale: il primo si apre a Roma nell’ottobre del ’76. Successivamente è la volta di «Comunione e comunità» varato per gli anni ’80, sulla scia del quale viene organizzato il convegno ecclesiale di Loreto (9-13 aprile 1985). Gli anni ’90 sono segnati da «Evangelizzazione e testimonianza della carità», bussola per il convegno ecclesiale di Palermo (20-24 novembre 1995). Gli anni Duemila si aprono con gli Orientamenti dal titolo «Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia», intrecciati con il convegno ecclesiale nazionale di Verona (16-20 ottobre 2006). La scelta di dedicare un’attenzione specifica al campo educativo affonda le radici proprio in quel 4° convegno ecclesiale.
Avvenire.it, 28 ottobre 2010 – INTERVISTA - Bagnasco: «Proposte di vita oltre il nichilismo» di Francesco Ognibene
«Una sfida culturale e un segno dei tempi»: così il cardinale Angelo Bagnasco definisce l’educazione – «arte delicata e sublime» – nella presentazione degli Orientamenti pastorali del nostro episcopato per il nuovo decennio. Con "Educare alla vita buona del Vangelo" – il cui testo integrale pubblichiamo oggi – la Chiesa italiana compie una scelta tematica forte e impegnativa. Che il presidente della Cei spiega ad Avvenire nelle sue molteplici implicazioni.
Eminenza, perché l’educazione come tema di riferimento per l’attività pastorale della Chiesa italiana?
«Si riparte dall’educare per una serie di ragioni convergenti. Anzitutto perché dopo il decennio dedicato a "Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia" è sembrato naturale mettere al centro l’educazione, giacché la fede è la proposta di una sequela che cambia l’uomo e lo rende ancora più umano. Non a caso il Vaticano II dice che "chi segue Cristo, l’uomo perfetto, si fa lui pure più uomo". Come pastori, abitualmente accanto alla gente, percepiamo ogni giorno di più che c’è una pressante richiesta di umanizzare l’ambiente sociale, di ricostruire punti di riferimento valoriali e testimoniali. E questo richiede di "strappare" l’uomo dal torpore, richiamandolo all’essere. Questo è precisamente il compito educativo, a cui peraltro il Santo Padre ci richiama da tempo con alcuni suoi puntuali e lucidi interventi che hanno reso ancor più evidente la posta in gioco della cosiddetta "emergenza educativa". Del resto la scelta del prossimo decennio non è una novità assoluta. Da sempre la missione ecclesiale ha un’inconfondibile cifra educativa. Ci sono infatti un’esperienza e un patrimonio che la Chiesa sente di dover mettere a disposizione di tutti».
La questione educativa è un tema che interessa da vicino tutta la società, e dunque parla non solo ai cattolici. Le sembra che nel Paese sia percepita l’importanza di questa sfida?
«A me pare proprio di sì. Anzi ne sono personalmente convinto. Da quello che scorgo nelle visite pastorali, mi pare di cogliere un desiderio sincero che appartiene a tanti, anche lontani dalla vita ecclesiale. Emerge, cioè, sempre di più il desiderio che si riprenda a fare una proposta di vita, che si superi quell’atteggiamento rinunciatario per cui nessuno ha più niente da dire o da insegnare, che si reagisca a quella rassegnazione che sembra essere una moderna ripresentazione del fatalismo pagano, per cui tanto non possiamo nulla rispetto a quello che ci accade. Recenti episodi di cronaca nera, peraltro sempre presenti nella società, confermano la serietà della posta in gioco e sembrano reclamare una risposta adeguata che non può essere improvvisata, ma richiede un investimento di lungo periodo. Infatti la vita, in certi momenti, può chiedere di improvvisare, ma l’uomo, per improvvisare, non può essere improvvisato, deve essere pronto, formato».
Quando si parla di educazione, il pensiero va ai più giovani. Qual è la strada per educare oggi le nuove generazioni?
«L’atmosfera culturale oggi prevalente è segnata dal nulla. Nulla di senso, nulla di valore, nulla di rapporti veri e costruttivi. È il nichilismo. Ma la vita chiede il contrario. Infatti chiede semplicemente di essere guardata, compresa, accolta con responsabilità. Educare vuol dire aprirsi alla vita. Ciò evidentemente non è senza conseguenze. Ci vuole infatti la libertà. Si nasce liberi, è vero, ma bisogna imparare a essere liberi, altrimenti si pensa che la libertà sia fare tutto ciò che si vuole. La libertà invece è autodominio e responsabilità, è rispondere delle proprie scelte, e rispondere significa che c’è qualcuno attorno a noi, che si è sempre insieme ad altri, che le scelte sono personali ma mai individualistiche e indifferenti in forza dei rapporti che si vivono. La strada dunque è recuperare il gusto della verità e al tempo stesso il sapore della libertà. La verità infatti esige una ricerca disinteressata che non teme la fatica e il sacrificio, perché onestà vuole che ci si lasci giudicare dalla verità piuttosto che essere noi a costruirla su misura dei nostri bisogni, spesso indotti».
L’emergenza educativa riguarda anche gli adulti, apparentemente a corto di modelli educativi, e loro stessi in difficoltà nel porsi come modelli credibili e autorevoli. Come si può rinnovare nelle figure educative la consapevolezza delle proprie responsabilità, perché non" rinuncino" ad educare?
