Nella rassegna stampa di oggi:
1) Ventiquattro nuovi cardinali su misura del papa - Koch, Ravasi, Burke, Amato, Ranjith... tutti molto in linea con Benedetto XVI. Che ad onore della grande musica sacra dà la porpora anche al maestro Bartolucci. Con un pensiero segreto, forse, per il fratello Georg di Sandro Magister
2) 21/10/2010 – Vaticano - Il cammino di Van Thuân verso gli altari - A Roma via al processo di beatificazione del cardinale vietnamita, per 13 anni incarcerato dal regime comunista - http://www.missionline.org
3) Nguyen Van Thuan. Il cardinale martire - Era vescovo a Saigon. Dopo la "liberazione" fu imprigionato per tredici anni. Storia non conformista d´un grande testimone della fede di Sandro Magister
4) Islam, vescovo libanese: "Il Corano dice di uccidere fede imposta con la spada" - (Il Giornale, 22 ottobre 2010)
5) Sinodo medio oriente, censurato vescovo libanese che attacca musulmani e Corano (Il Messaggero, 22/10/2010) di Franca Giansoldati
6) 22/10/2010 - NEPAL – BHUTAN - Cristiano condannato in Bhutan: il sostegno del vescovo protestante di Kalpit Parajuli - Per gli esuli la condanna del cristiano protestante di etnia nepalese, è l’ennesimo atto del governo contro le minoranze e le religioni diverse da quella buddista. Vescovo protestante: “Il Paese dovrebbe promuovere i valori della democrazia e dei diritti umani” (AsiaNews/Agenzie).
7) Sudan sull'orlo di una nuova guerra civile. 22-10-2010 - di Omar Ebrahime – dal sito http://www.vanthuanobservatory.org
8) Avvenire.it, 23 ottobre 2010 - La causa di beatificazione di Van Thuân - Col sorriso e con la Croce di Salvatore Mazza
9) Avvenire.it, 23 ottobre 2010 – INTERVISTA - Lévi-Strauss? Obsoleto di Lorenzo Fazzini
10) Van Thuân testimone di speranza e bontà - Aperta a Roma la causa di beatificazione del cardinale vietnamita che pagò con tredici anni di carcere duro la fedeltà al Vangelo. - Vallini: chi lo avvicinava ne restava ammirato - DA ROMA MIMMO MUOLO – Avvenire, 23 ottobre 2010
11) Faulkner contro la fine dell’uomo - DI FULVIO PANZERI – Avvenire, 23 ottobre 2010
Ventiquattro nuovi cardinali su misura del papa - Koch, Ravasi, Burke, Amato, Ranjith... tutti molto in linea con Benedetto XVI. Che ad onore della grande musica sacra dà la porpora anche al maestro Bartolucci. Con un pensiero segreto, forse, per il fratello Georg di Sandro Magister
ROMA, 22 ottobre 2010 – La vigilia della domenica di Cristo Re, fine dell'anno liturgico, la Chiesa cattolica avrà 24 nuovi cardinali. Ne ha annunciato i nomi Benedetto XVI al termine dell'udienza generale di mercoledì 20 ottobre, in piazza San Pietro.
Si tratta di nomine in larga misura previste, alcune praticamente obbligate, come ha mostrato sul quotidiano dei vescovi italiani "Avvenire" uno dei più acuti analisti di cose vaticane, Gianni Cardinale, nei due commenti riprodotti più sotto.
Ma in alcune delle nomine annunciate compaiono anche dei tratti originali, propri dell'attuale pontefice.
Il primo è la volontà di Benedetto XVI di mantenere il numero dei cardinali elettori, quelli che hanno diritto di voto in conclave, sotto il tetto dei 120. Con la conseguenza di restringere il numero dei pretendenti e beneficiari della porpora. Ad esempio, è caduta in disuso la pratica di elevare al cardinalato i nunzi delle sedi più prestigiose: Parigi, Vienna. Lisbona, Madrid, Berlino, Washington.
Un secondo tratto tipico dell'attuale pontificato è la regola di non far cardinale l'arcivescovo di una diocesi il cui predecessore sia in vita e abbia meno di 80 anni. Questa regola non scritta è stata adottata per la prima volta nel concistoro del 2007, con una sola eccezione relativa all'arcivescovo di Genova Angelo Bagnasco, insignito della porpora nonostante il suo predecessore Tarcisio Bertone, divenuto segretario di stato vaticano, avesse all'epoca 73 anni. Questa volta, di eccezioni non ve ne sono state. E così, per quanto riguarda l'Italia, sono rimasti senza la porpora gli arcivescovi di Firenze, Giuseppe Betori, e di Torino, Cesare Nosiglia, due città che assieme a Milano, Venezia, Bologna, Genova, Napoli e Palermo (più Roma col vicario del papa) sono per tradizione rette da cardinali.
Un terzo elemento di novità del prossimo concistoro, che non ha precedenti, è la promozione a cardinali non di arcivescovi in carica nelle rispettive diocesi, ma di loro predecessori "emeriti". È avvenuto con gli arcivescovi a riposo di Quito e di Lusaka.
Infine, è sicuramente di Benedetto XVI in persona la scelta dei quattro nuovi cardinali con più di 80 anni, nominati "ad honorem".
A vietare agli ultraottantenni di votare in conclave fu Paolo VI nel 1970. Ma nei tre suoi concistori successivi quel papa non fece cardinale nessuno con più di 80 anni. Le prime nomine di questo tipo furono di Giovanni Paolo II nel 1983, quando ebbe la porpora il teologo gesuita Henri De Lubac. Papa Karol Wojtyla fece in tutto ventidue cardinali ultraottantenni. Benedetto XVI ne ha già fatti dodici.
Uno dei quattro nuovi cardinali "ad honorem" del prossimo concistoro sarà Domenico Bartolucci, 93 anni magnificamente portati, già direttore "perpetuo" del coro della Cappella Sistina che accompagna le liturgie del papa.
La porpora che Benedetto XVI gli conferirà suona come una clamorosa riabilitazione di questo grandissimo maestro della musica liturgica gregoriana e polifonica, proditoriamente cacciato dalla direzione della Sistina nel 1997 dai registi delle cerimonie pontificie dell'epoca.
Peccato che da allora, senza di lui, il coro della Sistina sia decaduto a livelli miserevoli. Né fa sperare in una degna rinascita la nomina a suo direttore, pochi giorni fa, del salesiano don Massimo Palombella, pupillo del cardinale segretario di stato.
Lunedì prossimo, 25 ottobre, nella sala accademica del Pontificio Istituto di Musica Sacra in piazza Sant'Agostino a Roma, il maestro Bartolucci riceverà anche un'onorificenza da parte della Fondazione pro Musica e Arte Sacra, assieme al fratello di Benedetto XVI, Georg Ratzinger, altro grande cultore di musica liturgica.
E sarà come se la porpora data al primo onorerà anche il secondo. Cosa non del tutto peregrina, se si ricorda che Leone XIII, nel suo primo concistoro del 1879, fece cardinale il proprio fratello Giuseppe Pecci, gesuita e vice Bibliotecario di Santa Romana Chiesa.
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IL "CHI È" DEI NUOVI CARDINALI
di Gianni Cardinale
L’elenco dei nuovi cardinali annunciati da Benedetto XVI il 20 ottobre, che diverranno tali nel concistoro del 20 novembre, a prima vista sembra essere caratterizzato dal folto numero di curiali o affini (10 su 20 dei nuovi cardinali con meno di 80 anni e quindi con diritto di voto in conclave) e da una cospicua pattuglia di italiani (8 su 20, tra i votanti).
In realtà queste due cifre non possono sorprendere più di tanto. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di creazioni "ex officio", praticamente dovute.
