lunedì 25 ottobre 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    Radio Vaticana, 24 ottobre 2010 - Angelus. Il Papa sulla Giornata missionaria: annunciare il Vangelo non è rivoluzionare il mondo ma trasfigurarlo con la forza di Gesù
2)    OMELIA DI BENEDETTO XVI A CONCLUSIONE DEL SINODO PER IL MEDIO ORIENTE - “Comunione con Gesù crocifisso e risorto, testimonianza del suo amore”
3)    LA SFIDA DEL PLURALISMO RELIGIOSO - Messaggio finale al popolo di Dio approvato il 22 ottobre dai padri sinodali a conclusione dell’Assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei vescovi di Chiara Santomiero (ZENIT.org).
4)    VATICANO - M. ORIENTE - Sinodo per il Medio Oriente: il Messaggio al Popolo di Dio - Approvato alla fine delle assemblee sinodali, il testo (che qui presentiamo integrale) è ricco di spunti: la dolorosa situazione politica del Medio Oriente; la fatica delle Chiese, l’emigrazione e la diaspora; il desiderio di costruire con ebrei e musulmani una società basata sulla piena uguaglianza dei cittadini; condanna di antisemitismo, anticristianesimo e islamofobia; l’appello all’Onu e alla comunità internazionale per garantire la pace nel conflitto Israele-Palestina; in Libano, in Iraq. (AsiaNews)
5)    22/10/2010 – CINA - Storia di ordinaria repressione religiosa in Cina - Minacce, violenze fisiche e psicologiche e infine la semplice limitazione della libertà: ecco come il regime di Pechino tratta i cristiani cinesi, nel racconto di una delegata protestante che voleva partecipare al convegno sull’evangelizzazione in Sudafrica. (AsiaNews/Caa)
6)    Al termine dei lavori Benedetto XVI ringrazia i padri sinodali e sottolinea la ricchezza della pluralità nella Chiesa cattolica del Medio Oriente  - La polifonia dell'unica fede (©L'Osservatore Romano - 24 ottobre 2010)
7)    L'arcivescovo Amato per la beatificazione di Alfonsa Clerici - Una vita al servizio della carità e dell'educazione  (©L'Osservatore Romano - 24 ottobre 2010)
8)    venerdì 22 ottobre 2010 - Gli scienziati: «l'uomo è l'unica eccezione di non dipendenza dal DNA». – dal sito http://dallaragioneallafede.blogspot.com
9)    IL TRAMONTO DEL MULTICULTURALISMO - Via dagli slogan torniamo alla realtà - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 24 ottobre 2010
10)                      Il demonio? - Oggi si chiama ideologia - di André Glucksmann – Avvenire, 24 ottobre 2010
11)                      "La dottrina sociale di Leone XIII" - Nuovo libro di Massimo Introvigne: estratto in tema di matrimonio - pubblicata da Massimo Introvigne il giorno lunedì 25 ottobre 2010
12)                      I minatori e le stelle Pigi Colognesi - lunedì 25 ottobre 2010 – il sussidiario.net
13)                      IDEE/ 3. Sarà la bellezza a guarirci dal nichilismo e dal fondamentalismo Costantino Esposito - lunedì 25 ottobre 2010 – il sussidiario.net
14)                      lunedì 25 ottobre 2010, - Israele passa all’attacco: il Sinodo è anti ebraico -  Il viceministro degli Esteri: "È diventato un forum di attacchi politici". "Mai usato la Bibbia per giustificare la nostra linea". I vescovi cattolici del Medio Oriente avevano chiesto di fermare l’occupazione della Palestina di Andrea Tornielli

Radio Vaticana, 24 ottobre 2010 - Angelus. Il Papa sulla Giornata missionaria: annunciare il Vangelo non è rivoluzionare il mondo ma trasfigurarlo con la forza di Gesù
“Tutti i battezzati sono chiamati ad annunciare la Buona Notizia della salvezza”: è quanto ha ribadito il Papa all’Angelus ricordando l’odierna Giornata missionaria mondiale che quest’anno ha per motto “La costruzione della comunione ecclesiale è la chiave della missione”. Ce ne parla Sergio Centofanti.
(Audio: http://62.77.60.84/audio/ra/00232219.RM)

Dopo la Messa per la conclusione del Sinodo, il Papa ha presieduto la preghiera mariana dell’Angelus affacciandosi alla finestra del suo studio privato. Decine di migliaia i pellegrini presenti in Piazza San Pietro. Sulla scia di Paolo VI ha ricordato che la Chiesa è per sua natura missionaria:

“La Chiesa esiste per evangelizzare, vale a dire per predicare ed insegnare, essere il canale del dono della grazia, riconciliare i peccatori con Dio, perpetuare il sacrificio del Cristo nella Santa Messa che è il memoriale della sua morte e della sua gloriosa risurrezione”.

“In ogni tempo e in ogni luogo – ha proseguito – la Chiesa è presente e opera per accogliere ogni uomo e offrirgli in Cristo la pienezza della vita”. Il cristiano, dunque – ha spiegato il Papa – non attende la vita eterna in modo solitario o inoperoso, ma vive in comunione con Cristo per essere in comunione con gli altri e portare al mondo l’annuncio del Vangelo:

“Il compito missionario non è rivoluzionare il mondo, ma trasfigurarlo, attingendo la forza da Gesù Cristo che ‘ci convoca alla mensa della sua Parola e dell’Eucaristia, per gustare il dono della sua Presenza, formarci alla sua scuola e vivere sempre più consapevolmente uniti a Lui, Maestro e Signore’”.

Anche i cristiani di oggi – ha affermato citando la lettera “A Diogneto” – “mostrano come sia meravigliosa e … straordinaria la loro vita associata”:

“Trascorrono l’esistenza sulla terra, ma sono cittadini del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, ma con il loro modo di vivere oltrepassano le leggi … Sono condannati a morte, e da essa traggono vita. Pur facendo il bene, sono … perseguitati e crescono di numero ogni giorno”.

Benedetto XVI invita tutti a pregare per i missionari che spesso svolgono la loro opera “in mezzo a grandi difficoltà” e li affida “alla Vergine Maria, che da Gesù Crocifisso ha ricevuto la nuova missione di essere Madre di tutti coloro che vogliono credere in Lui e seguirlo”.

Dopo la preghiera mariana, il Papa, infine, ha ricordato che ieri, a Vercelli, è stata proclamata Beata suor Alfonsa Clerici, della Congregazione del Preziosissimo Sangue di Monza, nata a Lainate, presso Milano, nel 1860, e morta a Vercelli nel 1930. “Rendiamo grazie a Dio – ha detto - per questa nostra Sorella, che Egli ha guidato alla perfetta carità”.


OMELIA DI BENEDETTO XVI A CONCLUSIONE DEL SINODO PER IL MEDIO ORIENTE - “Comunione con Gesù crocifisso e risorto, testimonianza del suo amore”

CITTA' DEL VATICANO, domenica, 24 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'omelia pronunciata questa domenica da Benedetto XVI nel presiedere nella Basilica Vaticana la concelebrazione dell’Eucaristia con i Padri sinodali, in occasione della conclusione dell’Assemblea Speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi sul tema: «La Chiesa Cattolica nel Medio Oriente: comunione e testimonianza: "La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuor solo e un’anima sola". (At 4,32)»

* * *
Venerati Fratelli,
illustri Signori e Signore,
cari fratelli e sorelle!
A distanza di due settimane dalla Celebrazione di apertura, ci siamo radunati nuovamente nel giorno del Signore, intorno all’Altare della Confessione della Basilica di San Pietro, per concludere l’Assemblea Speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi. Nei nostri cuori c’è una profonda gratitudine a Dio che ci ha donato questa esperienza davvero straordinaria, non solo per noi, ma per il bene della Chiesa, del Popolo di Dio che vive nelle terre tra il Mediterraneo e la Mesopotamia. Come Vescovo di Roma, desidero partecipare questa riconoscenza a voi, venerati Padri sinodali: Cardinali, Patriarchi, Arcivescovi, Vescovi. Ringrazio in particolare il Segretario Generale, i quattro Presidenti Delegati, il Relatore Generale, il Segretario Speciale e tutti i collaboratori, che in questi giorni hanno lavorato senza risparmio.
Stamani abbiamo lasciato l’Aula del Sinodo e siamo venuti "al tempio per pregare"; per questo, ci riguarda direttamente la parabola del fariseo e del pubblicano raccontata da Gesù e riportata dall’evangelista san Luca (cfr 18,9-14). Anche noi potremmo essere tentati, come il fariseo, di ricordare a Dio i nostri meriti, magari pensando all’impegno di queste giornate. Ma, per salire al Cielo, la preghiera deve partire da un cuore umile, povero. E quindi anche noi, al termine di questo evento ecclesiale, vogliamo anzitutto rendere grazie a Dio, non per i nostri meriti, ma per il dono che Lui ci ha fatto. Ci riconosciamo piccoli e bisognosi di salvezza, di misericordia; riconosciamo che tutto viene da Lui e che solo con la sua Grazia si realizzerà quanto lo Spirito Santo ci ha detto. Solo così potremo "tornare a casa" veramente arricchiti, resi più giusti e più capaci di camminare nelle vie del Signore.
La prima lettura e il Salmo responsoriale insistono sul tema della preghiera, sottolineando che essa è tanto più potente presso il cuore di Dio quanto più chi prega è in condizione di bisogno e di afflizione. "La preghiera del povero attraversa le nubi", afferma il Siracide (35,21); e il salmista aggiunge: "Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato, / egli salva gli spiriti affranti" (34,19). Il pensiero va a tanti fratelli e sorelle che vivono nella regione mediorientale e che si trovano in situazioni difficili, a volte molto pesanti, sia per i disagi materiali, sia per lo scoraggiamento, lo stato di tensione e talvolta di paura. La Parola di Dio oggi ci offre anche una luce di speranza consolante, là dove presenta la preghiera, personificata, che "non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità" (Sir 35,21-22). Anche questo legame tra preghiera e giustizia ci fa pensare a tante situazioni nel mondo, in particolare nel Medio Oriente. Il grido del povero e dell’oppresso trova un’eco immediata in Dio, che vuole intervenire per aprire una via di uscita, per restituire un futuro di libertà, un orizzonte di speranza.
Questa fiducia nel Dio vicino, che libera i suoi amici, è quella che testimonia l’apostolo Paolo nell’epistola odierna, tratta dalla Seconda Lettera a Timoteo. Vedendo ormai prossima la fine della vita terrena, Paolo traccia un bilancio: "Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede" (2 Tm 4,7). Per ognuno di noi, cari fratelli nell’episcopato, questo è un modello da imitare: ci conceda la Bontà divina di fare nostro un simile consuntivo! "Il Signore – prosegue san Paolo – mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero" (2 Tm 4,16-17). E’ una parola che risuona con particolare forza in questa domenica in cui celebriamo la Giornata Missionaria Mondiale! Comunione con Gesù crocifisso e risorto, testimonianza del suo amore. L’esperienza dell’Apostolo è paradigmatica per ogni cristiano, specialmente per noi Pastori. Abbiamo condiviso un momento forte di comunione ecclesiale. Ora ci lasciamo per tornare ciascuno alla propria missione, ma sappiamo che rimaniamo uniti, rimaniamo nel suo amore.
L’Assemblea sinodale che oggi si chiude ha tenuto sempre presente l’icona della prima comunità cristiana, descritta negli Atti degli Apostoli: "La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola" (At 4,32). E’ una realtà sperimentata nei giorni scorsi, in cui abbiamo condiviso le gioie e i dolori, le preoccupazioni e le speranze dei cristiani del Medio Oriente. Abbiamo vissuto l’unità della Chiesa nella varietà delle Chiese presenti in quella Regione. Guidati dallo Spirito Santo, siamo diventati "un cuore solo e un’anima sola" nella fede, nella speranza e nella carità, soprattutto durante le Celebrazioni eucaristiche, fonte e culmine della comunione ecclesiale, come pure nella Liturgia delle Ore, celebrata ogni mattina in uno dei 7 Riti cattolici del Medio Oriente. Abbiamo così valorizzato la ricchezza liturgica, spirituale e teologica delle Chiese Orientali Cattoliche, oltre che della Chiesa Latina. Si è trattato di uno scambio di doni preziosi, di cui hanno beneficiato tutti i Padri sinodali. E’ auspicabile che tale esperienza positiva si ripeta anche nelle rispettive comunità del Medio Oriente, favorendo la partecipazione dei fedeli alle celebrazioni liturgiche degli altri Riti cattolici e quindi ad aprirsi alle dimensioni della Chiesa universale.
La preghiera comune ci ha aiutato anche ad affrontare le sfide della Chiesa Cattolica nel Medio Oriente. Una di esse è la comunione all’interno di ogni Chiesa sui iuris, come pure nei rapporti tra le varie Chiese Cattoliche di diverse tradizioni. Come ci ha ricordato l’odierna pagina del Vangelo (cfr Lc 18,9-14), abbiamo bisogno di umiltà, per riconoscere i nostri limiti, i nostri errori ed omissioni, per poter veramente formare "un cuore solo e un’anima sola". Una più piena comunione all’interno della Chiesa Cattolica favorisce anche il dialogo ecumenico con le altre Chiese e Comunità ecclesiali. La Chiesa Cattolica ha ribadito anche in quest’Assise sinodale la sua profonda convinzione di proseguire tale dialogo, affinché si realizzi compiutamente la preghiera del Signore Gesù "perché tutti siano una sola cosa" (Gv 17,21).
Ai cristiani nel Medio Oriente si possono applicare le parole del Signore Gesù: "Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno" (Lc 12,32). Infatti, anche se poco numerosi, essi sono portatori della Buona Notizia dell’amore di Dio per l’uomo, amore che si è rivelato proprio in Terra Santa nella persona di Gesù Cristo. Questa Parola di salvezza, rafforzata con la grazia dei Sacramenti, risuona con particolare efficacia nei luoghi in cui, per divina Provvidenza, è stata scritta, ed è l’unica Parola in grado di rompere il circolo vizioso della vendetta, dell’odio, della violenza. Da un cuore purificato, in pace con Dio e con il prossimo, possono nascere propositi ed iniziative di pace a livello locale, nazionale ed internazionale. In tale opera, alla cui realizzazione è chiamata tutta la comunità internazionale, i cristiani, cittadini a pieno titolo, possono e debbono dare il loro contributo con lo spirito delle beatitudini, diventando costruttori di pace ed apostoli di riconciliazione a beneficio di tutta la società.
Da troppo tempo nel Medio Oriente perdurano i conflitti, le guerre, la violenza, il terrorismo. La pace, che è dono di Dio, è anche il risultato degli sforzi degli uomini di buona volontà, delle istituzioni nazionali ed internazionali, in particolare degli Stati più coinvolti nella ricerca della soluzione dei conflitti. Non bisogna mai rassegnarsi alla mancanza della pace. La pace è possibile. La pace è urgente. La pace è la condizione indispensabile per una vita degna della persona umana e della società. La pace è anche il miglior rimedio per evitare l’emigrazione dal Medio Oriente. "Chiedete pace per Gerusalemme" – ci dice il Salmo (122,6). Preghiamo per la pace in Terra Santa. Preghiamo per la pace nel Medio Oriente, impegnandoci affinché tale dono di Dio offerto agli uomini di buona volontà si diffonda nel mondo intero.
Un altro contributo che i cristiani possono apportare alla società è la promozione di un’autentica libertà religiosa e di coscienza, uno dei diritti fondamentali della persona umana che ogni Stato dovrebbe sempre rispettare. In numerosi Paesi del Medio Oriente esiste la libertà di culto, mentre lo spazio della libertà religiosa non poche volte è assai limitato. Allargare questo spazio di libertà diventa un’esigenza per garantire a tutti gli appartenenti alle varie comunità religiose la vera libertà di vivere e professare la propria fede. Tale argomento potrebbe diventare oggetto di dialogo tra i cristiani e i musulmani, dialogo la cui urgenza ed utilità è stata ribadita dai Padri sinodali.
Durante i lavori dell’Assemblea è stata spesso sottolineata la necessità di riproporre il Vangelo alle persone che lo conoscono poco, o che addirittura si sono allontanate dalla Chiesa. Spesso è stato evocato l’urgente bisogno di una nuova evangelizzazione anche per il Medio Oriente. Si tratta di un tema assai diffuso, soprattutto nei Paesi di antica cristianizzazione. Anche la recente creazione del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione risponde a questa profonda esigenza. Per questo, dopo aver consultato l’episcopato del mondo intero e dopo aver sentito il Consiglio Ordinario della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi, ho deciso di dedicare la prossima Assemblea Generale Ordinaria, nel 2012, al seguente tema: "Nova evangelizatio ad christianam fidem tradendam - La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana".
Cari fratelli e sorelle del Medio Oriente! L’esperienza di questi giorni vi assicuri che non siete mai soli, che vi accompagnano sempre la Santa Sede e tutta la Chiesa, la quale, nata a Gerusalemme, si è diffusa nel Medio Oriente e in seguito nel mondo intero. Affidiamo l’applicazione dei risultati dell’Assemblea Speciale per il Medio Oriente, come pure la preparazione di quella Generale Ordinaria, all’intercessione della Beata Vergine Maria, Madre della Chiesa e Regina della Pace. Amen.
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]