«Gli adulti per primi devono recuperare la fiducia nella vita e nel futuro e credere che educare non solo è doveroso ma ancor prima è possibile. È questa l’autorevolezza che ci si attende dagli adulti e che rispetto ai figli non teme di apparire superata. In concreto vuol dire imbattersi in adulti che si giocano nel rapporto educativo e non giocano a fare gli "amiconi". Educare, d’altra parte, richiede una relazione esplicita perché la generazione non è semplice trasmissione di contenuti, ma chiama in causa la vita. Il senso di abbandono e di solitudine, che spesso caratterizza il vissuto giovanile, a me pare il segno del rarefarsi di presenze adulte significative, di punti di riferimento rassicuranti. Così facendo si privano le giovani generazioni della fiducia, tanto che molti di loro sono portati a percepire il futuro più come una minaccia che come una promessa. Oggi i giovani si aspettano dagli adulti non l’abbandono, ma la presa in carico, anche quando questo dovesse comportare tensione e contrapposizione. Penso poi che gli adulti debbano intensificare le alleanze tra diversi soggetti educativi. I preti devono sentire i genitori come interlocutori e viceversa, così come tra docenti e famiglia il rapporto va sostenuto e non evitato. La tentazione di scaricare la responsabilità sugli altri non è intelligente, e non aiuta di certo a fare la propria parte con serenità».
Gli Orientamenti parlano anzitutto alla Chiesa italiana: cosa si attende da diocesi, parrocchie e aggregazioni laicali sul fronte educativo?
«Forse anche la comunità cristiana può fare di più, senza lasciarsi sopraffare dalla sensazione che sia impossibile una proposta educativa seria. Al contrario la parrocchia, le associazioni i gruppi e i movimenti laicali devono far riferimento anzitutto alla propria storia e ai grandi santi dell’educazione, che hanno operato in tempi diversi ma sicuramente non meno difficili e complessi di quelli di oggi: a ogni stagione la Chiesa ha saputo far emergere carismi e talenti educativi in grado di rispondere alle condizioni sociali e culturali, senza mai rinunciare al compito dell’evangelizzazione. Su un altro fronte si richiede oggi un’avvertenza esplicita: fare più rete. Ci vuole dunque una maggiore collaborazione e intesa tra i diversi educatori della comunità cristiana: non è pensabile che i catechisti se ne stiano da una parte e gli operatori della Caritas o quelli che fanno sport da un’altra, quasi che non avessero nulla da condividere della stessa passione educativa. In fondo le persone che ci sono affidate non sono scomponibili, e la proposta, per essere vincente, deve poter essere integrale, cioè rivolgersi all’uomo in tutte le sue dimensioni».
Tra i tanti nodi educativi che si impongono, figura la formazione dei credenti a una coscienza che percepisca la centralità di quelli che il Papa e lei stesso, nel corso della recente Settimana Sociale, avete nuovamente definito come principi sui quali non è possibile alcuna mediazione. Come si affronta questo punto nevralgico in una società intrisa di relativismo culturale?
«Su molte cose è possibile, anzi, è bene che si operi una buona mediazione; ma ci sono pure questioni e valori per i quali questo non è possibile, pena la distruzione dei valori stessi. Come è noto, la luce della Rivelazione giunge all’uomo attraverso la duplice fonte della Scrittura e della Tradizione. Pertanto la Chiesa è parte integrante della crescita della fede e di ogni esperienza educativa: grazie alla sua voce il credente è aiutato a discernere nelle circostanze sempre mutevoli l’attualità della Parola. Insieme alla via della fede oggi, poi, è necessario re-imparare la via della ragione per cogliere nell’essere dell’uomo, in quella che viene definita la "natura umana", i valori e i diritti fondamentali quelli, costitutivi della sua dignità. Su questa duplice via della fede e della ragione è possibile ritrovare il fondamento ultimo di ogni educazione veramente integrale».
Un’altra agenzia educativa oggi sotto esame è la famiglia, fattore ancora decisivo nella tenuta sociale del nostro Paese. In che modo gli Orientamenti la riguardano, e come possono essere letti, accolti e tradotti da una famiglia?
«Gli Orientamenti riaffermano la centralità unica e irripetibile della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna. Essa è e resta la cellula fondamentale della società in quanto è il grembo della vita, la prima scuola di umanesimo e, per chi crede, la sorgente della fede. L’incontro tra le diverse generazioni, che avviene nel cuore della famiglia, aiuta il giovane a scoprire e a gustare i valori della tradizione, della relazione, dell’autentica libertà e dell’amore. È nella famiglia che si fa l’esperienza della fiducia data e ricevuta e dell’amore come dono di sé; è nella famiglia – come afferma Papa Benedetto – che si plasma il volto di un popolo.
E in che modo gli Orientamenti "parlano" alla scuola?
«La scuola è un soggetto educativo di eccezionale valore, verso il quale la Chiesa guarda con estrema attenzione e rinnovata fiducia. Come nella più consolidata esperienza del nostro Paese, la Chiesa auspica una collaborazione sincera tra tutte le realtà (famiglia, scuola, comunità) perché nel rispetto delle competenze si realizzi un’alleanza in favore dell’educazione integrale. La scuola cattolica si inserisce in tale contesto, essendo – come è a tutti noto – una scuola pubblica e non privata, aperta dunque a tutti e con un profilo originale rispetto all’offerta formativa. Ciò che conta è aiutare tutti insieme la crescita di una comunità educante, cioè di un’atmosfera positiva che sappia generare uomini saggi e, quel che più conta, persone buone. Così, di generazione in generazione, si rinnova l’esperienza dell’educare che consiste nel riappropriarsi della libertà: per noi credenti, la libertà dei figli di Dio».
BRASILE: ASSASSINATO UN SACERDOTE A FORTALEZA - Josenir Morais Santana era parroco di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso (ZENIT.org)
FORTALEZA, mercoledì, 27 ottobre 2010 (ZENIT.org).- E' stato trovato morto nella sua automobile, all'alba di questo lunedì a São Luís do Curu (a 77 chilometri da Fortaleza, nel nord-est del Brasile), padre Josenir Morais Santana, 48 anni, parroco della chiesa di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso.