È questo il caso del salesiano Angelo Amato, 72 anni, dal luglio 2008 prefetto della congregazione delle cause dei santi (e in precedenza numero due dell’ex Sant’Uffizio dove per tre anni è stato il più stretto collaboratore dell’allora cardinale Joseph Ratzinger); di Francesco Monterisi, 76 anni, dal luglio 2009 arciprete della basilica di San Paolo Fuori le Mura e negli undici anni precedenti segretario della congregazione per i vescovi; di Paolo Sardi, 76 anni, dal giugno 2009 pro-patrono del Sovrano Militare Ordine di Malta; di Fortunato Baldelli, 75 anni, dal giugno 2009 penitenziere maggiore; dello statunitense Raymond Leo Burke, 62 anni, dal giugno 2008 prefetto della segnatura apostolica, la corte di cassazione vaticana; dello scalabriniano Velasio De Paolis, 75 anni, dall’aprile 2008 presidente della prefettura degli affari economici della Santa Sede; di Mauro Piacenza, 66 anni (il più giovane cardinale italiano), dallo scorso 7 ottobre prefetto della congregazione per il clero.
Le norme e le consuetudini vigenti prevedono infatti che tutte e sette le cariche citate siano ricoperte da cardinali.
Gli altri tre curiali scelti dal papa per il prossimo concistoro sono poi tre presidenti di pontifici consigli: l'italiano Gianfranco Ravasi, 68 anni, dal settembre 2007 alla guida di quello della cultura; lo svizzero Kurt Koch, 60 anni, dallo scorso luglio a quello per la promozione dell’unità dei cristiani; e del guineano Robert Sarah, 65, dal 7 ottobre a quello di "Cor Unum".
In base alla costituzione apostolica "Pastor Bonus" del 1988, che regola la struttura della curia romana, per i responsabili di questi dicasteri di seconda fascia non sarebbe prevista la porpora. Ma il successivo motu proprio "Inde a pontificatus", che nel 1993 accorpò il consiglio per il dialogo con i non credenti a quello della cultura, prevede che "il nuovo organismo [sia] presieduto da un cardinale presidente". Il dicastero dell’ecumenismo, poi, per il suo ruolo strategico, è stato comunque sempre guidato da un porporato. Per quanto riguarda invece la promozione di Sarah, questa può essere interpretata come una valorizzazione sia della persona, sia del continente africano che rappresenta.
Una delle note qualificanti del prossimo concistoro sta infatti proprio nei quattro nuovi porporati africani annunciati.
Oltre a Sarah il 20 novembre diventeranno cardinali Laurent Monsengwo Pasinya, 71 anni, arcivescovo di Kinshasa nella Repubblica Democratica del Congo; Medardo Joseph Mazombwe, 79 anni, arcivescovo emerito di Lusaka in Zambia; e il patriarca di Alessandria dei copti Antonios Naguib, 75 anni, relatore generale al sinodo per il Medio Oriente di questo ottobre.
Altro elemento significativo del prossimo concistoro è il fatto che dei dieci pastori di Chiese locali scelti da Benedetto XVI sei operino in paesi del Terzo Mondo.
Oltre ai tre africani citati ci sono anche Raúl Eduardo Vela Chiriboga, 76 anni, arcivescovo emerito di Quito in Ecuador; Raymundo Damasceno Assis, 73 anni, arcivescovo di Aparecida in Brasile; e Malcolm Ranjith, 63 anni, arcivescovo di Colombo in Sri Lanka e fino al giugno 2009 segretario della congregazione per il culto divino.
Quattro invece le guide di arcidiocesi del mondo occidentale: Paolo Romeo, 72, a Palermo; Donald William Wuerl, 70 anni, a Washington; Kazimierz Nycz, 60 anni, a Varsavia; e Reinhard Marx, 57 anni, a Monaco di Baviera.
Questo vantaggio delle sedi terzomondiali è stato possibile anche perché per il prossimo concistoro è stata applicata, senza eccezione alcuna, la regola non scritta per cui non viene concessa la porpora a un arcivescovo nella cui diocesi c’è già un porporato emerito con diritto di voto in conclave. Regola che ha messo di fatto "fuori lista" un gran numero di presuli di Chiese tradizionalmente cardinalizie: come ad esempio Torino, Firenze, Toledo, Bruxelles, New York, Westminster.
Infine i quattro nuovi porporati con più di 80 anni: Elio Sgreccia, uno dei massimi esperti mondiali di bioetica; Domenico Bartolucci, già maestro direttore della cappella musicale pontificia Sistina; il bavarese Walter Brandmüller, già presidente del pontificio comitato di scienze storiche; e il vescovo spagnolo José Manuel Estepa Llaurens, che collaborò alla stesura del nuovo Catechismo della Chiesa cattolica.
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CON I NUOVI, IL SACRO COLLEGIO CAMBIA COSÌ
di G. C.
Quando Benedetto XVI, il 20 novembre, creerà i 24 nuovi cardinali annunciati, il sacro collegio conterà 203 membri.
Tra questi, gli elettori con diritto di voto saranno 121, uno in più del limite stabilito, che però sarà ripristinato al più tardi il 26 gennaio 2011 quando l'arcivescovo emerito di Marsiglia Bernard Panafieu compirà 80 anni, l'età massima per entrare in conclave.
Gli elettori europei saranno 62 (il 51,2 per cento), mentre al conclave che elesse papa Joseph Ratzinger erano 58 su 115 (il 50,4 per cento) e dopo la morte di Giovanni Paolo I erano 56 su 111 (il 50,5 per cento). Un leggero aumento quindi per il Vecchio Continente, ma non eclatante.
I votanti italiani saranno 25 (il 20,7 per cento); più di quelli che parteciparono al conclave del 2005 (20, il 17,4 per cento), ma meno di quelli del primo dei due conclavi del 1978 (25, il 22,5 per cento).
I porporati provenienti dall'America latina saranno 21, quelli dall'America del nord 15, dall'Africa 12, dall'Asia 10, dall'Oceania 1.
La nazione più rappresentata nel collegio, dopo l'Italia, saranno gli Stati Uniti, che con i due nuovi nominati salgono a 13 cardinali, distanziando Francia e Spagna le quali, rimanendo ferme a quota 5, vengono superate dalla Germania, salita a 6 cardinali, e raggiunte dal Brasile, salito anch'esso a 5 porporati. La Polonia raggiunge il Messico a quota 4.
Riguardo poi alla provenienza regionale dei porporati dell'Italia, si può notare che tra gli elettori del collegio entreranno due della Puglia (Amato e Monterisi); con Ravasi quelli della Lombardia saliranno a 5 confermando il loro primato; con Baldelli quelli dell'Umbria diventeranno due, così come quelli della Liguria con Piacenza e quelli del Lazio con De Paolis. Con Sardi quelli del Piemonte saliranno a tre e con Romeo la Sicilia tornerà ad essere rappresentata. Il cardinale Fiorenzo Angelini, 94 anni, non votante, rimane l'unico cardinale nativo di Roma. Se poi si conteggiano i cardinali con più di 80 anni, il Piemonte ne vanta ben 9, portando a 12 la sua quota complessiva.
Con l'ingresso del salesiano Amato e dello scalabriniano De Paolis il numero complessivo dei cardinali appartenenti a ordini religiosi salirà a 34, tra i quali 21 elettori. I gesuiti, con 8 porporati, rimarranno primi, seguiti dai francescani e dai salesiani con 6 per ciascun ordine. Ma tra i votanti si conferma la leadership dei salesiani (5), che distanziano ancor più i seguaci di san Francesco (3) e di sant'Ignazio (2).
