giovedì 21 ottobre 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    SOLO LO STATO CIVICO POTRÀ SALVARE I CRISTIANI D'ORIENTE - Intervista a Samir Khalil, gesuita ed esperto in islam di Robert Cheaib
2)    Appunti sulle prossime elezioni Lorenzo Albacete - giovedì 21 ottobre 2010 – il sussidiario.net
3)    MEETING AL CAIRO/ L'avventura comune di trenta ragazzi, cristiani e musulmani Wael Farouq - giovedì 21 ottobre 2010 – il sussidiario.net
4)    BENEDETTO XVI: L'AUTORITÀ È SERVIZIO ALLA GIUSTIZIA E ALLA CARITÀ - Annunciata la creazione di 24 Cardinali nel Concistoro del 20 novembre (ZENIT.org)
5)    Avvenire.it, 21 ottobre 2010 - Domenica la Giornata missionaria mondiale - Slancio senza confini per una Notizia attesa da tutti di Piero Gheddo
6)    LE «ATTESE FORTI» DELLA SETTIMANA SOCIALE DI REGGIO - Politica pulita e buon governo: la speranza dei cattolici di PAOLA RICCI SINDONI – Avvenire, 21 ottobre 2010
7)    «Un altro caldeo ucciso a Mosul» - L’arcivescovo Sako ieri al Senato: «Temo una divisione dell’Iraq, ma se non si trova una soluzione la nostra minoranza sparirà» - DA ROMA – Avvenire, 21 ottobre 2010
8)    S.E. Card. Carlo Caffarra - Piccola catechesi ai giovani sulla fede - Basilica di San Luca, 15 ottobre 2010

SOLO LO STATO CIVICO POTRÀ SALVARE I CRISTIANI D'ORIENTE - Intervista a Samir Khalil, gesuita ed esperto in islam di Robert Cheaib

CITTA' DEL VATICANO, martedì, 19 ottobre 2010 (ZENIT.org).- I cristiani in Medio Oriente non sono vittime di una persecuzione sistematica, ma la loro vita e i loro diritti subiscono una discriminazione simile a una lenta eutanasia che sta spegnendo a poco a poco la loro presenza millenaria in Medio Oriente.
Il Sinodo dei Vescovi ha una responsabilità cruciale nel proporre un rimedio a questo fenomeno che l'Arcivescovo caldeo di Kirkuk, mons. Louis Sako, non ha tardato a definire «l'emorragia dei cristiani mediorientali».
In quest’intervista a ZENIT, padre Samir Khalil, esperto d’Islam e di storia del Medio Oriente, offre un quadro storico-religioso della situazione attuale nella regione, analizza le sfide più urgenti e propone alcune possibili soluzioni concrete.
Pur non essendo l’unico argomento trattato dai padri sinodali, si nota però che un grande rilievo è stato dedicato all’aspetto geopolitico della presenza cristiana in Medio Oriente e in particolare al loro rapporto con l’islam. È forse questo l’aspetto più importante e veramente decisivo per la loro esistenza e permanenza in Medio Oriente?
Samir Khalil: Non v’è dubbio che essendo una minoranza che non supera il 10% della popolazione del Medio Oriente - mentre la stragrande maggioranza è di religione musulmana - la nostra esistenza dipende dal beneplacito di questa maggioranza, soprattutto perché l’islam si concepisce come Stato e religione. E siccome da più di 30 anni ormai la maggioranza degli Stati mediorientali ha adottato un approccio islamista alla realtà statale, dove la religione decide tutti i particolari della vita quotidiana, sociale e politica, va da sé che in queste condizioni la nostra situazione dipenda dal buon volere dei musulmani e dal sistema islamico. Non c’è da stupirsi, allora, se la questione ha occupato un grande rilievo come lei nota giustamente.
Lei è di origine egiziana, ma vive in Libano, ed essendo esperto dell’islam si trova spesso a contatto diretto con i musulmani. Come descriverebbe il suo rapporto con loro?
Samir Khalil: Faccio subito una distinzione tra i musulmani presi singolarmente e i sistemi islamici, semplicemente perché con i musulmani presi singolarmente è possibile instaurare un bellissimo dialogo e un confronto interculturale e religioso.
Mi permetta di raccontare un aneddoto a conferma di quanto dico: ieri sera mi ha contattato su skype un musulmano sunnita del nord del Libano, incontrato per caso su un aereo un mese fa. Il nostro dialogo si è concentrato sulla Trinità e sulla preghiera. Durante la conversazione mi ha detto: «dottore, vorrei presentarle mia moglie». In Oriente, questo gesto vuol dire che sei ormai parte della famiglia. Quindi, preso singolarmente il musulmano – paradossalmente – è molto più vicino a noi cristiani orientali di un cittadino europeo. C’è un senso religioso che ci accomuna e ci unisce. Ma se dobbiamo parlare dell’islamismo, il discorso cambia radicalmente perché si tratta di un progetto politico a sfondo religioso. Come cristiani orientali, vorremmo essere trattati semplicemente come cittadini con una Costituzione che trascende tutte le religioni. Ma nella maggior parte dei casi nei nostri Paesi la Costituzione è basata essenzialmente – se non totalmente – sulla legge islamica. E questo è il nostro problema. A parte pochi casi come il Libano, gli Stati anche costituzionalmente laici, come sarebbe il caso della Tunisia, della Siria o della Turchia, sono culturalmente Paesi islamici e privilegiano i cittadini di religione musulmana.
Il revival islamico è un fenomeno molto complesso che ha diverse origini: le correnti del ressourcement come il Wahhabismo; la lettura antagonista dell’Occidente presentata a metà del XX secolo da personaggi come Sayyed Kotb, fondatore dei fratelli musulmani; i diversi pregiudizi culturali che fanno coincidere erroneamente Occidente e cristianesimo; le ultime guerre americane considerate come crociate contro l’islam; la grave parzialità occidentale nel conflitto israelo-palestinese. Ma qual è secondo lei il perno di quest’esponenziale sviluppo dell’islamismo politico e del fondamentalismo islamico?
