Nella rassegna stampa di oggi:
1) Teologia e politica. Benedetto XVI legge Erik Peterson (1890-1960) pubblicata da Massimo Introvigne il giorno venerdì 29 ottobre 2010
2) I PRINCIPI DELLA DOTTRINA SOCIALE E I CATTOLICI IN POLITICA - di monsignor Giampaolo Crepaldi*
3) IL PAPA: DEPENALIZZARE ABORTO ED EUTANASIA È TRADIRE L'IDEALE DEMOCRATICO - Riceve in udienza i Vescovi brasiliani della Regione Nordeste V
4) BENEDETTO XVI: LA SCIENZA PUÒ ESSERE IL LUOGO DI INCONTRO CON DIO - Gli scienziati avvertono sempre più la necessità della filosofia
5) UN SINODO PER L’UNITÀ TRA ORIENTE E OCCIDENTE - Intervista al teologo e liturgista, don Nicola Bux di Antonio Gaspari
6) 28/10/2010 - VATICANO-INDIA - Fiducia e rispetto sono fondamenti del dialogo tra cattolici e indù - Messaggio del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso in occasione del Divali, la “Festa delle luci”. Il rispetto è la considerazione che naturalmente deve avere ogni persona e la dignità comporta l’inalienabile diritto di ognuno a essere protetto da ogni forma di violenza, abbandono o indifferenza.
7) La festa delle Tenebre: ebetismo consumistico - Autore: Amato, Gianfranco Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 28 ottobre 2010
8) Editoriale - Emilia e quei primi passi Stefano Giorgi - venerdì 29 ottobre 2010 – il sussidiario.net
9) J'ACCUSE/ Sbai: c'è un pericolo islamico dall'Uk che minaccia anche l'Italia Souad Sbai - venerdì 29 ottobre 2010 – il sussidiario.net
10) Sembra spezzato il filo che lega cultura, religione e legge - Cortocircuito in Europa - Si vuole costruire un continente indipendente dal cristianesimo e in alcuni casi anche contro di Rino Fisichella (©L'Osservatore Romano - 29 ottobre 2010)
11) La morte ospite fissa in televisione e sui giornali: ecco gli effetti Di Giuliano Guzzo del 28/10/2010, in Attualità, dal sito http://www.libertaepersona.org
12) 29 ottobre 2010 – La razzia del ghetto di Roma e il ruolo di Zolli http://blog.ilgiornale.it dal blog di Andrea Torniella
13) TAREQ AZIZ/ Mario Mauro: dietro la pena di morte un nuovo regime “alla Saddam” Mario Mauro - venerdì 29 ottobre 2010 – il sussidiario.net
14) MEETING CAIRO/ Quel dialogo che trasforma i 30 in 200 Redazione - venerdì 29 ottobre 2010 – il sussidiario.net
15) Cultura - LETTURE/ "Che bello che non siamo eterni": la via dello stupore di Claudio Damiani Laura Cioni - venerdì 29 ottobre 2010
16) Scienze - BENEDETTO XVI/ Gli scienziati non creano il mondo ma imparano dalla realtà Mario Gargantini - venerdì 29 ottobre 2010 – il sussidiario.net
17) ABORTO: il peccato originale del Movimento per la Vita - Articoli CR - Giovedì 28 Ottobre 2010 - CR n.1164 del 30/10/2010 - Pubblichiamo qui di seguito il fondo apparso sull’ultimo numero della rivista “Famiglia Domani Flash” (n. 3, 2010).
18) ISLAM: moschea a Firenze? Meglio invertire l’ordine - Articoli CR - Giovedì 28 Ottobre 2010 - CR n.1164 del 30/10/2010 - Riportiamo la lettera che Padre Serafino Lanzetta dei Frati Francescani dell’Immacolata, parroco della Chiesa di Ognissanti, ha scritto al “Corriere Fiorentino” del 22 ottobre 2010 sul progetto di costruire una moschea a Firenze sul quale si è dichiarato apertamente favorevole il prof. Franco Cardini (cfr. “Toscanaoggi on-line”, 23 settembre 2010).
19) SCIENZA: si dimette il Prof. Harold Lewis dall’American Physical Society (APS) - Articoli CR - Giovedì 28 Ottobre 2010 - CR n.1164 del 30/10/2010
20) TRE PROPOSTE A COSTO ZERO PER INCENTIVARE LA GENERATIVITÀ - Chi mette al mondo figli deve essere sanamente invidiato - ALESSANDRO COLOMBO – Avvenire, 29 ottobre 2010
Teologia e politica. Benedetto XVI legge Erik Peterson (1890-1960) pubblicata da Massimo Introvigne il giorno venerdì 29 ottobre 2010
Con la consueta attenzione agli anniversari, Benedetto XVI ha ricordato i cinquant’anni dalla morte, avvenuta il 26 ottobre 1960, del teologo tedesco Erik Peterson (1890-1960), senza mancare di notare che nel 2010 ricorrono pure «i 120 anni dalla nascita ad Amburgo di questo illustre teologo» (Benedetto XVI 2010). Il discorso tenuto il 25 ottobre ai 2010 ai partecipanti al Simposio internazionale su Erik Peterson è molto denso. La stessa teologia di Peterson è complessa: «molte cose pensate e scritte da Peterson sono rimaste frammentarie – ricorda il Pontefice – a causa della situazione precaria della sua vita» (ibid.). Peterson, inoltre, è sempre stato poco popolare. Critico del liberalismo e uomo di destra, si separò da molti suoi compagni di strada conservatori tedeschi che aderirono o almeno vennero a patti con il nazional-socialismo, di cui fu e rimase sempre critico intransigente, scegliendo l’esilio personale e accademico a Roma. Qui, in condizioni economiche non facili, «ha abitato […] con la sua famiglia, per alcuni periodi a partire dal 1930 e poi vi si è stabilito dal 1933: prima sull’Aventino, vicino a Sant’Anselmo, e, successivamente, nei pressi del Vaticano, in una casa di fronte a Porta Sant’Anna» (ibid.).
Nello stesso tempo – come scrive uno specialista della sua dottrina politica, György Geréby – «non apparteneva alla critica di sinistra del nazismo» (Geréby 2008, 24), anzi «veniva dalla stessa direzione antiliberale» (ibid.) dei nemici più acerrimi di tale sinistra. Era cordialmente detestato dai protestanti per la sua conversione del 1930 al cattolicesimo. E spesso non era capito dai cattolici perché la sua teologia era troppo difficile – «alla fine l’oscurità di Peterson può essere dovuta solo alle conoscenze specialistiche necessarie per seguire la sua argomentazione» (ibid., 8) – e talora batteva strade inconsuete. In breve, come afferma Benedetto XVI, Peterson – le cui carte, tra l’altro, si trovano all’Università di Torino – era, «in modo particolare» (Benedetto XVI 2010), «straniero» (ibid.). «Egli ha vissuto questo essere straniero del cristiano. Era divenuto straniero nella teologia evangelica ed è rimasto straniero anche nella teologia cattolica, come era allora» (ibid.).
Lo stesso Geréby afferma che «pochissimi teologi, tra cui Joseph Ratzinger, sono stati in grado di seguire le sue argomentazioni» (Geréby 2008, 33). Il Papa confida «una riflessione personale. Ho scoperto per la prima volta la figura di Erik Peterson nel 1951. Allora ero Cappellano a Bogenhausen e il direttore della locale casa editrice Kösel, il signor [Heinrich] Wild, mi diede il volume, appena pubblicato, «Theologische Traktate» (Trattati teologici). Lo lessi con curiosità crescente e mi lasciai davvero appassionare da questo libro» (ibid.). In seguito, l’attuale Pontefice ebbe modo di conoscere personalmente Peterson e di rimanere vicino alla sua famiglia dopo la morte del teologo nel 1960. Nel discorso del 25 ottobre afferma che «è per me una gioia particolare poter salutare la famiglia Peterson presente tra noi, le stimate figlie e il figlio con le rispettive famiglie. Nel 1990, insieme con il Cardinale Lehmann, ho potuto consegnare a Vostra madre, nel vostro comune appartamento, in occasione del suo 80° compleanno, un autografo con l’immagine di Papa Giovanni Paolo II» (ibid.).
Nella storia delle idee Peterson è noto – ai non molti che lo conoscono – quasi per un solo punto: la sua critica alla «teologia politica» del giurista tedesco Carl Schmitt (1888-1985). Peterson e Schmitt sono, inizialmente, colleghi all’Università di Bonn e amicissimi, tanto che Schmitt chiede a Peterson di fargli da testimone in occasione del suo secondo matrimonio (civile) (Nichtweiß 1994, 727; Benedetto XVI loda la «ammirevole competenza» della «signora Nichtweiß» come curatrice delle opere complete di Peterson: Benedetto XVI 2010). Schmitt sostiene la tesi secondo cui la moderna scienza politica altro non è che teologia secolarizzata, non solo nel suo sviluppo storico ma anche nella sua struttura. Lo Stato moderno è una Chiesa, e il legislatore è Dio, almeno da quando Thomas Hobbes (1588-1679) fonda quello che Papa Leone XIII (1810-1903) chiamava il «diritto nuovo» sulla base della massima auctoritas, non veritas, facit legem. Certamente a proposito della sacralità del potere Schmitt si rifà volentieri ad autori della scuola cattolica contro-rivoluzionaria, particolarmente al marchese Juan Donoso Cortés di Valdemagas (1809-1853). Ma le loro idee sono completamente secolarizzate dal giurista tedesco.