Con la promozione alla porpora di dieci capi dicastero e affini, la presenza della curia vaticana nel collegio cardinalizio salirà a 38 elettori, di cui 16 italiani, 9 provenienti dal resto dell'Europa, 6 statunitensi, due africani, tre latinoamericani, un indiano e un canadese. Un numero più che cospicuo, ma che potrebbe assottigliarsi a medio termine, visto che nel prossimo biennio sei di loro supereranno gli ottanta anni.
Quello del 20 novembre 2010 sarà il terzo concistoro dell'attuale pontificato. A quella data Benedetto XVI avrà così creato in tutto 60 cardinali, di cui 50 elettori (il 41,3 per cento).
Nei primi cinque anni del suo pontificato Giovanni Paolo II fece invece due concistori, creando 32 nuovi cardinali, di cui 30 votanti.
Nel prossimo biennio, inoltre, l'attuale pontefice avrà ulteriore spazio per fare nuovi cardinali, pur tenendo fermo il tetto dei 120 elettori. Nel 2011, infatti, nove porporati supereranno gli ottanta anni. E nel 2012 altri tredici passeranno l'età limite per entrare in conclave.
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Il quotidiano della conferenza episcopale italiana che il 21 ottobre ha pubblicato le analisi di Gianni Cardinale:
> Avvenire
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E ANCORA, A PROPOSITO DEL NUOVO CARDINALE DELL'ECUADOR...
di G. C.
La creazione cardinalizia di due arcivescovi emeriti con meno di 80 anni (Raúl Eduardo Vela Chiriboga di Quito, Ecuador, e Medardo Joseph Mazombwe di Lusaka, Zambia) sembra non avere precedenti. Non sono ancora note le motivazioni che hanno spinto Benedetto XVI a questa scelta. Per il primo può aver pesato il difficile momento politico dell'Ecuador. Forse qualche indicazione potrà venire dalle parole che il pontefice pronuncerà nella celebrazione del concistoro.
Intanto si può ricordare che Mazombwe è stato il secondo successore di Emmanuel Milingo alla guida della diocesi della capitale dello Zambia. E poi c’è un episodio curioso che lega Quito alla biografia dell’attuale pontefice. Lo ha raccontato lui stesso in una intervista rilasciata, quando era cardinale, alla rivista "30 Giorni" dell’agosto del 2003, nella quale raccontava dei suoi rapporti con Giovanni Paolo I:
D. – Quale fu il suo ultimo colloquio con papa Albino Luciani?
R. – Il giorno del suo insediamento, il 3 settembre. L’arcidiocesi di Monaco e Frisinga è gemellata con le diocesi dell’Ecuador e per quel mese di settembre del 1978 a Guayaquil era stato organizzato un congresso mariano nazionale. L’episcopato locale aveva chiesto che venissi nominato delegato pontificio per questo congresso. Giovanni Paolo I aveva già letto la richiesta e deciso positivamente in merito; così, durante il tradizionale omaggio dei cardinali al nuovo papa, parlammo del mio viaggio e lui invocò molte benedizioni su di me e su tutta la Chiesa ecuadoregna.
D. – Lei dunque andò in Ecuador?
R. – Sì, e proprio quando ero là mi raggiunse la notizia della morte del papa. In un modo un po’ strano. Dormivo nell’episcopio di Quito. Non avevo chiuso la porta perché nell’episcopio mi sento come nel seno di Abramo. Era notte fonda quando entrò nella mia stanza un fascio di luce e si affacciò una persona con un abito da carmelitano. Rimasi un po’ sbigottito da quella luce e da quella persona vestita in maniera lugubre che sembrava messaggera di notizie infauste. Non ero sicuro se fosse sogno o realtà. Infine scoprii che era un vescovo ausiliare di Quito [Alberto Luna Tobar, oggi arcivescovo emerito di Cuenca – ndr], il quale mi comunicò che il papa era morto. E così seppi di questo avvenimento tristissimo e imprevisto. Nonostante questa notizia, riuscii a dormire per grazia di Dio e la mattina dopo celebrai messa con un missionario tedesco, il quale nella preghiera dei fedeli pregò "per il nostro papa morto Giovanni Paolo I". Alla funzione assisteva anche il mio segretario laico, il quale alla fine venne da me e mi disse costernato che il missionario aveva sbagliato nome, che avrebbe dovuto pregare per Paolo VI e non per Giovanni Paolo I. Lui ancora non sapeva della morte di Albino Luciani.
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... E A PROPOSITO DELL'ITALIA
di G. C.
Dall’epoca della grande Conciliazione del 1929 sono tradizionalmente cardinalizie, in Italia, le sedi di Milano, Torino, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Napoli e Palermo. A cui va aggiunta la porpora assegnata al cardinal vicario di Roma. L’unica eccezione è Cagliari dove nel 1969 venne inviato il neocardinale Sebastiano Baggio, che però quattro anni dopo venne promosso in curia romana.
Si tratta di diocesi storicamente ed ecclesiasticamente importanti, anche se non tutte tra le più grandi (Brescia e Bergamo, per numero di fedeli, vengono subito dopo Milano, Roma, Torino e Napoli; mentre Bergamo è più “pesante” di Genova e Venezia, sede, quest’ultima, meno popolata di altre venti diocesi della Penisola).
Partendo sempre dal 1929 i nuovi arcivescovi di queste sedi sono stati, di norma, creati cardinali nel primo concistoro utile. E questo è successo, negli ultimi decenni, anche quando il loro immediato predecessore emerito era un porporato ancora elettore, cioè con meno di 80 anni. È successo a Bologna con Carlo Caffarra e Giacomo Biffi, con Biffi e Antonio Poma, e con Poma e Giacomo Lercaro. A Firenze con Ennio Antonelli e Silvano Piovanelli, e con Giovanni Benelli ed Ermenegildo Florit. A Torino con Severino Poletto e Giovanni Saldarini, con Saldarini e Anastasio Ballestrero, con Ballestrero e Michele Pellegrino. A Venezia con Angelo Scola e Marco Cé.
Nel concistoro del novembre 2007, comunque, questo automatismo tradizionale si è interrotto, e successe così che il neoarcivescovo Paolo Romeo non ricevette la porpora, visto che il predecessore Salvatore De Giorgi aveva 77 anni. Diverso, sempre nel 2007, fu il caso di Genova, dove il predecessore del neoarcivescovo Angelo Bagnasco, oltretutto già nominato presidente della conferenza episcopale, non era andato in pensione come emerito ma – si trattava del cardinale Tarcisio Bertone – si era trasferito a Roma perché scelto da Benedetto XVI come suo segretario di stato.
Per il prossimo concistoro, forse anche per non incrementare ulteriormente il già cospicuo numero di italiani, questa regola non scritta è stata applicata in maniera estremamente rigorosa. Così, oltre che a Cesare Nosiglia a Torino (dove il cardinale Poletto ha 77 anni), la porpora non è arrivata neppure a Firenze, dove Giuseppe Betori, che con i suoi 63 anni sarebbe diventato il più giovane cardinale della Penisola, dovrà aspettare, visto che il suo predecessore Antonelli, presidente del pontificio consiglio per la famiglia ma sull’Annuario Pontificio segnalato sempre come arcivescovo emerito di Firenze, ha ancora 74 anni.
Un caso perfettamente analogo a quello di Firenze è in Spagna quello di Toledo. Anche lì l’arcivescovo emerito, il cardinale Antonio Cañizares Llovera, 65 anni, è ora nella curia romana come prefetto della congregazione per il culto divino. E quindi anche lì l’attuale arcivescovo, Braulio Rodriguez Plaza, 66 anni, non è stato inserito nella lista dei nuovi porporati.
Questa regola non scritta mantiene comunque una certa flessibilità. Se la si applicasse sempre con rigore, infatti, Rodriguez, che è più anziano di Cañizares, potrebbe diventare cardinale solo dopo aver compiuto 81 anni. Allo stesso modo, con Betori, non è detto che Firenze debba aspettare per forza altri sei anni – il tempo perché Antonelli ne compia 80 – per avere un arcivescovo cardinale.