Samir Khalil: Da una parte c’è un’ondata islamista che nasce agli inizi degli anni Settanta. A partire dal 1973 è accaduto un fenomeno economico in seguito alla guerra tra Israele e Paesi arabi, che ha visto il prezzo del greggio quadruplicarsi in pochi mesi. Così i Paesi petroliferi si sono trovati improvvisamente con una montagna di petrodollari. L’Arabia Saudia, non sapendo cosa fare di questa immensa fortuna ne ha impiegato un'ampia parte nella costruzione di moschee e scuole islamiche. L’Arabia Saudita ha finanziato i Fratelli Musulmani in Egitto e il loro progetto era chiaro: islamizzare la società egiziana perché non era abbastanza musulmana. In seguito, ha fatto la stessa operazione in tutti i Paesi del Medio Oriente. Così agli inizi degli anni Ottanta, i Fratelli Musulmani sono diventati così numerosi da essere considerati come un pericolo in Siria e il presidente siriano Hafiz al-Asad li ha soggiogati con la forza.
L’Indonesia, un paio di decenni fa, era considerata il paradiso della libertà religiosa in un Paese musulmano, tanti sacerdoti erano ex convertiti dall’islam. Adesso questo è un fenomeno impossibile. Lo stesso in Nigeria: nell’ultimo decennio il numero delle province che applicano la legge islamica è salito da 4 a 12. L’Europa, con circa il 5% di musulmani si sente già invasa e minacciata. Così il canceliere tedesco Angela Merkel ha lanciato l’allarme pochi giorni fa annunciando il fallimento del modello d’integrazione, perché sono proprio loro a non volersi integrare. E perché non si integrano? Perché hanno un progetto religioso, mentre gli Stati dove vivono hanno progetti nazionali areligiosi.
Di fronte a questa situazione alquanto complessa e critica, cosa ha fatto il Sinodo dei Vescovi e cosa intende fare?
Samir Khalil: Noi cristiani d’Oriente viviamo in mezzo a questo fenomeno in fieri, dove l’islam guadagna piede giorno dopo giorno, a tal punto che nella Lega Araba il primo argomento è sempre questo: come affrontare l’islamismo. E il Sinodo sta dedicando particolare attenzione al rapporto con l’islam. Le sedute sinodali si interrogano sul perché la gente lasci la propria terra, la culla del cristianesimo. Nel mondo arabo non c’è persecuzione contro i cristiani, ma c’è discriminazione. I cristiani non sono trattati nello stesso modo dei musulmani. I musulmani sono i cittadini normali destinatari delle leggi. Gli altri, costituzionalmente, sono cittadini, ma concretamente le leggi – in quanto fatte a partire dal sistema musulmano – lasciano i cristiani in una condizione svantaggiata. Inoltre, la libertà di coscienza è inesistente, esiste solo la tolleranza che consiste nel sopportare che il cristiano rimanga in terra islamica ma con tanti limiti. Non è possibile, però, lasciare l’islam per un’altra religione. Tutte queste situazioni sono state negli ultimi giorni al centro dell’attenzione dei padri sinodali.
La diagnosi offerta tocca diverse cause di sofferenza per i cristiani d’Oriente, ma allora la domanda che si pone è: c’è una via d’uscita, oppure le proposte e i propositi sono solo utopia e rimarranno solo come prognosi riservata?
Samir Khalil: C’è un’unica via d’uscita, quella di puntare a certi concetti condivisi, come quello di «cittadinanza» o della «appartenenza araba», entrambi riconosciuti da gran parte dei musulmani. I movimenti che promossero questi valori agli inizi del XX secolo ebbero tanto successo perché portavano con sé un soffio di novità che invitava a uscire dalla visione tribale; ma ultimamente questa visione è stata accantonata e sostituita dal concetto dell’Umma [La nazione] islamica. Durante la presidenza di Nasser, fino alla metà degli anni '70, il concetto era la Umma al-Arabiyya [la nazione araba], ma dalla metà degli anni '70 in poi è prevalso il concetto dell’Umma al-Islamiyya [la nazione islamica], che non lascia spazio ai non musulmani. La soluzione è di cercare di proporre, musulmani e cristiani, un concetto moderno di Stato, non solo a livello politico, ma anche a livello culturale.
La proposta è concreta, ma alquanto irrealizzabile nello scenario culturale dell’Oriente. Come si può fare affinché il fattibile diventi fattivo?
Samir Khalil: Proprio qui subentra la proposta del Sinodo per il Medio Oriente: non si tratta di fare un progetto cristiano, e tantomeno un progetto dei cristiani o per i cristiani, perché così riflettiamo come se fossimo una minoranza che cerca di proteggersi. Noi non cerchiamo di proteggerci, ma quello che diciamo riflette la parola anche di tanti musulmani che riconoscono come noi che la nazione araba sta male perché soffre di una defaillance nell’esercizio della democrazia, nella distribuzione delle ricchezze e nello stabilimento della giustizia sociale e di uno Stato di diritto, nella riforma del sistema sanitario. L’islam è molto sensibile a queste dimensioni. La libertà di coscienza e di espressione è auspicata da tanti, e questo non perché la gente vuole allontanarsi dall’islam, ma perché vuole vivere l’islam in un modo più personale. Nel mondo islamico c’è un senso di modernità e di libertà che non osa manifestarsi. Un cristiano può scrivere criticando il suo patriarca o vescovo, mentre è difficile per un musulmano farlo. Non perché qualcuno in particolare glielo vieti, ma perché la cultura stessa glielo impedisce. Gli imam sono gli ulema [i dotti] e il loro sapere non si discute. E ribadisco che con le suddette proposte non si tratta di rendere i musulmani meno musulmani o i cristiani meno cristiani ma di dire che la fede è una questione personale anche se ha la sua dimensione sociale, e ognuno deve vivere la propria fede come gli viene inspirata da Dio.
[Mercoledì 20 ottobre, la seconda parte dell'intervista]