In questo senso, lo stesso Schmitt si paragonava volentieri al pensatore e uomo politico Charles Maurras (1868-1952) – personalmente agnostico, e anch’egli «secolarizzatore» delle tesi cattoliche contro-rivoluzionarie –, ancorché le posizioni dei due autori non coincidano. Molto al di là di Maurras, Schmitt «descrive la storia umana come un passaggio lineare verso la totale secolarizzazione. Che egli preservi un elemento teologico in un quadro secolarizzato è notevole» (Geréby 2008, 12) – e piace a un certo numero di credenti – ma «comporta un prezzo alto» (ibid.). In effetti, si può parlare di una concezione sacrale della politica in due significati molto diversi tra loro. Una buona politica che accetti di riconoscere la verità e il ruolo della religione – senza confusione, ma anche senza separazione – deriverà da questo felice rapporto, come Leone XIII insegna nell’enciclica Immortale Dei (1885), un certo carattere sacrale. Una cattiva politica che rifiuti qualunque dialogo con la religione rischierà di diventare essa stessa una falsa religione, e d’imporre ai cittadini l’adorazione dello Stato come contraffazione totalitaria di Dio. Per la scuola contro-rivoluzionaria l’orizzonte di uno Stato ideale è «sacrale» nel primo senso. Per Schmitt e per chiunque s’interessi alle tesi della scuola contro-rivoluzionaria, tuttavia secolarizzandole e separandole dal cattolicesimo, il rischio è che lo sia nel secondo, come sembra confermare anche l’adesione del giurista tedesco al nazional-socialismo, elemento non secondario nella rottura con Peterson.
Peterson, tuttavia, imposta il problema su un piano dottrinale più profondo. Secondo il teologo di Amburgo la radice della divergenza sta nelle obiezioni dei padri della Chiesa cappadoci, in particolare di san Gregorio di Nazianzo (329-390), all’eccesivo entusiasmo per l’Impero romano e ai paralleli che alcuni cristiani proponevano fra il ruolo dell’unico Dio in Cielo e quello dell’unico imperatore sulla Terra. San Gregorio rispondeva che nel cristianesimo è la dottrina della Trinità che preserva da ogni impropria divinizzazione del monarca. Nessun monarca terreno può riprodurre l’unicità e la ricchezza della vita trinitaria, né il problema – a parte le difficoltà pratiche – si risolverebbe facendosi governare non da un imperatore ma da tre. La Trinità, infatti, non è la somma di tre dei. Peterson osserva che non a caso la sacralizzazione impropria della politica si ritrova spesso presso autori seguaci dell’eresia ariana, che dunque negano la Trinità. E continua nell’islam, che rifiuta la Trinità, e nella modernità, con filosofie che sono almeno implicitamente anti-trinitarie. Lo stesso nazional-socialismo fu sostenuto da teologi protestanti che, come ricorderà il suo amico, il filosofo e storico Alois Dempf (1891-1982), in un necrologio per Peterson, proponevano in sostanza «un nuovo arianesimo» (Dempf 1961-1962, 29). La dottrina della Trinità preserva invece da qualunque «teologia politica» che prometta il Paradiso in Terra e promuova il culto secolare dello Stato moderno.
Schmitt risponde in modo piuttosto irritato alle critiche di Peterson, che pure studia a fondo, vantandosi di conoscere i Trattati teologici dell’amico «a memoria» (Nichtweiß 1994, 818). Il giurista tedesco rimprovera al collega di volere separare radicalmente Stato e Chiesa, politica e religione come fa il pensiero moderno e come avrebbe già fatto sant’Agostino (354-430) nel De civitate Dei. Ma la critica, già errata per sant’Agostino, lo è ancora di più per Peterson: «se non vogliamo attribuire a Carl Schmitt una deliberata intenzione di fuorviare i suoi lettori, siamo costretti a concludere che egli travisò il pensiero di Peterson su punti sostanziali» (ibid.). Peterson, infatti, non fa nessuna concessione alla separazione fra Stato e Chiesa della Rivoluzione francese, che per lui ha proclamato i diritti dell’uomo contro i diritti del Figlio dell’Uomo: «L’uomo, che domanda qui [nella Rivoluzione francese] i suoi diritti non è solo l’uomo che ha ucciso il re, la nobiltà e il clero e ha imposto la coscrizione obbligatoria, ma è l’uomo che si dichiara senza peccato – come è soltanto il Figlio dell’Uomo, ma a differenza di Lui senza prendere su di sé i peccati del mondo – ed è a partire da questa pretesa di essere senza peccato che predica la liberté, égalité e fraternité in nome di un’umanità sporca di sangue e di lacrime» (Peterson, manoscritto inedito, cit. ibid., 807). Quella che Peterson vuole separare dalla politica è la pretesa di salvezza che appartiene solo alla religione: l’utopia sanguinosa del Paradiso in Terra che ritrova nel nazional-socialismo così come nel comunismo. Benedetto XVI ha ribadito nell’enciclica Spe salvi che ogni promessa di Paradiso in Terra è fallace: «Chi promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per sempre, fa una promessa falsa» (Benedetto XVI 2007, n. 24).
Ma questo rifiuto di Peterson delle utopie politiche e della divinizzazione del potere – come nota lo storico della teologia Michael Hollerich – «in nessun modo implica il rifiuto dello Stato cristiano o dell’idea che Dio continua ad agire nella storia. Quello cui si opponeva non era la conversione di Costantino [274-337] o dell’Impero Romano – in effetti, considerava questa conversione come voluta dalla volontà di Dio, come i suoi schemi di conferenza inediti affermano ripetutamente. Considerava preferibile l’universalismo dell’impero come forma politica allo Stato-nazione moderno. Ben lontano dal chiedere che lo Stato fosse neutrale, Peterson credeva che uno spazio pubblico che si pretendesse neutrale sarebbe semplicemente un vuoto pronto a essere riempito dai demoni!» (Hollerich 2008, 9). Peterson era un nemico del liberalismo e del laicismo. Non voleva la confusione tra religione e politica, ma nemmeno la loro separazione. Il suo ideale era quello di una collaborazione armonica e realistica, lontana da tutte le utopie.
Benedetto XVI ricorda come il grande problema dell’«ordine civile» (Benedetto XVI 2010) è pensato da Peterson in un momento particolare, quello dei «rivolgimenti nella Germania dopo la Prima Guerra Mondiale» (ibid.) e del crollo dell’«ottimismo nel progresso» (ibid.) nella Repubblica di Weimar. Il suo modo di affrontare il problema consiste nel rivolgersi alla storia in una prospettiva teologica. Peterson s’interessa alla storia della teologia a partire dalla patristica. Nel coltivare questo interesse, elabora pure una teologia della storia. Egli si muove, nota il Papa, secondo «la prospettiva “che quando rimaniamo soli con la storia umana, ci troviamo davanti ad un enigma senza senso” (Eintrag in das Bonner “Album Professorum” 1926/27, Ausgewählte Schriften, Sonderband S. 111). Peterson, lo cito di nuovo, decise di “lavorare in campo storico e di affrontare specialmente problemi di storia delle religioni”, perché nella teologia evangelica di allora egli non riusciva “a farsi strada, nel folto delle opinioni, fino alle cose in se stesse” (ibid.). In questo cammino giunse sempre di più alla certezza che non c’è alcuna storia staccata da Dio e che in questa storia la Chiesa ha un posto speciale e trova il suo significato. Cito di nuovo: “Che la Chiesa c’è e che essa è costituita in un modo tutto particolare, dipende strettamente dal fatto che (…) c’è una determinata storia specificamente teologica” (Vorlesung “Geschichte der Alten Kirche” Bonn 1928, Ausgewählte Schriften, Sonderband S.88)» (ibid.).
La storia della Chiesa è studiata da Peterson in una prospettiva specificamente teologica. Per il teologo di Amburgo, nota Benedetto XVI, «la Chiesa riceve da Dio il mandato di condurre gli uomini dalla loro esistenza limitata e isolata ad una comunione universale, dal naturale al soprannaturale, dalla fugacità al compimento alla fine dei tempi. Nel bel libretto sugli Angeli afferma in proposito: “Il cammino della Chiesa conduce dalla Gerusalemme terrestre a quella celeste, (…) alla città degli Angeli e dei Santi” (Buch von den Engeln, Einleitung)» (ibid.). Questo implica, tra l’altro, che la Gerusalemme celeste, la città dei santi e degli angeli, verrà solo alla fine della storia e che ogni prospettiva che promette di realizzarla nella storia degli uomini per via politica è un inganno.