21/10/2010 – Vaticano - Il cammino di Van Thuân verso gli altari - A Roma via al processo di beatificazione del cardinale vietnamita, per 13 anni incarcerato dal regime comunista - http://www.missionline.org
L’appuntamento è alle ore 12 di domani, venerdì 22 ottobre, nell’Aula della Conciliazione dell’università Lateranense a Roma. In quella sede verrà ufficialmente aperto il processo diocesano di beatificazione del cardinale vietnamita François-Xavier Nguyên Van Thuân, già arcivescovo di Saigon.
Van Thuân passò 13 anni in carcere e al confino sotto il regime comunista del Vietnam «liberato», il cui governo provvide all’espulsione di tutti i missionari, alla chiusura delle chiese e alla persecuzione del clero. In seguito il vescovo potè espatriare a condizione di non tornare più nel Paese.
Nel 1998 Van Thuân fu nominato presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace e creato cardinale da Giovanni Paolo II nel 2001: nell’anno del Giubileo fu chiamato dal pontefice a predicare gli esercizi spirituali alla Curia romana, primo esponente asiatico a ricevere tale incarico. Morì nel 2002.
Anche i vescovi del Vietnam hanno voluto partecipare, almeno spiritualmente, all'inizio dell'iter per la beatificazione. Al termine della loro recente assemblea generale, in un messaggio rivolto ai fedeli, hanno scritto: «Siamo felici di annunciare che il 22 ottobre la diocesi di Roma aprirà ufficialmente un processo di beatificazione per il cardinale Van Thuân, che fu un pastore zelante. Il fatto che la diocesi di Roma intraprenda il suo processo di beatificazione ci mostra la stima con la quale egli viene considerato. È stato riconosciuto come un testimone vivente del Vangelo d’amore e di speranza nel mondo di oggi. Questo fatto dunque rappresenta una grande gioia e una fonte di fierezza per la Chiesa del Vietnam».
Va rilevato, però, che in tale messaggio non compare nessuna denuncia della violenza di cui il cardinale Van Thuân venne fatto oggetto in quanto esponente di Chiesa da parte del regime comunista del Vietnam, regime che lo fece arrestare e privare della libertà per 13 anni. E lo costrinse poi ad un esilio di fatto.
In onore del prelato vietnamita, che si è distinto per la sua testimonianza cristiana di ferma speranza anche nella persecuzione, negli ultimi anni sono state approntate diverse iniziative.
Ad esempio l’Osservatorio sulla Dottrina sociale della Chiesa che porta il suo nome, presieduto dall’attuale arcivescovo di Trieste Giampaolo Crepaldi; un premio internazionale rivolto a chi opera secondo l’insegnamento cattolico nell’area sociale; una serie di Gruppi di amici promossi sempre dall’Osservatorio.
Nguyen Van Thuan. Il cardinale martire - Era vescovo a Saigon. Dopo la "liberazione" fu imprigionato per tredici anni. Storia non conformista d´un grande testimone della fede di Sandro Magister - un servizio di www.chiesa del 2002
Il cardinale vietnamita François Xavier Nguyên Van Thuân, presidente del Pontificio consiglio della giustizia e della pace. È morto a Roma lunedì 16 settembre 2002. Aveva 74 anni.
La storia della sua vita ha la freschezza degli antichi atti dei martiri. Eppure è modernissima. Anticipatrice. Così avanti sui tempi che ancor oggi pochi, troppo pochi, nell´Occidente laico e cristiano, sanno guardare con occhi di giustizia alla nazione nella quale egli è nato.
Perché il Vietnam è tabù, da quando è stato "liberato". A Roma c´è voluta una pattuglia di radicali controcorrente per indire una manifestazione, sabato 21 settembre, a favore della libertà vera in quel paese.
Nguyên Van Thuân era da pochi giorni arcivescovo coadiutore di Saigon, nel 1975, quando la città cadde in potere dei comunisti del nord.
E subito fu messo in prigione. Perché nipote dell´ucciso, famigerato presidente del Vietnam del Sud, Ngo Dinh Diem.
Ma egli non era che l´ultimo di una genealogia che aveva dato al Vietnam non una schiera di despoti, ma di testimoni della fede.
Nel 1885 tutti gli abitanti del villaggio di sua madre erano stati bruciati nella chiesa parrocchiale, eccetto suo nonno, che in quel tempo studiava in Malesia. E prima ancora, tra il 1698 al 1885, i suoi antenati paterni furono vittime di molte persecuzioni. Il suo bisnonno paterno, insieme con gli altri familiari, era stato forzatamente assegnato a una famiglia non cristiana in modo che perdesse la fede. E raccontava questa vicenda al giovane Fran?ois Xavier. Gli narrava che ogni giorno, all'età di 15 anni, faceva a piedi 30 chilometri per portare a suo padre, in prigione perché cristiano, un po' di riso e un po' di sale.
Sua mamma Elisabeth lo aveva educato cristianamente fin da quando era piccolino. Ogni sera gli insegnava le storie della Bibbia e gli raccontava le vicende dei martiri, specialmente dei suoi antenati.
Finché toccò a lui. Impadronitisi di Saigon, i comunisti lo accusarono d´essere parte di un «complotto tra il Vaticano e gli imperialisti». Il 15 agosto 1975, festa dell'Assunta, lo arrestarono. Aveva solo la tonaca e il rosario in tasca. Ma già nel mese di ottobre cominciò a scrivere messaggi dal carcere, su foglietti che gli procurava di nascosto un bambino di 7 anni, Quang.
Visse in prigione per tredici anni, senza giudizio né sentenza. Da Saigon fu prima trasferito in catene a Nha Trang. Quindi al campo di rieducazione di Vinh-Quang, sulle montagne. Passò momenti durissimi, come il viaggio su una nave con 1500 prigionieri affamati e disperati.
Poi il lungo isolamento, durato nove anni. C'erano due guardie solo per lui. In carcere non poté portare con sé la Bibbia. Allora raccolse tutti i pezzetti di carta che trovava e compose un minuscolo libro sul quale trascrisse più di 300 frasi del Vangelo che ricordava a memoria. Celebrava messa ogni giorno con il palmo della mano a far da calice, con tre gocce di vino e una goccia d'acqua. Il vino se l´era procurato così. Appena arrestato gli avevano permesso di scrivere una lettera per chiedere ai parenti le cose più necessarie. Domandò allora un po' di medicina per digerire. I famigliari compresero il significato vero della richiesta e gli mandarono una bottiglietta con il vino della messa e con l'etichetta: «medicina contro il mal di stomaco». Le briciole di pane consacrato le conservava in pacchetti di sigarette.
Era in isolamento ad Hanoi quando una ufficiale della polizia gli portò un piccolo pesce che lui avrebbe dovuto cucinare. Il pesce era avvolto in due pagine dell'"Osservatore Romano", che la polizia usava requisire quando arrivava per posta. Senza farsi notare egli lavò bene quei due fogli e li fece asciugare al sole, conservandoli quasi come una reliquia. Nell'isolamento della prigione, quelle due pagine erano per lui un segno di unione con Roma e la cattedra di Pietro.
Durante l'isolamento era solito dire la messa intorno alle 3 del pomeriggio, l'ora di Gesù sulla croce. Tutto da solo, cantava la messa in latino, in francese e in vietnamita. Cantava anche gli inni come il Te Deum, il Pange Lingua, il Veni Creator Spiritus.