LA SFIDA DEL PLURALISMO RELIGIOSO - Messaggio finale al popolo di Dio approvato il 22 ottobre dai padri sinodali a conclusione dell’Assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei vescovi di Chiara Santomiero (ZENIT.org).

ROMA, sabato, 23 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Un contesto che pone numerose sfide, tra le quali quella “delle condizioni politiche e della sicurezza nei nostri paesi e dal pluralismo religioso”: è quanto sottolinea il Messaggio finale al popolo di Dio approvato il 22 ottobre dai padri sinodali a conclusione dell’Assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei vescovi.
“La preoccupazione del Sinodo – ha sottolineato mons. Béchara Raï, vescovo di Jbeil dei maroniti in un incontro con la stampa successivo all’approvazione del messaggio - riguarda la presenza cristiana in Medio Oriente e come la Chiesa cattolica può sostenere e incoraggiare questa porzione della Chiesa universale. Anche la lettura degli avvenimenti politici è fatta in una prospettiva teologica: come riconoscere la Parola di Dio per noi in questa situazione?”.
Una premessa essenziale, secondo Raï, per intendere il contesto in cui vive la Chiesa cristiana mediorientale è capire “che il pensiero orientale e quello occidentale sono, per alcuni aspetti, profondamente diversi”.
Sono diversi i concetti di “Stato, politica, religione: se si rispetta la libertà religiosa, non viene intesa la libertà di coscienza, quindi la possibilità di cambiare credo religioso; Stato e religione sono concetti di fatto coincidenti, tanto che in Libano non esiste il matrimonio civile”. Così come in Israele. “D’altra parte – ha sottolineato Raï - l'idea di Stato teocratico non vale solo per l'islam ma anche per Israele: basti pensare al giuramento di fedeltà all'ebraismo richiesto per i nuovi cittadini israeliani che fomenta il malcontento dei musulmani ed è una nuova minaccia per la pace”.
La religione è condizionata dalla politica e a sua volta la condiziona: “le divisioni tra i cristiani in Libano – ha affermato Raï rispondendo alla domanda di un giornalista – non nascono da divergenze religiose”. Infatti “non abbiamo nessun tipo di contrasto tra le chiese cattoliche delle diverse tradizioni e nemmeno con quelle ortodosse con le quali collaboriamo attivamente sulle problematiche pastorali”. “I nostri paesi – ha spiegato Raï – sono piccoli e stiamo sempre insieme, a scuola, nelle feste, sono numerosi i matrimoni misti, c'è molta ospitalità reciproca perché questo è tipico del costume del Medio Oriente”.
“Il problema, allora, non è ecclesiale, ma politico – ha sottolineato –. Siamo un anello della catena formata dai Paesi dell'area mediorientale e tutti risentiamo del conflitto esistente tra musulmani sunniti e sciiti. Le divisioni nascono dalla 'scommessa' su quale sia la parte migliore con la quale allearsi per garantire al Libano un governo democratico, non teocratico così che la presenza dei cristiani abbia un senso e non sia solo una forma di sopravvivenza”.
“Il Libano – ha aggiunto Raï –, si dice sia nato da due 'no', no alla teocrazia del mondo orientale e no alla laicità occidentale: è stato questo il patto nazionale stabilito nel 1943 tra musulmani e cristiani per affermare una forma democratica nel paese”. Restano, tuttavia “due forze che tirano ognuna per la propria parte e ognuna ha paura che l'altra le si rivolti contro”.
La mancanza di distinzione tra Stato e religione coinvolge anche il modo di guardare agli altri Paesi: “per i musulmani la Francia, l'Italia, gli Stati Uniti sono espressione di una cristianità minacciosa e quasi si aspettano dal Sinodo l'avvio di una nuova crociata per cui valuteranno i documenti prodotti in modo approfondito”. La stessa mentalità coinvolge anche i cristiani: “se l'Iran offre 35 milioni di dollari al mese a Hezbollah – ragionano -, perché il Vaticano non fa lo stesso per noi? Invece siamo noi a fare la colletta per l'obolo di S. Pietro!”.
Uno dei contributi più importanti del Sinodo, secondo Raï, è proprio aver cercato di aiutare “la comprensione delle diverse posizioni. Se non si capisce la differenza di pensiero tra Oriente e Occidente anche l'Europa avrà difficoltà con l'islam nel futuro”.


VATICANO - M. ORIENTE - Sinodo per il Medio Oriente: il Messaggio al Popolo di Dio - Approvato alla fine delle assemblee sinodali, il testo (che qui presentiamo integrale) è ricco di spunti: la dolorosa situazione politica del Medio Oriente; la fatica delle Chiese, l’emigrazione e la diaspora; il desiderio di costruire con ebrei e musulmani una società basata sulla piena uguaglianza dei cittadini; condanna di antisemitismo, anticristianesimo e islamofobia; l’appello all’Onu e alla comunità internazionale per garantire la pace nel conflitto Israele-Palestina; in Libano, in Iraq. (AsiaNews)

 Città del Vaticano (AsiaNews) – La grandezza delle tradizioni dell’Oriente, insieme alle sofferenze attuali dei popoli della regione (l’occupazione israeliana, la guerra in Iraq, il terrorismo, l’emigrazione, …); la speranza di costruire una società dove non vi sia antisemitismo, anticristianesimo, islamofobia, e dove cristiani, musulmani ebrei sono cittadini a parte piena; l’appello alla comunità internazionale per garantire la pace a palestinesi, israeliani, libanesi, irakeni; il conforto della fede e dell’unità della Chiesa, insieme alle altre confessioni cristiane: sono alcuni degli innumerevoli temi presenti nel Messaggio al Popolo di Dio (Nuntius) che i partecipanti al Sinodo delle Chiese del Medio Oriente hanno approvato a conclusione dell’assemblea. Ecco il testo integrale:

“La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuor solo e un’anima sola” (At 4, 32)

Ai nostri fratelli presbiteri, diaconi, religiosi, religiose, alle persone consacrate e a tutti i nostri amatissimi fedeli laici e a ogni persona di buona volontà. 

Introduzione

1.La grazia di Gesù nostro Signore, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo sia con voi.

Il Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente è stato per noi una novella Pentecoste. «La Pentecoste è l’avvenimento originario, ma anche un dinamismo permanente. Il Sinodo dei Vescovi è un momento privilegiato nel quale può rinnovarsi il cammino della Chiesa e la grazia della Pentecoste» (Benedetto XVI, Omelia della Messa d’apertura del Sinodo, 10.10.2010). 
Siamo venuti a Roma, noi Patriarchi e vescovi delle Chiese cattoliche in Oriente con tutti i nostri patrimoni spirituali, liturgici, culturali e canonici, portando nei nostri cuori le preoccupazioni dei nostri popoli e le loro attese.

Per la prima volta ci siamo riuniti in Sinodo intorno a Sua Santità il Papa Benedetto XVI con i cardinali e gli arcivescovi responsabili dei Dicasteri romani, i presidenti delle Conferenze episcopali del mondo toccate dalle questioni del Medio Oriente, e con rappresentanti delle Chiese ortodosse e comunità evangeliche, e con invitati ebrei e musulmani.

A Sua Santità Benedetto XVI esprimiamo la nostra gratitudine per la sollecitudine e per gli insegnamenti che illuminano il cammino della Chiesa in generale e quello delle nostre Chiese orientali in particolare, soprattutto per la questione della giustizia e della pace. Ringraziamo le Conferenze episcopali per la loro solidarietà, la presenza tra noi durante i pellegrinaggi ai Luoghi santi e la loro visita alle nostre comunità. Li ringraziamo per l’accompagnamento delle nostre Chiese nei differenti aspetti della nostra vita. Ringraziamo le organizzazioni ecclesiali che ci sostengono con il loro aiuto efficace.

Abbiamo riflettuto insieme, alla luce della Sacra Scrittura e della viva Tradizione, sul presente e l’avvenire dei cristiani e dei popoli del Medio Oriente. Abbiamo meditato sulle questioni di questa parte del mondo che Dio, nel mistero del suo amore, ha voluto fosse la culla del suo piano universale di salvezza. Da là, di fatto, è partita la vocazione di Abramo. Là, la Parola di Dio si è incarnata nella Vergine Maria per l’azione dello Spirito Santo. Là, Gesù ha proclamato il Vangelo della vita e del regno. Là, egli è morto per riscattare il genere umano e liberarlo dal peccato. Là è risuscitato dai morti per donare la vita nuova a ogni uomo. Là, è nata la Chiesa che da là è partita per proclamare il Vangelo fino alle estremità della terra.

Il primo scopo del Sinodo è di ordine pastorale. È per questo che abbiamo portato nei cuori la vita, le sofferenze e le speranze dei nostri popoli e le sfide che si devono affrontare ogni giorno, convinti che « la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 5). È per questo che vi rivolgiamo questo messaggio, amatissimi fratelli e sorelle, e vogliamo che sia un appello alla fermezza della fede, fondata sulla Parola di Dio, alla collaborazione nell’unità e alla comunione nella testimonianza dell’amore in tutti gli ambiti della vita.

I.                   La Chiesa nel Medio Oriente: comunione e testimonianza attraverso la storia Cammino della fede in Oriente

2. In Oriente è nata la prima comunità cristiana. Dall’Oriente partirono gli Apostoli dopo la Pentecoste per evangelizzare il mondo intero. Là è vissuta la prima comunità cristiana in mezzo a tensioni e persecuzioni, « perseverante nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere » (At 2, 42). Là i primi martiri hanno irrorato con il loro sangue le fondamenta della Chiesa nascente. Alla loro sequela gli anacoreti hanno riempito i deserti col profumo della loro santità e della loro fede. Là vissero i Padri della Chiesa orientale che continuano a nutrire con i loro insegnamenti la Chiesa d’Oriente e d’Occidente. Dalle nostre Chiese partirono, nei primi secoli e nei secoli seguenti, i missionari verso l’estremo Oriente e verso l’Occidente portando la luce di Cristo. Noi ne siamo gli eredi e dobbiamo continuare a trasmettere il loro messaggio alle generazioni future.
Le nostre Chiese non hanno smesso di donare santi, preti, consacrati e di servire in maniera efficace in numerose istituzioni che contribuiscono alla costruzione delle nostre società e dei nostri paesi, sacrificandosi per l’uomo creato all’immagine di Dio e portatore della sua immagine. Alcune delle nostre Chiese non cessano ancora oggi di mandare missionari, portatori della Parola di Cristo nei differenti angoli del mondo. Il lavoro pastorale, apostolico e missionario ci domanda oggi di pensare una pastorale per promuovere le vocazioni sacerdotali e religiose e assicurare la Chiesa di domani.