Il rapporto con la storia è a sua volta essenziale per la teologia. Di qui, confida Benedetto XVI, il suo entusiasmo intellettuale quando scoprì Peterson e il continuo rimando che trovava nel suo pensiero fra ricerca storica e teologia, fra ieri e oggi: «lì c’era la teologia che cercavo: una teologia, che impiega tutta la serietà storica per comprendere e studiare i testi, analizzandoli con tutta la serietà della ricerca storica, e che non li lascia rimanere nel passato, ma che, nella sua investigazione, partecipa all’autosuperamento della lettera, entra in questo autosuperamento e si lascia condurre da esso e così viene in contatto con Colui dal quale la teologia stessa proviene: con il Dio vivente. E così lo iato tra il passato, che la filologia analizza, e l’oggi è superato di per se stesso, perché la parola conduce all’incontro con la realtà, e l’attualità intera di quanto è scritto, che trascende se stesso verso la realtà, diventa viva e operante» (ibid.).
Ma dove trovare la conferma del carattere teologico della storia? La risposta di Peterson secondo Benedetto XVI è: nella Sacra Scrittura e nel modo in cui la Chiesa l’ha letta. «Il punto di partenza di questo cammino è il carattere vincolante della Sacra Scrittura. Secondo Peterson, la Sacra Scrittura diventa ed è vincolante non in quanto tale, essa non sta solo in se stessa, ma nell’ermeneutica della Tradizione apostolica, che, a sua volta, si concretizza nella successione apostolica e così la Chiesa mantiene la Scrittura in un’attualità viva e contemporaneamente la interpreta. Attraverso i Vescovi, che si trovano nella successione apostolica, la testimonianza della Scrittura rimane viva nella Chiesa e costituisce il fondamento per le convinzioni di fede permanentemente valide della Chiesa, che incontriamo innanzitutto nel credo e nel dogma» (ibid.).
Peterson matura questa convinzione già nella sua fase protestante. Tuttavia, si tratta di una convinzione tipicamente cattolica. Contro Martin Lutero (1483-1546) e il suo principio della sola Scriptura, la Scrittura è viva e vincolante non «in se stessa» ma solo se è letta nella tradizione della Chiesa gerarchica governata dalla successione apostolica. Infatti, è quando giunge a questa conclusione che Peterson da una parte si converte al cattolicesimo, dall’altra arriva a rifiutare completamente la teologia liberale di Adolf von Harnack (1851-1930), che per anni era stato un suo interlocutore e che, già famoso, aveva preso molto sul serio le ricerche storiche del più giovane collega. «Paradossalmente – afferma Benedetto XVI – proprio lo scambio di lettere con Harnack esprime al massimo l’improvvisa attenzione, che Peterson stava ricevendo. Harnack ha confermato, anzi aveva scritto già precedentemente e indipendentemente, che il principio formale cattolico secondo cui “la Scrittura vive nella Tradizione e la Tradizione vive nella forma vivente della Successione”, è il principio originario e oggettivo e che il “sola Scriptura” non funziona. Peterson ha colto questa affermazione del teologo liberale in tutta la sua serietà e da questa si è fatto scuotere, sconvolgere, piegare, trasformare e così ha trovato la via alla conversione» (ibid.) – che, beninteso, lo porta lontanissimo da Harnack.
Per questa conversione, come il beato cardinale John Henry Newman (1801-1890), pure carissimo a Benedetto XVI, Peterson ha pagato un prezzo molto alto. «Egli è passato dalla sicurezza di una cattedra all’incertezza, senza dimora, ed è rimasto per tutta la vita privo di una base sicura e senza una patria certa, veramente in cammino con la fede e per la fede, nella fiducia che in questo essere in cammino senza dimora era a casa in un altro modo e si avvicinava sempre più alla liturgia celeste, che lo aveva toccato» (ibid.).
Sì, la liturgia. Nella controversia con Schmitt, Peterson afferma sulla base delle sue ricerche storiche che l’antica liturgia della Chiesa è la viva e quotidiana affermazione pubblica dell’assoluta sovranità del Dio trinitario, contro ogni pretesa assolutistica del potere umano. E nello stesso tempo asserisce che le verità della fede e le promesse escatologiche «si dispiegano continuamente nella liturgia quale spazio vissuto della Chiesa per la lode di Dio. L’Ufficio divino celebrato sulla terra si trova, quindi, in una relazione indissolubile con la Gerusalemme celeste: là è offerto a Dio e all’Agnello il vero ed eterno sacrifico di lode, di cui la celebrazione terrena è solamente immagine. Chi partecipa alla Santa Messa si ferma quasi alla soglia della sfera celeste, dalla quale contempla il culto che si compie tra gli Angeli e i Santi. In qualsiasi luogo in cui la Chiesa terrestre intona la sua lode eucaristica, essa si unisce a questa festosa assemblea celeste, nella quale, nei Santi, è già arrivata una parte di se stessa, e dà speranza a quanti sono ancora in cammino su questa terra verso il compimento eterno» (ibid.).
Queste considerazioni di Benedetto XVI sul rapporto tra Peterson e la liturgia non ci portano in realtà lontani dalla sua critica della «teologia politica». La liturgia, ricordandoci continuamente che la verità e la perfezione dell’esistenza umana si trovano soltanto nel compimento escatologico, che la celebrazione liturgica terrena prefigura fermandosi però sulla sua «soglia», ribadisce ancora una volta – contro le ideologie totalitarie – che la Gerusalemme celeste non si trova nella storia umana ma solo oltre la storia. Da Peterson, dopo gli orrori delle ideologie, possiamo dunque «imparare tutto il dramma, il realismo e l’esigenza esistenziale e umana della teologia» (ibid.).
In vita, Peterson secondo Benedetto XVI, «non ha ricevuto il riconoscimento che avrebbe meritato» (ibid.); forse, «sarebbe stato, in qualche modo, troppo presto» (ibid.). Ragione di più per studiarlo oggi. «Auspico – ha concluso il Pontefice – che […] sia diffuso ulteriormente il pensiero di Peterson, che non si ferma nei dettagli, ma che ha sempre una visione dell’insieme della teologia» (ibid.).
Riferimenti
Benedetto XVI. 2007. Lettera enciclica Spe salvi sulla speranza cristiana, del 30-11-2007. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/3chmo7.
Benedetto XVI. 2010. Discorso ai partecipanti al Simposio internazionale su Erik Peterson, del 25-10-2010. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/35ecws7.
Dempf, Alois. 1961-1962. «Erik Petersons Rolle in der Geisteswissenschaft». Neues Hochland, vol. 54, 1961-1962, pp. 24-31.
Geréby, György. 2008. «Political Theology versus Theological Politics: Erik Peterson and Carl Schmitt». New German Critique, vol. 35, n. 3 (305), autunno 2008, pp. 7-33.
Hollerich, Michael. «Catholic Anti-Liberalism in Weimar: Political Theology and Its Critics». Intervento inedito al convegno The Weimar Moment: Liberalism, Political Theology, and Law. Facoltà di Giurisprudenza, University of Wisconsin, Madison, Wisconsin, 24-26 ottobre 2008.
Nichtweiß, Barbara. 1994. Erik Peterson. Neue Sicht auf Leben und Werk. 2a ed. Herder, Friburgo in Brisgovia.
I PRINCIPI DELLA DOTTRINA SOCIALE E I CATTOLICI IN POLITICA - di monsignor Giampaolo Crepaldi*
ROMA, giovedì, 28 ottobre 2010 (ZENIT.org).- La Dottrina Sociale della Chiesa svolge anche il compito di indicazione dei principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione per i cattolici impegnati in politica. Tra questi: la trascendente dignità della persona, il bene comune, la destinazione universale dei beni, la sussidiarietà e la solidarietà, il primato del lavoro sul capitale, la scelta preferenziale per i poveri. È chiaro che si tratta solo di estrapolazioni di alcuni elementi, certamente importanti ma non unici. Si pensi per esempio al principio della giustizia. Di recente la Caritas in veritate di Benedetto XVI sembra aver indicato i principi della verità e della carità e quello del dono e della gratuità nella vita economica. Inoltre, più che di solidarietà essa ha parlato di fraternità.
Sono principi di ragione ed anche di fede; sono frutto dell’indagine che la ragione umana fa della realtà, dell’essere e contemporaneamente sono stati rivelati nella loro ultima sorgente da Dio. Questo comporta che la ragione sia in grado di conoscere la realtà, ossia sia capace di conoscenza metafisica.
Con questa parola intendiamo un sapere di tipo filosofico capace di andare oltre gli aspetti quantitativi e misurabili della realtà e di cogliere le strutture fondamentali dell’essere che sono immateriali: l’uomo è più dei suoi connotati fisici e materiali. Se non si assegna alla ragione
questa capacità non potrà mai avvenire l’incontro della ragione e della fede nei principi della dottrina sociale. Pensiamo per esempio al concetto della dignità della persona umana. Se io penso che non sia possibile per la mia ragione conoscere la natura dell’uomo, il suo ‘che cos’è’ o, come dicevano una volta, la sua ‘essenza’, ma sia solo possibile conoscere i suoi fenomeni, vale a dire la circolazione del sangue, i nessi biochimici del suo corpo, le interrelazioni tra gli organi, il funzionamento di suoi neuroni e così via … se così fosse che significato avrebbe fare appello alla dignità della persona umana? Infatti, tutti si appellano a questa dignità, sia chi combatte l’aborto sia chi lo ammette; sia chi è contro l’eutanasia sia chi la promuove. Ora: alla domanda “cos’è la persona?” rispondono sia la ragione metafisica sia la rivelazione cristiana e le due fonti convergono perché la fede cristiana presuppone una metafisica e la ragione, in armonia con la fede, la sviluppa. Ma se questa ragione metafisica viene negata, come potranno conciliarsi tra loro la visione razionale della persona umana e quella biblico-religiosa?