SOLO LO STATO CIVICO POTRÀ SALVARE I CRISTIANI D'ORIENTE (II)

Intervista a Samir Khalil, gesuita ed esperto in islam

di Robert Cheaib

ROMA, mercoledì, 20 ottobre 2010 (ZENIT.org).- L’esodo dei cristiani dal Medio Oriente è un dilemma, ma può anche essere un kairos, a condizione che i cristiani mantengano vivo il fuoco della fede nel loro cuore.
In questa seconda parte dell’intervista, padre Samir Khalil, facendo tesoro della sua ampia conoscenza della situazione mediorientale nelle sue sfumature religiose, politiche e culturali, spiega la necessità della presenza cristiana in Medio Oriente non solo per la Chiesa universale ma anche per gli stessi musulmani.
La prima parte dell'intervista è stata pubblicata il 19 ottobre.
La proposta di «laicità positiva» non può avere successo in ambito islamico perché la laicità – ‘elmaniyya in arabo – suona come allontanamento da e abbandono di Dio a favore della mondanità. Crede che l’altro concetto proposto, ossia lo «Stato civico» avrà più fortuna, o l’Oriente sceglierà la proposta islamista il cui slogan è «al-islam huwa l-ḥall», [l’islam è la soluzione/risposta], deluso dal fallimento religioso, morale e identitario dell’Occidente?
Samir Khalil: L’Occidente, a dire il vero, è andato troppo lontano fino a dissolvere le radici della propria identità. Ricordiamoci del discorso del Papa a Regensburg nel 2006 dove la critica era essenzialmente alla cultura occidentale che è andata oltre l’Illuminismo fino a identificare la cultura con il materialismo.
La sua domanda fa riferimento alla forza dell’islam integralista. Il ragionamento degli integralisti è il seguente: l’Occidente ha un progetto di civiltà, ma il suo modello è un modello di corruzione: la perversione e il libertinaggio sessuale, l’adulterio, la dissoluzione della famiglia, l’aborto… è un progetto inaccettabile per l’islam che lo vede come corrotto e lontano da Dio. La modernità predicata dall’Occidente è ormai sinonimo di ateismo e immoralità. Per loro il cristianesimo, identificato a sua volta con l’Occidente, è finito. Similmente, il marxismo e il socialismo hanno fallito agli occhi di tutti. La soluzione è l’islam, e la prova è che quando in passato abbiamo applicato l’islam alla lettera abbiamo conquistato tutto il mediterraneo. È questo il ragionamento che ha fatto Gheddafi quando ha visitato l’Italia di recente: «L’Europa nel 2050 sarà a maggioranza musulmana». La sua previsione si avvererà se l’atteggiamento dei cristiani non cambia.
Tanti cristiani orientali sono stanchi delle esortazioni a rimanere nelle loro terre, soprattutto perché queste esortazioni vengono da chi vive nell'Occidente ricco e libero. Gli atti degli apostoli al capitolo ottavo parlano della prima persecuzione dei cristiani, che disperse la comunità (ad eccezione degli apostoli). Questo evento negativo, si rivelò successivamente come un kairos che permise ai cristiani di diffondere il Vangelo altrove. Non crede che la situazione attuale che sta causando l’esodo e la fuga dei cristiani possa essere un segno dei tempi?
Samir Khalil: Tante persone in Medio Oriente mi dicono: «Rimanere qui diventa sempre più difficile. E sebbene ancora ce la facciamo, non sappiamo però come sarà per i nostri figli». Io do una riposta in tre punti: in primo luogo, nessuno ti può obbligare a rimanere. Ogni famiglia ha il diritto di decidere dove vivere e come. Non tocca a noi perché siamo preti dire loro se devono rimanere. Aggiungo, però, un secondo punto: se a livello personale, forse è meglio per te emigrare in Canada o in Australia o in Francia, non lo è a livello comunitario e generale: se tutti facessero come te, questa regione si ritroverebbe presto senza cristiani; proprio nella terra della nascita del cristianesimo non ci sarebbero più cristiani. Abbiamo quindi una grande vocazione e responsabilità.
Il terzo punto: se ci troviamo tutti nella diaspora, possiamo ancora mantenere la nostra identità orientale? È difficile mantenere la cultura e la tradizione d’origine più di due o tre generazioni. E questo, di nuovo, non è un problema personale, ma un problema a livello di Chiesa universale: se una tradizione orientale sparisce, questo costituisce per tutta la Chiesa una grande perdita. Giovanni Paolo II diceva che la Chiesa ha due polmoni, la Chiesa orientale e la Chiesa occidentale. Se una di queste realtà venisse a mancare, la Chiesa si ridurrebbe a un solo polmone e le mancherebbe il respiro.
Pertanto, dico ai cristiani: che voi emigriate o rimaniate, non è questa la vera questione; la cosa essenziale è mantenere la vostra fede. Proponete la fede ai vostri figli; e se vedete dove andate che molti cristiani non hanno più fede trasmettetegliela.
Ciò che lei dice a partire dal libro degli Atti è che la missione è partita da un evento difficile imprevisto, e che si è rivelato come una chance per la fede stessa. Ma questo è accaduto a una sola condizione: avevano il fuoco della fede nel cuore. Se noi, invece, partiamo avendo nel cuore la brama del denaro, la nostra emigrazione non porterà a nulla. L’essenziale è che questo fuoco del Vangelo rimanga nel cuore. Se rimani in Egitto, Libano e Siria mantieni questo fuoco per trasmetterlo ai fratelli dell’islam. Se vai in America o altri Paesi, trasmettilo ai tuoi nuovi concittadini.
È sufficiente dare consigli e orientamenti pastorali ai cristiani d’Oriente per farli rimanere in Oriente? Non crede piuttosto che sia necessario sostenerli economicamente, sapendo che in Libano, ad esempio, gli sciiti sono stati fortemente sostenuti economicamente dall’Iran e i sunniti dai paesi del Golfo, e questo fatto gli ha permesso di migliorare la loro condizione sociale e politica?
Samir Khalil: Credo che il nostro problema in Medio Oriente non sia finanziario. Prendiamo il caso del Libano: nel Paese abbiamo dei miliardari in ogni quartiere di Beirut. Ci sono tante opere di carità in Libano lanciate dai cristiani. Gli aiuti pervenuti dall’estero, cui lei accenna, vengono come parte di una propaganda politica che la Chiesa non può fare perché essa non è una nazione. E non esiste nessuna nazione cristiana per farlo. Certamente gli immigrati possono aiutare, e sappiamo che molti immigrati contribuiscono al sostentamento dei loro familiari. Questo aiuto può essere migliorato, ma non è ciò che risolve il problema. C’è bisogno di progettazione, di offrire progetti chiari e sicuri, di modo che i soldi da chiedere ai benefattori cristiani abbiano un percorso rintracciabile, e non vengano rubati lungo il loro percorso fino alle opere concrete. E in questo il nostro clero non dona bei esempi di affidabilità visto l’attaccamento poco evangelico alle apparenze e alle ricchezze. Quindi risuona di nuovo l’invito alla conversione, a purificare la nostra vita per renderla più consona al Vangelo.
Il Sinodo è stato coperto principalmente da due sole reti televisive mediorientali (entrambe libanesi). Si lamenta pure la scarsa copertura dei media italiani. A che cosa è dovuto questo fatto: al pregiudizio che quello che i Vescovi diranno rimarrà solo inchiostro su carta? All’indifferenza verso ciò che vive e dice la Chiesa? Oppure al disinteresse riguardo al Medio Oriente?
Samir Khalil: Mi domando forse se il fatto sia semplicemente dovuto alla presenza di pochi giornalisti arabi che seguono le notizie a Roma. O forse si sono chiesti: ma che cosa può fare un Vescovo per cambiare la situazione in Iraq, in Palestina o in Libano? I cattolici sono una piccola minoranza in Egitto quindi i copti e i musulmani se ne disinteressano. Gli unici che possono seguire il Sinodo sia per interesse sia per capacità sono i giornalisti del Libano.
Per quanto riguarda i giornali occidentali credo che partano da un concetto di consumismo: non confezionano un prodotto se non sanno che venderà e che porterà guadagno. Le testate purtroppo non valutano l’importanza degli argomenti e degli eventi in sé ma si lasciano condizionare dall’audience. Uno scoop scandalistico o sessuale vende molto di più di un Sinodo che cerca lentamente la sua strada. Alcune volte la colpa è nostra. La gente non viene informata né sugli eventi né sul loro senso e neppure sulla loro importanza. Credo che in questo ambito il Libano faccia tanto: tramite ZENIT, Télé Lumière o Lbc. Questo contributo mediatico dona al Libano il suo posto d’avanguardia per tutti i cristiani in Medio Oriente.
Per concludere, secondo lei quali sono gli atteggiamenti che renderanno fruttuoso l’investimento di risorse umane ed economiche in questo Sinodo?
Samir Khalil: Credo che l’atteggiamento principale che devono assumere i partecipanti sia la sincerità, e il senso critico per puntualizzare con schiettezza e chiarezza ciò che non va, ciò che va e ciò che è migliorabile. Per quanto riguarda l’atteggiamento che auspico per i cristiani d’Oriente, credo che debbano avere a priori uno sguardo favorevole. In fondo, nel Sinodo si investono tante risorse positive: si parla di migliaia di ore di lavoro e di fatica che coinvolgono un gran numero di persone impegnate a fare del loro meglio. Perciò direi che l’atteggiamento corrispondente dei cristiani debba essere la serietà: si tratta del nostro futuro, non del futuro dei Vescovi, ma del futuro di diversi milioni di cristiani e non solo dei cattolici.
Nel suo intervento il signor Mohammad Sammak ha ribadito il ruolo che i cristiani hanno giocato nel formare l’identità del Medio Oriente, affermando che senza di loro la nostra società non sarebbe più quella che è. I cristiani hanno giocato nella storia passata e recente un ruolo fondamentale arricchendo la società araba, culturalmente sociologicamente, politicamente e spiritualmente. Affinché questo ruolo non sia un ricordo del passato ma una realtà del presente i cristiani – Vescovi e fedeli – devono privilegiare la comunione – non solo tra di loro ma anche con gli altri, con i musulmani. E devono anche vivere la missione, non nel senso di un proselitismo sbiadito, ma vivere l’essenza del Vangelo che è un annuncio, una bella notizia di cui noi, modestamente, siamo araldi.


Appunti sulle prossime elezioni Lorenzo Albacete - giovedì 21 ottobre 2010 – il sussidiario.net

Mentre riflettevo sulle questioni fondamentali alla base dei temi che verranno discussi nelle prossime elezioni di mezza legislatura, ho riletto un articolo apparso su Harper’s Magazine nel dicembre 2007 e che raccomando alla lettura di chi è interessato al rapporto tra la politica e la spiritualità americane. L’autore dell’articolo, intitolato “Hot Air Gods.” (dei senza valore), è l’opinionista e critico Curtis White.

White scrive che quando un americano dice “credo” implica tre cose importanti: che è un diritto avere un proprio credo; che gli altri devono rispettare questo mio diritto a un mio credo, anche se per loro non avesse alcun senso; che ciò in cui credo non deve avere un senso perché sia riconosciuto come diritto, cosicché io sia legittimato a ordinare la mia vita secondo questo credo e a rafforzarlo attraverso l’elezione di politici e l’appoggio a leggi.

White fa un’osservazione cruciale: “Ciò che è richiesto a una convinzione non è che abbia senso, ma che sia sincera. Questo è vero anche per le nostre convinzioni più laiche… Questa sincerità è senza dubbio in parte fervore, ma è anche un avvertimento, perché dice ‘ho investito molta energia emotiva in questo credo e, in un certo senso, vi ho posto la credibilità stessa della mia vita. Perciò, se viene ridicolizzato, aspettatevi battaglia’”.