La sua bontà, il suo amore anche per i nemici, colpiva non poco le guardie. Sulle montagne di Vinh Phù, nella prigione di Vinh Quang, chiese una volta a una guardia il permesso di tagliare un pezzetto di legno a forma di croce. E quello lo accontentò. In un'altra prigione chiese alla guardia un pezzo di filo elettrico. Temendo che volesse suicidarsi, l'agente si spaventò. Ma Nguyen Van Thuân gli spiegò che voleva fare semplicemente una catenella per portare la sua croce. Dopo tre giorni la guardia ricomparve con un paio di pinze e insieme composero una catenella. Da quella croce e da quella catena Nguyen Van Thuân non si separò più. Le portò sempre al collo, anche dopo la sua liberazione, avvenuta il 21 novembre 1988. E anche dopo il suo esilio forzato a Roma, nel 1991, e la sua nomina a cardinale, nel 2001.
E sempre con quella povera croce sul petto è morto, lunedì 16 settembre.
Islam, vescovo libanese: "Il Corano dice di uccidere fede imposta con la spada" - (Il Giornale, 22 ottobre 2010)
L'arcivescovo di Mardin dei Siri al Sinodo per il Medio Oriente: "Il Corano ordina di imporre la religione con la forza, con la spada. Per questo i musulmani non riconoscono la libertà religiosa, nè per loro nè per gli altri"
Città del Vaticano - "Il Corano dà al musulmano il diritto di giudicare i cristiani e di ucciderli con la Jihad": lo ha detto l’arcivescovo di Mardin dei Siri, mons. Raboula Antoine Beyluni, al Sinodo speciale per il Medio Oriente in corso in Vaticano.
Elencando una serie di motivi che ostacolano, a suo giudizio, il dialogo islamo-cristiano, Beyluni ha affermato che il Corano "ordina di imporre la religione con la forza, con la spada. La storia delle invasioni lo testimonia. Per questo i musulmani non riconoscono la libertà religiosa, nè per loro nè per gli altri. Non stupisce vedere tutti i paesi arabi e musulmani rifiutarsi di applicare integralmente i ’diritti umanì sanciti dalle Nazioni Unite".
"Di fronte a tutti questi divieti e argomenti - si è chiesto infine Beyluni - dobbiamo eliminare il dialogo? No - afferma - sicuramente no. Ma occorre scegliere i temi da affrontare e gli interlocutori cristiani capaci e ben formati, coraggiosi e pii, saggi e prudenti che dicano la verità con chiarezza e convinzione".
Sinodo medio oriente, censurato vescovo libanese che attacca musulmani e Corano (Il Messaggero, 22/10/2010) di Franca Giansoldati
CITTA’ DEL VATICANO (22 ottobre) - Dopo giorni di dibattiti interni in punta di fioretto, al Sinodo sul Medio Oriente è arrivata la denuncia choc di un vescovo libanese che, abbandonando il fair play della curia, ha voluto descrivere le cose come stanno: «Il Corano dà al musulmano il diritto di giudicare i cristiani e di ucciderli» e «ordina di imporre la religione con la forza, con la spada». Monsignor Rabula Antoine Beyluni osserva criticamente la situazione, facendo presente al Papa che certe interpretazioni del testo sacro islamico non fanno altro che gettare benzina sul fuoco, alimentando le persecuzioni anti-cristiane. Il Corano, ha detto, «ordina di imporre la religione con la forza, con la spada». Per questo «i musulmani non riconoscono la libertà religiosa» e «tutti i paesi arabi e musulmani si rifiutano di applicare integralmente i diritti umani».
Nel Corano, inoltre, «non c’è uguaglianza tra uomo e donna, vi sono versetti contraddittori e versetti annullati da altri, cosa che permette al musulmano di usare l’uno o l’altro a suo vantaggio». Il Corano, inoltre, «inculca al musulmano l’orgoglio di possedere la sola religione vera e completa». L’invettiva del vescovo non risparmia nemmeno i cristiani accusati di avere spesso un atteggiamento arrendevole e di non essere spesso «all’altezza» del confronto: «Occorre scegliere i temi da affrontare e gli interlocutori cristiani capaci e ben formati, coraggiosi e pii, saggi e prudenti che dicano la verità con chiarezza e convinzione. Deploriamo talvolta alcuni dialoghi in Tv in cui l’interlocutore cristiano non riesce a esprimere tutta la bellezza e la spiritualità della religione cristiana. Peggio ancora, talvolta ci sono interlocutori del clero che, nel dialogo, per guadagnarsi la simpatia del musulmano chiamano Maometto profeta e aggiungono la famosa invocazione musulmana spesso ripetuta (che la pace e la benedizione di Dio siano su di lui)».
L’Osservatore Romano che solitamente dà resoconto degli interventi, ha censurato l’intervento del vescovo libanese, che lo ha pubblicato togliendo la parola Islam. L’invito a censurarlo all’Osservatore è arrivato direttamente dalla Segreteria di Stato. E’ la seconda volta nell’arco di dieci giorni, da quando è iniziato il Sinodo. Era accaduto anche al discorso letto dall’ospite islamico invitato a parlare ai padri sinodali la scorsa settimana. Il passaggio in cui lo studioso sciita criticava Israele per la sua politica di occupazione è saltato dal testo pubblicato sull’organo ufficiale della Santa Sede.
Le parole del vescovo libanese hanno immediatamente sollevato reazioni da parte islamica.
L’Unione delle Comunità islamiche in Italia (Ucoii) gettà però acqua sul fuoco dicendo che quella del vescovo libanese è una «voce isolata», che non deve oscurare quella di «decine di vescovi che coltivano ogni giorno buone relazioni con l’Islam». Il maronita Bechara Rai, invece, ha detto che il problema non è con l’Islam, ma con i musulmani fondamentalisti e con gli Stati teocratici che mescolano politica e religione.
Le affermazioni di monsignor Beyluni hanno evocato alcuni passaggi del famoso discorso del Papa a Ratisbona. La citazione medievale tratta da Manuele II Paleologo cui faceva riferimento il pontefice, affermava che Maometto ha introdotto solo «cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede» ma, secondo Manuele II, ciò è irragionevole e «non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio».
22/10/2010 - NEPAL – BHUTAN - Cristiano condannato in Bhutan: il sostegno del vescovo protestante di Kalpit Parajuli - Per gli esuli la condanna del cristiano protestante di etnia nepalese, è l’ennesimo atto del governo contro le minoranze e le religioni diverse da quella buddista. Vescovo protestante: “Il Paese dovrebbe promuovere i valori della democrazia e dei diritti umani” (AsiaNews/Agenzie).
Kathmandu (AsiaNews/Agenzie) - “Questa è un’immagine della soppressione della libertà religiosa da parte del governo bhutanese. Tutti noi dobbiamo condannare questi atti contro la democrazia ovunque avvengano.” È quanto afferma Narayan Sharma, capo della chiesa protestante nepalese, in merito alla condanna a tre anni di Prem Singh Gurung, il cristiano bhutanese di etnia nepali, in carcere per aver proiettato un film sul cristianesimo. "Il Paese – aggiunge il vescovo Sharma - dovrebbe promuovere i valori della democrazia e dei diritti umani”.
Dal 2006 il governo del Bhutan ha iniziato a promuovere la democrazia, dopo secoli di monarchia assoluta che proibiva la pratica di religioni diverse dal buddismo e di qualsiasi etnia diversa da quella bhutanese. La nuova costituzione varata nel 2008 prevede la libertà di fede per tutti i bhutanesi, previa la segnalazione alle autorità competenti. Tuttavia è vietato il proselitismo, la pubblicazione di bibbie, la costruzione di scuole cristiane e l’ingresso ai religiosi. Il nuovo corso democratico non ha cambiato nemmeno le sorti degli oltre 100mila profughi di etnia nepalese, tra cui oltre 10mila cristiani, che tra il ’77 e il ’91 sono stati oggetto di una vera e propria pulizia etnica.