Il cristianesimo esprime una visione della persona umana di tipo metafisico e quindi non potrà mai incontrarsi fino in fondo con filosofie che negano questo sapere, come per esempio le filosofie materialiste.
Lo stesso vale per il concetto del bene comune. Anch’esso è un concetto metafisico, in quanto presuppone che la realtà dell’uomo sia originariamente socievole e che la comunità sia per la persona un luogo di umanizzazione in un rapporto tale che la persona e la comunità si relazionano come un tutto rispetto ad un altro tutto. di questo bene comune fa parte anche la dimensione spirituale della persona? La dottrina sociale della Chiesa non ha nessun dubbio a riguardo, ma altre dottrine lo escludono. Ecco allora che si deve fare riferimento ad una metafisica della persona e della comunità umana affinché questa non sia ridotta solo ad una giustapposizione di individui che rivendicano ognuno i propri interessi particolari. I principi della dottrina sociale, in altre parole, vanno qualificati, altrimenti si prestano ad interpretazioni generiche e scivolano verso un inconcludente e vago umanesimo adatto per tutte le stagioni. Questo pericolo è sempre in agguato ed è una delle principali tentazioni del cattolico impegnato in politica. Seguire il mondo anche nelle sue semplificazioni interessate dà la sensazione di essere al passo con i tempi e che il cristianesimo sia di moda, mentre proprio così facendo esso perde la capacità di incidere sulla realtà e viene reso inservibile ed innocuo.
C’è un criterio per non cadere in queste trappole?
Proviamo a fare l’esempio dell’ambiente e dell’ambientalismo. Nella dottrina sociale, soprattutto nell’ultima enciclica Caritas in veritate, viene esaminato il tema della tutela dell’ambiente in ottica cristiana. La difesa del creato è considerato un dovere importante che va assunto con responsabilità, però esso va inteso senza riduzionismi: del creato fa parte anche la persona umana, che anzi ne è il vertice. Spesso sembra che da un lato ci sia la natura da salvaguardare e dall’altro ci sia l’uomo che deve salvaguardarla invece che sfruttarla. Si dimentica che anche l’uomo fa parte del creato e che c’è una ecologia umana e non solo una ecologia naturale.
Salvaguardare la natura vuol dire allora prima di tutto salvaguardare l’uomo. Salvaguardare i koala è degno di rispetto, ma ancor più salvaguardare la vita umana del concepito. Ecco un evidente caso di riduzionismo ideologico: si fa appello sì alla persona umana, ma di fatto
le si assegna un ruolo addirittura inferiore a quello degli animali. L’ecologismo (assolutizzazione della natura fisica) e il biocentrismo (indifferente dignità di ogni forma di vita) non rispettano l’incondizionatezza della persona umana. Questo è il criterio per qualificare la nozione di
persona e, di conseguenza, di comunità politica. Incondizionatezza significa che il valore e la dignità della persona non sono soggetti a condizioni e quindi sono indisponibili, non se ne può disporre, nessuno è in posizione tale da decidere sulle persone e stabilire condizioni a cui
esse dovrebbero sottostare in quanto persone. È come dire che la persona non può mai essere considerata uno strumento ma sempre e solo un fine. L’incondizionatezza della persona però ha bisogno di essere adeguatamente fondata. Sul piano razionale il suo fondamento non può
essere che ontologico, legato cioè al suo essere, ad un valore e ad una dignità che le appartengono in quanto tale. La persona è sul piano dell’essere qualcosa di unico ed assolutamente eminente. Sul piano della rivelazione essa si fonda sulla elezione divina: Dio ha fatto l’uomo
a sua immagine e somiglianza, Cristo ha assunto carne umana, il risorto ha unito a sé tutti gli uomini aprendo loro una vita eterna conforme alla dignità della loro anima spirituale. La comunità umana è unita quindi da un comune destino sia sul piano naturale che in quello soprannaturale. Il cattolico in politica dovrà tenere presente questa concezione di persona e di comunità, altrimenti diventa facilmente preda delle ideologie politiche che riducono queste dimensioni ad elementi superficiali. Possiamo ora riprendere in estrema sintesi i principi della dottrina sociale della Chiesa cercando di mostrare il substrato culturale con cui vanno intesi. Qualcuno dirà che in questo
modo si assegna una importanza fondamentale alla cultura più che alla politica. Non voglio stabilire gerarchie, ma certamente i cattolici in politica non possono stare senza una loro cultura della politica e credo che la dottrina sociale della Chiesa possa svolgere un ruolo fondamentale in questo campo. Il primo principio è, come si diceva, quello della trascendente dignità della persona umana.
Ho già detto come questo comporti una filosofia realistica della persona, una metafisica dell’essere personale.
Sottolineo qui l’aggettivo trascendente. Il cattolico impegnato in politica non dimentichi mai questo aggettivo, senza il quale la dignità della persona diventa a disposizione delle varie forme del potere. C’è poi il concetto del bene comune, che pure è un concetto metafisico, non riducibile alla convergenza degli interessi. Il principio di solidarietà viene privato dei suoi fondamenti se non ha alle spalle la fraternità. Ma come si può essere fratelli senza essere figli di uno stesso Padre? La solidarietà viene deviata dal suo giusto corso se non illuminata con la trascendente dignità della persona umana. Una solidarietà appaltata solo allo Stato e non anche alla responsabilità
personale e dei gruppi della società civile produce nichilismo. Si crea un corto circuito tra solidarietà e responsabilità se si affida la solidarietà a delle strutture con un impoverimento motivazionale dell’intera società. Lo stesso dicasi della sussidiarietà, su cui si accumulano varie deformazioni. Senza la concezione della persona di cui abbiamo parlato sopra, la sussidiarietà si riduce ad essere una rivendicazione di spazi individuali dall’ingerenza del pubblico. Solidarietà e sussidiarietà vanno sempre tenute insieme. La scelta preferenziale per i poveri non va intesa in senso sociologico. Bisogna intendere la povertà in senso globale, come una dimensione di tutta la persona, senza amputazioni. La lotta alla povertà non va intesa in modo solo assistenzialistico. Posto che “c’è qualcosa di dovuto all’uomo in quanto uomo”, la lotta alla povertà fa attuare mobilitando la libertà e la responsabilità e valorizzando le multiformi espressioni della società civile.
Si potrebbe dire: ma il cattolico impegnato in politica deve collaborare con gli altri anche se essi non condividono fino in fondo questa visione densa e pregnante di persona e di bene comune? Molti pensano che egli possa fare con gli altri almeno un tratto di strada, e poi semmai proseguire da solo. Per esempio: se ci sono associazioni ambientaliste che promuovono la ripulitura volontaria del bosco inquinato, il politico cattolico le appoggi anche se poi quelle stesse associazioni propongono in altri campi riforme contrarie alla vita o alla famiglia.
Bisogna però tenere conto che il politico cattolico non può agire parcellizzando le cose, perché in questo modo diventa preda dell’ideologia. Egli, anzi, deve dare il proprio contributo a far uscire dalle ideologie. A quelle associazioni il cattolico in politica proporrà una riflessione sulla ecologia umana e sul principio di coerenza: come si può rispettare la natura quando si parla di uccelli o di biodiversità e non rispettare la natura umana quando si parla del diritto del concepito a vivere? La Caritas in veritate invita a non separare mai i programmi di sviluppo dal diritto alla vita e il principio di coerenza vuole che come si denuncia la mortalità infantile a causa della malaria si denuncino anche la selezione eugenetica femminile e la pianificazione forzata delle nascite con l’utilizzo anche dell’aborto. Quando Amnesty International si è dichiarata favorevole all’aborto, alcuni uomini di Chiesa avevano chiesto che i cattolici sospendessero i contributi economici e di altro genere a questa organizzazione. I singoli obiettivi possono sembrare buoni se estrapolati dal contesto programmatico e culturale generale, ma di fatto vengono perseguiti dentro quel contesto. Chi crede che l’ecologia naturale richieda anche il rispetto della ecologia umana ripulirà in modo diverso anche il fiume inquinato e, soprattutto, ripulirà poi molte altre cose.
Il cattolico in politica quindi collaborerà dentro questa chiarezza. Non è necessario che ogni progetto da attuare con gli altri contempli sempre tutti i presupposti, è però necessario che il cattolico in politica li abbia presenti e li renda noti.
Nasce qui un tema di grande interesse: è meglio che i cattolici abbiano le loro organizzazioni ed istituzioni di presenza, oppure è meglio che agiscano all’interno di quelle pubbliche e indistinte? Il tema riguarda anche i partiti, ma di questo ci occuperemo in seguito. Qui atteniamoci per il momento ad associazioni, scuole, università, cooperative, strutture di assistenza eccetera. Ci devono essere scuole cattoliche oppure i cattolici devono essere presenti nelle scuole pubbliche? È bene che i cattolici abbiamo i loro ospedali dichiaratamente cattolici oppure che operino negli ospedali pubblici o privati che siano ma comunque non dichiaratamente cattolici?