Ci troviamo oggi davanti a una svolta storica: Dio che ci ha donato la fede nel nostro Oriente da 2000 anni, ci chiama a perseverare con coraggio, assiduità e forza, a portare il messaggio di Cristo e la testimonianza al suo Vangelo che è un Vangelo di amore e di pace. 
Sfide e attese

3.1. Oggi siamo di fronte a numerose sfide. La prima viene da noi stessi e dalle nostre Chiese. Ciò che Cristo ci domanda è di accettare la nostra fede e di viverla in ogni ambito della vita. Ciò che egli domanda alle nostre Chiese è di rafforzare la comunione all’interno di ciascuna Chiesa sui iuris e tra le Chiese cattoliche di diversa tradizione, inoltre di fare tutto il possibile nella preghiera e nella carità per raggiungere l’unità di tutti i cristiani e realizzare così la preghiera di Cristo: « perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato » (Gv 17, 21).

3.2. La seconda sfida viene dall’esterno, dalle condizioni politiche e dalla sicurezza nei nostri paesi e dal pluralismo religioso.

Abbiamo analizzato quanto concerne la situazione sociale e la sicurezza nei nostri paesi del Medio Oriente. Abbiamo avuto coscienza dell’impatto del conflitto israelo-palestinese su tutta la regione, soprattutto sul popolo palestinese che soffre le conseguenze dell’occupazione israeliana: la mancanza di libertà di movimento, il muro di separazione e le barriere militari, i prigionieri politici, la demolizione delle case, la perturbazione della vita economica e sociale e le migliaia di rifugiati. Abbiamo riflettuto sulla sofferenza e l’insicurezza nelle quali vivono gli Israeliani. Abbiamo meditato sulla situazione di Gerusalemme, la Città Santa. Siamo preoccupati delle iniziative unilaterali che rischiano di mutare la sua demografia e il suo statuto. Di fronte a tutto questo, vediamo che una pace giusta e definitiva è l’unico mezzo di salvezza per tutti, per il bene della regione e dei suoi popoli.

3.3. Nelle nostre riunioni e nelle nostre preghiere abbiamo riflettuto sulle sofferenze cruente del popolo iracheno. Abbiamo fatto memoria dei cristiani assassinati in Iraq, delle sofferenze permanenti della Chiesa in Iraq, dei suoi figli espulsi e dispersi per il mondo, portando noi insieme con loro le preoccupazioni della loro terra e della loro patria.

I padri sinodali hanno espresso la loro solidarietà con il popolo e che Chiese in Iraq e hanno espresso il voto che gli emigrati, forzati a lasciare i loro paesi, possano trovare i soccorsi necessari là dove arrivano, affinché possano tornare nei loro paesi e vivervi in sicurezza.

3.4. Abbiamo riflettuto sulle relazioni tra concittadini, cristiani e musulmani. Vorremmo qui affermare, nella nostra visione cristiana delle cose, un principio primordiale che dovrebbe governare queste relazioni: Dio vuole che noi siamo cristiani nel e per le nostre società del Medio Oriente. Il fatto di vivere insieme cristiani e musulmani è il piano di Dio su di noi ed è la nostra missione e la nostra vocazione. In questo ambito ci comporteremo con la guida del comandamento dell’amore e con la forza dello Spirito in noi.

Il secondo principio che governa queste relazioni è il fatto che noi siamo parte integrale delle nostre società. La nostra missione basata sulla nostra fede e il nostro dovere verso le nostre patrie ci obbligano a contribuire alla costruzione dei nostri paesi insieme con tutti i cittadini musulmani, ebrei e cristiani.

II. Comunione e testimonianza all’interno delle Chiese cattoliche del Medio Oriente Ai fedeli delle nostre Chiese

4.1. Gesù ci dice: «Voi siete il sale della terra, la luce del mondo» (Mt 5, 13.14). La vostra missione, amatissimi fedeli, è di essere per mezzo della fede, della speranza e dell’amore nelle vostre società, come il «sale» che dona sapore e senso alla vita, come la «luce» che illumina le tenebre e come il «lievito» che trasforma i cuori e le intelligenze. I primi cristiani a Gerusalemme erano poco numerosi. Nonostante ciò, essi hanno potuto portare il Vangelo fino alle estremità della terra, con la grazia del « Signore che agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano » (Mc 16, 20).

4.2. Vi salutiamo, cristiani del Medio Oriente, e vi ringraziamo per tutto ciò che voi avete realizzato nelle vostre famiglie e nelle vostre società, nelle vostre Chiese e nelle vostre nazioni. Salutiamo la vostra perseveranza nelle difficoltà, pene e angosce.

4.3. Cari sacerdoti, nostri collaboratori nella missione catechetica, liturgica e pastorale, vi rinnoviamo la nostra amicizia e la nostra fiducia. Continuate a trasmettere ai vostri fedeli con zelo e perseveranza il Vangelo della vita e la Tradizione della Chiesa attraverso la predicazione, la catechesi, la direzione spirituale e il buon esempio. Consolidate la fede del popolo di Dio perché essa si trasformi in una civiltà dell’amore. Dategli i sacramenti della Chiesa perché aspiri al rinnovamento della vita. Radunatelo nell’unità e nella carità con il dono dello Spirito Santo. 
Cari religiosi, religiose e consacrati nel mondo, vi esprimiamo la nostra gratitudine e ringraziamo Dio insieme con voi per il dono dei consigli evangelici – della castità consacrata, della povertà e dell’obbedienza – con i quali avete fatto dono di voi stessi, al seguito del Cristo cui desiderate testimoniare il vostro amore e predilezione. Grazie alle vostre iniziative apostoliche diversificate, siete il vero tesoro e la ricchezza delle nostre Chiese e un’oasi spirituale nelle nostre parrocchie, diocesi e missioni.

Ci uniamo in spirito agli eremiti, ai monaci e alle monache che hanno consacrato la loro vita alla preghiera nei monasteri contemplativi, santificando le ore del giorno e della notte, portando nella loro preghiera le preoccupazioni e i bisogni della Chiesa. Con la testimonianza della vostra vita voi offrite al mondo un segno di speranza.

4.4. Fedeli laici, noi vi esprimiamo la nostra stima e la nostra amicizia. Apprezziamo quanto fatte per le vostre famiglie e le vostre società, le vostre Chiese e le vostre patrie. State saldi in mezzo alle prove e alle difficoltà. Siamo pieni di gratitudine verso il Signore per i carismi e i talenti di cui vi ha colmato e con i quali voi partecipate per la forza del Battesimo e della Cresima al lavoro apostolico e alla missione della Chiesa, impregnando l’ambito delle cose temporali con lo spirito e i valori del Vangelo. Vi invitiamo alla testimonianza di una vita cristiana autentica, a una pratica religiosa cosciente e ai buoni costumi. Abbiate il coraggio di dire la verità con obbiettività.

Portiamo nelle nostre preghiere voi, sofferenti nel corpo, nell’anima e nello spirito, voi oppressi, espatriati, perseguitati, prigionieri e detenuti. Unite le vostre sofferenze a quelle di Cristo Redentore e cercate nella sua croce la pazienza e la forza. Con il merito delle vostre sofferenze, voi ottenete per il mondo l’amore misericordioso di Dio.

Salutiamo ciascuna delle nostre famiglie cristiane e guardiamo con stima la vocazione e la missione della famiglia, in quanto cellula viva della società, scuola naturale delle virtù e dei valori etici e umani, e chiesa domestica che educa alla preghiera e alla fede di generazione in generazione. Ringraziamo i genitori e i nonni per l’educazione dei loro figli e dei loro nipoti, sull’esempio del fanciullo Gesù che « cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini » (Lc 2, 52). Ci impegniamo a proteggere la famiglia con una pastorale familiare grazie ai corsi di preparazione al matrimonio e ai centri d’accoglienza e di consultazione aperti a tutti e soprattutto alle coppie in difficoltà e con le nostre rivendicazioni dei diritti fondamentali della famiglia.

Ci rivolgiamo ora in modo speciale alle donne. Esprimiamo la nostra stima per quanto voi siete nei diversi stati di vita: come ragazze, educatrici, madri, consacrate e operatrici nella vita pubblica. Vi elogiamo perché proteggete la vita umana fin dall’inizio, offrendole cura e affetto. Dio vi ha donato una sensibilità particolare per tutto ciò che riguarda l’educazione, il lavoro umanitario e la vita apostolica. Rendiamo grazie a Dio per le vostre attività e auspichiamo che voi esercitiate una più grande responsabilità nella vita pubblica.

Guardiamo a voi con amicizia, ragazzi e ragazze, come ha fatto Cristo con il giovane del Vangelo (cf. Mc 10, 21). Voi siete l’avvenire delle nostre Chiese, delle nostre comunità, dei nostri paesi, il loro potenziale e la loro forza rinnovatrice. Progettate la vostra vita sotto lo sguardo amorevole di Cristo. Siate cittadini responsabili e credenti sinceri. La Chiesa si unisce a voi nelle vostre preoccupazioni di trovare un lavoro in funzione delle vostre competenze; ciò contribuirà a stimolare la vostra creatività e ad assicurare l’avvenire e la formazione di una famiglia credente. Superate la tentazione del materialismo e del consumismo. Siate saldi nei vostri valori cristiani.

Salutiamo i capi delle istituzioni educative cattoliche. Nell’insegnamento e nell’educazione ricercate l’eccellenza e lo spirito cristiano. Abbiate come scopo il consolidamento della cultura della convivialità, la preoccupazione dei poveri e dei portatori di handicap. Malgrado le sfide e le difficoltà di cui soffrono le vostre istituzioni, vi invitiamo a mantenerle vive per assicurare la missione educatrice della Chiesa e promuovere lo sviluppo e il bene delle nostre società.

Ci rivolgiamo con grande stima a quanti lavorano nel settore sociale. Nelle vostre istituzioni siate al servizio della carità. Noi vi incoraggiamo e sosteniamo in questa missione di sviluppo, che è guidata dal ricco insegnamento sociale della Chiesa. Attraverso il vostro lavoro, voi rafforzate i legami di fraternità tra gli uomini, servendo senza discriminazione i poveri, i marginalizzati, i malati, i rifugiati e i prigionieri. Voi siete guidati dalla parola del Signore Gesù: « tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me » (Mt 25, 40).

Guardiamo con speranza i gruppi di preghiera e i movimenti apostolici. Sono scuole di approfondimento della fede per viverla nella famiglia e nella società. Apprezziamo le loro attività nelle parrocchie e nelle diocesi e il loro sostegno ai pastori in conformità con le direttive della Chiesa. Ringraziamo Dio per questi gruppi e questi movimenti, cellule attive della parrocchia e vivai per le vocazioni sacerdotali e religiose.

Apprezziamo il ruolo dei mezzi di comunicazione scritta e audio-visiva. Ringraziamo voi, giornalisti, per la vostra collaborazione con la Chiesa per la diffusione dei suoi insegnamenti e delle sue attività, e in questi giorni per aver diffuso le notizie dell’Assemblea del Sinodo sul Medio Oriente in tutte le parti del mondo.

Ci felicitiamo del contributo dei media internazionali e cattolici. Per il Medio Oriente merita una menzione particolare il canale Télé Lumière-Noursat. Speriamo che possa continuare il suo servizio di informazione e di formazione alla fede, il suo lavoro per l’unità dei cristiani, il consolidamento della presenza cristiana in Oriente, il rafforzamento del dialogo inter-religioso e la comunione tra gli orientali sparsi in tutti i continenti.

Ai nostri fedeli nella diaspora

5. L’emigrazione è divenuta un fenomeno generale. Il cristiano, il musulmano e l’ebreo emigrano e per le stesse cause derivate dall’instabilità politica ed economica. Il cristiano, inoltre, comincia a sentire nell’insicurezza, benché a diversi gradi, nei paesi del Medio Oriente. I cristiani abbiano fiducia nell’avvenire e continuino a vivere nei loro cari paesi.

Vi salutiamo amatissimi fedeli nei vostri differenti paesi della diaspora. Chiediamo a Dio di benedirvi. Noi vi domandiamo di conservare vivo nei vostri cuori e nelle vostre preoccupazioni il ricordo delle vostre patrie e delle vostre Chiese. Voi potete contribuire alla loro evoluzione e alla loro crescita con le vostre preghiere, i vostri pensieri, le vostre visite e con diversi mezzi, anche se ne siete lontani.

Conservate i beni e le terre che avete in patria; non affrettatevi ad abbandonarli e a venderli. Custodite tali proprietà come un patrimonio per voi e una porzione di quella patria alla quale rimanete attaccati e che voi amate e sostenete. La terra fa parte dell’identità della persona e della sua missione; essa è uno spazio vitale per quelli che vi restano e per quelli che, un giorno, vi ritorneranno. La terra è un bene pubblico, un bene della comunità, un patrimonio comune. Non può essere ridotta a interessi individuali da parte di chi la possiede e che da solo decide a proprio piacimento di tenerla o di abbandonarla.

Vi accompagniamo con le nostre preghiere, voi figli delle nostre Chiese e dei nostri Paesi, forzati a emigrare. Portate con voi la vostra fede, la vostra cultura e il vostro patrimonio per arricchire le vostre nuove patrie che vi procurano pace, libertà e lavoro. Guardate all’avvenire con fiducia e gioia, restate sempre attaccati ai vostri valori spirituali, alle vostre tradizioni culturali e al vostro patrimonio nazionale per offrire ai paesi che vi hanno accolto il meglio di voi stessi e il meglio di ciò che avete. Ringraziamo le Chiese dei paesi della diaspora che hanno accolto i nostri fedeli e che non cessano di collaborare con noi per assicurare loro il servizio pastorale necessario.

Ai migranti nei nostri paesi e nelle nostre Chiese

6. Salutiamo tutti gli immigrati delle diverse nazionalità, venuti nei nostri paesi per ragione di lavoro.

Noi vi accogliamo, amatissimi fedeli, e vediamo nella vostra fede un arricchimento e un sostegno per la fede dei nostri fedeli. È con gioia che vi forniremo ogni aiuto spirituale di cui voi avete bisogno.