Il sacerdote è morto per un colpo di arma da fuoco dopo aver partecipato a una festa nella città di São Luís do Curu.
Il proiettile è penetrato nella schiena del presbitero raggiungendo il cuore.
Sul caso stanno indagando la Divisione per gli Omicidi e l'Unità di Sicurezza Integrata di São Gonçalo do Amarante. Secondo la polizia, non ci sono ancora persone sospette.
In una nota, l'Arcidiocesi di Fortaleza informa che padre Josenir era stato ordinato sacerdote nel 1995.
“Noto per la sua semplicità”, spiccava per “il suo impegno sacerdotale, il suo dinamismo e la sua creatività”.
Il corpo del sacerdote è stato vegliato nella parrocchia di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso durante la notte ed è stato seppellito questo martedì mattina.
Sarà possibile cambiare le cose? - Autore: Mangiarotti, Don Gabriele Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 26 ottobre 2010
«Ci sono migliaia di stelle marine su questa spiaggia, non puoi salvarle tutte, e lo stesso succede su tante altre spiagge. Inutile, non puoi cambiare le cose». Il bambino si chinò a raccogliere un’altra stella e gettandola in acqua rispose: «Ho cambiato le cose per questa qui»
Ho pensato molto prima di scrivere questo editoriale, perché c’erano (e ci sono) due aspetti che in questi giorni mi colpiscono della realtà che ci circonda: da un lato la questione del bene, nel senso che diventa sempre più insopportabile un mondo dei mass-media che sa solo comunicare il male, il negativo, con un compiacimento morboso e inutile. Non voglio guardare la TV o ascoltare le notizie in modo da dovere essere io il giudice, quasi che mi si chieda ogni volta di individuare e condannare il colpevole.
Dall’altro lato il problema del politically correct, per cui di certe questioni, come del rapporto con l’islam, bisogna parlare solo in certi termini.
E allora ho letto quanto ha detto a proposito dell’islam il Vescovo libanese Raboula Antoine Beylouni, censurato persino dall’Osservatore Romano. Ciò che dice mi pare tra l’altro in sintonia con quello che andiamo pubblicando sul sito, sperando che i rapporti tra gli uomini delle religioni sappiano trovare ragioni di rispetto, nell’assoluta consapevolezza che «solo la verità ci farà liberi».
Riporto quanto affermato (e censurato), per amore di verità:
«Ecco le difficoltà con cui ci confrontiamo. Il Corano inculca al musulmano l’orgoglio di possedere la sola religione vera e completa, religione insegnata dal più grande profeta, poiché è l’ultimo venuto. Il musulmano fa parte della nazione privilegiata e parla la lingua di Dio, la lingua del paradiso, l’arabo. Per questo affronta il dialogo con questa superiorità e con la certezza della vittoria.
Il Corano, che si suppone scritto da Dio stesso da cima a fondo, dà lo stesso valore a tutto ciò che vi è scritto: il dogma come qualunque altra legge o pratica.
Nel Corano non c’è uguaglianza tra uomo e donna, né nel matrimonio stesso in cui l’uomo può avere più donne e divorziare a suo piacimento, né nell’eredità in cui l’uomo ha diritto a una doppia parte, né nella testimonianza davanti ai giudici in cui la voce dell’uomo equivale a quella di due donne ecc.
Il Corano permette al musulmano di nascondere la verità al cristiano e di parlare e agire in contrasto con ciò che pensa e crede.
Nel Corano vi sono versetti contraddittori e versetti annullati da altri, cosa che permette al musulmano di usare l’uno o l’altro a suo vantaggio; così può considerare il cristiano umile, pio e credente in Dio ma anche considerarlo empio, rinnegato e idolatra.
Il Corano dà al musulmano il diritto di giudicare i cristiani e di ucciderli con la jihad (guerra santa). Ordina di imporre la religione con la forza, con la spada. La storia delle invasioni lo testimonia. Per questo i musulmani non riconoscono la libertà religiosa, né per loro né per gli altri. Non stupisce vedere tutti i paesi arabi e musulmani rifiutarsi di applicare integralmente i “Diritti umani” sanciti dalle Nazioni Unite.
Di fronte a tutti questi divieti e simili argomenti dobbiamo eliminare il dialogo? No, sicuramente no» […] «Peggio ancora, talvolta ci sono interlocutori del clero che, nel dialogo, per guadagnarsi la simpatia del musulmano chiamano Maometto profeta e aggiungono la famosa invocazione musulmana spesso ripetuta “Salla lahou alayhi wa sallam” (che la pace e la benedizione di Dio siano su di lui).»
E non posso che riportare, come motivo e ragione di speranza, quanto Margherita Coletta, nel bel libro di Lucia Bellaspiga Il seme di Nassiriya, ha raccontato per indicare quello che a lei sembra essere il cammino giusto per una autentica convivenza umana. Mi auguro che sia di stimolo a tutti coloro che non si rassegnano e che desiderano essere nella vita protagonisti:
«Un giorno una tempesta terribile si abbatté sulla costa, scaraventando sulla riva migliaia e migliaia di stelle marine che restavano immobili e morivano sulla spiaggia. Tutti stavano a guardare esterrefatti e nessuno faceva niente. Tra la gente, tenuto per mano dal papà, c’era anche un bambino che fissava le piccole stelle di mare. All’improvviso lasciò la mano del padre, si chinò, ne raccolse tre e le riportò in acqua, poi corse indietro e ripetè la cosa... Un uomo che era lì gli disse: «Ci sono migliaia di stelle marine su questa spiaggia, non puoi salvarle tutte, e lo stesso succede su tante altre spiagge. Inutile, non puoi cambiare le cose». Il bambino si chinò a raccogliere un’altra stella e gettandola in acqua rispose: «Ho cambiato le cose per questa qui». L’uomo fece lo stesso... Poi furono in quattro, poi in cento, poi migliaia di persone che buttavano stelle di mare in acqua.»