L’argomento è di grande interesse non solo sociale ma anche politico, dato che il cattolico in politica deve avere delle idee su che tipo di società costruire ed eventualmente anche se ci sono motivi politici per sostenere forme di presenza sociale dichiaratamente cattoliche. A mio parere i cattolici devono essere presenti ovunque, sia personalmente che collegati tra loro e sempre in collaborazione aperta a chiunque abbia desiderio di collaborare al bene comune. Ciò non toglie però che siano anche necessarie istituzioni dichiaratamente cattoliche, come scuole, università, ospedali o altro. Questo per il motivo detto sopra. C’è bisogno che l’incondizionatezza
della persona sia tenuta ferma e proposta come modalità di agire globale, senza riduzionismi. In questo senso c’è bisogno di istituzioni animate da questa apertura totale verso la trascendente dignità della persona umana. Non per motivi di esclusiva, ma per garantire luoghi e situazioni in cui sia permessa una testimonianza integrale a chi la vuole vivere ed attuare. Credo che del resto questo sia un bene anche per la società stessa e una cosa che la politica dovrebbe promuovere e sostenere non per motivi confessionali ma per il bene comune. Certo è una grossa responsabilità per chi opera in queste istituzioni. Un ospedale, una cooperativa sociale, una comunità di recupero, una università che si dicano cattoliche si assumono una forte responsabilità di coerenza e di testimonianza.
La cosa è importante anche per la concretizzazione dei principi della dottrina sociale della Chiesa. Affinché questi siano applicati nella loro totalità e senza amputazioni e, soprattutto, perché i motivi di ragione si saldino con quelli di fede, perché il rispetto dei diritti e della giustizia si alimenti di fraternità cristiana, perché le direttive di azioni di carattere economico e politico siano animate dalla preghiera, dalla liturgia e dalla partecipazione alla vita di fede è molto utile che si attuino esperienze che esplicitamente si rifacciano alla religione.
Ciò nulla toglie all’importanza della testimonianza personale ed aggregata in tutti gli ambiti e non intende minimamente stabilire gerarchie, ma solo evidenziare una grande utilità.
*Mons. Giampaolo Crepaldi è Arcivescovo di Trieste, Presidente della Commissione “Caritas in veritate” del Consiglio delle Conferenze Episcopali d'Europa (CCEE) e Presidente dell’Osservatorio Internazionale “Cardinale Van Thuan” sulla Dottrina Sociale della Chiesa.
IL PAPA: DEPENALIZZARE ABORTO ED EUTANASIA È TRADIRE L'IDEALE DEMOCRATICO - Riceve in udienza i Vescovi brasiliani della Regione Nordeste V
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 28 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Quando i progetti politici contemplano la depenalizzazione dell'aborto e dell'eutanasia, l'ideale democratico “è tradito nei suoi fondamenti”.
Papa Benedetto XVI lo ha dichiarato questo giovedì mattina, incontrando i Vescovi della Regione Nordeste V della Conferenza Episcopale del Brasile in occasione della loro visita “ad Limina Apostolorum”.
Compito dei Vescovi, ha spiegato, è “contribuire alla purificazione della ragione e al risveglio delle forze morali necessarie per la costruzione di una società giusta e fraterna”.
“Quando però i diritti fondamentali della persona o la salvezza delle anime lo esigono, i pastori hanno il grave dovere di emettere un giudizio morale, persino in materia politica”, ha osservato.
Nel formulare questi giudizi, “devono tener conto del valore assoluto di quei precetti morali negativi che dichiarano moralmente inaccettabile la scelta di una determinata azione intrinsecamente cattiva e incompatibile con la dignità della persona”.
Sarebbe infatti “totalmente falsa e illusoria qualsiasi difesa dei diritti umani politici, economici e sociali che non comprendesse l'energica difesa del diritto alla vita dal concepimento fino alla morte naturale”.
Per questo motivo, ha sottolineato il Pontefice richiamando l'Enciclica Evangelium vitae, “quando i progetti politici contemplano, in modo aperto o velato, la decriminalizzazione dell'aborto o dell'eutanasia, l'ideale democratico - che è solo veramente tale quando riconosce e tutela la dignità di ogni persona umana - è tradito nei suoi fondamenti”.
“Cari Fratelli nell'episcopato, nel difendere la vita non dobbiamo temere l'ostilità e l'impopolarità, rifiutando ogni compromesso ed ambiguità, che ci conformerebbero alla mentalità di questo mondo”, ha detto ai Vescovi brasiliani.
Fede e politica
“Per aiutare meglio i laici a vivere il loro impegno cristiano e socio-politico in modo unitario e coerente”, ha proseguito Benedetto XVI, servono “una catechesi sociale ed un'adeguata formazione nella dottrina sociale della Chiesa”.
“Ciò significa anche che, in determinate occasioni, i pastori devono pure ricordare a tutti i cittadini il diritto, che è anche un dovere, di usare liberamente il proprio voto per la promozione del bene comune”.
“Il dovere immediato di lavorare per un ordine sociale giusto” è infatti “proprio dei fedeli laici che, come cittadini liberi e responsabili, s'impegnano a contribuire alla retta configurazione della vita sociale, nel rispetto della sua legittima autonomia e dell'ordine morale naturale”.
“Su questo punto politica e fede s'incontrano”, ha sottolineato il Vescovo di Roma.
“La fede ha, senza dubbio, la natura specifica di incontro con il Dio vivo che apre nuovi orizzonti ben al di là dell'ambito proprio della ragione”, e “senza il correttivo fornito dalla religione anche la ragione può cadere preda di distorsioni, come avviene quando essa è manipolata dall'ideologia, o applicata in un modo parziale, che non tiene conto pienamente della dignità della persona umana”.
“Una società può essere costruita solo rispettando, promuovendo e insegnando instancabilmente la natura trascendente della persona umana”, ha indicato.
Insegnamento e simboli religiosi
Ribadendo il principio enunciato nell'Enciclica Caritas in Veritate, per cui Dio deve “trovare un posto anche nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale, economica e, in particolare, politica”, il Papa ha quindi levato “un vivo appello a favore dell'educazione religiosa, e più concretamente dell'insegnamento confessionale e diversificato della religione, nella scuola pubblica statale”.
Parimenti, ha ricordato che “la presenza di simboli religiosi nella vita pubblica è allo stesso tempo memoria della trascendenza dell'uomo e garanzia del suo rispetto”.
In Brasile questi segni “hanno un valore particolare”, visto che la religione cattolica è “parte integrante” della storia del Paese.
“Come non pensare in questo momento all'immagine di Gesù Cristo con le braccia tese sulla baia di Guanabara che rappresenta l'ospitalità e l'amore con cui il Brasile ha sempre saputo aprire le sue braccia a uomini e donne perseguitati e bisognosi provenienti da tutto il mondo?”, ha chiesto.
“Fu in questa presenza di Gesù nella vita brasiliana che essi s'integrarono armoniosamente nella società, contribuendo all'arricchimento della cultura, alla crescita economica e allo spirito di solidarietà e di libertà”, ha concluso.
Ministero fruttuoso
Nel suo saluto al Papa a nome dei Vescovi delle 12 Diocesi che compongono la Regione Nordeste V, monsignor Xavier Gilles de Maupeou d'Ableiges, Vescovo emerito di Viana, ha affermato che i presuli della zona vogliono che il loro ministero episcopale produca frutti per poter “contribuire a far sì che la Chiesa sia realmente sacramento di salvezza”.
L'amore per Cristo e la fedeltà nei suoi confronti, ha aggiunto come riporta “L'Osservatore Romano”, “consentono di rimanere uniti alla vera vite e di produrre frutti che restano per tutta la vita”.
Tra questi, alcuni sono già visibili nelle Diocesi della Regione Nordeste V, “come la formazione dottrinale, spirituale e pastorale, le conversioni, l'impegno missionario, in particolare le missioni popolari, la lettura orante della Bibbia”.
“Tutto ciò ha contribuito a far sì che avessimo sempre più discepoli e missionari, persone che hanno realizzato l'incontro personale con Cristo, che si sono aperte a un vero processo di conversione, che hanno abbracciato la vita ecclesiale e hanno iniziato a partecipare attivamente alla missione della Chiesa, oltre a divenire capaci di relazionare fede e vita e d'impegnarsi nella costruzione di una nuova società, in grado di superare tutti i segnali di morte, che sono le manifestazioni del peccato”, ha segnalato.
Ad ogni modo, ha concluso, è necessario che “la società sia rinnovata ogni istante dalla grazia, affinché possiamo dire che vediamo con chiarezza il Regno di Dio presente nella storia. Perciò il criterio del nostro agire è il Vangelo di Cristo”.
BENEDETTO XVI: LA SCIENZA PUÒ ESSERE IL LUOGO DI INCONTRO CON DIO - Gli scienziati avvertono sempre più la necessità della filosofia
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 28 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Esiste un punto di incontro tra la scienza e la religione, quando lo scienziato è consapevole dell'esistenza in natura di una ragione e di una logica che l'uomo non ha creato.
Papa Benedetto XVI lo ha constatato ricevendo questo giovedì in udienza i partecipanti all'Assemblea Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze, riuniti in questi giorni a Roma per riflettere su “L'eredità scientifica del XX secolo”.