Noi domandiamo alle nostre Chiese di prestare un’attenzione speciale a questi fratelli e sorelle e alle loro difficoltà, qualunque sia la loro religione, soprattutto quando sono esposti ad attentati ai loro diritti e alla loro dignità. Essi vengono da noi non soltanto per trovare mezzi per vivere, ma per procurare dei servizi di cui i nostri paesi hanno bisogno. Essi ricevono da Dio la loro dignità e, come ogni persona umana, hanno dei diritti che è necessario rispettare. Non è permesso a nessuno di attentare a tale dignità e diritti. È per questo che invitiamo i governi dei paesi di accoglienza a rispettare e difendere i loro diritti.

III. Comunione e testimonianza con le Chiese ortodosse e le Comunità evangeliche nel Medio Oriente

7. Salutiamo le Chiese ortodosse e le Comunità evangeliche nei nostri paesi. Lavoriamo insieme per il bene dei cristiani, perché essi restino, crescano e prosperino. Siamo sulla stessa strada. Le nostre sfide sono le stesse e il nostro avvenire è lo stesso. Vogliamo portare insieme la testimonianza di discepoli di Cristo. Soltanto con la nostra unità possiamo compiere la missione che Dio ha affidato a tutti, malgrado la diversità delle nostre Chiese. La preghiera di Cristo è il nostro sostegno, ed è il comandamento dell’amore che ci unisce, anche se la strada verso la piena comunione è ancora lunga davanti a noi.

Abbiamo camminato insieme nel Consiglio delle Chiese del Medio Oriente e vogliamo continuare questo cammino con la grazia di Dio e promuovere la sua azione, avendo come scopo ultimo la testimonianza comune alla nostra fede, il servizio dei nostri fedeli e di tutti i nostri paesi.

Salutiamo e incoraggiamo tutte le istanze di dialogo ecumenico in ciascuno dei nostri paesi.
Esprimiamo la nostra gratitudine al Consiglio Mondiale delle Chiese e alle diverse organizzazioni ecumeniche, che lavorano per l’unità della Chiesa, per il loro sostegno.

IV. Cooperazione e dialogo con i nostri concittadini ebrei

8. La stessa Scrittura santa ci unisce, l’Antico Testamento che è la Parola di Dio per voi e per noi. Noi crediamo in tutto quanto Dio ha rivelato, da quando ha chiamato Abramo, nostro padre comune nella fede, padre degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani. Crediamo nelle promesse e nell’alleanza che Dio ha affidato a lui. Noi crediamo che la Parola di Dio è eterna.

Il Concilio Vaticano II ha pubblicato il documento Nostra aetate, riguardante il dialogo con le religioni, con l’ebraismo, l’islam e le altre religioni. Altri documenti hanno precisato e sviluppato in seguito le relazioni con l’ebraismo. C’è inoltre un dialogo continuo tra la Chiesa e i rappresentanti dell’ebraismo. Noi speriamo che questo dialogo possa condurci ad agire presso i responsabili per mettere fine al conflitto politico che non cessa di separarci e di perturbare la vita dei nostri paesi. È tempo di impegnarci insieme per una pace sincera, giusta e definitiva. Tutti noi siamo interpellati dalla Parola di Dio. Essa ci invita ad ascoltare la voce di Dio «che parla di pace»: «ascolterò che cosa dice Dio, il Signore: egli annunzia la pace per il suo popolo, per i suoi fedeli, per chi ritorna a lui con tutto il cuore» (Sal 85, 9). Non è permesso di ricorrere a posizioni teologiche bibliche per farne uno strumento a giustificazione delle ingiustizie. Al contrario, il ricorso alla religione deve portare ogni persona a vedere il volto di Dio nell’altro e a trattarlo secondo gli attributi di Dio e i suoi comandamenti, vale a dire secondo la bontà di Dio, la sua giustizia, la sua misericordia e il suo amore per noi.

V. Cooperazione e dialogo con i nostri concittadini musulmani

9. Siamo uniti dalla fede in un Dio unico e dal comandamento che dice: fa il bene ed evita il male. Le parole del Concilio Vaticano II sul rapporto con le religioni pongono le basi delle relazioni tra la Chiesa Cattolica e i musulmani: «La Chiesa guarda con stima i musulmani che adorano il Dio uno, vivente […] misericordioso e onnipotente, che ha parlato agli uomini» (Nostra aetate 3).

Diciamo ai nostri concittadini musulmani: siamo fratelli e Dio ci vuole insieme, uniti nella fede in Dio e nel duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo. Insieme noi costruiremo le nostre società civili sulla cittadinanza, sulla libertà religiosa e sulla libertà di coscienza. Insieme noi lavoreremo per promuovere la giustizia, la pace, i diritti dell’uomo, i valori della vita e della famiglia. La nostra responsabilità è comune nella costruzione delle nostre patrie. Noi vogliamo offrire all’Oriente e all’Occidente un modello di convivenza tra le differenti religioni e di collaborazione positiva tra diverse civiltà, per il bene delle nostre patrie e quello di tutta l’umanità.

Dalla comparsa dell’islam nel VII secolo fino ad oggi, abbiamo vissuto insieme e abbiamo collaborato alla creazione della nostra civiltà comune. È capitato nel passato, come capita ancor’oggi, qualche squilibrio nei nostri rapporti. Attraverso il dialogo noi dobbiamo eliminare ogni squilibrio o malinteso. Il Papa Benedetto XVI ci dice che il nostro dialogo non può essere una realtà passeggera. È piuttosto una necessità vitale da cui dipende il nostro avvenire (cf. Discorso ai rappresentanti delle comunità musulmane a Colonia, 20.08.2005). È nostro dovere, dunque, educare i credenti al dialogo inter-religioso, all’accettazione del pluralismo, al rispetto e alla stima reciproca.

VI. La nostra partecipazione alla vita pubblica: appelli ai governi e ai responsabili pubblici dei nostri Paesi

10. Apprezziamo gli sforzi che dispiegate per il bene comune e il servizio delle nostre società. Vi accompagniamo con le nostre preghiere e domandiamo a Dio di guidare i vostri passi. Ci rivolgiamo a voi a riguardo dell’importanza dell’uguaglianza tra i cittadini. I cristiani sono cittadini originali e autentici, leali alla loro patria e fedeli a tutti i loro doveri nazionali. È naturale che essi possano godere di tutti i diritti di cittadinanza, di libertà di coscienza e di culto, di libertà nel campo dell’insegnamento e dell’educazione e nell’uso dei mezzi di comunicazione.

Vi chiediamo di raddoppiare gli sforzi che dispiegate per stabilire una pace giusta e duratura in tutta la regione e per arrestare la corsa agli armamenti. È questo che condurrà alla sicurezza e alla prosperità economica, arresterà l’emorragia dell’emigrazione che svuota i nostri paesi delle loro forze vive. La pace è un dono prezioso che Dio ha affidato agli uomini e sono gli « operatori di pace[che]saranno chiamati figli di Dio » (Mt 5, 9).


VII. Appello alla comunità internazionale

11. I cittadini dei paesi del Medio Oriente interpellano la comunità internazionale, in particolare l’O.N.U., perché essa lavori sinceramente ad una soluzione di pace giusta e definitiva nella regione, e questo attraverso l’applicazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, e attraverso l’adozione delle misure giuridiche necessarie per mettere fine all’Occupazione dei differenti territori arabi.

Il popolo palestinese potrà così avere una patria indipendente e sovrana e vivervi nella dignità e nella stabilità. Lo Stato d’Israele potrà godere della pace e della sicurezza all’interno delle frontiere internazionalmente riconosciute. La Città Santa di Gerusalemme potrà trovare lo statuto giusto che rispetterà il suo carattere particolare, la sua santità, il suo patrimonio religioso per ciascuna delle tre religioni ebraica, cristiana e musulmana. Noi speriamo che la soluzione dei due Stati diventi realtà e non resti un semplice sogno.

L’Iraq potrà mettere fine alle conseguenze della guerra assassina e ristabilire la sicurezza che proteggerà tutti i suoi cittadini con tutte le loro componenti sociali, religiose e nazionali.

Il Libano potrà godere della sua sovranità su tutto il territorio, fortificare l’unità nazionale e continuare la vocazione a essere il modello della convivenza tra cristiani e musulmani, attraverso il dialogo delle culture e delle religioni e la promozione delle libertà pubbliche.

Noi condanniamo la violenza e il terrorismo, di qualunque origine, e qualsiasi estremismo religioso. Condanniamo ogni forma di razzismo, l’antisemitismo, l’anticristianesimo e l'islamofobia e chiamiamo le religioni ad assumere le loro responsabilità nella promozione del dialogo delle culture e delle civiltà nella nostra regione e nel mondo intero.

Conclusione: continuare a testimoniare la vita divina che ci è apparsa nella persona di Gesù
12. In conclusione, fratelli e sorelle, noi vi diciamo con l’apostolo san Giovanni nella sua prima lettera: «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi –, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo» (1Gv 1, 1-3).

Questa Vita divina che è apparsa agli apostoli 2000 anni fa nella persona del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, della quale la Chiesa è vissuta e alla quale essa ha dato testimonianza in tutto il corso della sua storia, rimarrà sempre la vita delle nostre Chiese nel Medio Oriente e l’oggetto della nostra testimonianza.

Sostenuti dalla promessa del Signore: « ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20), proseguiamo insieme il nostro cammino nella speranza, e « la speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato » (Rm 5, 5).

Confessiamo che non abbiamo fatto fino ad ora tutto ciò che era nelle nostre possibilità per vivere meglio la comunione tra le nostre comunità. Non abbiamo operato a sufficienza per confermarvi nella fede e darvi il nutrimento spirituale di cui avete bisogno nelle vostre difficoltà. Il Signore ci invita ad una conversione personale e collettiva.

Oggi torniamo a voi pieni di speranza, di forza e di risolutezza, portando con noi il messaggio del Sinodo e le sue raccomandazioni per studiarle insieme e metterci ad applicarle nelle nostre Chiese, ciascuno secondo il suo stato. Speriamo anche che questo sforzo nuovo sia ecumenico.

Noi vi rivolgiamo questo umile e sincero appello perché insieme condividiamo un cammino di conversione per lasciarci rinnovare dalla grazia dello Spirito Santo e ritornare a Dio.

Alla Santissima Vergine Maria, Madre della Chiesa e Regina della pace, sotto la cui protezione abbiamo messo i lavori sinodali, affidiamo il nostro cammino verso nuovi orizzonti cristiani e umani, nella fede in Cristo e con la forza della sua parola: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21, 5).


22/10/2010 – CINA - Storia di ordinaria repressione religiosa in Cina - Minacce, violenze fisiche e psicologiche e infine la semplice limitazione della libertà: ecco come il regime di Pechino tratta i cristiani cinesi, nel racconto di una delegata protestante che voleva partecipare al convegno sull’evangelizzazione in Sudafrica. (AsiaNews/Caa)

Pechino (AsiaNews/Caa) – Wang Shuangyan, cristiana protestante, era uno dei 200 delegati che avrebbe dovuto partecipare al 3° Congresso di Losanna sull’Evangelizzazione mondiale, iniziato a Città del capo lo scorso 17 ottobre. La polizia cinese ha proibito la loro partecipazione. Wang è stata bloccata, malmenata, portata con l’inganno in una “prigione domestica”. Riuscita a tornare a casa da pochi giorni, ha deciso di raccontare la repressione religiosa in Cina. Ecco la sua testimonianza.

In questo momento dovrei essere a Città del Capo, in Sudafrica, per partecipare al Terzo Congresso di Losanna sull’Evangelizzazione mondiale. Invece sono a casa a Pechino, per scrivere cosa sono stata costretta a subire negli ultimi giorni. Considero questo momento di scrittura un lusso, considerando che negli ultimi giorni avevo perso la libertà.

Il 29 settembre e poi di nuovo il 12 ottobre - degli agenti di governo mi hanno invitato a fare una camminata con loro.  In pratica mi hanno detto che, secondo il governo, la nostra partecipazione a questo Congresso avrebbe messo in pericolo la sicurezza statale e mi hanno invitato a declinare l’invito. Da parte mia ho risposto che, se non c’erano prove a sostegno di questo sospetto, avrei cercato lo stesso di partire: se fossi stata poi bloccata alla dogana, sarei stata costretta a rimanere in Cina.

Originariamente, sarei dovuta partire il 15 ottobre. Durante l’incontro con gli altri delegati, a Pechino, eravamo sorvegliati dalla polizia: in quell’occasione abbiamo deciso di incontrarci il 13 ottobre, la data in cui il primo delegato di Pechino doveva partire per l’Africa. Di conseguenza, mi sono alzata alle nove del mattino del 13 e mi sono avviata verso il terminal 3 dell’aeroporto di Pechino. Davanti alla porta principale c’erano due persone sedute.

Nonostante i loro sforzi per fermarmi, sono scappata e ho raggiunto l’ascensore. Mentre lasciavo l’edificio, altre persone hanno cercato di fermarmi: parlavano fra loro per trovare un modo per bloccarmi. Senza parlare con loro, sono riuscita a uscire: ma a un certo punto, troppo stanca per scappare ancora, ho iniziato a urlare chiedendo aiuto. Sono riuscita ad arrivare alla fermata della metropolitana, dove sono stata bloccata dalle guardie di sicurezza; ho ripreso ad urlare.

In un momento di distrazione, sono riuscita a avvicinarmi alla piattaforma dei treni. I 3 guardiani, sapendo che stavo per scappare, hanno iniziato a usare la forza bruta: mi hanno placcata per non farmi entrare nel treno. In quel momento sono arrivati i miei genitori con il mio bagaglio, come avevamo concordato poco prima, e ho raccontato loro cosa era successo. In un momento di calma, siamo riusciti a salire tutti insieme sulla metropolitana.

Appena saliti, però, qualcuno ha iniziato a urlare “Buttatela fuori”. Le 3 guardie si sono alzate e mi hanno fermato, graffiandomi su braccia e torace. Mia madre li ha implorati: “Per favore non la strattonate; ha problemi di cuore”. Grazie all’intervento dei miei, non sono stata buttata fuori. Quando la metro è finalmente ripartita, i 3 hanno cercato ancora di non farmi partire: noi siamo rimasti seduti fino a che il treno non ha concluso il suo giro, tornando all’aeroporto. I miei genitori, preoccupati, mi hanno accompagnato fino a che non mi sono incontrata con gli altri delegati.