Acutamente, White osserva che vi è “qualcosa di sbagliato” in questa spiritualità, e cioè che “avviene nell’isolamento. È come se ciascuno di noi fosse una terra straniera e volessimo sapere in che cosa credono gli abitanti degli altri Paesi (individuali)”. E conclude: “Il nostro credo più chiaro è credere nell’eresia stessa, è un’eresia senza ortodossia”, l’affermazione del diritto di ciascuno alla propria eresia.

Come si collega questo atteggiamento alla concezione americana della libertà religiosa? Secondo White in questo modo: “La libertà di religione è giunta a questo punto: dove ciascuno è libero di credere in quello che gli pare non esiste nessuna convinzione condivisa, quindi nessuna Chiesa e nessuna comunità. Paradossalmente, la nostra libertà di credere è arrivata a ciò che Nietzsche chiamava nichilismo, ma per una strada che lui mai avrebbe immaginato. Per Nietzsche il nichilismo europeo rappresentava il fallimento di ogni forma di credo… ma il nichilismo americano è qualcosa di differente. Il nostro nichilismo è la nostra capacità di credere in qualsiasi e in nessuna cosa allo stesso tempo. Va bene tutto!”
Per White questa spiritualità è in realtà una difesa contro una latente disperazione, direi, una disperazione per il fatto che la realtà è meno di quanto noi vorremmo, che ciò di cui il nostro cuore ha bisogno e desidera non è reale. Vale a dire un’indicazione di ciò che monsignor Giussani definisce la “riduzione del desiderio” che caratterizza la vita moderna.

“Tutto questo, però, non è stranamente familiare?” chiede White, che vede nella nostra attuale situazione ciò che i profeti Isaia e Geremia denunciavano come il culto degli “dei senza valore”. Cosa si può fare, se qualcosa si può fare, per salvare le notevoli conquiste del pluralismo e della diversità americane da questa cultura caratterizzata da una disperazione repressa?

La cultura politica americana, scrive White, è riuscita in effetti a mediare tra le contrastanti pretese della religione vera e dell’idolatria. Se non ha cancellato del tutto l’odio che scaturisce da questa distinzione, ha quanto meno impedito in gran parte la violenza. Come gli imperi romano e persiano, il nostro sostiene la libertà religiosa fino a che questa non interferisce con l’amministrazione dell’impero che porta ricchezza alle élite al potere. Nel nostro caso, afferma White, alle convinzioni religiose non è consentito minacciare le esigenze poste dalla privatizzazione della ricchezza.

Si può o meno condividere la concezione di White sul capitalismo americano, così come il suo giudizio sugli effetti negativi che ha su un’autentica spiritualità, ma la riforma proposta da White non riesce, secondo me, a superare i desideri del cuore che definiscono ciò che significa essere umani.

Ciò che serve oggi, scrive, è un “immane progetto di traduzione”. Se interpreto correttamente, questo comporta dialogo, riflessione su se stessi e capacità critica che portino alla luce i valori realmente umani che sottostanno alle diverse convinzioni religiose, consentendo a ognuno di riconoscere negli altri la comune umanità.

In nessun punto del progetto, tuttavia, i partecipanti al dialogo si mettono a confronto con la questione della verità. In consonanza con il pensiero di Jan Assman, White apprezza il fatto che questo progetto di traduzione porti all’abolizione della “distinzione mosaica” e dell’opposizione tra idolatria e verità. Qui sta il problema, che non è di “sincerità” e neanche di “traduzione”. Il problema è nelle pretese di verità. La domanda è: come possiamo capire e sperimentare la Verità non come elemento di divisione che conduce all’intolleranza e alla violenza?

Solamente se la creazione della realtà è un dono d’amore. Solo se Deus Caritas Est. È questa convinzione, che viene dall’incontro con Cristo, che possiamo e dobbiamo offrire alla nostra società come nostro contributo alla liberazione dalla disumanità del nichilismo.


MEETING AL CAIRO/ L'avventura comune di trenta ragazzi, cristiani e musulmani Wael Farouq - giovedì 21 ottobre 2010 – il sussidiario.net

L’Egitto sta vivendo recentemente uno stato di forte tensione generalizzata: quasi non passa settimana senza una manifestazione davanti a qualche moschea o a qualche chiesa. Gli egiziani musulmani pensano che la Chiesa copta sia diventata uno Stato dentro lo Stato, perché non accetta di sottomettersi alla legge, quando la ritiene in contraddizione con le proprie convinzioni.

Gli egiziani musulmani credono che ciò faccia parte di un sodalizio con l’attuale sistema di governo, al quale la Chiesa dà il suo sostegno incondizionato, arrivando persino ad appoggiare i progetti politici volti a consentire al figlio del Presidente Mubarak di ereditare il governo.

Dal canto loro, gli egiziani cristiani sentono di essere privati dei propri diritti politici e, nonostante le famiglie egiziane più ricche siano copte, e benché tra loro vi sia un’alta percentuale di persone istruite e i cristiani svolgano professioni di alto livello, essi non possono, tuttavia, aspirare alle alte cariche dello stato, come la Presidenza della Repubblica o la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Inoltre, i cristiani non possono né costruire né restaurare una chiesa senza intraprendere battaglie prolungate con una burocrazia che li tratta con ostilità.

Tale situazione ha fatto sì che la relazione sentimentale tra un giovane musulmano e una ragazza cristiana fosse sufficiente a far scendere in strada migliaia di persone comuni, per manifestare contro la mancanza di fermezza da parte dello Stato e della Chiesa nel far fronte al proselitismo (islamico e cristiano). La questione, tuttavia, non si limita più alle persone comuni, bensì coinvolge oggi persino le leadership religiose.

È in questo contesto rovente che trenta ragazzi e ragazze, musulmani e cristiani (cattolici e ortodossi) si riuniscono per lavorare insieme, per cancellare tutto questo male e creare uno spazio di amore e amicizia. Lavorano insieme preparandosi a ospitare il Meeting di Rimini e i valori che esso rappresenta.

Il Meeting cresce e si amplia ogni giorno, attirando molta attenzione e curiosità, oltre al sostegno di al-Azhar, Anba Musa (Segretario del Papa copto), Anba Boutros Fahim (Vice Patriarca cattolico), l’Università del Cairo, il Ministro della Cultura, cinquanta personalità pubbliche egiziane e gli ambasciatori di un certo numero di Paesi arabi.

Il Meeting del Cairo è iniziato davvero con il sorriso d’amore sui volti di questi giovani, i quali credono nella propria capacità di aprirsi agli altri, perché credono nella propria diversità e la amano. Ricordo di aver detto, nella presentazione dell’edizione araba de Il senso religioso di Don Giussani, al Meeting di Rimini 2006, che l’amicizia sincera tra due persone è sufficiente per cambiare il mondo. Stavo forse sognando?