Questa eredità, ha affermato il Papa, non deve ridursi a una visione semplicemente ottimista o pessimista della scienza in base al fatto che si guardi ai progressi scientifici con euforia o con timore. La scienza, ha sottolineato, è molto di più.
“Il suo compito era e rimane una ricerca paziente e tuttavia appassionata della verità sul cosmo, sulla natura e sulla costituzione dell'essere umano. In questa ricerca ci sono stati molti successi e molti fallimenti, trionfi e battute d'arresto”, ha spiegato.
Quanto al XX secolo, il Pontefice ha aggiunto che, nel loro insieme, i progressi compiuti nelle varie discipline “hanno portato a una consapevolezza decisamente maggiore del posto che l'uomo e questo pianeta occupano nell'universo”.
“L'uomo ha compiuto più progressi nello scorso secolo che in tutta la storia precedente dell'umanità, sebbene non sempre nella conoscenza di sé e di Dio, ma di certo in quella dei macro e dei microcosmi”, ha riconosciuto.
Proprio per questo, attualmente “gli scienziati stessi apprezzano sempre di più la necessità di essere aperti alla filosofia per scoprire il fondamento logico ed epistemologico della loro metodologia e delle loro conclusioni”.
La Chiesa, in questo senso, crede che l'attività scientifica “benefici decisamente della consapevolezza della dimensione spirituale dell'uomo e della sua ricerca di risposte definitive, che permettano il riconoscimento di un mondo che esiste indipendentemente da noi”.
“Gli scienziati non creano il mondo. Essi apprendono delle cose su di esso e tentano di imitarlo”, ha spiegato il Vescovo di Roma. “L'esperienza dello scienziato quale essere umano è quindi quella di percepire una costante, una legge, un logos che egli non ha creato, ma che ha invece osservato”.
Questa esperienza “porta ad ammettere l'esistenza di una Ragione onnipotente, che è altro da quella dell'uomo e che sostiene il mondo”.
“Questo è il punto di incontro fra le scienze naturali e la religione. Di conseguenza, la scienza diventa un luogo di dialogo, un incontro fra l'uomo e la natura e, potenzialmente, anche fra l'uomo e il suo Creatore”, ha sottolineato.
In tal senso, il Papa ha proposto ai membri dell'Accademia di riflettere su due argomenti: la necessità di conciliare la riflessione filosofica e la scienza e l'importanza di una guida morale.
Quanto al primo punto, ha affermato che “nel momento in cui i risultati sempre più numerosi delle scienze accrescono la nostra meraviglia di fronte alla complessità della natura, viene sempre più percepita la necessità di un approccio interdisciplinare legato a una riflessione filosofica”.
In secondo luogo, “la conquista scientifica dovrebbe essere sempre informata dagli imperativi di fraternità e di pace, contribuendo a risolvere i grandi problemi dell'umanità, e orientando gli sforzi di ognuno verso l'autentico bene dell'uomo e lo sviluppo integrale dei popoli del mondo”.
Il risultato positivo della scienza del XXI secolo “dipenderà sicuramente, in grande misura, dalla capacità dello scienziato di ricercare la verità e di applicare le scoperte in un modo che va di pari passo con la ricerca di ciò che è giusto e buono”, ha concluso il Papa.
UN SINODO PER L’UNITÀ TRA ORIENTE E OCCIDENTE - Intervista al teologo e liturgista, don Nicola Bux di Antonio Gaspari
ROMA, mercoledì, 27 ottobre 2010, (ZENIT.org).- Al di là delle polemiche che sono state sollevate da alcuni organi di stampa a favore o contro ebrei e musulmani, il Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente è stato un successo e porterà molti frutti.
Questa la valutazione di don Nicola Bux, professore di Liturgia orientale e di Teologia dei sacramenti alla Facoltà Teologica Pugliese, presente al Sinodo in qualità di delegato nominato dal Pontefice Benedetto XVI.
Don Nicola Bux che ha insegnato anche a Gerusalemme e Roma è consultore delle Congregazioni per la Dottrina della Fede e per le Cause dei Santi e consulente della rivista teologica internazionale "Communio". E' anche consultore dell'Ufficio delle Celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice.
ZENIT lo ha Intervistato.
Quali sono i risultati rilevanti di questo Sinodo?
Don Nicola: Il Sinodo è stata una occasione di incontro tra persone che difficilmente si sarebbero incontrate, così come sono disperse non solo nelle terre del Medio Oriente ma anche in Occidente dove c’è una grande diaspora.
Si può dire, in termini di numeri, che le Chiese mediorientali sono più presenti in Occidente che sul terreno proprio. Che il Santo Padre abbia fornito questo momento di incontro è già di per sé un fatto significativo.
Ciascuna di queste Chiese orientali vive la propria vita e le proprie preoccupazioni. Incontrarsi a Roma, sul soglio di Pietro, è stata una occasione di grande conforto e di grande aiuto. Inoltre il Sinodo ha permesso ai presenti di guardare insieme i problemi al fine di capire che siamo una sola Chiesa la quale nasce e diffonde l’unico Vangelo.
Il fatto che l’unico Vangelo abbia dato origine a tante comunità in tanti luoghi diversi appartiene al comandamento di Gesù: “andate e fate discepoli tutti i popoli”.
Più di un Padre ha ribadito al Sinodo che noi siamo una Chiesa cattolica apostolica, poi siamo anche Chiese orientali, ma dovremo andare oltre l’Oriente e l’Occidente e non dobbiamo soffermarci troppo sul particolare, perchè altrimenti corriamo il rischio di identificare la Chiesa e la fede con una nazione, una etnia, una comunità particolare. In questo modo si rischia di soffocare il respiro della fede che è per sua natura universale.
La situazione in cui vivono i cristiani non è però facile…
Don Nicola: Non c’è dubbio. Il Sinodo ha confortato i presenti malgrado la situazione molto difficile in cui si trovano. Ci sono problemi seri di confronto di carattere religioso e politico.
Il Corano riconosce che ebrei e cristiani hanno il Libro, ma sono credenti e cittadini considerati di seconda categoria. Il Corano presuppone che il quadro di riferimento dei cristiani sia la legge coranica (Sharia) e che quindi non c’è bisogno di rivendicare altri diritti perchè loro garantirebbero anche i diritti dei cristiani
Ciò non è esattamente vero, e così accade che nel Golfo ci sono 13 milioni di cattolici, lavoratori che vengono dall’estero, che non hanno nemmeno la possibilità di riunirsi per la messa.
Così in più Paesi i cristiani si trovano a rivendicare il diritto alla libertà religiosa, il diritto alla libertà di coscienza e il diritto alla libertà di culto.
I cristiani queste rivendicazioni le fanno nell’unica maniera che li contraddistingue, con ragionevolezza, con pacatezza, con mitezza, con coraggio e magari anche con rassegnazione, pronti a subire il martirio. Al Sinodo si è parlato del martirio a cui sono andati incontro molti cristiani per rimanere fedeli alla loro fede. Un caso di martirio è per esempio quello di monsignor Luigi Padovese, sgozzato in Turchia.
Per tutte queste ragioni il Sinodo è stato una grande occasione e aiuterà molti cristiani orientali e occidentali a capire l’importanza dell’unità della Chiesa intorno a Pietro, intorno al Papa, perchè l’unità della Chiesa non è un anelito o un desiderio, è un fatto, è una realtà.
Molti cristiani però non ce la fanno a sopportare ingiustizie e discriminazioni e quindi emigrano. Cosa ha detto a proposito il Sinodo?
Don Nicola: Emigrare per cercare un futuro migliore è un diritto dell’uomo e non si può impedirlo. Nello stesso tempo la Chiesa richiama a non abbandonare i territori dei nostri padri, quindi non solo invita, ma fa il possibile, aiuta e viene incontro affinché le proprietà dei cristiani non siano alienate, non siano vendute o peggio svendute.
Purtroppo c’è una tendenza da parte degli ortodossi a vendere a musulmani ed ebrei. Si tratta di un fenomeno deprecabile, e nonostante ciò, la missione permane. Il Signore ha detto: annunciate il Vangelo a tutti, soprattutto in Terra Santa.
Anche se le modalità di questo annuncio con la parola e la testimonianza sono sottomesse agli spazi di libertà, che vengono concessi. Ecco perchè i cristiani devono avere il coraggio di rivendicare dinanzi al mondo il diritto alla libertà religiosa che è il fondamento di tutte le libertà.
A questo proposito al Sinodo c’è stata una riaffermazione della libertà religiosa, e indubbiamente dopo questo Sinodo le Chiese mediorientali non saranno più le stesse, si ritroveranno più unite, più sostenute.
Il Sinodo è stata un'Assise di Chiesa che fa capire come la Chiesa sia unita e come i problemi di una Chiesa particolare siano i problemi di tutta la Chiesa. Credo che in questo senso la lungimiranza del Pontefice Bendetrto XVI sia stata ampiamente riconosciuta.
Mentre molti cristiani emigrano, cresce la presenza dei movimenti ecclesiali, come per esempio il Cammino Neocatecumenale...
Don Nicola: I movimenti sono una grande risorsa. La Chiesa li riconosce anche per lo slancio missionario delle famiglie che con abnegazione sacrificio lasciano tutto e vanno in missione in terre lontane e ostili per far conoscere Gesù Cristo.