Noi, col sito CulturaCattolica.it, vogliamo essere come quel bambino, ingenuo certamente, ma l’unico capace di fare andare avanti il mondo, consapevoli che, come dice il poeta francese Charles Péguy, «Per sperare, bimba mia, bisogna essere molto felici, bisogna aver ottenuto, ricevuto una grande grazia» (Il portico del mistero della seconda virtù, in I Misteri, Jaca Book, 1997, p. 167): quell’incontro che è la certezza di una presenza, della grande Presenza di Gesù.
Un fondamento per le scelte politiche - di Gianni Letta (©L'Osservatore Romano - 28 ottbre 2010)
Un'immagine immediatamente rende il significato e l'importanza che non solo il mondo della cultura e la comunità scientifica riconoscono al pensiero di Benedetto XVI. È questa: nella Westminster Hall, la prestigiosa sala all'interno del più antico Parlamento del mondo, il Papa teologo si rivolge all'intera classe dirigente del Regno Unito venuta ad ascoltarlo in occasione del suo recente viaggio in Gran Bretagna.
Nella prefazione del curatore dell'edizione tedesca dell'Opera omnia, il vescovo di Ratisbona, monsignor Gerhard Müller, nota autorevolmente come al centro del pensiero del Papa stia la questione del rapporto tra fede e ragione. Ma l'affermazione dell'interdipendenza necessaria tra ratio e religione in Joseph Ratzinger irriga e dà vita non solo al campo degli studi teologici ma anche agli altri del pensare e dell'agire umano, e non ultimo a quell'agire politico che aspira alla realizzazione del bene comune. Ed infatti quando il Papa ci invita a non prescindere dalla cooperazione tra fede e ragione nella sfera pubblica, egli ci parla di una religione che rinuncia al tentativo di imporre un proprio predominio ma che, allo stesso tempo, non vuole colpevolmente sottrarsi dal contribuire al bene dell'intera nazione.
Illuminante, in questo senso, un passo del discorso nella Westminster Hall. Dice il Papa: "La questione centrale in gioco, dunque, è la seguente: dove può essere trovato il fondamento etico per le scelte politiche? La tradizione cattolica sostiene che le norme obbiettive che governano il retto agire sono accessibili alla ragione, prescindendo dal contenuto della rivelazione. Secondo questa comprensione, il ruolo della religione nel dibattito politico non è tanto quello di fornire tali norme, come se esse non potessero esser conosciute dai non credenti - ancor meno è quello di proporre soluzioni politiche concrete, cosa che è del tutto al di fuori della competenza della religione - bensì piuttosto di aiutare nel purificare e gettare luce sull'applicazione della ragione nella scoperta dei principi morali oggettivi".
Il collegamento tra mondo della fede e mondo della ragione è uno dei fili rossi che attraversa il volume xi dell'Opera omnia di Joseph Ratzinger, Teologia della Liturgia. Ma proprio per quella tensione alla totalità e insieme per quella passione per l'uomo, per ogni uomo, che caratterizza il pensare e l'agire di Joseph Ratzinger, anche in questo volume il grande teologo non rifugge mai, quando il tema gliene dà occasione, di riflettere sulla questione della corretta trasposizione della fede nella vita pubblica.
Mi limito a un esempio. Nel 2001 l'allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede è chiamato a presenziare alla celebrazione del Congresso eucaristico diocesano di Benevento e a riflettere sulle tre parole-guida che quell'assise ha posto a tema: Eucaristia, Comunione e Solidarietà. A Joseph Ratzinger sta a cuore mostrare quanto sia errata l'idea, maturata in alcuni ambienti del primo socialismo, per la quale la parola solidarietà diveniva la nuova, razionale e realmente efficace risposta al problema sociale proprio perché in contrapposizione alla caritas, all'idea cristiana di amore. All'origine della solidarietà, scrive invece Ratzinger, "all'origine di quel farsi garanti gli uni per gli altri, i sani per i malati, i ricchi per i poveri, i continenti del nord e del sud, nella consapevolezza della reciproca responsabilità" sta il riconoscimento della pari, assoluta dignità di ognuno, la cui base incrollabile tuttavia è il riconoscimento che Dio stesso, amorevolmente, ha creato ogni uomo a sua immagine e somiglianza. Oscurato il legame che unisce la creatura al Creatore, dice Joseph Ratzinger, svanisce anche ciò che in ultimo legittima l'idea di dignità umana; e col venir meno di essa, è tolta alla retta convivenza civile la fonte alla quale si abbevera, al sistema democratico la pietra angolare sul quale si regge: "Se la globalizzazione nell'ambito della tecnica e dell'economia - conclude - non sarà accompagnata da una nuova apertura della coscienza verso quel Dio davanti al quale tutti siamo responsabili, allora finirà nella catastrofe".
Quella del 2001 è una affermazione davvero profetica, se si pensa alla gigantesca crisi finanziaria che quasi dieci anni più tardi avrà conseguenze drammatiche sulla vita quotidiana di centinaia di milioni di persone nell'intero pianeta. Siamo giunti così all'analisi delle questioni della più stringente attualità e, insieme, ancora una volta, al tema dell'indispensabile armonia tra fede e ragione, ovvero dei pericoli che scaturiscono da una teoria e da una prassi sociale che non tengono conto di Dio. Da qui il profondo convincimento del grande teologo che "non basta trasmettere capacità tecnica, conoscenza razionale e teoria o anche prassi di determinate strutture politiche. Tutto ciò non serve, anzi è perfino dannoso, se non vengono suscitate anche le forze spirituali che danno senso a queste tecniche e strutture e rendono possibile un loro uso responsabile".