BENEDETTO XVI: L'AUTORITÀ È SERVIZIO ALLA GIUSTIZIA E ALLA CARITÀ - Annunciata la creazione di 24 Cardinali nel Concistoro del 20 novembre (ZENIT.org)

ROMA, mercoledì, 20 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Elisabetta d'Ungheria ci insegna che “l'esercizio dell'autorità, a ogni livello, dev'essere vissuto come servizio alla giustizia e alla carità, nella costante ricerca del bene comune”. E' quando ha detto questo mercoledì all'Udienza generale Benedetto XVI parlando della santa regina di Turingia, vissuta nei primi del Duecento.
Nel tradizionale appuntamento settimanale in piazza San Pietro con i fedeli provenienti da tutto il mondo, il Papa ha parlato della profonda fede che animava santa Elisabetta d’Ungheria e che destava talvolta “sommesse critiche, perché il suo modo di comportarsi non corrispondeva alla vita di corte”.
La regina d'Ungheria “non sopportava i compromessi” e “come si comportava davanti a Dio, allo stesso modo si comportava verso i sudditi”, ha raccontato il Pontefice.
“Non consumava cibi se prima non era sicura che provenissero dalle proprietà e dai legittimi beni del marito – ha continuato –. Mentre si asteneva dai beni procurati illecitamente, si adoperava anche per dare risarcimento a coloro che avevano subito violenza”.
“Un vero esempio – ha osservato il Santo Padre – per tutti coloro che ricoprono ruoli di guida: l’esercizio dell’autorità, ad ogni livello, dev’essere vissuto come servizio alla giustizia e alla carità, nella costante ricerca del bene comune”.
“Elisabetta – ha continuato – aiutava il coniuge ad elevare le sue qualità umane a livello soprannaturale, ed egli, in cambio, proteggeva la moglie nella sua generosità verso i poveri e nelle sue pratiche religiose”.
“Sempre più ammirato per la grande fede della sposa, Ludovico, riferendosi alla sua attenzione verso i poveri, le disse: 'Cara Elisabetta, è Cristo che hai lavato, cibato e di cui ti sei presa cura'”.
“Una chiara testimonianza – ha commentato il Papa – di come la fede e l’amore verso Dio e verso il prossimo rafforzino la vita familiare e rendano ancora più profonda l’unione matrimoniale”.
“Cari fratelli e sorelle, nella figura di Santa Elisabetta vediamo come la fede, l'amicizia con Cristo creino il senso della giustizia, dell'uguaglianza di tutti, dei diritti degli altri e creino l'amore, la carità”.
“E da questa carità – ha concluso – nasce anche la speranza, la certezza che siamo amati da Cristo e che l'amore di Cristo ci aspetta e così ci rende capaci di imitare Cristo e di vedere Cristo negli altri”.
Sempre durante l'Udienza generale Benedetto XVI ha poi annunciato la convocazione di un Concistoro, per il prossimo 20 novembre, nel quale creerà 24 Cardinali (10 gli italiani), di cui 20 elettori. In questo modo il Collegio cardinalizio sarà formato da 203 porporati, di cui 121 elettori.
“I Cardinali – ha detto il Papa – hanno il compito di aiutare il Successore dell’Apostolo Pietro nell’adempimento della sua missione di principio e fondamento perpetuo e visibile dell’unità della fede e della comunione nella Chiesa”.
Al momento dei saluti conclusivi, invece, parlando ai giovani, ai malati e ai nuovi sposi, il Pontefice ha quindi posto l'accento sulla cooperazione missionaria al centro del mese di ottobre.
“Con le fresche energie della giovinezza, con la forza della preghiera e del sacrificio e con le potenzialità della vita coniugale – ha detto il Papa – sappiate essere missionari del Vangelo, offrendo il vostro concreto sostegno a quanti faticano per portarlo a chi ancora non lo conosce”.


Avvenire.it, 21 ottobre 2010 - Domenica la Giornata missionaria mondiale - Slancio senza confini per una Notizia attesa da tutti di Piero Gheddo

Come ogni anno dal 1926, nella penultima domenica di ottobre si celebra nel mondo cattolico la Giornata missionaria. Papa Benedetto ha pubblicato il suo messaggio sul tema «La costruzione della comunione ecclesiale è la chiave della missione», che incomincia così: «Cari fratelli e sorelle, il mese di ottobre, con la celebrazione della Giornata missionaria mondiale, offre alle Comunità diocesane e parrocchiali, agli Istituti di vita consacrata, ai movimenti ecclesiali, all’intero popolo di Dio, l’occasione per rinnovare l’impegno di annunciare il Vangelo e dare alle attività pastorali un più ampio respiro missionario».

Quante volte a me missionario qualcuno chiede: «Perché parlare ancora di missioni, di mandare personale e aiuti in Africa, in Asia, in Oceania, quando qui in Italia stiamo perdendo la fede? C’è bisogno di missionari qui da noi».

Il messaggio del Papa risponde a questa domanda. La missione ha un significato ben più ampio di quanto normalmente si crede. Certo, lo scopo primo è di ricordare ai fedeli la "missione alle genti", cioè l’annunzio di Cristo ai popoli che ancora non hanno ricevuto il Vangelo; e di invitarli a pregare e ad aiutare i missionari fra i non cristiani. Ma la Giornata missionaria ci ricorda con forza che tutte le comunità cristiane (famiglie, parrocchie, istituti religiosi, movimenti e associazione laicali), debbono essere "missionarie". Perché «la Chiesa è per natura sua missionaria» (Ad gentes, 2). Cristo l’ha creata così e se non fosse più missionaria non sarebbe più la Chiesa di Cristo. Marcello Candia diceva spesso: «Io sono missionario in forza del mio Battesimo».

Missione alle genti e nuova evangelizzazione dei popoli cristiani sono strettamente collegate, l’una riceve forza e motivazioni nuove dall’altra. C’è un passo del Vangelo che spiega questa verità difficile da capire e da credere: infatti si pensa che, proprio perché qui da noi diminuisce la fede e la vita cristiana, bisogna concentrare tutte le energie ecclesiali sul popolo italiano. Gesù non la pensava così. Poco prima di salire al Cielo, «apparve agli undici discepoli mentre erano a tavola. Li rimproverò perché avevano avuto poca fede e si ostinavano a non credere a quelli che l’avevo visto risuscitato. Poi disse: "Andate in tutto il mondo e portate il Vangelo a tutti gli uomini. Chi crederà sarà battezzato, chi non crederà sarà condannato"» (Mc. 16, 14-16).

Ma come?! Gesù rimprovera gli undici di aver poca fede e di non credere nemmeno nella sua Risurrezione. Poi dice: «Andate in tutto il mondo e portate il Vangelo a tutti gli uomini». Come fanno ad annunziare il Vangelo se non credono che Cristo è risorto dalla morte? Non sarebbe stato meglio se si fermavano tutti assieme a Gerusalemme, fortificando la loro fede con la preghiera e lo studio? La risposta la dà Giovanni Paolo II: «La missione rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l’identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si rafforza donandola! La nuova evangelizzazione dei popoli cristiani troverà ispirazione e sostegno nell’impegno per la missione universale» (Redemptoris Missio, 2).

La missione cambia continuamente perché cambiano le situazioni. Il nostro tempo è affascinante: apre strade nuove, sempre fondate sulla fede, l’amore personale a Cristo, l’obbedienza alla Chiesa universale e locale, ma nuove di metodi, di linguaggi, anche di contenuti. La dibattuta questione dell’«inculturazione del messaggio» nelle culture non cristiane presenta questo vantaggio pastorale. Visitando le «giovani Chiese» di missione, si vede spesso come i giovani cristiani, pur poco istruiti nella fede, apprezzano il dono della fede e manifestano l’entusiasmo di essere cristiani diventando essi stessi missionari. La missione oggi deve essere continuamente inventata anche nei metodi pastorali, nella predicazione, nell’annunzio.

Questa la radice del rinnovamento anche pastorale che le giovani Chiese testimoniano. Il vescovo di Vanimo in Papua Nuova Guinea, monsignor Cesare Bonivento, mi diceva: «Nella mia diocesi le molte conversioni vengono dai giovani cristiani. Sanno ancora pochissimo di Gesù e della fede cristiana, ma spontaneamente vanno in giro a parlarne. Non so cosa dicono, tutta la mia opera di vescovo è di dare loro una sufficiente istruzione religiosa, ma ho poco personale missionario. Spesso prego lo Spirito Santo e gli dico: la missione è tua, pensaci tu».


LE «ATTESE FORTI» DELLA SETTIMANA SOCIALE DI REGGIO - Politica pulita e buon governo: la speranza dei cattolici di PAOLA RICCI SINDONI – Avvenire, 21 ottobre 2010

C alato il sipario sulla 46° Settimana Sociale, appare opportuno rileggere il titolo-programma che l’ha caratterizzata: 'Cattolici nell’Italia di oggi. Un’agenda di speranza per il futuro del Paese'.