Ma l’attenzione che alcuni movimenti devono avere è quello di sottomettersi umilmente alla Chiesa in quei luoghi, fare riferimento ai Vescovi e accettare di morire e rinascere. Devono conoscere la lingua e poi capire di inserirsi dentro l’alveo culturale, storico e liturgico.
I movimenti non possono esportare in Oriente usanze occidentali soprattutto quando queste usanze sono l’esito di una creatività liturgica non disciplinata dalla Chiesa romana. E questo potrebbe creare confusione e danni.
I movimenti devono incarnarsi nella liturgia locale e anche quando provenienti dall’Occidente celebrano la liturgia romana, lo devono fare senza stravaganze.
UN SINODO PER L’UNITÀ TRA ORIENTE E OCCIDENTE (II) di Antonio Gaspari
ROMA, giovedì, 28 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Per don Nicola Bux, docente di Liturgia orientale e di Teologia dei sacramenti alla Facoltà Teologica Pugliese, presente al Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente in qualità di delegato nominato da Papa Benedetto XVI, l'assise episcopale svoltasi dal 10 al 24 ottobre in Vaticano è stata un successo e porterà molti frutti.
Don Bux ha insegnato a Gerusalemme e Roma, è consultore delle Congregazioni per la Dottrina della Fede e per le Cause dei Santi e consulente della rivista teologica internazionale “Communio”, nonché consultore dell'Ufficio delle Celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice.
ZENIT lo ha intervistato sui temi affrontati nel Sinodo. La prima parte dell'intervista è stata pubblicata questo mercoledì 27 ottobre.
Come procede il dialogo con le Chiese Ortodosse?
Don Nicola: In generale il rapporto è buono e di condivisione. Soprattutto in Medio Oriente siamo all’ottimo vicinato. Nello stesso tempo però ci sono delle discrepanze. Molti ortodossi non riconoscono il battesimo cattolico e ribattezzano i cristiani in occasione dei matrimoni misti. Si tratta di un brutto fenomeno che crea difficoltà tra le comunità.
E’un problema, ma è risibile di fronte al fenomeno dei cristiani che abbandonano quelle terre, quindi per certi versi l’urgenza di una unità tra i cristiani dovrebbe essere considerata prima e più importante della rivendicazione della proprie autonomie.
E’ noto che nel Medio Oriente i cristiani insieme rappresentano una percentuale minima, circa il 2% dei residenti. Inoltre i cristiani sono sparsi e divisi. In questo contesto il Sinodo è stato una grande occasione per far capire che prima viene l’unità della Chiesa cattolica e poi vengono le affermazioni identitarie che tra l’altro oggi nella società globale rischiano di sparire se non sono legate a un'identità forte. In sostanza l’essere cattolico aiuta ad andare oltre l’Oriente e l’Occidente, ma aiuta ad essere fino in fondo orientali e occidentali.
Quali problemi sono stati sollevati al Sinodo circa le relazioni con il mondo giudaico ed il mondo islamico?
Don Nicola: Il rapporto con il mondo giudaico si muove nell’alveo delle buone relazioni avviate con il Concilio Vaticano II, anche se sappiamo bene che all’interno del mondo giudaico ci sono gruppi più aperti e gruppi più refrattari al dialogo. Complessivamente il rapporto è buono. E’ chiaro che là dove il giudaismo è maggioritario come in Israele la Chiesa cattolica chiede libertà religiosa, e non è sempre facile. Per esempio è noto che in Israele essere un ebreo cristiano è discriminante. Pochi sanno che in Israele ci sono ebrei cristiani e c’è una comunità con un Vicariato per i cristiani di lingua ebraica. Si tratta di fedeli in gran parte provenienti dall’ebraismo. Il fenomeno persiste ma non è riconosciuto dalle autorità israeliane.
Per quanto riguarda il rapporto con l’islam, i cristiani sono da 1300 anni in mezzo ai musulmani, vivono in convivenza con più o meno diritti. In Libano siamo cittadini allo stesso livello, è l’unico stato in cui siamo riconosciuti a livello di Costituzione, ma ci sono Paesi come l’Arabia Saudita dove non c’è alcun riconoscimento. Anzi peggio. C’è una persecuzione costante nei confronti di sacerdoti che celebrano e praticano la fede cattolica.
La situazione è complicata dal fatto che l’islam non ha un magistero unico e non esiste una posizione unica del rapporto con i cristiani. Alcuni sostengono che non esista l’islam moderato, c’è un islam e basta che viene applicato e interpretato a seconda di persone e luoghi.
Così ogni comunità deve rapportarsi e misurarsi con la maggiore o minore disponibilità dell’interlocutore. Ci sono Emirati che permettono di costruire delle chiese pur limitando la libertà di culto, e ci sono luoghi come la Giordania dove ci sono le scuole e le associazioni caritative cattoliche, con un notevole riconoscimento della presenza cristiana.
La varietà di comportamenti chiede ai cristiani di avere il coraggio della propria identità, di non avere paura, di dichiarare la propria fede senza alcuna imposizione e senza venire a contesa con nessuno, come diceva San Francesco ai suoi frati.
Gli stessi frati francescani che da oltre sette secoli sono in quelle terre sono la dimostrazione vivente di come si possa essere se stessi e nello stesso tempo essere umilmente a servizio di una realtà che è altra da quella cristiana.
L’esempio dei francescani deve essere molto considerato dai movimenti. Ci si deve incarnare nei luoghi senza arroganza, con grande umiltà e capacità di ascolto, e al momento dovuto offrire anche il proprio tributo di sangue. I francescani hanno avuto oltre 5000 martiri in oltre 750 anni di presenza in quelle terre.
E’ vero che i francescani sono più protetti, dopo che San francesco incontrò il Saladino?
Don Nicola: Il mito di San Francesco che fa i patti con Saladino è stato chiarito dagli storici. San Francesco non è andato per fare il dialogo interreligioso. Era andato perchè voleva convertire il sultano, non lo voleva fare con la forza o con le armi, però voleva parlare con lui di Gesù Cristo, e forse lo ha fatto, anche se su questo episodio le fonti non sono molto esaurienti.
Il sultano rimase colpito dalla mitezza di San Francesco, anche lui era un uomo aperto alla ragionevole riflessione. Ci fu un dialogo, non si realizzò molto, ma nella regola San Francesco dice ai frati di parlare di Gesù Cristo e che quando il Signore mostra battezzeranno e annunceranno la fede con grande minorità.
Questa è una grande lezione che i movimenti ecclesiali devono imparare e seguire, l’umiltà l’obbedienza, la semplicità nel far conoscere e servire il Signore Dio nostro.
28/10/2010 - VATICANO-INDIA - Fiducia e rispetto sono fondamenti del dialogo tra cattolici e indù - Messaggio del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso in occasione del Divali, la “Festa delle luci”. Il rispetto è la considerazione che naturalmente deve avere ogni persona e la dignità comporta l’inalienabile diritto di ognuno a essere protetto da ogni forma di violenza, abbandono o indifferenza.
Città del Vaticano (AsiaNews) – Fiducia e rispetto reciproci sono fondamentali nel dialogo interreligioso tra cattolici e indù, per rinforzare l’amicizia e la cooperazione. E’ una riflessione su questo principio il messaggio che il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso ha indirizzato anche quest’anno agli indù in occasione del Diwali, la “Festa delle luci”.
Il Diwali è una delle più importanti feste induiste. Essa simboleggia la vittoria della verità sulla menzogna, della luce sulle tenebre, della vita sulla morte, del bene sul male. La celebrazione vera e propria dura tre giorni segnando l’inizio di un nuovo anno, la riconciliazione familiare, specialmente tra fratelli e sorelle, e l’adorazione a Dio. Per questo tradizionalmente in tale occasione si usa accendere delle luci, in particolare delle lampade tradizionali chiamate diya, e ci sono spettacoli pirotecnici.
“Il rispetto – si legge nel documento firmato dal presidente, card. Jean-Louis Tauran e dal segretario del Pontificio consiglio,mons. Pier Luigi Celata - è la considerazione dovuta per la dignità che appartiene per natura ad ogni persona indipendentemente da qualunque riconoscimento esteriore. La dignità implica il diritto inalienabile di ogni individuo ad essere protetto da qualsiasi forma di violenza, negligenza o indifferenza. Il rispetto reciproco, quindi, diviene uno dei fondamenti della coesistenza pacifica ed armoniosa ed anche del progresso nella società. La fiducia, d’altra parte, nutre ogni sincera relazione umana, sia personale che comunitaria. La fiducia reciproca, oltre a creare un ambiente che tende alla crescita ed al bene comune, forma il mutuo convincimento che possiamo fare assegnamento gli uni sugli altri per raggiungere un comune obiettivo”.
“Tale mutuo convincimento – prosegue il messaggio, che non fa diretto riferimento agli episodi di tensioni e violenze che stanno colpendo i cristiani in India - crea negli individui e nelle comunità la disponibilità e la prontezza ad avviare una fruttuosa cooperazione non solo nel compiere il bene in generale, ma anche nel dedicarsi alle gravi ed irrisolte sfide del nostro tempo. Nell’applicare quanto detto sopra al nostro impegno ad apprezzare e promuovere il dialogo e le relazioni interreligiose, sappiamo bene che il rispetto e la fiducia non sono dei sovrappiù opzionali ma i veri pilastri sui quali si fonda l’edificio stesso del nostro impegno”.