Io ero consapevole dei problemi, e se mi avessero fermata sulla soglia di casa probabilmente non avrei opposto resistenza. Ma agire in quel modo ha scatenato la mia resistenza: non posso immaginare nessuna giovane donna che, aggredita da tanti uomini, non si scatena: è una reazione naturale, istintiva. Tuttavia ho sofferto molto per i miei genitori, che hanno visto la propria figlia trattata in quel modo. Mi chiedo quanti altri genitori potrebbero sopportare una cosa del genere.

Nei 4 giorni successivi, i delegati divisi in sei gruppi hanno cercato di partire in tutti i modi, ma nessuno c’è riuscito: alla dogana sono stati fermati tutti, sempre con la storia che con il nostro viaggio “mettevamo in pericolo la sicurezza dello Stato”. Dopo tutto questo, i delegati di Pechino e quelli di altre parti della Cina hanno deciso di riunirsi in un albergo nella periferia della capitale. Abbiamo pensato di studiare i passaggi della Bibbia che sarebbero stati il fulcro del Congresso.

La mattina del 17 ottobre, gli agenti dell’Ufficio affari religiosi e della protezione interna sono entrati e ci hanno detto che eravamo coinvolti “in un incontro illegale”, non avendo richiesto il permesso per attività religiose. Hanno portato via i 4 pastori che guidavano il nostro gruppo: mentre parlavano, noi abbiamo pregato e cantato gli inni. Al ritorno dei pastori, abbiamo deciso di andarcene di nostra spontanea volontà: ma gli agenti non hanno voluto che tornassimo a casa in taxi. Ci hanno riportato loro, con le macchine della polizia.

In macchina, l’atmosfera è stata tranquilla. Uno dei dirigenti ci ha persino detto che i fatti del 13 ottobre erano avvenuti senza autorizzazione e ha chiesto la nostra comprensione. Sapevo che lui era uno di quelli presenti sulla scena, il 13, ma non ho voluto discutere: gli ho detto che era meglio non parlarne e ho aggiunto che sapevo che anche il suo è un lavoro duro. Tuttavia, la strada presa dalla macchina non era quella di casa nostra.

In serata, ci siamo ritrovati tutti sulle montagne. Anche altri delegati hanno iniziato ad arrivare, tutti con macchine separate. All’arrivo ci hanno confiscato computer e cellulari, e ci hanno intimato di non lasciare il luogo. Eravamo seguiti dovunque e senza il permesso di parlare fra di noi: gli agenti erano persino nelle stanze. La mattina del 18 ottobre mi sono presentata davanti alle guardie e gli ho detto che stavano andando oltre la loro autorità: mi sono chiusa in una stanza e non li ho fatti entrare.

Non ho mangiato, lasciato lo stanza o parlato con nessuno fino a che non sono stata rilasciata, il 19 mattina. Sono arrivata a casa e qui ho pensato che ero fortunata: pensavo di non poter essere libera fino alla fine del Congresso. È successo in questi giorni tutto quello che mi aspettavo: mi hanno sorpreso soltanto le mie reazioni agli eventi. Molte non erano pianificate, ma obbligate dagli eventi. Continuo a chiedermi cosa sarebbe potuto succedere, e cosa potrà ancora accadermi in futuro.


Al termine dei lavori Benedetto XVI ringrazia i padri sinodali e sottolinea la ricchezza della pluralità nella Chiesa cattolica del Medio Oriente  - La polifonia dell'unica fede (©L'Osservatore Romano - 24 ottobre 2010)

La polifonia dell'unica fede. È ricorso a una metafora musicale Benedetto XVI per descrivere le due settimane di lavori sinodali vissuti con i vescovi del Medio Oriente durante l'ormai tradizionale pranzo al termine dei lavori sinodali, svoltosi sabato 23 ottobre, nell'atrio dell'Aula Paolo vi. Domani, domenica 24, con la messa conclusiva presieduta dal Papa nella basilica Vaticana, si chiuderà quest'assemblea speciale dedicata a quella terra benedetta da Dio - ha detto il Pontefice - che è culla del cristianesimo, una fede non rinchiusa in se stessa, ma aperta al dialogo ecumenico e a quello con i fratelli musulmani ed ebrei.
Parlando dell'esperienza di comunione vissuta durante le giornate del sinodo - da domenica 10 a sabato 23 - e durante il pranzo, il Papa ha poi invitato i presenti a partecipare l'indomani alla liturgia domenicale:  momento di convivialità con il Signore nell'Eucaristia, dove Cristo viene con noi, ci mette in movimento, in sinodo, appunto; in un cammino comune.
In precedenza Benedetto XVI aveva ricordato come la tradizione del pranzo a conclusione dei lavori sinodali fosse stata inaugurata da Giovanni Paolo ii - di cui ieri si celebrava il trentaduesimo anniversario di inizio del ministero petrino - e aveva ringraziato la presidenza e la segreteria di questo sinodo per il Medio Oriente, rievocando le fatiche sperimentate in prima persona quando, da cardinale, fu relatore al sinodo sulla famiglia del 1980.
Riferendosi al tema dei lavori, il Papa ha spiegato come sia stata vissuta una vera comunione e testimonianza, mostrando al mondo la ricchezza della diversità nell'unità di sette Chiese, con i loro vari riti, ricca di culture, ma accomunate dall'unica fede in Gesù Cristo. Quella fede - ha aggiunto - che solo il Signore può dare e che mette in collegamento tutte le Chiese cattoliche orientali.
All'inizio dell'incontro conviviale il segretario generale del Sinodo, arcivescovo Nikola Eterovic, ha presentato al Papa i dati principali dei lavori, ai quali hanno partecipato 173 padri sui 184 invitati, poiché undici non sono potuti venire a Roma per vari motivi. Si sono tenute 14 congregazioni generali (con la prima che detiene il record di presenze, 170) e sei riunioni di circoli minori; sono state offerte dieci tra meditazioni e omelie; ci sono stati 125 interventi più cinque consegnati per iscritto. Nonostante i tempi ristretti - di solito le assemblee sinodali durano tre settimane - sono inoltre intervenuti dodici delegati fraterni e sono state svolte dodici relazioni. Soprattutto monsignor Eterovic ha messo in evidenza i 111 interventi liberi tenuti alla presenza del Papa che li ha voluti:  una dimensione - ha commentato - che si va sviluppando. Quindi ha reso noto che i padri hanno voluto donare a Benedetto XVI un ritratto, esposto all'entrata dell'atrio, realizzato da un'artista greco-cattolico ucraino, che studia a San Pietroburgo:  una scuola realista - ha spiegato - attenta ai dettagli, ma anche alla dimensione spirituale. Successivamente, dopo una parentesi canora - con il classico napoletano O sole mio intonato da un giovane assistente del segretario speciale e un canto di ringraziamento al Papa eseguito in francese e in arabo sull'aria musicale dell'Ave Maria di Lourdes - ha parlato il patriarca dei Siri Ignace Youssif iii Younan, presidente delegato. Ha ringraziato il Pontefice per l'opportunità offerta alle Chiese del Medio Oriente di far sentire la loro voce, assicurando che i pastori presenti torneranno nelle loro terre, nelle loro comunità, senza timore di proclamare il Vangelo nella carità e nella verità e di viverlo ogni giorno. Infine il patriarca greco-melkita, Gregorios iii Laham, ha donato al Papa uno splendido indumento liturgico orientale.
(©L'Osservatore Romano - 24 ottobre 2010)


L'arcivescovo Amato per la beatificazione di Alfonsa Clerici - Una vita al servizio della carità e dell'educazione  (©L'Osservatore Romano - 24 ottobre 2010)

Imitando Gesù anche la beata Alfonsa Clerici si è fatta madre, educatrice, consolatrice e protettrice dei poveri e dei bisognosi. È quanto ha evidenziato l'arcivescovo Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, che in rappresentanza di Benedetto XVI ha presieduto sabato mattina 23 ottobre, nella cattedrale di Vercelli, il rito della beatificazione di Alfonsa Clerici, religiosa delle suore del Preziosissimo Sangue, dette preziosine.
La caratteristica principale della santità della nuova beata - ha fatto notare il presule - è la carità, manifestata fin dal 20 novembre 1911, quando giunse a Vercelli come direttrice del Rifugio della Provvidenza, fondato nel 1840 dal canonico Salvatore Montagnini. Dovette occuparsi non solo del suo riordino economico, ma del rinnovamento in campo religioso e del metodo educativo. Fu costretta a subire critiche e accuse anche da parte di una sua consorella più severa. Venne incolpata di mancanza di severità nei confronti delle ragazze ospitate nel Rifugio. "In realtà - ha detto il prefetto - dalle dichiarazioni delle ex alunne risulta che Alfonsa non era per niente permissiva, ma intendeva mantenere nel Rifugio della Provvidenza un clima di famiglia, sereno e gioioso. Il suo metodo sembra ispirarsi all'atteggiamento di Don Bosco:  non repressione, ma prevenzione. La nostra beata usava un atteggiamento misericordioso verso le fanciulle, che erano povere e culturalmente poco favorite. Questo suo metodo, encomiabile più che biasimevole, favorì la nascita di molte vocazioni per le preziosine e per gli altri istituti di Vercelli".
Alfonsa "era generosissima nel perdono, nella comprensione, nella sopportazione, nell'incoraggiamento alla virtù. Spesso si prestava ai lavori di cucina, per permettere alle suore di partecipare alle funzioni solenni. Collaudata maestra di scuola ed esperta di pedagogia, ella impostò la sua educazione sulla carità. Dal prezioso sangue di Cristo attingeva parole di conforto, che diradavano le tenebre della tristezza e allargavano gli spazi della speranza e della gioia".
Clerici non fu solo un'educatrice ma anche una vera madre per tante ragazze che giungevano nell'istituto. Si occupava di loro, dei loro bisogni, era attenta anche alle piccole cose quotidiane. "Suor Alfonsa - ha sottolineato Amato - era comprensiva con chi sbagliava e si recava spesso in cucina per cercare un po' di minestra e dare qualche soldo ai poveri. Per questi suoi atti di carità veniva aspramente ripresa". Si pensi che la cuciniera aveva messo sotto chiave le provviste, perché la superiora le portava via tutto. "Allora - ha aggiunto l'arcivescovo Amato - la beata le ricordava che, essere caritatevoli con i poveri, significa servire e amare Gesù. Quando la suora ribatteva che anche la Casa della Provvidenza era povera e che con le continue elemosine ne soffriva, replicava:  più si dà ai poveri e maggiore provvidenza entra in casa".
Non solo i poveri, ma anche i soldati della prima guerra mondiale bussavano alla sua porta, per essere assistiti a scrivere le lettere ai familiari o per un aiuto materiale. "Un giorno - ha raccontato il prefetto - si presentò piangendo un soldato che aveva rotto un vetro della camerata. Chiedeva il danaro per riparare il danno ed evitare la prigione. Ricevette l'aiuto e anche parole materne di incoraggiamento. Il giovane pianse di commozione. Nemmeno sua madre avrebbe potuto sostenerlo meglio". La carità materiale era la via per la carità spirituale, mediante esortazioni e consigli. Questa carità era accompagnata da due doni:  la letizia e l'umiltà.


venerdì 22 ottobre 2010 - Gli scienziati: «l'uomo è l'unica eccezione di non dipendenza dal DNA». – dal sito http://dallaragioneallafede.blogspot.com

L'antropologo cattolico Fiorenzo Facchini, autore di Le sfide dell’evoluzione e Le origini dell’uomo e l’evoluzione culturale, docente e ricercatore di antropologia, paleontologia umana e socioantropologia in diversi atenei, da Bologna a Bolzano (premiato nel 2002 dall'Accademia dei Lincei per l’Antropologia fisica) risponde alle domande de Il Giornale sulla genetica e la libertà umana, argomento emerso nel libro Anthill di E.O. Wilson. «Che i geni e l'ambiente siano gli unici fattori in gioco non lo sosterrei così facilmente. Il riduzionismo dimentica del tutto la consapevolezza umana, la capacità progettuale e quella di simbolizzazione, per non parlare della libertà. Come dice lo zoologo Grassé, le regole delle formiche provengono dal loro DNA, tant’è che sono sempre le stesse, mentre quelle dell’uomo cambiano nel tempo. Il genetista neodarwinista Theodosius Dobzhansky afferma che le società umane non si regolano come quelle animali e proprio in questo continuo mutar di regole sta il trascendimento del regno animale da parte dell’uomo». L'antropologo Facchini continua: «Anche Teilhard de Chardin ha fatto un inno alla materia “adorabile”, compresa la parte inanimata, senza scordarsi di aggiungere, però, che l’assunzione che l’uomo fa della natura la fa nella misura in cui si rende conto di essere l’unico cosciente. È l’uomo che dà coscienza a tutto il resto».


Come avevamo già avuto modo di dire in Ultimissima 30/7/10, molti scienziati si sono espressi recentemente su queste tematiche, ritenendo la genetica inadeguata a spiegare la complessità e misteriosità dell'uomo. Citavamo a titolo esemplificativo, il neodarwinista Francesco Cavalli Sforza e il biologo Steven Rose. Possiamo aggiungere il fisiologo e teologo John Habgood, che dichiara: «Le nostre caratteristiche generali dipendono in una certa misura dalla nostra eredità genetica. Ma da qui a dire che siamo geneticamente determinati ne corre. La genetica è uno dei fattori influenti. Poi c'è l'ambiente e infine la libera scelta di noi stessi. L'essenza del comportamento umano, a differenza di quello animale, sta nel fatto che è intenzionale e ponderato» (da La scienza e i miracoli, TEA 2006, pag. 88,89). E chiudiamo con il celebre genetista Francis Collins (forse la persona più odiata, dopo il Papa, dalle sette ateo-razionaliste), a capo del team che è riuscito a decifrare il genoma umano: «La genetica è il manuale d'istruzioni di Dio, è il Suo linguaggio, che però non spiegherà mai certi speciali attributi umani, come la conoscenza della legge morale e l'universalità della ricerca di Dio» (da Il linguaggio di Dio, Sperling&Kupfer 2007, pag. 20-22).