La notizia della condanna di Gurung ha suscitato critiche tra la popolazione dei campi profughi, che vedono nella sentenza l’ennesimo atto di repressione da parte di Timphu contro la popolazione di etnia nepalese e di religione non buddista.
Rijen Lama, profuga cristiana afferma:“Dobbiamo unirci tutti a prescindere delle religioni per lottare contro la soppressione delle minoranze in Bhutan”.
Tek Nath Rijal, leader dei rifugiati bhutanesi sottolinea che da anni il governo espelle tutti coloro che vogliono la libertà nel Paese, siano essi stranieri o cittadini. “Questa – afferma – è la ragione che ci ha portati a vivere come profughi”. “La comunità internazionale – aggiunge – deve fermare queste atrocità”.
Sudan sull'orlo di una nuova guerra civile. 22-10-2010 - di Omar Ebrahime – dal sito http://www.vanthuanobservatory.org
Dopo una guerra civile durata oltre quarant’anni che ha provocato due milioni e mezzo di morti, il Sudan, nonostante i ripetuti sforzi dei contingenti e degli osservatori internazionali presenti nel Paese, non riesce a trovare la pace. Il 9 gennaio il Sud del Paese (a maggioranza cristiana e dotato di ingenti risorse petrolifere) sarà chiamato infatti a decidere, tramite un referendum in materia di autodeterminazione, se staccarsi dalla Repubblica ormai dichiaratamente filo-islamista, oppure no. Nei giorni scorsi leader ed esponenti dei principali partiti politici hanno rilasciato dichiarazioni di fuoco. Il partito al governo (l’NCP, Partito del Congresso Nazionale) a cui appartiene l'attuale capo di Stato Omar Hasan Ahmad al-Bashir su cui la Corte Penale Internazionale ha spiccato un mandato d'arresto per crimini di guerra e crimini contro l'umanità (sarebbe uno dei responsabili dell'immane genocidio in Darfur perpetrato in questi anni contro la popolazione autoctona, non afro-araba), ha infatti lasciato intendere che la data della consultazione referendaria potrebbe essere posticipata per cause di forza maggiore. Da parte sua, il Movimento popolare per la liberazione del Sudan (SPLM) ha risposto che una scelta del genere avrebbe come conseguenza immediata la proclamazione dell’indipendenza della parte meridionale del Paese, dotata anche di abbondanti riserve di acqua: un fattore a dir poco decisivo in una terra senza economia e divorata dal deserto.
In questo clima incandescente la Chiesa non ha mancato di far sentire la sua voce chiamando tutte le forze politiche alla riconciliazione, esponendosi pubblicamente. I Vescovi hanno infatti già fatto appello alla comunità internazionale affinché, oltre a garantire le condizioni minime di sicurezza per lo svolgimento della consultazione referendaria, si preoccupino anche di assicurare che il Paese non ricada nel baratro della guerra civile all’indomani del voto, qualunque sia l’esito. A tal proposito il vescovo Edwuard Hiiboro, della diocesi di Tombura Yambio, ha dichiarato che le violenze a danno dei cristiani presenti nel Paese non sono cessate e che, anzi, “siamo stati testimoni di atti di una violenza e di un disprezzo inimmaginabili per il genere umano”. Proprio Domenica scorsa, l’Arcivescovo di Khartoum, il cardinale Gabriel Zubeir Wako, durante la Santa Messa annuale in memoria di San Daniele Comboni ((1831-1881) il grande apostolo e patrono del Sudan, fondatore della Chiesa nel Paese), è stato fatto oggetto di un attentato, fortunatamente senza conseguenze. Nel corso della celebrazione eucaristica, infatti, un uomo armato di coltello si è avvicinato al Cardinale per colpirlo a morte ma il suo gesto è stato provvidenzialmente impedito all'ultimo momento da uno dei sacerdoti presenti che è riuscito ad immobilizzarlo.
Secondo diversi osservatori internazionali presenti nel Paese, l’autodeterminazione del Sud, attesa da molti come una liberazione da un regime semi-dittatoriale basato sulla Shari’a, potrebbe avere ripercussioni gravissime per la sicurezza dei (non pochi) cristiani che vivono al Nord e nella capitale del Paese, comprese le stesse istituzioni cattoliche sanitarie, educative e caritative. Una situazione a cui non sembra esserci via d’uscita e destinata a peggiorare se la comunità internazionale non interverrà decisamente. Appena un anno fa il Paese guadagnò le cronache dei mass-media internazionali in seguito alla scoperta della sconvolgente crocifissione di sette cristiani (in gran parte ragazzi tra i 15 e i 20 anni), perpetrata proprio fuori della parrocchia in cui si trovavano a pregare, a Ezo, nel Sud del Paese - al confine con il Congo - da parte di milizie terroriste.
Avvenire.it, 23 ottobre 2010 - La causa di beatificazione di Van Thuân - Col sorriso e con la Croce di Salvatore Mazza
Il sorriso sembrava non lasciarlo mai. Anche quando – e non lo faceva spesso, né volentieri – raccontava della prigione, dei soprusi subiti, delle umiliazioni. E si stupiva del tuo stupore, quasi che la sua vita, le sue vicende, il suo dolore davvero non fossero niente di speciale, non avessero niente di straordinario. E se glielo dicevi si stringeva nelle spalle. Sorridendo: «È quello che qualunque sacerdote al mio posto avrebbe fatto».
Francis Xavier Nguyen Van Thuân ne era assolutamente convinto. Ma, in più che qualche modo, l’apertura ieri al Vicariato di Roma della sua causa di beatificazione, a otto anni dalla morte, conferma la straordinarietà di una vita che, a definirla un romanzo, le si fa un torto. Figura simbolo della resistenza della Chiesa vietnamita a un regime che avrebbe voluto cancellarne ogni traccia, certamente. Ma anche, e soprattutto, simbolo di come una fede salda – capace di nutrirsi di se stessa attraverso la croce costruita con un pezzo di legno e lo spago regalatigli dai suoi carcerieri, e la messa quotidiana clandestina celebrata come poteva (il palmo della mano come un calice, tre gocce d’acqua e una di vino) – riesca a mandare in crisi anche chi cerchi in ogni modo di svuotarti l’anima.
Non era modestia, quella con cui Van Thuân respingeva con un’alzata di spalle e un sorriso . Era, molto semplicemente, l’ “ovvio dei santi”, di chi ha saputo deporre nelle mani di Cristo tutta la propria sapienza, tutta la propria cultura, la propria vita. Senza riserve. Senza esitazioni. Senza rimpianti. Nominato vescovo sei giorni prima della caduta di Saigon, il 24 aprile del 1975, indicato come elemento “reazionario” (forse perché nipote del presidente del Vietnam del Sud, Ngo Dinh Diem) da alcuni dei suoi stessi confratelli, passò quasi direttamente dalla Curia al carcere. Tredici anni, nove dei quali in isolamento: Saigon, Nha Trang, Vinh–Quang. Guardato a vista. Nessuna accusa specifica. Nessun processo. Da impazzire.
Eppure non fu lui a impazzire. Casomai a diventar matto fu quel regime che, non volendolo eliminare per non farne un martire, cercò in ogni modo di spezzarlo, senza mai neppure scalfirlo. «Cristo è la mia corazza», diceva; e l’impressione, netta, era che la sua, prima che una citazione, fosse una constatazione autobiografica. E così aveva finito con lo spiazzare tutti: in primis i carcerieri che, stupiti e ammirati, gli passavano sottobanco le cose che chiedeva – sempre «per favore...» – compresa la carta che gli serviva per inviare messaggi ai suoi fedeli e per “costruirsi” una Bibbia. E poi i suoi compagni nel “campo di rieducazione”.