Quest'appello di Joseph Ratzinger del 2001 risuona nelle parole pronunziate da Benedetto XVI alla Westminster Hall, in quell'invito rivolto a tutti gli uomini di buona volontà ad accettare il ruolo "correttivo" che la religione può svolgere nei confronti della ragione per affrontare le grandi sfide che il nostro tempo ci pone.
Editoriale - Da Rimini al Cairo Roberto Fontolan - giovedì 28 ottobre 2010 – il sussidiario.net
Quasi sempre le grandi storie cominciano da episodi piccoli, intimi, ininfluenti al di là del nostro misurabile giardinetto di sentimenti e occasioni. Due persone si erano conosciute anni fa al Cairo, per una banale circostanza di studio. Un italiano, cattolico, e un egiziano, musulmano. Simpatia e poi amicizia, scambio, condivisione. Viaggi in Italia e in Egitto, coinvolgimento di altri. Il giardino si allarga, non bastano più quattro passi per girarlo tutto.
Un giorno Wael Farouq, l’egiziano, arriva al Meeting di Rimini. E’ un professore, è giovane, sposato con una diplomatica, ha già visto tante cose. Ma nulla, proprio nulla, lo ha mai sbalordito come quel tour in riva all’Adriatico. Tante idee gli frullano in testa. Rispondere a quello sbalordimento, mettere in moto qualcosa per raccontarlo, per comunicarlo.
Dall’estetica all’etica: il professor Wael sa e insieme scopre che le cose della vita funzionano così. Crea un centro culturale, pubblica l’edizione egiziana del Senso Religioso di don Giussani, torna al Meeting e si porta dietro altri amici. Dal niente, letteralmente, organizza alla Biblioteca di Alessandria la presentazione del libro. Un evento che ha dell’incredibile.
Nel mitico tempio della cultura voluto dal presidente Mubarak per evocare la meraviglia dell’antichità mediterranea e cosmopolita, un centro del mondo intellettuale che neanche Atene e Roma, il professor Wael porta giudici e poeti, giovani e religiosi a discutere di un testo di un sacerdote cristiano, mai sentito nominare.
Non è assurdo? I capi della Biblioteca, riedificata nel 2000 con sfarzo di marmi italiani e sobrio gusto architettonico francese, si convincono finalmente di avere fatto una buona scelta nell’aver ceduto all’energia incontrollabile del professore. Il gruppetto degli amici italiani catapultati nella città patria di Ungaretti non riesce a spiegarsi la faccenda. Che ci facciamo qui? Cosa sta accadendo qui? La ragione e le ragioni si devono allargare, trovare un’altra misura. Ma quella di Alessandria è soltanto una tappa del viaggio di Wael.
Libri, scambi, visite, progetti, si inseguono a ritmi vorticosi. Intanto un gruppo di studenti universitari si mette a studiare l’arabo, alcuni passano periodi al Cairo. Rimini, nella settimana del Meeting, è praticamente gemellata con la capitale dell’Egitto. Wael ci viene insieme ai suoi amici, un giudice, un uomo di impresa, una signora di altissima responsabilità, membro della Corte Costituzionale del Paese. Anche loro restano contagiati.
Da Wael, dagli amici italo-egiziani-cristiani-musulmani di Wael, dal Meeting dell’amicizia tra i popoli (e soprattutto tra le persone). Frullano altre idee. Negli ultimi mesi lo stesso manipolo sì è gettato a capofitto nella nuova impresa congegnata dal professore. Ha preparato volantini, telefonato, fatto incontri, portato carte, fotocopiato testi, prenotato stanze di albergo, parlato con ministri, trasportato materiali.
Un lavoro matto e per nulla disperato, per il grande giorno che è oggi giovedì 28 ottobre, nuova tappa del viaggio cominciato anni fa. Nella gigantesca capitale egiziana, tra l’Università dove parlò Obama, l’Opera e la Cittadella si dipana lo spettacolo intitolato “La Bellezza, lo spazio del dialogo”. In pratica si sono inventati un “Meeting del Cairo”.
Due giorni di conferenze e dibattiti, due mostre e un concerto, in un roteare di ministri (inaugurazione del titolare egiziano della Cultura e di Emilia Guarnieri, presidente del “gemello” grande, il riminese), alti funzionari, diplomatici, magistrati, studiosi, religiosi, testimoni, artisti, giovani e tanta gente curiosa o già “contagiata”. Si parla della Bellezza, si parla dello sbalordimento, si parla dell’evento Meeting di Rimini che oggi e domani si specchierà in quello del Cairo e viceversa. E’ o non è una grande storia?
MEETING CAIRO/ Prove di amicizia tra i popoli Redazione - giovedì 28 ottobre 2010 – il sussidiario.net
Giovedì in Egitto si aprirà il Meeting del Cairo, evento al quale prenderanno parte ministri, personalità religiose e culturali egiziane. L’evento è promosso dalla Fondazione Meeting, dal Centro Culturale Ta’Wassul de Il Cairo e dall’ American Muslim Foundation International. Dal 8 al 29 ottobre si terranno incontri, mostre e spettacoli con a tema: “La bellezza, lo spazio del dialogo”.
Avvicinandosi a questo evento è sempre di più cresciuto lo stupore per quello che sta accadendo: il sostegno di 50 personalità egiziane e del ministro della cultura egiziana che inaugurerà il Meeting, insieme ad altri tre ministri, la presenza tra gli altri di personalità come Emad Abu Ghazi, Presidente del Supremo Consiglio per la Cultura, i volontari che sosterranno questo evento e poi il rendersi conto, ancora, dopo oltre trent’anni di storia, come sia proprio vero che la bellezza, il desiderio del bello di ogni uomo, possa non solo accomunare gli uomini, ma anche metterli insieme nella realizzazione di un’opera.