IL TRAMONTO DEL MULTICULTURALISMO - Via dagli slogan torniamo alla realtà - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 24 ottobre 2010

È la fine di un sistema. Del sistema del multiculturalismo.

Quello decretato da Angela Merkel qualche giorno fa è proprio come la fine di un sistema. Un po’ come quando crollano sistemi politici, ditatture o repubbliche, come crollò il fascismo, come crollò, qui da noi, la prima Repubblica. Un crollo del multiculturalismo. Del suo sistema. E come quegli altri sistemi crollarono ma non senza spargimento di sangue e ferite profonde, anche questo crollo ha nelle mani sangue e tensioni. Scontri e traumi. E come quei sistemi, anche questo crolla non per un avversario esterno, ma per l’esplosione di troppe interne contraddizioni.

Dire che il sistema del multiculturalismo non funziona significa prender atto della crisi di un sistema di pensiero, oltre che di un sistema di potere. Perché non c’è dubbio che la ideologia del multiculturalimso ha anche creato un sistema di potere. Basta vedere quanti e quali programmi e iniziative politiche, sociali, culturali e così via si dicevano ispirate e sostenute a quella ideologia.

Bastava il marchio di multiculturalismo e si diventava immediatamente giusti, corretti, moderni. Come avveniva con le iniziative ispirate al fascismo. O a certe idee, sempre qui da noi, della Prima Repubblica.

Che ci fosse una egemonia dell’ideologia multiculturale lo dimostrano infiniti atti legislativi, come quelli che a furia di voler garantire una astratta idea di libertà a tutti, ha finito per proibire a moltissimi la più discreta e personale affermazione di appartenenza culturale e religiosa, in un deserto di identità che è il contrario di quanto affermato teoricamente dall’ideologia multiculturale. Un po’ come quando in nome del comunismo dei beni si ritrovavano soprattutto i più poveri senza beni. O, tornando qui da noi, in nome del luminoso avvenire italico, l’Italia si impoveriva di tutto.

Anche in questo caso, in nome del multiculturalismo si è finito per costruire ghetti, per favorire tensioni sociali e radicalizzarsi di affermazioni identitarie. Non solo per reazione, ma per inevitabile conseguenza di un sistema errato nei suoi fondamentui teorici. Ci sono parole che vorrebbero rappresentare la realtà. E invece rappresentano la mente, l’idea di chi vorrebbe che le cose fossero come lui le immagina. Queste parole diventano ideologie suasive, ben confezionate e propagandate. Solo che la realtà, per così dire, non ci sta dentro. Ma non si vuole ridiscutere quelle parole. Perché significherebbe perdere la comodità di essere automaticamente giusti, corretti e moderni. Si perderebbe il potere che automaticamente ne discende. E allora il sistema va avanti, ma calpestando la realtà. E le persone.

L’idea di una società multicuturale ha evidenziato i suoi drammatici scompensi in molti posti del mondo. Le crisi in Francia, in Germania, in Inghilterra - accadute sotto governi di diversi colori, ma integrati nel sistema del multiculturalismo - ci devono insegnare qualcosa, sia sugli errori sia sul valore di certe idee non campate per aria che abbiamo in Italia.

L’esempio da molti citato della società Usa non è adeguato: lì c’è una società multietnica, non multiculturale. Le recenti polemiche sulle domande da inserire nel questionario di censimento, sulla moschea a Ground Zero e altri fatti più o meno evidenti, mostrano che finché l’idea è essere innanzitutto americani (l’idea che vince sempre a Holliwood e nei grandi media, altro che multiculturalismo!) le cose funzionano. Altrimenti scricchiolano. E parecchio. A un sistema che crolla è bene non sostituirne un altro. Ma come diceva un gran poeta francese: diffidare dei sistematici, e servire umilmente la realtà.


Il demonio? - Oggi si chiama ideologia - di André Glucksmann – Avvenire, 24 ottobre 2010

Uno stuolo di specialisti insegna che le ideologie hanno fatto il loro tempo. Non ci credo. Un ideologo altro non è se non un arrogante che partorisce una tesi sufficientemente 'fondamentale' per avere una risposta a tutto e che, appollaiato su questa pietra filosofale, compita dall’alfa all’omega ogni dramma umano. Siamo immersi nell’ideologia, che cava gli occhi come nella Lettera rubata di Edgar Allan Poe, al punto che la sua evidenza impedisce di scorgerla.

Non condividiamo la convinzione ultima che il diavolo non esiste? Poiché questo personaggio ha perso grinfie, coda, corna e alito cattivo, concludiamo con ipocrisia che abbia testé ingoiato il certificato di battesimo. La morte di dio si presta a dibattiti. La morte del diavolo non solleva grandi contestazioni, sembra andare da sé. Chi, nelle nostre indulgenti democrazie, si esporrebbe all’obbrobrio di apparire tanto oscurantista da sostenere che resistere al male costituisca la sfida più profonda della condizione umana! Agli occhi dei benpensanti sussistono ancora avversioni puntuali: da una parte le emissioni di CO2 e gli Ogm, dall’altra l’aborto e l’omosessualità. Ma nessuno dubita che questi supposti mali, se ancora non sono stati eliminati, possano esserlo. Il diavolo è morto, vi dico. Solo i nostri impegni quotidiani possono sradicarne pompe e opere. Una crisi intorbida la schiuma dei giorni? Ciascuno corre a rifugiarsi nel verde paradiso degli amori infantili.

Gli uni pretendono di ritornare a un’età dell’oro regressiva; i religiosi rimpiangono il tempo benedetto in cui dio reggeva l’universo, regolava le coscienze e interdiceva l’usura, mentre i politici diventano nostalgici, sognando un passato utopico in cui lo stato, i sindacati e il civismo escludevano derive affariste. Chi ha rubato i nostri 'trenta' gloriosi? Altri programmano l’avvenire di uno sviluppo durevole sorvolando turpitudini e rivalità. Altri ancora si aggrappano alla grande sera perorando una rivoluzione più indefinibile che mai, salvo promettere la fine del Belzebù capitalista e produttivista.


Sia in caso di infelicità sia in caso di felicità, la nostra buona novella, una e indivisibile, suona l’ora della scomparsa programmata dei rischi, dei pericoli e delle catastrofi. Lo zelota di una così confortante certezza perdoni i miei cattivi pensieri. Fate rullare i tamburi e salutate Goethe: Mefisto è resuscitato! Non il piccolo diavolo della contessa di Ségur, ma una forza distruttrice il cui affabile garbo era solo la penultima astuzia che precedeva l’imparabile finzione di darsi per morto. Niente a che vedere con le contraffazioni sataniste che con i loro effetti speciali danno vita alla languida anima degli spettatori; inutile rievocare le messe nere degli ubriaconi e degli imbecilli che macchiano i cimiteri. Per farvi dell’avversità un’idea meno sempliciotta, rammentate Tifone, diavolo pre e postcristiano, l’ultimo titano che tentò di svellere l’Olimpo. Zeus, Giove tonante, gli scaraventò l’Etna in piena faccia e poi lo rinchiuse sotto terra e nel cuore degli uomini; a condizione che i poveri mortali affrontino, d’ora in poi da solo a solo, le devastazioni di cui si fanno freccia e bersaglio. L’intimo nemico dei socratici antichi e moderni è il prestigiatore, sofista o postmoderno, che si dedica a travestire gli istinti di morte da passioni anodine. «Per la sofistica [...] tutto ciò che è per noi è vero, niente è falso [...] secondo questa tesi innocente, non c’è vizio, non c’è reato, ecc.» (Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia ). Il 'sofista egizio' Proteo sommerge i semplici mortali con una spessa bruma in cui destinazioni e riferimenti svaniscono a beneficio di una confusione senza sponde, una fitta coltre mantenuta con cura che dà riparo ai nostri nidi di vipere. Quale rapporto tra la crisi economica mondiale, i massacri del Darfur che subentrano allo spietato annientamento dei ceceni, le bombe umane, i record di corruzione e il persistere delle crudeltà nelle nostre prospere e tranquille società? Il rapporto siamo noi. Attiene alla nostra inalterabile sorpresa costellata dal ricorrente interrogativo: «Come sono possibili simili incongruità? Nel nostro così civilizzato e mediatizzato ventunesimo secolo?». Il ritorno tossico, cupido, stupido o guerriero di un Mefisto dai mille volti ottunde chi voglia ignorare che il caro scomparso non ha mai smesso di starci alle calcagna.


"La dottrina sociale di Leone XIII" - Nuovo libro di Massimo Introvigne: estratto in tema di matrimonio - pubblicata da Massimo Introvigne il giorno lunedì 25 ottobre 2010
Fede & Cultura ha pubblicato, nel quadro dell'anno di Leone XIII (1810-1903) voluto dal Santo Padre per celebrare il bicentenario della nascita di Papa Pecci, il nuovo libro di Massimo Introvigne, "La dottrina sociale di Leone XIII", acquistabile via http://fedecultura.com/La_dottrina_sociale_di_Leone_XIII.aspx. Ne pubblichiamo un estratto, sul matrimonio cristiano

Arcanum Divinae Sapientiae. La difesa della famiglia contro il divorzio

Scopo dell’enciclica Arcanum Divinae Sapientiae, del 10 febbraio 1880, è illustrare i principi che reggono la «società domestica», la famiglia, che trova il suo fondamento nel matrimonio. Secondo l’«arcano consiglio della Divina Sapienza», Gesù Cristo è venuto a «restaurare tutte le cose». Benché la restaurazione riguardi principalmente l’ordine della grazia soprannaturale, «i preziosi e salutari frutti della medesima ridondarono largamente altresì nell’ordine naturale», cosi da procurare «dignità, stabilità e decoro» anche alla società e alla famiglia.

1. Origine e storia del matrimonio
L’origine vera del matrimonio è nel disegno di Dio che fin dal principio creò l’uomo e la donna, volle che i due fossero «una sola carne» e che la loro unione fosse dotata dei caratteri dell’«unità» e della «perpetuità». Il disegno di Dio è stato manifestato nella Rivelazione fin dal Genesi, ma la ragione lo ricava dalla stessa differenza e complementarietà dei sessi.
Dopo il peccato la forma di connubio voluta da Dio cominciò a corrompersi e a venire meno. Anche presso gli stessi Ebrei si introdusse la poligamia; e perfino Mosè permise il ripudio, lasciando così «aperto l’adito al divorzio». Presso i popoli pagani, poi, gli storici attestano una «corruttela e depravazione» incredibili, con un particolare disprezzo per la dignità della donna. Molti popoli consideravano lecito e normale l’adulterio del marito, e spesso le mogli erano comprate e vendute. Il diritto romano considerava la moglie, come i figli, proprietà del marito, in balia dell’autorità assoluta del pater familias che arrivava fino al diritto di vita e di morte.
Gesù Cristo viene a restaurare il disegno originario di Dio. Questo tema dell’enciclica Arcanum Divinae Sapientiae sarà sviluppato dal venerabile Giovanni Paolo II, che del ritorno al «principio» in tema di matrimonio farà l’oggetto di un lunghissimo ciclo di catechesi del mercoledì. Non a caso, nota qui Leone XIII, il primo miracolo di Gesù avviene in occasione di un matrimonio, alle nozze di Cana. «Chiunque rimanderà la propria moglie – proclama il Signore – e ne sposerà un’altra commette adulterio; e chi sposerà colei che fu ripudiata commette adulterio» (Mt 19, 9); «ciò che Dio ha congiunto, l’uomo non separi» (Mt 19, 6). Cristo si richiama appunto al disegno originario del Padre nella creazione: Mosè – dice agli Ebrei – ha permesso il ripudio «per la durezza del vostro cuore»; ma «da principio non fu così» (Mt 19, 8).
L’insegnamento di Gesù, ripreso dagli Apostoli, innalza il matrimonio a sacramento, ne fa scuola di santità e immagine della stessa unione di Cristo con la sua Chiesa. In questo modo attira particolarmente l’attenzione sul carattere indissolubile dell’unione, che rende sacro e inviolabile. «Ai coniugati – insegna san Paolo – ordino, non io ma il Signore, che la moglie dal marito non si separi; e, ove si sia separata, rimanga senza rimaritarsi o si ricongiunga con il suo marito» (1 Cor 7, 10 – 11).
Con il cristianesimo i doveri e i diritti dei coniugi sono «pareggiati», restaurati nella loro uguaglianza originaria di fronte alla legge morale – l’adulterio dell’uomo e della donna è considerato ugualmente peccaminoso –, senza che venga negata la gerarchia. Così pure i figli hanno il dovere di obbedire ai genitori, e i genitori hanno il dovere di osservare nei riguardi dei figli la legge di Dio.
Cristo affida «il governo dei matrimoni alla Chiesa», che ha sempre esercitato il suo potere «in tal maniera che chiaro apparisse come esso fosse soltanto proprio di lei», senza riconoscere nessuna autorità agli Stati sui principi fondamentali del connubio. La Chiesa ridiede dignità alla donna, salvò nella storia il matrimonio dai suoi vari nemici – dagli gnostici nemici della procreazione fino ai sostenitori della poligamia e ai moderni divorzisti –, impose giusti limiti alla patria potestà – contro il diritto di vita e di morte sui figli del diritto romano –, rimosse per quanto possibile dalle nozze «l’errore, la violenza e la frode», promosse in ogni modo la pudicizia e la dignità. Non si tratta di piccoli meriti, né è inutile – afferma il Pontefice – soffermarsi a riconoscere quale grande progresso il matrimonio e la famiglia cristiana segnarono rispetto ai costumi del mondo pagano.
In epoca più recente, «per opera del nemico dell’umana famiglia» si è scatenata un’autentica guerra contro il matrimonio, «fonte e origine della famiglia e della società umana». Il primo attacco è stato sferrato sostenendo che principio e fonte del matrimonio è lo Stato, e quindi il matrimonio dev’essere regolato dallo Stato, che ha il potere di definirne le linee fondamentali. È così nata la moderna nozione di «matrimonio civile», la quale comporta che lo Stato possa «fare» matrimoni, fissare gli impedimenti e verificarne la validità.
La Chiesa – fino ai tempi di Leone XIII, e ancora fino ai giorni nostri – ha invece sempre mantenuto il principio che lo Stato non «crea» il matrimonio e le leggi che lo regolano. Il matrimonio, nelle sue caratteristiche fondamentali, è un’istituzione naturale, e deriva da Dio autore della natura. Lo Stato deve limitarsi a riconoscerne le caratteristiche, che non sono una creazione dell’ordinamento giuridico. Anche quando la Chiesa è stata costretta a prendere atto, in numerosi Paesi, dell’ingerenza dello Stato nella regolamentazione dei matrimoni, non ha mai mutato il suo insegnamento.
Questa posizione della Chiesa non è cambiata dopo Leone XIII. Perfino nel Concordato del 1984 con l’Italia, la Chiesa ha voluto inserire una riserva all’art. 8, con la nota che «nell’accedere al presente regolamento della materia matrimoniale, la Santa Sede sente l’esigenza di riaffermare il valore immutato della dottrina cattolica sul matrimonio».
I commentatori successivi a Leone XIII si sono semmai posti il problema del matrimonio fra non cristiani e non battezzati. Questo matrimonio, cui la Chiesa rimane estranea, «appartiene» allo Stato? Risponde un grande specialista di dottrina sociale del secolo XX, il domenicano tedesco Eberhard Welty (1902-1965): per i non battezzati il matrimonio «sottostà ben più ampiamente al potere statale, che però non è in nessun modo padrone e signore assoluto neppure di questo matrimonio non cristiano». Può fissarne gli impedimenti, «ma solo nell’ambito assai limitato che è effettivamente richiesto dal bene comune». Anche il matrimonio fra non battezzati non sorge in virtù dell’intervento dello Stato, ma sorge per via naturale in virtù della dichiarazione di volontà dei coniugi che costituisce l’essenza del contratto matrimoniale.