Non si può negare che i cattolici italiani, molti, e provenienti da tutto il territorio nazionale, si sono visti e sentiti a Reggio Calabria, animati dall’orgoglio di stare insieme, popolo di credenti, pronti a condividere preoccupazioni, ma soprattutto progetti per la Nazione, nostra casa comune, capace di riunire le tante differenze e di far fiorire il gusto dell’appartenenza spirituale e culturale a una grande storia. Non è stato solo un bel discorso celebrato dentro le pareti rassicuranti dell’istituzione ecclesiale (se non quando hanno preso forma l’adorazione e la preghiera).

Le parole delle relazioni e del lavoro comune, infatti, a cominciare dalla prolusione del cardinal Bagnasco, dall’introduzione di monsignor Miglio, per non dimenticare l’appello accorato e forte di Benedetto XVI, sono state tutte concordemente rivolte ad affrontare alcune questioni cruciali del Paese con quel giusto dosaggio tra ispirazione utopica e sano realismo storico. Non è questa la sostanza della speranza evocata da questa Settimana? Che non è stata certo una vaga proiezione in avanti del desiderio di bene per tutti e neppure la retorica promessa nel domani evocata dai tanti proclami pubblici, quanto l’assunzione di una responsabilità nell’ora presente, nutrita dall’energia della fede e dalla voglia di realizzazione. A questa speranza si è guardato a Reggio Calabria, per cogliere nell’oggi le sfide necessarie e le richieste pressanti che salgono dalla società civile verso i palazzi del potere.

L’attuale crisi di riferimento culturale e valoriale, che attanaglia molti settori della classe politica, ha bisogno di princìpi inscalfibili (vita e famiglia, su tutti) e di parole chiare. E anche a Reggio Calabria gli uni e le altre sono stati detti e ripetuti, delineando attese forti. Innanzitutto, la richiesta di competenza e di credibilità dei politici, non più coperti dall’ombra dei sospetti di giudizi penali a loro carico, come anche presidente dell’Antimafia Beppe Pisanu indicava qualche giorno fa, e che investono trasversalmente tutto il territorio nazionale come tutti i partiti politici, chiamati con rigore a porsi sulla linea di una corretta selezione dei propri rappresentanti. E subito dopo, anzi accanto, c’è l’attesa – palpabile e ben motivata nei lavori di gruppo – di un buon governo del territorio e del futuro del Paese, che sappia coniugare l’intelligenza del progetto con gli autentici bisogni dei cittadini, ormai stanchi e nauseati dall’uso privatistico del potere politico e dall’inseguimento ideologico dei 'desideri'.

Accanto alle tante emergenze sociali, soprattutto il mancato investimento sul bene prezioso della famiglia e lo spettro della crescente disoccupazione che colpisce le giovani generazioni, sono risuonate più e più volte due concetti strategici, raccolti da quel ricco patrimonio che è la Dottrina sociale della Chiesa: solidarietà e sussidiarietà. La prima è il nome laico dell’amore al fratello indigente, e si concretizza nell’attenzione costante alle fasce più deboli, ai territori nazionali più segnati dall’incuria della politica e dall’invadenza delle forze malavitose. La seconda, la sussidiarietà, è un concetto cardine, apparso per la prima volta nell’enciclica Quadragesimo anno

(1931), quando Pio IX stabilì con questo principio la ripartizione delle competenze e delle responsabilità fra i vari attori della vita pubblica.

Senza questi orientamenti etico-sociali, cari ai cattolici e buoni per tutti, ogni proposta legata al rinnovamento delle istituzioni politiche – come il federalismo fiscale, evocata soluzione anti-sprechi pubblici e anti assistenzialismo demagogico – finirebbe per mancare il suo obiettivo primario, riaccendendo vecchi e nuovi pregiudizi.


Pakistan nel caos: sfollati cristiani ancora senza cibo - La Caritas denuncia «discriminazioni nel Sindh» Allarme in Punjab: il governo favorisce gli islamici - Il grido disperato di un ex catechista di Khushpur: «Non riusciamo ad avere i soccorsi». Esclusi anche dai fondi di assistenza statali DA BANGKOK STEFANO VECCHIA – Avvenire, 21 ottobre 2010

Nel Pakistan devastato dalle alluvioni, e il cui governo lamenta la mancanza di un soste gno adeguato da parte internazionale, i cri stiani tornano ad accusare le autorità di discrimina zione nei loro confronti. Le recenti segnalazioni di una non equa divisione dei soccorsi partono – come già nelle prime fasi dell’e mergenza – dalla provincia meridionale del Sindh, al lagata per ampie regioni dall’esondazione del fiume Indo e dall’apertura delle chiuse degli invasi artificia li. «Sappiamo di cristiani a cui sono stati negate ra zioni di cibo in aree interne del Sindh. Una notizia sco raggiante, dato che la maggior parte di coloro a cui portiamo il nostro aiuto sono musulmani», ha detto Shamas Shamaun, responsabile del la Caritas per la diocesi di Hyderabad. Ricorrenti ma difficili da confermare le voci che segnalano difficoltà per i cristiani di accedere ai campi profu ghi e alle razioni alimentari nella pro vincia, come segnalato nella città di Thatta. Altre accuse provengono dal le aree tribali confinanti con l’Afgha nistan e dalla provincia del Punjab.

Nella regione del Khyber Pakh tunkhwa, il direttore del Programma di assistenza della diocesi di Pe shawar, Ashir Dean, ha condannato la discriminazio ne in atto nella distribuzione dei soccorsi: «Il governo, come pure alcune organizzazioni non governative danno priorità alle vittime musulmane delle alluvio ni », ha denunciato Dean all’agenzia “Uca News”. Dal Punjab, dal villaggio di Khushpur, il maggiore inse­diamento cattolico in ambito rurale del Paese, arriva anche la denuncia di Stephen Rufin, ex catechista. «Le autorità favoriscono le persone della stessa fede. No nostante il ministro per le Minoranze (il cristiano Shah baz Bhatti) sia nato nel nostro villaggio, non riuscia mo ad avere alcun aiuto dal governo», ha detto Rufin, riferendosi al sostegno in denaro equivalente a 235 dollari per ciascuna famiglia che è parte dei programmi di assistenza governativa e che sembra avere aggirato l’area di Khushpur. Il villaggio non è stato incluso nel programma e i cattolici locali sono stati lasciati a se stessi. Solo la fornitura di materiale edile da parte del la Caritas ha reso possibile dalla fine di settembre l’av vio della ricostruzione e del restauro delle abitazioni distrutte o danneggiate.

Sono stati 200mila i cristiani colpiti nel Punjab e 600mila i cristiani e gli indù che hanno avuto la vita sconvolta dall’avanzare delle acque nel Sindh. A que sto e alla difficoltà di intervenire adeguatamente a lo ro sostegno anche per mancanza di fondi, vanno ag giunti i danni agli edifici religiosi e ai luoghi di aggre gazione della Chiesa cattolica, definiti «ingenti». Da parte sua, in un segno concreto di fratellanza e im pegno, la Caritas pachistana ha fino ra sostenuto oltre 25mila famiglie in tutto il Paese, di cui soltanto 1.678 ap partenenti alle minoranze religiose, cristiani inclusi.

A tre mesi di distanza dall’avvio delle catastrofiche inondazioni che hanno colpito il Paese interessando 21 mi lioni di abitanti e provocando - oltre a 2mila morti - danni immensi all’a gricoltura e alle infrastrutture, la si tuazione in Pakistan resta assai diffi cile. Per le agenzie delle Nazioni Uni te sono almeno 7 milioni i pachistani ancora senza tetto, minacciati dalle malattie e sovente al limite del la sopravvivenza alimentare. L’appello delle Nazioni Unite ai Paesi membri perché intervengano con al meno 2 miliardi di dollari è finora andato in parte e luso. Tra le ragioni di una lenta risposta dei donatori, vi è anche la percezione di una concreta difficoltà del governo di Islamabad a contrastare l’influenza del ra dicalismo islamista di stampo taleban che gioca sulla difficoltà della democrazia pachistana minata dal ruo lo di servizi segreti ed esercito, ma anche sull’insod disfazione di tanta parte della popolazione verso uno sviluppo frenato da corruzione e tribalismo.