L’agenzia Asia News ha pubblicato la lettera che uno di loro, Hai, rilasciato prima di lui, gli scrisse: «Caro fratello Thuân, vi ho promesso che andrò dalla Signora di La Vang a pregare per voi. In questi anni ogni domenica, quando non pioveva, sono andato in bicicletta fino al santuario della Madonna, perché qui la chiesa è crollata durante la guerra. Ho detto per te questa preghiera: “Cara Madre Maria, non sono cattolico e non conosco nessuna preghiera. Ma ho promesso a fratello Thuân di pregarti, così sono venuto qui per chiedere a te Madre Maria, che conosci questo mio fratello, di aiutarlo se ha bisogno di qualcosa”».
Quando venne rilasciato, nell’88, restò una spina nel fianco nel regime, che tre anni dopo lo costrinse a lasciare il Paese. Iniziarono gli anni “romani”, accolto nella Curia da Giovanni Paolo II che, nel 1998, lo volle a capo del pontificio Consiglio Giustizia e Pace, che avrebbe guidato fino alla morte, e lo creò cardinale. Nel “nuovo” Vietnam sarebbe ritornato, poco prima di morire. Accolto come un eroe dai suoi fedeli, e vestito con la porpora. Ma con al collo la stessa croce e la stessa catena costruite tanti anni prima in carcere, con l’aiuto di un secondino. Aveva vinto lui.
Salvatore Mazza
Avvenire.it, 23 ottobre 2010 – INTERVISTA - Lévi-Strauss? Obsoleto di Lorenzo Fazzini
«Posso affermare di aver avuto con Lévi-Strauss un buon dialogo. So per certo che i miei studi lo interessavano. Il filosofo Jean Guitton mi disse un giorno che proprio Lévi-Strauss mi aveva proposto per un premio all’Académie française. Eravamo nel 1986, il libro premiato fu Il cammino del sacro nella storia per il quale mi venne assegnato il premio Dumas-Millier». Non c’è civetteria nelle parole di Julien Ries, il grande antropologo belga, mentre rievoca il suo rapporto con l’autore di Tristi tropici.
Proprio il confronto intellettuale con l’antropologo strutturalista, di cui il 30 ottobre ricorre il primo anniversario della morte, intesse il colloquio con Ries, instancabile ricercatore, a novant’anni suonati, delle tracce di Dio nella storia degli uomini. La sua Opera omnia è in corso di pubblicazione presso la casa editrice Jaca Book. In diversi testi della sua antropologia religiosa Julien Ries, docente emerito di Storia delle religioni all’Università Cattolica di Lovanio, fondatore del centro di Storia delle religioni nel medesimo ateneo, affronta e discute il pensiero di Lévi-Strauss.
Come nel saggio Simbolo. Le costanti del sacro, laddove scrive: «Un’ermeneutica riduzionista impregna tutta l’opera di Claude Lévi-Strauss. Ai suoi occhi, il mito non veicola alcun messaggio, sicché l’ermeneutica si limita ad essere un sistema di relazione». Alla prospettiva del defunto antropologo Ries contrappone l’ermeneutica "instaurativa" di Gaston Bachelard e Paul Ricoeur, che offre «al simbolo tutto il suo spazio e la pienezza delle sue funzioni».
Professor Ries, quale il suo giudizio sull’opera di Lévi-Strauss?
«Egli era un antropologo marxista, o almeno così si presentava lui. Era uno studioso della cultura umana completamente al di fuori dall’ottica cristiana. Nella sua opera principale, Antropologia strutturale, offre una visione dell’uomo come soggetto che ha un cervello strutturato e determinato. E tale predeterminazione crea in Lévi-Strauss un gran pessimismo. Del resto il suo testo più celebre si intitola appunto Tristi tropici, in cui manifesta il suo pessimismo verso l’uomo e la società umana».
Perché tale pessimismo?
«Perché a suo giudizio l’umanità ha raggiunto il suo culmine di sviluppo nell’epoca del Neolitico, cioè in uno stadio "primitivo". E quindi l’evoluzione successiva della storia umana ai suoi occhi rappresenta una caduta. A parere di Lévi-Strauss, la struttura mortale dell’uomo spiega la sua evoluzione "negativa". Il suo pessimismo gli ha impedito però di analizzare e valorizzare l’espressione religiosa, artistica e culturale delle grandi civiltà successive, ad esempio quelle egiziane, mesopotamiche, quella biblica e quella greco-romana».
Quale la risposta "migliore" a tale posizione strutturalista e pessimista?
«Alla fine della sua vita Lévi-Strauss ha avuto oppositori e sostenitori "partigiani" delle sue teorie. Uno dei critici fu il filosofo Paul Ricoeur, il quale – in un articolo sulla rivista "Esprit" – si rivolgeva a lui con queste parole: "Lei è affascinante ma inquietante". Proprio le conclusioni del pensiero di Lévi-Strauss sono inquietanti. Nelle ultime cinquanta pagine di Tristi tropici egli fa la sintesi del suo pensiero. E si domanda: "Ma nei miti dell’uomo vi è un messaggio?" E risponde così (cito a memoria): "No, nessun messaggio. L’unica conclusione che si può avere è che il mito è la realizzazione dell’attività della corteccia celebrale del cervello umano". Ma il mito è ben altro, esso è un messaggio per l’uomo. L’uomo attraverso il mito esprime una certa visione del mondo e dell’universo. Mi spiego con un esempio».
Dica.
«Sui muri delle grotte di Lascaux, in Francia, vi sono dei dipinti antichissimi di epoca preistorica. Negli stessi anfratti vi è la testimonianza che vi passava e sostava della gente, ragazzini di dodici-quattordici anni. Cosa significa questo? Che di fronte a queste pitture rupestri vi erano gruppi di giovani che arrivavano per riti di iniziazione, momenti importanti che determinavano il loro ingresso nel clan. Dunque, quelle immagini mitiche dipinte sui muri venivano spiegate a questi giovani da parte di qualcuno che ne conosceva il significato. Quindi quei messaggi non erano privi di senso, ma trasmettevano qualcosa».
Come superare la visione "minimalista" di Lévi Strauss?
«Gli va riconosciuto il merito di aver cercato di proporre un’antropologia basata sui studi sulle tribù primitive dell’America latina, di cui ha studiato la vita quotidiana. La sua antropologia però non dura nel tempo e già oggi perde di attualità. Proprio perché è fallito il suo tentativo di spiegare l’antropologia attraverso il materialismo e lo strutturalismo. In realtà l’uomo cerca sempre l’homo religiosus che è in lui, che vive alla scoperta del sacro a partire dal messaggio del mito».