2. Confutazione del naturalismo
Tutti i popoli hanno riconosciuto «un non so che di sacro e di religioso» nel matrimonio, e ne hanno fatto oggetto di riti sacri. Questa circostanza, attestata dalla voce comune dei popoli, già indica che il matrimonio dev’essere regolato dalla Chiesa, che «sola ha il magistero delle cose sacre».
La storia mostra come sempre la Chiesa ha regolato il matrimonio in nome di Dio, per un suo diritto originario e non per semplice delega o tolleranza del potere statale, come vorrebbe qualche laicista; e i principi cristiani hanno sempre riconosciuto questa potestà alla Chiesa. Leone XIII fa notare che rivendicando, in particolare, il compito di fissare gli impedimenti alle nozze, la Chiesa ha tutelato la libertà contro il possibile arbitrio dei principi. E si può notare che, dopo Leone XIII, la storia darà nuovo fondamento a questa argomentazione, perché la Chiesa si rifiuterà di accettare nuovi impedimenti al matrimonio di carattere razziale introdotti, per esempio, nella Germania nazional-socialista o nel Sud Africa dell’apartheid.
Alcuni autori statalisti, rileva Leone XIII, distinguono fra il contratto nuziale, che sarebbe regolato dallo Stato, e il sacramento che – per i credenti – rimarrebbe regolato dalla Chiesa. Ma questa distinzione, argomenta il Pontefice, è totalmente teorica: in concreto non si può separare il contratto dal sacramento. È il contratto che, al tempo stesso, è stato elevato da Gesù Cristo a sacramento.
C’è anche un argomento di fatto contro la concezione naturalistica del matrimonio. Se si nega, infatti, che il matrimonio sia una realtà sacra, si apre la strada a tutte le calamità per la famiglia e per la società. Se il matrimonio è un’istituzione puramente umana, a uno sguardo soltanto naturale gli obblighi che il matrimonio impone possono sembrare insopportabili, e possono cominciare ad affermarsi le basi – psicologiche prima che dottrinali – dell’ideologia del divorzio.
Che poi il divorzio sia un fenomeno negativo e rovinoso per i singoli e per le società «è appena il caso di ricordarlo». Leone XIII, in particolare, elenca otto ragioni, tutte di diritto naturale e di retta ragione, che motivano l’opposizione al divorzio. Con il divorzio, infatti, «si rendono mutabili i maritaggi», cioè si modifica la struttura del matrimonio anche di coloro che non intendono divorziare. Così è confutata la nota argomentazione divorzista, ancora oggi diffusa, secondo cui chi non intende divorziare potrebbe farlo senza limitare l’esercizio della libertà di divorzio altrui, che in nessun modo lo danneggerebbe. Leone XIII risponde che l’esistenza stessa del divorzio modifica la natura del matrimonio.
In secondo luogo con le leggi divorziste «si sminuisce la mutua benevolenza» e si favoriscono le discordie familiari, in quanto in ogni lite si può sempre minacciare l’altro coniuge di ricorrere al divorzio. Terzo: si favorisce l’infedeltà, aprendo all’adulterio una possibilità di consolidarsi in un futuro «matrimonio», possibilità che senza il divorzio non esisterebbe. Quarto: «si arreca pregiudizio al benessere e all’educazione dei figli». È un argomento che ai giorni nostri non ha certo bisogno di essere dimostrato, dopo tante ricerche sociologiche sul disagio dei figli dei divorziati.
In quinto luogo si abbassa «la dignità delle donne» che, nonostante tutte le proclamazioni di uguaglianza, rimangono spesso – nota Leone XIII, e l’argomento è spesso valido ancora oggi – il partner debole, che è posto in condizioni di difficoltà dal divorzio. Sesto: si aumenta il numero delle separazioni, che sarebbe minore se non ci fosse la prospettiva del divorzio. È un altro argomento di Leone XIII che è oggi convalidato da solidi dati statistici. Settimo: si alimenta un generale clima di pubblica immoralità. L’enciclica riporta l’esempio di certi periodi dell’antica Roma in cui, mentre gli uomini designavano gli anni con il nome dei consoli, le donne «computavano gli anni con la mutazione dei mariti». Infine l’ottavo argomento: posto che la famiglia è la cellula fondamentale della società, con il divorzio si crea lo scompiglio sociale, favorendo – nota il Pontefice – i piani delle «ree sette dei socialisti e dei comunisti».
Non si deve, pertanto, poca gratitudine alla Chiesa per avere – e per molti secoli con successo – difeso la famiglia dal divorzio, ed essersi anche posta in urto con potenti sovrani pur di non cedere su questo punto. L’esempio più clamoroso, naturalmente, è dato dal rifiuto opposto al divorzio del re d’Inghilterra Enrico VIII (1491-1547). La Chiesa preferì perdere l’Inghilterra con conseguenze che durano ancora oggi dopo cinque secoli che non acconsentire a un solo divorzio di una sola persona. Mostrò la stessa fermezza con altri sovrani. Peraltro nei casi difficili la Chiesa si comporta, per quanto può, con benignità e indulgenza, senza però mai venire a patti con l’errore e senza dimenticare «la santità dei suoi doveri».
Si tratta di un insegnamento che la Chiesa ha sempre riaffermato, fino a Benedetto XVI. Il venerabile Giovanni Paolo II (1920-2005) nel Discorso ai partecipanti al Convegno ecclesiale di Loreto dell’11 aprile 1985, affermava: «Nella pastorale di casi difficili, come quelli che riguardano divorziati risposati [...] è necessario [...] tenere simultaneamente presenti il principio della compassione e della misericordia, secondo il quale la Chiesa cerca sempre di offrire, per quanto è possibile, la via del ritorno a Dio e della riconciliazione con Lui, e il principio della verità e della coerenza, per cui la Chiesa non accetta né può accettare di chiamare bene il male e male il bene».

3. Rimedi alla crisi del matrimonio
Sotto i colpi dello statalismo naturalista e del divorzismo il matrimonio è in crisi. Quali, si chiede Leone XIII, i rimedi? Il rimedio maggiore e risolutivo sarebbe quello di una corretta impostazione dei rapporti fra Stato e Chiesa come collaborazione. Senza confusione: «nessuno mette in dubbio che il fondatore della Chiesa, Gesù Cristo, volesse che la potestà sacra fosse distinta dalla civile, e che l’una e l’altra avesse, nell’ordine proprio, libero e spedito l’esercizio del suo potere». Ma anche senza separazione, favorendo invece una «unione e concordia» che, anche sul tema matrimoniale, sarebbe estremamente fruttuosa. Ci sono, infatti, aspetti del matrimonio, per esempio di natura patrimoniale ed economica, che appartengono all’ordine civile, e il procedere di pieno accordo fra Stato e Chiesa darebbe i maggiori benefici.
Consegua o no questo primo scopo, la Chiesa deve comunque – per arginare in qualche modo la crisi del matrimonio – ribadire la propria dottrina, e insegnare incessantemente ai fedeli una serie di verità essenziali: l’origine del matrimonio, stabilito indissolubile da Dio; la sua elevazione a sacramento da parte di Gesù Cristo, che ha dato alla sua Chiesa sul matrimonio «il potere legislativo e giudiziale»; il principio secondo cui «se tra i cristiani si contragga l’unione dell’uomo e della donna senza che sia sacramento, essa manca della natura e dell’efficacia di legittimo matrimonio», anche se è stato celebrato un «rito» civile; il corollario secondo cui il diritto civile può regolare validamente solo gli effetti civili del matrimonio; il rifiuto assoluto del divorzio perché «sciogliere il vincolo del connubio rato e consumato fra cristiani non è in facoltà di veruno».
Permessa e ammissibile è invece la separazione, quando «le cose giungano a tal punto che il convivere insieme non sembri potersi sopportare più a lungo». Naturalmente, si parla della separazione non seguita da nuovo matrimonio. Avverte e insegna tuttavia Leone XIII che le separazioni sarebbero rare in una società dove prima di sposarsi s’imparasse a disporsi bene al matrimonio e a ponderarne con cura i motivi, senza precipitare le scelte ed evitando i rapporti prematrimoniali.
Il Pontefice raccomanda poi di evitare, per quanto possibile, le nozze con non cattolici, che non sono vietate ma che la Chiesa sconsiglia. E conclude con la considerazione secondo cui la dottrina cattolica del matrimonio non è un semplice insieme di precetti morali per la salvezza individuale, ma è parte integrante di ogni disegno di restaurazione sociale. Questa dottrina, infatti, è «di grande utilità non meno alla conservazione della civile comunanza che all’eterna salute degli uomini».


I minatori e le stelle Pigi Colognesi - lunedì 25 ottobre 2010 – il sussidiario.net

Lo so molto bene che non è giornalisticamente corretto mettersi a commentare una notizia che è vecchia già di due settimane. Ma lo faccio lo stesso, perché mi sembra proprio il caso di non cedere alla consumazione da fast food delle notizie.

Per quale ragione una cosa capitata due settimane fa deve per forza finire nella pattumiera, insieme alle bucce dei frutti mangiati, o nel cestino dei fogli scarabocchiati? Sarà pure possibile che ci siano fatti sui quali uno ritorna con la memoria, perché hanno ancora una grande ricchezza d’insegnamento.

Anzi, nel turbine degli accadimenti, le cose più care sono proprio quelle su cui ci si può continuamente attardare, che si possono continuamente guardare, senza neanche troppo la preoccupazione di “commentarle”. Così è dell’avventura dei trentatre minatori cileni estratti dalle viscere della terra dopo che li si era creduti morti e dopo che per settanta giorni si è cercato, alla fine con successo, di estrarli incolumi, superando uno strato di terra e roccia di oltre seicento metri.

I commenti ci sono stati, abbondanti, spesso profondi e azzeccati. Si è parlato di vittoria della speranza e della combattiva tenacia che si oppone alla crudeltà della natura, e all’incuria degli uomini. Si è parlato della fede che ha sorretto i minatori e che la preghiera di migliaia di persone ha quotidianamente alimentato.

Si è acutamente proposta le metafora della ri-nascita, del nuovo venire alla luce di questi uomini che sembravano imprigionati nel ventre oscuro della terra. O quella della guarigione, che altro non è che il divincolarsi da una materia ostile e soffocante per tornare a respirare a pieni polmoni l’aria della salubrità. E poi l’accento sull’attesa dei parenti: il volto del bambino che, col suo caschetto bianco, aspetta il papà, quelli della moglie agitata o dei genitori sfiniti.

Non voglio aggiungere altre immagini. Mi chiedo soltanto come mai questa notizia sia stata per me - e penso per molti - così coinvolgente da arrivare alla commozione. Credo che sia perché abbiamo visto che non c’è abisso buio e soffocante dal quale non si possa risalire. Sappiamo bene che l’abisso esiste.
Lo sappiamo negli strani momenti in cui dentro, in fondo, qualcosa improvvisamente cede, come la falda di una miniera, e la luce che sembrava inestinguibile di colpo o lentamente s’affievolisce, soffoca per mancanza d’aria. Lo sappiamo quando buttiamo lo sguardo su certi dolori del presente o del passato, o quando lo stesso giornale che ci dà la notizia dei minatori ci sbatte in faccia il delitto assurdo per una coda alla biglietteria del metro o per un cane sfuggito dal guinzaglio e investito da un taxista. In questi momenti verrebbe da dire che il profondo dell’uomo è una miniera buia da cui è impossibile risalire.

Ma loro - lo abbiamo visto - sono risaliti. Il profondo non è un abisso di oscurità, ma il luogo dove abita, comunque, un’umanità che vuole accanitamente vivere, tornare a galla, respirare. L’umanità di noi, minatori della vita, che dopo tutti gli attraversamenti pericolosi e difficili, dopo il buio più infernale, vogliamo uscire «a riveder le stelle».


IDEE/ 3. Sarà la bellezza a guarirci dal nichilismo e dal fondamentalismo Costantino Esposito - lunedì 25 ottobre 2010 – il sussidiario.net

Costantino Esposito affronta le radici culturali del rapporto tra identità e differenze e la difficoltà odierna di pensare un “io” in relazione con l’altro. Terzo di tre articoli, dopo IDEE/ 1. Di chi siamo? Tutti i dilemmi di una identità in bilico, e IDEE/ 2. Le avventure di un "io" conteso tra la politica e il niente.