«Un altro caldeo ucciso a Mosul» - L’arcivescovo Sako ieri al Senato: «Temo una divisione dell’Iraq, ma se non si trova una soluzione la nostra minoranza sparirà» - DA ROMA – Avvenire, 21 ottobre 2010

« I eri un altro cristiano è rima sto ucciso nel Nord del Pae se. È stato assassinato in u na zona tra Alqosh e Mosul». Lo ha ri ferito, nel corso di un’audizione alla Commissione per la promozione e la tutela dei diritti umani del Senato, l’ar civescovo caldeo di Kirkuk, monsignor Louis Sako.

«Dal 2003 sono stati uccisi 900 cristia ni nel Paese tra cui due arcivescovi. Se non si trova una soluzione radicale, la minoranza cristiana sparirà», ha evi denziato il prelato iracheno. Secondo Sako, decisiva per la sorte dei cristiani è stata la guerra lanciata dagli Stati U niti all’Iraq. «Prima del 2003 la comu nità cristiana contava quasi 900mila unità. Ora siamo meno di 400mila», ha spiegato l’arcivescovo, a Roma per par tecipare al Sinodo sul Medio Oriente.

Oggi, ha sottolineato l’arcivescovo, «chi non è musulmano in Iraq è un cittadi no di seconda fascia. La popolazione ci assimila all’Occidente e per questo siamo perseguitati». La società irache na, in questo momento, «è retta da un sistema teocratico. La libertà religiosa è maggiore che in altri Stati arabi per ché ci è permesso di costruire delle Chiese ma la libertà di coscienza non esiste: se per esempio un cristiano si converte all’Islam, tutta la sua famiglia diventa musulmana». E in Iraq la mi noranza cristiana «non è libera. Spes so occorre convertirsi o emigrare, al trimenti si rischia di essere uccisi», è l’allarme di monsignor Sako. Tutto questo in un Paese senza una guida forte, dove da sette mesi manca un e secutivo e sul quale cresce l’influenza dell’Iran. «La mia opinione – ha evi denziato il prelato – è che l’Iraq stia andando verso una divisione. Il Nord del Paese, più sviluppato, è ormai di fatto uno Stato autonomo».

Gli iracheni «non hanno fiducia nel fu turo. A Baghdad molti politici, rientra ti dopo anni di esilio, non conoscono la situazione dell’Iraq e regna la corru zione », è l’allarme di monsignor Sako, secondo il quale «l’invasione degli Sta ti Uniti è stata una delle principali cau se di queste tendenze settarie, che stan no dividendo la nazione». Inoltre, c’è l’influenza dell’Iran, che «ha un im patto molto forte sull’Iraq. Ma Teheran – è l’appello dell’arcivescovo – ha l’ob bligo di rispettare l’unità del Paese».


S.E. Card. Carlo Caffarra - Piccola catechesi ai giovani sulla fede - Basilica di San Luca, 15 ottobre 2010

Elisabetta quando ricevette in casa sua la cugina Maria, la lodò soprattutto per la sua fede: "beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore" [Lc 1,45].

Nel nostro incontro annuale nel santuario mariano ho pensato di farvi quest’anno una piccola catechesi sulla fede. Non vi parlerò dunque di nessuna verità che noi professiamo nel Credo, ma cercherò di rispondere alla seguente domanda: che cosa significa credere? Vi dico subito la risposta, così che poi spiegandone ogni elemento, possiate seguire meglio. E la risposta è: la fede è la risposta della persona umana a Dio che le rivela Se stesso ed il suo disegno di salvezza, dando allo stesso tempo una luce sovrabbondante all’uomo in cerca del senso ultimo della sua vita.

In questa descrizione della fede entrano in gioco due soggetti: l’uomo e Dio. Di Dio si dice che "rivela Se stesso ed il suo disegno di salvezza". Dell’uomo si dice che, credendo, risponde a questa rivelazione, cioè l’accoglie, restando così illuminato nella sua ricerca del senso della vita.

Cercherò ora di riflettere brevemente su ciascuno dei due attori che costituiscono il dramma della fede. Parto dall’uomo.

1.      L’uomo alla ricerca di senso

Tanti sono i nostri bisogni; tante sono le nostre domande. Ma se andiamo in profondità, possiamo prendere coscienza che ciascuno di noi non solo ha dei bisogni, pone delle domande, ma è bisogno, è domanda.

La Samaritana ha il bisogno di andare ogni giorno ad attingere acqua, poiché, come ognuno di noi, vive dentro a questa sorte di dialettica: sete-acqua-sete. Ma Gesù le fa percepire che ella, che la sua persona stessa è sete.

Tante persone vogliono eleggere Gesù loro re, racconta il Vangelo di Giovanni [cfr. cap. 6], perché ha saziato la loro fame. Ma non si rendono conto che non hanno solo bisogno di pane, ma che sono bisogno di nutrimento. Lo percepisce Pietro: "tu solo hai parole di vita eterna", dice a Gesù, e si attacca a Lui per sempre.

Cari amici, che cosa significa "ognuno di noi è bisogno, è domanda"? vi aiuto a rispondere con l’aiuto di un nostro grande amico, S. Agostino.

Egli, come sono sicuro ciascuno di voi, era affamato di amicizie. Ad un certo momento la morte gli strappa il suo amico più caro. Egli è sconvolto: perché la morte ti toglie anche le persone più care? Allora essa è più forte dell’amore? Ma se è così, perché continuiamo a desiderare un amore – in un parola: una vita – più forte? E Agostino conclude: "io divenni a me stesso una domanda" [factus sum mihimetipsi quaestio].

Agostino ha sperimentato ciò che ognuno di noi sperimenta nei momenti più tragici o belli della sua vita: la vita è più grande del nostro stesso vivere quotidiano, perché porta in sé l’esigenza di ragioni per cui valga la pena vivere. La vita quotidiana è fatta di dolore, il dolore della morte dell’amico, ma dentro a questo vivere Agostino percepisce, o per lo meno desidera e sospetta, delle ragioni per cui valga la pena vivere, nonostante tutti i nonostante.

Quali sono queste ragioni? Chi/che cosa risponde al mio desiderio di vivere una vita per cui valga la pena di vivere?

Il bisogno è una mancanza con dentro una domanda [la samaritana manca di "acqua per spegnere la sua sete" e desidera e chiede quest’acqua]. Ma nel momento in cui prendiamo coscienza della nostra condizione, o presumiamo di non aver bisogno di nessuno per trovare risposta al nostro bisogno o ci convinciamo che alla domanda che è ciascuno non esisterà mai risposta.

Cari amici, il rischio più grande che noi oggi corriamo è quello di assopire, o censurare, o perfino inibire questa immensa domanda che ci costituisce, questo grande desiderio di "uscire all’aperto per vivere nell’ampiezza delle possibilità dell’essere uomo".

Se non ci immunizziamo contro questo rischio, vivremo secondo i nostri istinti sia pure dentro al quadro della legalità. Ma istinto e legge sono oggi gli strumenti principali del potere dominante.

Cari amici, quando noi parliamo di fede, presupponiamo un uomo e ci rivolgiamo ad un uomo che non si accontenta semplicemente di vivere, ma che cerca veramente il senso ultimo della vita ed il suo gusto.

2.      Dio rivela Se stesso ed il suo progetto.

Vorrei partire da una pagina di Platone.