Pensare come tutto è nato, dal rapporto con Wael Farouq che alcuni amici ci avevano suggerito di conoscere; l’incontro con lui al Cairo in Egitto nel 2006, l’invito al Meeting per presentare l’edizione in arabo de “Il Senso Religioso”; ed infine la sorpresa delle sue parole, su cui era incentrato il comunicato stampa finale di quel Meeting: «Questo libro non solo apre nuovi orizzonti al pensiero arabo, ma anche procede verso la creazione di un vero dialogo tra le culture, perché recuperando l’esperienza elementare, l’umanità potrà trovare questo linguaggio comune con cui dialogare. Attraverso la vostra presenza avete fatto il primo passo verso l’altro».
E la storia, come per fortuna accade al Meeting, non finisce lì, perché è il 2009 quando Farouq Wael torna al Meeting, portando con sé la vicepresidente della Corte Costituzionale Tahani Algibaly con il consorte Mohamed Aly Heneich e Osman Mikawy, giudice in Egitto. Stupiti dal Meeting, nasce l’idea di portare il Meeting al Cairo, non appena a presentarlo, ma fare proprio il Meeting. E tutto questo non per un progetto, ma per un’amicizia, per un rapporto reale tra persone.
E qui ritorniamo a questi giorni dove Il Cairo potrà vivere un momento, forse unico nel suo genere: “Cristiani e mussulmani che fanno qualcosa insieme?”, qualcuno si potrebbe chiedere. Quello che vedo è che le nostre diversità sono evidenti, eppure l’apertura, la stima, la disponibilità che ho sperimentato, incontrandoli, vengono prima di ogni diversità. É proprio vero come dice Wael che la base del dialogo è la differenza. La diversità dell’altro è affascinante perché costringe ad approfondire la propria identità, le ragioni della propria posizione.
Questo è il dialogo che ci interessa. Ricordo che una delle primissime personalità del mondo mussulmano che invitammo a Rimini nel ‘93, il prof. Hennaifer, disse nel corso della sua relazione: “incoraggiate lo sviluppo intellettuale delle persone del mondo arabo, perché possano ottenere una migliore comprensione della loro religione, perché solo così potranno arrivare a capire le ragioni di un’altra religione”.
La sfida del Meeting del Cairo è proprio questa: non incontrarsi per discutere come iniziare il dialogo, ma cominciare il dialogo costruendo qualcosa insieme, una sfida ad usare la ragione nella sua concezione più vera di apertura a tutti i fattori della realtà, andando al Cairo per imparare. Ci avviciniamo a questo evento, qualcosa che non avremmo mai immaginato, con nel cuore le parole del Santo Padre in conclusione del Sinodo: “la pace, che è dono di Dio, è anche il risultato degli sforzi degli uomini di buona volontà”, nella speranza che il nostro piccolo tentativo con tutta la nostra buona volontà possa essere un contributo a questo.
(Emilia Guarnieri, Presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli)
Cultura - J’ACCUSE/ Barcellona: io, da ex Pci, vi spiego chi è il potere che ci governa Pietro Barcellona - giovedì 28 ottobre 2010 – il sussidiario.net
Lo storico Giuseppe Giarrizzo mi chiama in causa come uno dei protagonisti del ‘68 e mi chiede di raccontare le mie esperienze di allora per cercare di capire cosa sta succedendo ora.
In effetti, quegli anni hanno avuto su di me un’influenza decisiva anche perché mi sono trovato in una condizione singolare: ero già professore da un anno e mi trovavo quindi dall’altra parte della barricata, ma avvertivo nella protesta studentesca il segno confuso e ambiguo di un bisogno di cambiamento rispetto ad una società profondamente irrigidita nei propri schemi mentali e nelle proprie categorie interpretative.
Il ’68 mi costrinse a rivedere il senso del mio insegnamento e a ricercare, con la contaminazione di altri saperi, le ragioni per cui una norma giuridica possa e debba essere rispettata dai cittadini. Incontrai su questo terreno la ricerca storica, sociologica e psicologica e resi il mio approccio ai problemi dell’esistenza assai più complesso di quanto non fosse stato fino ad allora.
Tuttavia non mi arresi senza combattere alle richieste degli studenti che chiedevano corsi sulla rivoluzione culturale cinese e sul modello della pianificazione sovietica. Sospesi le lezioni e restituii il registro al rettore fino a quando gli stessi studenti non cercarono un punto di compromesso. I movimenti con cui mi misurai fino in fondo furono allora rispettivamente Servire il popolo, gruppo extraparlamentare di sinistra, e Ordine nuovo, movimento di estremisti di destra.
Dopo diversi incontri, gli studenti accettarono le mie proposte. Agli studenti di sinistra proposi di studiare, come testo integrativo di Istituzioni di diritto, la critica di Marx alla filosofia del diritto hegeliano e agli studenti di destra, in particolare, l’Operaio di Jünger e la Teologia politica di Schmitt. Credo che gli studenti capirono il senso di queste proposte e si sforzarono persino di elaborare delle vere e proprie dispense di cui conservo ancora i ciclostilati. Alla fine dei corsi si fecero gli esami senza voto collettivo ma discutendo le tesi che avevano elaborato.
Dopo molti anni i leader dei due movimenti, Campanella e Lombardo, diventarono professori universitari e molti di loro, nel corso degli anni, mi hanno ringraziato per non aver ceduto alla richiesta del voto collettivo unico.