Van Thuân testimone di speranza e bontà - Aperta a Roma la causa di beatificazione del cardinale vietnamita che pagò con tredici anni di carcere duro la fedeltà al Vangelo. - Vallini: chi lo avvicinava ne restava ammirato - DA ROMA MIMMO MUOLO – Avvenire, 23 ottobre 2010
Pham Van Cong ha gli occhi luci di per la commozione. Tanti an ni fa, quando era il carceriere del prigioniero François-Xavier N guyen Van Thuân, accusato di «aver complottato con il Vaticano e gli im perialisti contro la rivoluzione comu nista », mai avrebbe immaginato di ri trovarsi un giorno in prima fila, in mez zo a tanti cardinali e vescovi di Santa Romana Chiesa, ad assistere all’inizio del processo di beatificazione del suo antico perseguitato. Monsignor Paul Pham Van Hien, invece, sprizza gioia da tutti i pori. «Sono felice di aver vis suto con un santo», dice il sacerdote vietnamita che del cardinale Van Thuân è stato per otto anni il segreta rio personale. Insieme a loro, nell’Aula della Conci liazione, un pezzo di quel Vietnam tan to amato dal presidente del Pontificio Consiglio 'Giustizia e pace' e che tan to lo ha fatto soffrire, per il solo moti vo di essere un vescovo cattolico. Que sto è infatti un giorno di festa per la co munità ecclesiale del Paese asiatico. A otto anni dalla morte, avvenuta a Ro ma il 16 settembre 2002, inizia ufficial mente l’itinerario verso la gloria degli altari. E sono numerosi i suoi conna zionali che non hanno voluto manca re all’appuntamento. Molti sono vesti ti con i classici costumi adornati da ca ratteristici copricapo usati nelle feste del loro Paese: l’ ao dai per gli uomini, il khan dong per le signore. E l’atmo sfera che si respira nella storica aula è davvero quella delle grandi occasioni. «Il ricordo di questo grande testimone della fede – dice infatti il cardinale vi cario di Roma, Agostino Vallini – su scita grande ammirazione. Quanti lo avvicinavano rimanevano colpiti dal la sua bontà, a cominciare dai suoi car cerieri, tanto che una volta un capo del la polizia gli chiese di insegnare agli a genti le lingue che lui parlava corren temente ». Ne sa qualcosa lo stesso Cong, che og gi è qui e ascolta il discorso del porpo rato con accanto un sacerdote che glie lo traduce simultaneamente. Vallini, infatti, nel ripercorrere la straordina ria vicenda umana di Van Thuân, si sof ferma in particolare sulla grande pro va dei suoi tredici anni di prigionia: dal 1975, anno della caduta di Saigon, la capitale del sud di cui il Servo di Dio e ra stato da poco nominato arcivesco vo coadiutore, fino al 1988. Prigionia dura, trascorsa per gran parte in isola mento, con angherie di ogni tipo. Com presa quella di trasferirlo di continuo da un posto all’altro, per impedirgli di diventare amico di quanti dovevano controllarlo. «La sua bontà – ricorda, infatti, il cardinale vicario – conquista va di volta in volta i suoi carcerieri e questo faceva irritare le autorità supe riori ». In carcere l’allora arcivescovo Van Thuân celebrava la Messa tenendo in mano alcuni pezzetti di pane e poche gocce di vino, custodite in una boccet ta con la scritta «medicina per il mal di stomaco», che i fedeli gli facevano ar rivare eludendo i controlli. Era riusci to a fabbricarsi una croce in legno e a forgiarsi una croce pettorale con del semplice filo di ferro. Infine scrisse su pezzi di carta in ogni modo raccattati i suoi pensieri e oltre 300 frasi del Van gelo, poiché non poteva disporre di u na Bibbia. Nel 2000, quando Giovanni Paolo II lo chiamò a predicargli gli esercizi spiri tuali, nel discorso di ringraziamento, disse: «La sua sofferta prigionia ci rafforza nella consolante certezza che quando tutto crolla attorno a noi e for se anche dentro di noi, Cristo resta in defettibile nostro sostegno». E questa è anche la grande eredità del porpo rato vietnamita. «L’essere stato – ri corda in conclusione del suo discor so Vallini – soprattutto un testimone di speranza».
Faulkner contro la fine dell’uomo - DI FULVIO PANZERI – Avvenire, 23 ottobre 2010
È un grande libro questo che raccoglie gli scritti, i discorsi e le lettere di William Faulkner. Per la loro natura occasionale questi testi potrebbero apparire 'minori' rispetto al complesso della grande opera narrativa dello scrittore americano; invece riuniti in questo volume, che traccia un percorso, non tanto tematico, ma legato alle occasioni di scrittura, assumono una valenza dalla quale non si può prescindere per conoscere l’idea di letteratura di Faulkner. E soprattutto, risuonano nella nostra contemporaneità, nella loro strenua difesa del principio di umanità dell’uomo che la letteratura è chiamata a salvaguardare, come un atto di sfida al senso che, generalmente oggi (a parte i casi isolati) editoria e letteratura, danno alla scrittura, senso sempre più legato ad indici di vendita e non di percorsi nel cuore della natura umana.
Faulkner sovverte questa idea e, ossessivamente e continuamente, con grande coerenza, in ogni saggio, in ogni introduzione, in ogni discorso ci dice che lo scrittore ha il dovere di guardare all’uomo, alla sua miseria, alla sua natura che lo porta a 'completare' il mondo voluto da Dio. La straordinarietà di questi testi sparsi, nati per occasioni assai diverse, deriva dal fatto che non cedono mai rispetto al valore etico della parola e della scrittura.
Questo è il punto sul quale insiste con forza Faulkner, con una chiarezza di scrittura e una densità di significato che non lasciano indifferenti: interrogano, chiamano alla rivolta interiore, invitano a confrontarsi con le pochezze e l’indebolimento che è stato fatto sul corpo proprio della parola. Sessant’anni fa, nel 1950, quando gli venne assegnato il premio Nobel, pronunciò un breve discorso, acuminato di significato e teso a sostenere il valore morale della scrittura. Era un discorso in cui l’incipit già bastava a definire il senso dell’avventura faulkneriana: «Sento che il vero destinatario di questo premio non sono io come uomo, ma la mia opera – l’opera di una vita nell’agonia e nel sudore dello spirito umano, non per la gloria e tantomeno per il profitto, ma per creare dai materiali dello spirito umano qualcosa che prima non esisteva. Perciò di questo premio sono il semplice custode». È un atto di umiltà assoluta nei confronti della scrittura, che troverà negli stessi anni un parallelo nell’esperienza di Flannery O’Connor che avrebbe potuto sottoscrivere buona parte di queste indicazioni di poetica letteraria di Faulkner, e che anzi su queste, probabilmente, ha scavato ulteriormente, facendole aderire alla propria sensibilità. Lo si capisce appieno leggendo un discorso folgorante che Faulkner pronuncia davanti ai diplomandi di un college nel 1953. Si tratta di una acuta riflessione sul destino dell’uomo, a partire da una riflessione sul senso del peccato originale e della Genesi e un invito morale a riconoscere il proprio ruolo e a definire il proprio destino nei termini dell’aiuto a quel Dio che ha dato tutto all’uomo, anche la possibilità dell’oscurità, affinché fosse suo comprimario nel completamento della definizione del mondo. Scrive Faulkner: «Il difetto di questo mondo è che non è terminato. L’opera non è completa, non al punto che l’uomo possa metterci la firma in calce e dire: 'È terminato. L’abbiamo creato, e funziona'. Perché soltanto l’uomo può completarlo. Non Dio, l’uomo. E’ sommo destino dell’uomo e prova della sua immortalità, che a lui appartenga la scelta tra porre fine al mondo, cancellarlo dai lunghi annali del tempo e dello spazio, o completarlo. Ciò non soltanto è suo diritto, ma anche suo privilegio». Questo vale anche per la scrittura, per la riflessione letteraria, tanto che ai giovani scrittori sottolinea un problema urgente, quello di «impedire che il genere umano venga disanimato». È la tragedia che riconosce essere al centro del Giovane Holden di Salinger, il libro che ritiene 'migliore', tra quelli della nuova letteratura americana. E invita i giovani scrittori a un atto di coraggio: «Nessuno può salvare l’umanità dell’uomo se non lo scrittore, il poeta, l’artista, primo tra tutti a temerne la scomparsa, poiché l’umanità dell’uomo è il sangue che tiene vivo l’artista». Parole desuete che vibrano e risuonano come moniti e raccontano una verità complessa, ma semplice per Faulkner, quella di «nobilitare il cuore dell’uomo». E non stupisce in uno scrittore che nel 1961 si definisce «uno straniero cresciuto in campagna che ha seguito quella vocazione per centinaia di miglia, per scovare e cercare di catturare e imitare per un momento in una manciata di pagine stampate la verità della speranza dell’uomo nel dilemma umano».
William Faulkner - W.F. SCRITTI, DISCORSI, LETTERE, Il Saggiatore, pag. 324, euro 22,00