"Infatti, trattandosi di questi argomenti, non è possibile se non fare una di queste cose: o apprendere da altri come stiano le cose, oppure scoprirlo da se stessi; ovvero, se ciò è impossibile, accettare, fra i ragionamenti umani, quello migliore e meno facile da confutare, e su quello come su una zattera, affrontare il rischio della traversata del mare della vita: a meno che non si possa fare il viaggio in modo più sicuro e con minor rischio su più solida nave, cioè affidandosi a una rivelazione divina".

Come potete constatare l’uomo che cerca risposta, si rende conto che in fondo egli ha solo bisogno che nella sua vita accada un evento: che Dio stesso gli venga incontro.

È in fondo la stessa posizione che Cesare Pavese espresse quando scrisse: "qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? e allora perché attendiamo?".

Come avviene l’incontro fra due persone? Lo strumento basilare, la via dell’incontro è la parola detta dall’uno e la risposta dell’altro. Attraverso la parola si rivelano i propri sentimenti, i propri pensieri, i propri desideri, i propri progetti. In una parola: se stessi. Possiamo dire: l’incontro è un evento linguistico. Ma non solo, e non principalmente.

L’incontro è anche e soprattutto una storia fatta di eventi, di vita condivisa in una reciproca appartenenza. Pensate, per esemplificare, all’incontro fra un uomo ed una donna che venga sigillato dal patto coniugale. L’incontro è una storia.

Sono dunque questi i due elementi che costituiscono un incontro fra due persone: parole e fatti. L’incontro è sempre e un evento linguistico e un evento storico.

Ascoltate ora il seguente testo: Cost. Dogm. Dei Verbum 2 [EV 1/873].

"Questa economia della rivelazione avviene con eventi e parole tra loro intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole proclamano le opere e illuminano il mistero in esse contenuto".

Chi è il credente? È colui che ha incontrato Dio, che "per la ricchezza del suo amore gli parla come ad un amico, si intrattiene con lui per invitarlo ed ammetterlo alla comunione con Sé". Gli parla e compie gesti divini di amore. La fede nasce da questo evento.

Nel prossimo paragrafo spiegheremo meglio parlando precisamente dell’atto della fede. Ora mi preme richiamare la vostra attenzione su un punto centrale.

Non è difficile capire che questo fatto: Dio in Cristo parla all’uomo e compie i sui gesti di amore, deve in un qualche modo accadere oggi. Non deve essere solo memoria di un evento passato, ma presenza oggi dello stesso evento passato. Non solo memoria, ma presenza: Cristo è nostro contemporaneo: solo così può essere risposta al bisogno che è ciascuno di noi. Se ho fame, non mi basta pensare a quando ho mangiato! Ho bisogno di avere il cibo ora.

Contemporaneità di Cristo non significa che tutto comincia sempre da capo come se in un preciso momento e spazio non fosse accaduto nulla. Ma nel senso che quanto è accaduto una volta, rimane per sempre e ciascuno di noi in qualsiasi momento può incontrarlo. Come? Mediante la Chiesa. Ecco come il S. Padre spiega questo punto nella lettera ai giovani in vista della prossima GMG di Madrid.

"Anche a noi è possibile avere un contatto sensibile con Gesù, mettere, per così dire, la mano sui segni della sua Passione, i segni del suo amore: nei Sacramenti Egli si fa particolarmente vicino a noi, si dona a noi. Cari giovani, imparate a "vedere", a "incontrare" Gesù nell’Eucaristia, dove è presente e vicino fino a farsi cibo per il nostro cammino; nel Sacramento della Penitenza, in cui il Signore manifesta la sua misericordia nell’offrirci sempre il suo perdono. Riconoscete e servite Gesù anche nei poveri, nei malati, nei fratelli che sono in difficoltà e hanno bisogno di aiuto".

Vedete dunque come la fede, incontro personale col Signore, ci inserisce profondamente dentro alla Chiesa di ieri e di oggi. La mia fede è la fede della Chiesa: è questa che sorregge e protegge la mia fede.

3.      La risposta dell’uomo: la fede.

La risposta a Dio che rivela Se stesso ed il suo progetto di salvezza è precisamente la fede; il rifiuto della risposta è l’incredulità. Dobbiamo finalmente vedere che cosa è, in che cosa consiste questa risposta.

Parto da una esperienza umana. Quando un ragazzo dice ad una ragazza che la ama, che desidera condividere con lei la vita, che sia lei la madre dei suoi figli, la ragazza ha tre possibilità di risposta.

La prima è di pensare che quel ragazzo non è sincero, non è affidabile, la sta ingannando. La seconda è di rifiutare semplicemente quella proposta. La terza è di consentire, e quindi di iniziare una storia di amore.

Proviamo ad analizzare brevemente la terza risposta. Essa implica un atto di intelligenza: "ciò che mi sta dicendo è vero; non mi sta ingannando". La ragazza è certa della verità delle parole dette. Ma questo non è tutto. Ricordate la seconda risposta? Potrebbe essere sicura che quel ragazzo non la sta ingannando, ma dirgli: "non mi interessi … non sei il mio tipo". Perché inizi una vera storia d’amore, è necessario che la ragazza si senta attratta verso il ragazzo; senta come una sorta di trasporto affettivo nei suoi confronti.

Se mi avete seguito, non vi sarà ora difficile comprendere che cosa significa credere.

Dio si rivolge a ciascuno di noi oggi [ricordate la contemporaneità] e dice: "ti voglio bene; desidero vivere con te una storia di amore, perché io sono Amore" [ricordate che cosa significa Rivelazione]. L’uomo ritiene che Dio veramente gli sta parlando; che quando gli dice il suo Amore, non lo sta ingannando: gli dice la verità. Ecco il primo costitutivo della fede: la fede è un atto della ragione che ritiene con certezza assoluta che Dio gli sta dicendo la Verità.

Ma la fede non si riduce a questo, ad un assenso della nostra ragione. Essa implica anche un profondo interesse per quanto Dio sta dicendo; implica una sorta di attrazione interiore verso la parola, meglio ciò che Dio sta dicendo: in ultima analisi verso Dio stesso. Ecco il secondo costitutivo della fede: la fede è un atto della nostra libertà che decide di porsi nella relazione amorosa col Signore.

Quando diciamo "credere a Dio" sottolineiamo l’aspetto razionale della fede: quando diciamo "credere in Dio" sottolineiamo l’aspetto affettivo della fede.

Ma questo non è tutto. La dimensione più importante della fede è un'altra. Ritorniamo all’esempio.

La ragazza dice sì perché si sente attratta verso quel ragazzo. Donde nasce questa attrazione? Sicuramente dalle qualità che la ragazza intravede nel ragazzo: la sua bellezza, la sua intelligenza … Nella fede accade qualcosa di grandioso.

Dio esercita un’intima attrazione nei confronti della persona; gli mostra come un raggio della sua bellezza, gli dona come una pregustazione della dolcezza del suo amore. E la persona umana … cede e resta come sedotta. Certamente, quindi, la fede è un atto ragionevole e libero della persona che crede. Ma ancora prima e di più è un atto di Dio stesso il quale muove il cuore dell’uomo e lo rivolge a Sé, apre gli occhi della mente e fa gustare la dolcezza nel consentire alla parola di Dio.

In sintesi. La fede è un’adesione personale di tutto l’uomo a Dio che si rivela, ed è costituita da un’adesione dell’intelligenza e da un movimento della libertà.

Conclusione

Immagino che avrete tante domande. Molti sono infatti i punti da chiarire ed approfondire. Ora nelle vostre parrocchie, nei movimenti ed associazioni dovete riprendere questa riflessione e coi vostri sacerdoti completarla: seguite il Catechismo della Chiesa Cattolica, dal n. 27 al n. 184.

Due riflessioni conclusive. Non vi sarà difficile ora rendervi conto che la fede è la radice ed il fondamento di tutta la vita cristiana.

La seconda riflessione è una citazione di S. Tommaso: "la fede è una pregustazione della conoscenza che ci renderà beati nella vita futura" [Compendio di teologia I,3].