Ho sempre ripensato a questa mia esperienza, per me certamente positiva, non tanto per le provocazioni utopiche, che non mi hanno mai sedotto, ma per lo stimolo a capire il significato dell’insegnamento e la comunicazione con un mondo di giovani sicuramente animati da una forte passione per tutto ciò che costituiva critica e rottura dell’ordine vigente. Riflettendo, tuttavia, su quegli anni e sull’eredità che hanno lasciato, mi sono persuaso che dentro quella rivolta studentesca c’erano i germi di una degenerazione individualistica e persino narcisistica delle forme di vita della nostra società.
Le assemblee studentesche anticipavano tragicamente l’idea di “società liquida” di cui parla Baumann, e il leaderismo del microfono in mano favoriva forme primordiali di demagogia populista. Non andava al potere l’immaginazione, come Castoriadis aveva sperato in Socialismo e barbarie, ma la ricerca della soddisfazione dei bisogni nella loro immediata istintività: la libertà sfrenata di ogni desiderio minava lo stesso spirito di gruppo e quella coesione necessaria per costruire alternative reali.
Il ’68 mi è apparso sempre più non come l’ultima fiammata del grande socialismo europeo, ma come l’inizio di una confusione di ruoli e di linguaggi che tendeva a produrre un nuovo tipo di conformismo massificato attorno alla sola bandiera della trasgressione senza progetto di trasformazione. Purtroppo le letture di quel periodo divennero sempre più spesso Marcuse, Deleuze e Guattari. La rivolta si presentava come liberazione da ogni vincolo o legame in nome di una rivoluzione che si proponeva la destrutturazione e l’annichilimento di ogni “sovrastruttura ideologica”: dalla famiglia, vista come un nemico, ai partiti della sinistra tradizionale che venivano indicati come meri traditori delle idealità socialiste.
Alcuni, profeticamente, videro nel ’68 anche uno sfrenarsi dell’individualismo borghese, della media borghesia acculturata che con Marcuse metteva sotto accusa ogni forma di civiltà organizzata e che con Deleuze e Guattari, ne L’Antiedipo, predicava il primato del desiderio senza freni e un’idea astratta di libertà senza limiti. In quegli stessi anni, in un altro libro profetico, Mitscherlich constatava come si stesse formando una gioventù senza padri che non avrebbe criticato le tradizioni, in nome del legittimo diritto di innovare, ma che avrebbe fatto terra bruciata anche delle conquiste progressive che erano state realizzate in tanti decenni di conflitti sociali.
Il carattere narcisistico, che cominciava a diventare il vero motore di ogni iniziativa, si rendeva sempre più evidente nella proliferazione di gruppi e gruppetti che si chiudevano spesso in un settarismo fanatico, praticando persino riti di un’improbabile iniziazione ad una nuova immagine dell’uomo.
A distanza di anni registravo in un libro, intitolato L’individualismo proprietario (1987), che gli anni trascorsi avevano prodotto una forma di individualismo povero, di mero consumo -come scriveva in quegli anni O’Connor- fondato sulla universale appropriabilità di tutto ciò che veniva prodotto capitalisticamente. Non si era formata, invece, alcuna nuova idea di bene comune e nessuno aveva posto il problema dei limiti naturali allo spreco delle risorse. Ho scritto in quegli anni che si era formato un nuovo individualismo di massa del consumo senza limiti che avrebbe conformato l’idea del benessere come possesso illimitato di oggetti usa e getta.
Questo giudizio così severo vuole aiutare soltanto a capire perché oggi non riusciamo a costruire alcun senso comunitario di appartenenza che non sia legato all’effimera connessione nelle reti dei social network. Forse ciò si spiega con questa sotterranea pulsione alla soddisfazione immediata del bisogno e con la generale infantilizzazione della società. Una infantilizzazione che ha spento totalmente la spinta allo sviluppo della democrazia partecipata che fu pure una componente positiva dell’intera fenomenologia del ’68.
Negli anni ’70, infatti, accanto al movimento degli studenti, si sviluppò nella società italiana una straordinaria volontà di impegno personale nella organizzazione della scuola, della sanità e della giustizia, alla quale fu aggiunto l’aggettivo “democratico” per segnare una nuova fase dell’attivismo sociale. Proliferavano i comitati di quartiere e le organizzazioni di base che si proponevano di inserire le regole democratiche nella vita di istituzioni sclerotizzate.
L’insieme dei fenomeni, tuttavia, fu contrassegnata da una sorta di anticipazione dell’anti-politica che assumeva i caratteri di un vero e proprio disprezzo e ripulsa dei partiti della sinistra italiana ed europea, accusati di aver ceduto alle sirene del capitalismo riformabile. Come dirigente comunista mi trovai più volte nell’amara situazione di essere accusato di servire i padroni e di tradire la classe operaia. Non era però un fatto che riguardava la mia persona, ma un atteggiamento generale che tendeva a delegittimare i partiti storici: insomma un’anticipazione della componente anti-politica che oggi impedisce di produrre una nuova narrazione delle vicende del nostro Paese a partire dalla prima guerra mondiale.
I giovani del ’68, rimasti orfani della utopia libertaria che si proponeva un continuo nuovo inizio della storia senza radici e senza appartenenze, senza vera identità e vere differenze, in realtà cominciavano a neutralizzare l’idea del conflitto sociale come conflitto di interessi e di valori e trasformavano persino il lessico quotidiano delle nuove generazioni.
Al posto di “tempo” la parola “flusso”, al posto di “popolo” la parola “moltitudine”, al posto di partecipazione libera e responsabile delle persone, la vaga idea di un “comune” che non è né pubblico né privato. Di tutte le speranze di quegli anni e anche delle forme nuove di democrazia è rimasto soltanto un nuovo linguaggio stereotipo che, accompagnato dalla rivoluzione informatico-capitalistica, dalla globalizzazione e dalle innovazioni tecnologiche, ha completamente frantumato il tessuto sociale, rendendo negativa ogni nozione di vincolo e di legame, di fedeltà e responsabilità.