Ma in virtù di cosa noi possiamo capire il differenziarsi delle culture? Secondo la posizione appena citata lo possiamo fare solo sulla base del loro comune carattere di “finzione”: se tutte sono inganni o auto-inganni, allora le differenze saranno variazioni su questo unico tema. Tanto è necessario trovare un base comune per poter riconoscere, comprendere e anche giustificare le differenze, che se ne deve trovare una – l’unica possibile, a questo punto – nell’illusorietà, nuova “sostanza” di una natura umana de-sostanzializzata, residuo di universalità in negativo. Ma ci si potrebbe chiedere: l’illusorietà della finzione è il punto zero, non ulteriormente questionabile, dell’interpretazione? Oppure essa è a sua volta l’esito di un’interpretazione pre-giudiziale del fenomeno che si vuole comprendere? Se anche rinunciassimo – ritenendola pretestuosa o violenta – alla pretesa di giudicare un’identità culturale come più o meno “vera” o “giusta” rispetto ad un’altra (“occidente” rispetto a “oriente”, “cristianesimo” rispetto a “islam”, laicità rispetto a religiosità, modernizzazione globalizzata rispetto a tradizione di valori ecc.), non possiamo però rinunciare al riconoscimento che è vera ed è giusta la domanda stessa o l’esigenza strutturale che in ciascuna di esse mette in azione la produzione antropologica, anche se quest’ultima alla fine dovesse risultare una consapevole finzione. Per assumere consapevolmente una finzione come risposta al proprio bisogno di significato, bisogna pure che tale bisogno sia avvertito come un dato imprescindibile della nostra condizione di uomini. La “natura” umana è tale che sulla sua base l’uomo può essere chiamato l’animale che pone domande: e qui si radica quella simpatia tra le culture e le diverse identità che sta al fondo di tutte le loro possibili differenze.

Si noti inoltre che l’insistenza sul fatto che l’essere umano non ha l’identità di una sostanza naturale tra le altre, ma è piuttosto un processo di auto-realizzazione dinamica e storico-culturale di per sé non annulla affatto, né teoricamente né praticamente, l’ipotesi che tale dinamica venga mossa da un’interrogazione fondamentale, quella sul significato di sé, della propria comunità di appartenenza e sul mondo intero. E viceversa, la verità della natura o della condizione umana costituisce un livello che, lungi dall’essere predeterminato una volta per tutte, accade e si produce storicamente. Il domandare degli uomini concreti, in carne ed ossa, sempre determinati in precise condizioni spazio-temporali è il modo in cui ogni identità fa esperienza di un fenomeno comune, per quanto diversi o addirittura opposti possano essere i tentativi di risposta. Per questo il confronto tra le identità e le culture è possibile solo se è di continuo riaperto il confronto, all’interno di ogni identità e cultura di appartenenza, tra le domande di fondo e le risposte storiche, tenendo conto in particolare della pertinenza e del tasso di soddisfazione che le seconde possiedono rispetto alle prime. Il gioco non potrà che essere sempre aperto, mai definito assolutamente o per sempre, ma sempre riaffermante l’accadere del nesso tra la domanda di senso e la sua produzione.
Da questo punto di vista, responsabilità peculiare della scuola dovrà forse essere, sempre più marcatamente, quello di permettere di rintracciare nella propria esperienza i segni evidenti dell’esigenza del senso – cioè della domanda di essere e di esser-felice o compiuto – che permettano in primo luogo di mettere nuovamente in questione e verificare criticamente la congruenza o pertinenza delle risposte fornite dalla propria tradizione (cioè di mettere alla prova la propria identità, che sebbene ricevuta esige di essere scelta o rifiutata dal singolo io); in secondo luogo di individuare proprio a questo livello di verifica, presente come esigenza metodologica all’interno di ogni identità, il principio della comprensibilità di tutte le culture e quindi di tutte le differenze. Questo non certo per ridurre forzatamente le diversità ad una struttura imposta artificialmente dall’alto, ma per verificare le condizioni alle quali gli uomini possono comprendersi (e di fatto si comprendono) tra loro e possono tradurre (e di fatto traducono) una cultura in un’altra. Nella nostra esperienza noi apprendiamo, ogni giorno, che è possibile intendersi tra uomini di culture e identità differenti. Come mai? Cosa lo rende possibile? Evidentemente dev’esserci già presente, o all’opera, un fattore o dei fattori che lo permettano. Essi, secondo la mia ipotesiconsistono nella domanda di senso e nell’esigenza del vero, del giusto e del buono, non intesi come prospettive vaghe o come indicazioni di un’ulteriorità utopica, ma come funzioni operative del nostro modo di stare al mondo.

3) La terza questione riguarda infine l’idea, oggi assai diffusa, che per salvare le differenze si debba rinunciare a ogni pretesa di verità, e che di contro ogni affermazione di verità implichi inevitabilmente un “monismo” culturale. Anche in questo caso opera in maniera determinante il vocabolario che usiamo: se la verità coincide con qualcosa di assoluto, di intemporale e di fissato una volta per tutte, ciò che è invece temporale, storico, contingente non potrà che fuoriuscire dalla pretesa della verità di essere immutabile. Anche qui giunge per così dire alle sue estreme conseguenze tutta una storia del pensiero moderno, secondo la quale il rapporto tra l’io e la verità giunge alla sua massima problematizzazione. Nel senso che o la verità oggettiva del reale viene vista come un valore assoluto che eccede e trascende l’esperienza individuale dell’io, oppure essa è ridotta alle certezze costruite all’interno dell’io stesso. E nella cultura contemporanea questa difficoltà di rapporto tra l’io e il vero sembra essere giunta ad uno stato di crisi non più patologica ma fisiologica. L’io sembra che possa affermare se stesso, solo al prezzo di rinunciare al suo rapporto costitutivo con la verità; e al contrario, affermare la verità sembra essere possibile solo al prezzo del suo distacco dall’esperienza soggettiva dell’io. Considerate nei suoi esiti estremi, la prima chance è quella che porta tendenzialmente al relativismo nichilista, la seconda è quella che anima la prospettiva dell’assolutismo fondamentalista: un io senza verità e una verità senza io.
Ma la verità è tale che essa si presenta sempre nell’esperienza come un bisogno. Non voglio certo sostenere che la verità sia un prodotto culturale o artificiale delle nostre aspettative, ma che la nostra domanda del vero e del reale costituiscono il segno più evidente che noi siamo già in rapporto con essa. Da dove infatti nascerebbe il nostro desiderio di capire come stanno veramente le cose rispetto a noi, agli altri, al mondo intero? E si noti che, anche nei casi in cui noi non volessimo sapere e preferissimo restare sospesi nell’incertezza o racchiusi nell’immaginazione, lo faremmo per difenderci da una verità che temiamo, ma paradossalmente proprio questo attesterebbe che non possiamo vivere senza questo rapporto. Come una volta ha scritto Agostino d’Ippona, tutti gli uomini, senza eccezione alcuna, provano piacere nel vero, una sorta di gusto nel conoscere la verità (gaudium de veritate), e non vale l’obiezione che questo non lo si riscontrerebbe nei menzogneri, poiché anche quelli che ingannano gli altri almeno non vorrebbero mai essere ingannati loro stessi (cfr. Confessioni, libro 10, 23.33).
  
Ma come scopriamo questo rapporto strutturale al vero? In che misura esso è operativo nel nostro io? Solo in un confronto serrato con i dati della realtà, sia quella naturale che quella culturale. Solo in tale confronto il vero – cioè il senso oggettivo, ossia la ratio – può essere scoperto e messo alla prova: non inventato, costruito o imposto da noi (che è il rischio permanente dell’ideologia), ma accolto e ripensato come un significato portato dalla realtà stessa. Anche a questo proposito può aiutarci Agostino, il quale afferma, sempre nelle Confessioni (libro 10, 6.10) che la realtà ci parla soprattutto attraverso la sua «bellezza» (species), che per l’Ipponate non è un mero valore estetico, bensì la scoperta di un ordine, di un’armonia o di un logos, cioè della ragione profonda per cui le cose ci sono. Solo che, questa bellezza «non parla a tutti nella stessa maniera», o meglio: tutti la vedono, ma non tutti la colgono. Possono coglierla solo coloro che sanno fare domande (homines autem possunt interrogare), e cioè che sanno domandare con giudizio. Questa iudex ratio, come la chiama acutamente Agostino, opera come un continuo paragone in coloro che «accolgono la voce ricevuta dall’esterno e la confrontano con la verità che è presente in loro stessi».
E se uno dei compiti più urgenti, ma anche più affascinanti, della scuola fosse quello di educare a cercare il vero riconoscendolo attraverso la bellezza della realtà? L’esperienza della bellezza (di cui naturalmente parlo qui non come l’oggetto di una specifica disciplina estetica, ma come la percezione della presenza di un significato di me e delle cose) coinvolge in maniera impressionante e totalizzante il nostro io, ma al tempo stesso essa non può mai essere semplicemente prodotta o pianificata da noi. Accade sorprendendoci, ma nel suo accadere accende il nostro vero bisogno. Il bello è per così dire la conferma più eclatante che solo quando si incontra una risposta alla nostra domanda di significato, tale domanda comincia effettivamente ad essere. Forse è proprio in questa esigenza del vero e del reale, così come essa si ridesta nell’esperienza della bellezza, che noi potremo trovare una traccia forse inedita ma certamente provocante per affrontare il problema del rapporto tra identità e differenze in una prospettiva interculturale. In questo linguaggio, infatti, si realizza l’incredibile: che si possa non appena tollerare l’altro da noi, né includerlo nei nostri schemi, ma riconoscerlo come ciò di cui noi abbiamo bisogno per essere veramente noi stessi.


lunedì 25 ottobre 2010, - Israele passa all’attacco: il Sinodo è anti ebraico -  Il viceministro degli Esteri: "È diventato un forum di attacchi politici". "Mai usato la Bibbia per giustificare la nostra linea". I vescovi cattolici del Medio Oriente avevano chiesto di fermare l’occupazione della Palestina di Andrea Tornielli

Un Sinodo «ostaggio di una maggioranza anti-israeliana» e «forum per attacchi politici contro Israele». È durissima la reazione che arriva da Gerusalemme, in risposta ad alcuni interventi ascoltati nel corso della riunione dei 177 cardinali, patriarchi e dei vescovi cattolici del Medio Oriente convocata in Vaticano da Benedetto XVI e conclusasi ieri. La reazione sembra alzare nuovamente il livello dello scontro, anche se per il governo di Israele non dovrebbe essere una sorpresa il pensiero di alcuni presuli che conoscono da vicino certe difficoltà e contraddizioni.

Il vice ministro degli Esteri Danny Ayalon, in una dichiarazione riportata sul sito web del Jerusalem Post, ha così giudicato l’incontro in Vaticano: «Esprimiamo il nostro disappunto perché questo importante Sinodo è diventato un forum per attacchi politici contro Israele, nel segno della migliore tradizione della propaganda araba. Il Sinodo è stato preso in ostaggio da una maggioranza anti-israeliana». È intervenuto anche il portavoce del ministero degli Esteri israeliano, replicando a coloro che, ricordando che la teologia cattolica non prevede una «terra promessa» per il popolo a scapito di altri, avevano criticato l’uso della Bibbia per giustificare l’occupazione dei territori palestinesi. «I governi israeliani non si sono mai serviti della Bibbia» per giustificare l’occupazione o il controllo di alcun territorio, inclusa Gerusalemme Est, ha dichiarato il Yigal Palmor, in risposta alle critiche rimbalzate ieri dal Sinodo. Palmor ha respinto come «ingiusta e pregiudiziale» la retorica riecheggiata da parte di alcuni prelati presenti in Vaticano in questi giorni.
Della situazione israelo-palestinese aveva parlato il messaggio finale del Sinodo, reso noto sabato e contenente un appello per un’equa soluzione del conflitto che contempli «due Stati».

In un passaggio i vescovi si erano rivolti alla comunità internazionale, e in particolare all’Onu, «perché lavori sinceramente a una soluzione di pace giusta e definitiva nella regione, e questo attraverso l’applicazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza». «Abbiamo avuto coscienza – avevano scritto – dell’impatto del conflitto israelo-palestinese su tutta la regione, soprattutto sul popolo palestinese che soffre le conseguenze dell’occupazione israeliana: la mancanza di libertà di movimento, il muro di separazione e le barriere militari, i prigionieri politici, la demolizione delle case, la perturbazione della vita economica e sociale e le migliaia di rifugiati». In un altro passaggio, i vescovi avevano ammonito: «Non è permesso di ricorrere a posizioni teologiche bibliche per farne uno strumento a giustificazione delle ingiustizie».

A queste affermazioni hanno risposto gli israeliani.
Ieri il Papa, nella messa conclusiva del Sinodo, ha affermato che la pace per il Medio Oriente è «possibile», è «urgente» ed è «la condizione indispensabile per una vita degna della persona umana» e per «evitare l’emigrazione» dalla regione. Ratzinger, alzando il tono della voce, ha rivolto un appello alla comunità internazionale perché moltiplichi gli sforzi per porre fine ai conflitto nell’area. E ha invocato una vera libertà religiosa, e non solo di culto, in tutta la regione mediorientale, chiamando i cristiani a battersi per promuovere tale «diritto fondamentale» della persona umana. «In numerosi Paesi del Medio Oriente - ha denunciato il Pontefice - esiste la libertà di culto, mentre lo spazio della libertà religiosa non poche volte è assai limitato.
Allargare questo spazio di libertà diventa un’esigenza per garantire a tutti gli appartenenti alle varie comunità religiose la vera libertà di vivere e professare la propria fede». Proprio questo, nei giorni scorsi, avevano parlato con coraggio anche diversi padri sinodali e in effetti il Sinodo ha rappresentato una pluralità di voci, anche critiche verso i Paesi islamici e dunque certamente non riducibili solo a univoche posizioni anti-israeliane. Il Papa ha rilanciato ieri le loro voci mettendo il tema della libertà religiosa al primo posto nell’agenda del dialogo tra i cristiani e i musulmani.