È davvero una strana coincidenza che, a partire dagli anni ’70, cominci un costante declino della sinistra in Italia e nel mondo, e che l’offensiva neoliberista riesca a camuffare l’istanza libertaria in uno straordinario e inaudito potere dell’impresa. Marx, negli Scritti giovanili, aveva previsto che, senza un processo di maturazione della coscienza popolare, il comunismo sarebbe potuto diventare una forma di comunismo rozzo e primitivo, in cui anche le donne vengono messe in comune in una forma di generale prostituzione mercificata e in una alienazione senza freno della personalità individuale.
Non è un caso che molte ideologie e linguaggi contemporanei, che si ispirano alla cosiddetta biopolitica e descrivono la società come assoggettata nella forma vivente ad un astratto potere manipolativo, attacchino proprio il concetto di “persona”. Concetto rimasto sepolto dalle nuove parole che tendono a screditare ogni forma di responsabilità individuale.
Credo che tutti coloro che hanno vissuto queste esperienze e che si interrogano sulla crisi attuale, debbano chiedersi quali siano le radici di questa trasformazione della massa degli uomini in bambini viziati che cercano soltanto il modo di esibirsi e di essere applauditi.
Come vedi, caro amico Giarrizzo, ti restituisco la palla, anche per cercare di capire specificamente perché il nostro Ateneo, che in quegli anni sembrava un polo di attrazione e di elaborazione innovativa, sia diventato la palude mediocre di questi anni e di questi giorni di nuovo, apparente tumulto.
Avvenire.it, 28 ottobre 2010 - LA SCURE SULLE PUBBLICHE NON STATALI Genitori delle paritarie all'attacco: «Verità sui soldi alle statali» - Paolo Ferrario
«Quello che sta accadendo non è né onesto né corretto: è semplicemente vergognoso».Di ritorno dall’ennesimo tour de force romano, Maria Grazia Colombo, presidente dell’Agesc, l’Associazione dei genitori delle scuole cattoliche, commenta così la notizia dei nuovi tagli per 253 milioni di euro, a partire dal prossimo anno, per il sistema nazionale delle scuole paritarie. In pratica, se sarà confermato l’indirizzo emerso martedì in Commissione Cultura della Camera, rispetto ai 534 milioni di euro erogati dal 2000 (e mai rivisti al rialzo da ormai dieci anni, con una perdita secca di potere d’acquisto pari ad almeno il 18%), la nuova sforbiciata sarebbe nell’ordine del 47%. Un salasso per l’intero sistema, che le famiglie non sono disposte a subire.
«È troppo facile tagliare i fondi alle scuole paritarie – sottolinea Colombo, che ricorda come uno studente delle scuole libere costi allo Stato 3.500 euro all’anno, contro i 7.500 di uno della scuola statale – anzichè, come sarebbe giusto, andare prima puntualmente a verificare come sono spesi i soldi in quella statale. A questo punto, lancio un appello ai genitori della scuola statale: uniamo le forze e chiediamo insieme questa “operazione verità” al ministro Tremonti».
Un appello, sotto forma di lettera aperta ai parlamentari, arriva anche dalla Fism, Federazione scuole materne, che paventa addirittura la scomparsa della scuola paritaria, se questo progetto di nuovi tagli dovesse andare in porto. «È evidente – sottolinea il segretario della Fism, Luigi Morgano – che qualora anche le attuali modestissime risorse venissero ridotte non potrebbero essere compensate da aggravi alle rette delle famiglie, data la situazione socio-economica e che non poche scuole dell’infanzia sarebbero costrette, loro malgrado, a cessare di fornire il loro pluridecennale servizio pubblico alle rispettive comunità. Il che comporterebbe un immediato impegno a doverle sostituire da parte dello Stato, con costi aggiuntivi facilmente ed immediatamente calcolabili».
Bastano poche cifre, infatti, per dare la misura dell’aggravio di spesa per lo Stato: un bambino della scuola materna statale richiede, in media, un impegno finanziario di circa 6mila euro l’anno, contro i 500 euro di un bimbo dell’asilo paritario.
«Questi nuovi tagli – ricorda Roberto Pasolini, presidente del Comitato politico scolastico scuole non statali (Cps) – arrivano quando le scuole hanno già stabilito le rette, anche calcolando il contributo statale. Se adesso questo viene meno, i conti non tornano più. Tra l’altro, ricordo che stiamo ancora aspettando la firma del ministro Tremonti che sblocchi, finalmente, i 130 milioni di euro a cui la conferenza Stato-Regioni ha dato il via libera il 7 ottobre».
Insomma, le questioni sul tappeto sono ancora molte e complicate, tanto che il presidente della Federazione istituti di attività educative (Fidae), don Francesco Macrì, parla apertamente di «visione miope» di una politica che non tiene nella giusta considerazione i temi dell’istruzione e dell’educazione. «Con questi tagli – conclude don Macrì – la scuola paritaria, già ora fortemente penalizzata e discriminata, rischierà l’estinzione e le famiglie italiane non potranno più esercitare il loro diritto umano e costituzionale di scegliere liberamente la scuola per i loro figli. In questo triste scenario, naturalmente è coinvolta anche la scuola cattolica con la sua secolare e illustre tradizione educativa, che ha contribuito a fare grande questo nostro Paese. Il nostro auspicio è che, la Politica, quella con la “P” maiuscola, fermi in tempo questa minaccia, lesiva dei diritti degli studenti e delle loro famiglie e del bene comune».