“Questo impegno, che coinvolge tutti noi, credenti e persone che cercano la Verità con cuore sincero, nelle parole del Papa Benedetto XVI è: ‘…diventare assieme artefici di pace, in un reciproco impegno di comprensione, di rispetto e di amore’(Discorso ai delegati delle altre Chiese, Comunità Ecclesiali e di altre Tradizioni Religiose, 25 aprile 2005). Di conseguenza, quanto più grande è il nostro impegno nel dialogo interreligioso, tanto più pieni diventano il nostro rispetto e fiducia, portandoci a sviluppare la cooperazione e l’azione comune. Il Papa Giovanni Paolo II, di felice memoria, durante la sua prima visita in India, disse: ‘Il dialogo tra i membri di religioni diverse accentua e approfondisce il rispetto reciproco e apre la via a relazioni che sono fondamentali nella soluzione di problemi della sofferenza umana’ (Discorso agli esponenti delle religioni non-cristiane, Madras – Chennai, 5 febbraio 1986)”.
“Come persone che hanno a cuore il benessere degli individui e delle comunità - conclude il messaggio - possiamo dare maggiore visibilità con ogni mezzo in nostro potere ad una cultura che promuova il rispetto, la fiducia e la cooperazione”.
La festa delle Tenebre: ebetismo consumistico - Autore: Amato, Gianfranco Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 28 ottobre 2010
Si avvicina la notte del 31 ottobre con il consueto armamentario di zucche, candele e macabre mascherate. Si tratta della festa pagana e satanica di Halloween, spacciata per innocua carnevalata ed innocente divertimento per piccini.
La politically correctness britannica ha avuto modo di occuparsi anche di questa festa, accomunando guardie e ladri. Da tempo, infatti, ai detenuti pagani, satanisti e “Devil worshippers” (adoratori del diavolo), non solo è riconosciuto un giorno di riposo settimanale per motivi religiosi (il giovedì, poiché il venerdì, il sabato e la domenica, sono rispettivamente riservati a musulmani, ebrei e cristiani), ma è pure consentito di celebrare la festività di Halloween. Non si tratta di semplice riposo, o di una gaia arlecchinata, bensì di una celebrazione vera e propria con tanto di riti e oggetti sacri: pietre runiche, mantelli, e bastoni flessibili (per motivi di sicurezza). Le disposizioni in favore delle centinaia di detenuti pagani e satanisti rinchiusi nelle carceri britanniche sono state emanate da Gareth Hadley, Direttore del personale penitenziario nazionale, sul presupposto politicamente corretto dell’assoluta eguaglianza tra paganesimo, satanismo e qualunque altro credo religioso.
Dall’altra parte della barricata, per quanto riguarda i poliziotti, lo scorso 10 maggio il Ministero britannico degli Interni ha ufficialmente riconosciuto la Pagan Police Association, un’organizzazione di poliziotti pagani (più di 500 tra agenti ed ufficiali di polizia, compresi druidi, streghe e sciamani), autorizzando i membri ad assentarsi dal servizio in occasione delle relative feste religiose, tra cui primeggia proprio Halloween.
Andy Pardy, capo della polizia di Hemel Hempstead nell’Hertfordshire, che è cofondatore della Pagan Police Association e adoratore delle antiche divinità vichinghe, tra cui il dio Thor dal martello distruttore e Odino dall’occhio ciclopico, ha dato l’annuncio ufficiale del riconoscimento da parte del Ministero degli Interni, precisando che «gli agenti di polizia ora possono finalmente celebrare le proprie festività religiose e lavorare in altre giornate, come il Natale, che per essi appaiono assolutamente insignificanti».
Halloween, in realtà, è tutt’altro che un’innocua festicciola per bambini. Profondamente radicata nel paganesimo e nel satanismo, continua ad essere una pericolosa forma di idolatria demoniaca.
Trae origine da un’antichissima celebrazione celtica diffusa nelle isole britanniche e nel nord della Francia, con cui i pagani adoravano una delle loro divinità, chiamata Samhain, Signore della morte. Era considerata una delle feste più importanti, e dava inizio al capodanno celtico. La notte del 31 ottobre in onore del sanguinario dio della morte, veniva realizzato, sopra un’altura, un enorme falò utilizzando rami di quercia, albero ritenuto sacro, sul quale venivano bruciati sacrifici costituiti da cibo, animali e persino esseri umani.
Di quest’ultima crudele e sanguinaria usanza ne dà testimonianza lo stesso Giulio Cesare nel suo De Bello Gallico (libro VI, 16), così come Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia (XXX, 13), in cui parla di «riti mostruosi», e Tacito nei suoi Annales (XIV, 30), che definisce i sacrifici umani praticati dai druidi come «culti barbarici».
I Celti ritenevano che Samhain, in risposta alle offerte di tali olocausti, autorizzasse le anime dei morti a ritornare alle proprie case in quel giorno di festa. Per questo motivo i pagani nordici ritenevano che fredde e oscure creature riempissero la notte vagando e mendicando tra i vivi. E’ da tale credenza, peraltro, che deriva l’uso odierno di girovagare nel buio, la notte di Halloween, vestiti in costumi che imitano fantasmi, streghe, elfi, e creature demoniache.
Anche la celebre espressione “trick or treat”, tradotta con l’innocente “scherzetto o dolcetto”, è parte dell’antico cerimoniale pagano. Venivano chieste offerte (“treat”) sotto la minaccia dell’ira di Samhain, e della sua maledizione divina (“trick”), in caso di rifiuto. «Offrite sacrifici a Samhain, o subirete i suoi castighi», questo si continua inconsciamente a chiedere, oggi, con l’apparentemente scherzoso “trick or treat”.
L’usanza di chiedere offerte al dio della morte diventava, in passato, anche un metodo per identificare i cristiani che si rifiutavano di onorare la divinità pagana, e che per questo subivano, a volte, odiose ritorsioni.
Per comprendere quanto la Chiesa, fin dall’inizio dell’evangelizzazione dei popoli celti, fosse preoccupata di quella pericolosa “solennità” pagana, basta considerare che la Festa di Ognissanti fu spostata, in Occidente, al primo novembre, con tanto di vigilia la notte precedente, proprio per contrastare il culto satanico di Samhain.
La cristianità conobbe, infatti, le prime forme di commemorazioni dei Santi già a partire dal IV secolo, in particolare nel giorno della Domenica successiva alla Pentecoste, usanza conservata fino ad oggi dalla Chiesa Ortodossa d’Oriente.
Nell’Occidente, come si è detto, la data fu spostata al primo novembre per farla coincidere con la celebrazione in onore del dio celtico della morte, a seguito delle pressanti richieste che provenivano dal mondo monastico irlandese.
La prima traccia di questa posticipazione è rinvenibile in un atto di Papa Gregorio III (731-741), che fissava appunto nel 1° novembre l’anniversario della consacrazione di una cappella in San Pietro dedicata alle reliquie «dei santi apostoli e di tutti i santi, martiri e confessori, e di tutti i giusti resi perfetti che riposano in pace in tutto il mondo».
Fu il successore Gregorio IV ad estendere e rendere obbligatoria la data della celebrazione a tutta la cristianità. In Francia, in particolare, ciò avvenne grazie ad un decreto di Luigi il Pio, emanato nell’ 835, «su istanza di Papa Gregorio IV, con il consenso di tutti i vescovi».
Nella Britannia del VIII-IX secolo, quindi, il giorno dedicato dai pagani al dio della morte, era per i cristiani occasione per onorare i Santi, partecipando alla veglia di preghiera la sera del 31 ottobre, ed alla Santa Messa il giorno successivo.
E’ da qui che deriva il termine Halloween. L’etimo si radica, infatti, nell’antica espressione inglese Hallow E’en, ovvero notte di commemorazione di tutti coloro che sono stati “hallowed”, santificati. I pochi che rimasero ancorati alle tradizioni pagane reagirono al tentativo della Chiesa di soppiantare la celebrazione in onore di Samhain, mantenendone il culto e cercando di incrementarlo. Nell’alto medioevo la notte di Halloween divenne simbolicamente la festa principale della stregoneria e del mondo occulto. In quel contesto avvenivano, tra l’altro, forme particolari di sacrilegio nei confronti di oggetti sacri, e l’utilizzo degli scheletri (oggi rappresentati da maschere) costituiva una forma di dileggio delle Sacre Reliquie.
Per il moderno satanismo, Halloween continua ad essere una festa privilegiata. E’ uno dei quattro sabba delle streghe, delle quattro grandi “solennità” coincidenti con alcune delle principali festività pagane e dell’antica stregoneria. La prima e più importante è, appunto, quella di Halloween, considerata il Capodanno magico. La seconda “solennità” è quella di Candlemass, che si celebra la notte tra il 1° e il 2 febbraio ed è considerata la Primavera magica (per i cristiani è la ricorrenza della Presentazione del Bambino Gesù al tempio, chiamata anche popolarmente “Festa della Candelora”). La terza “solennità” è quella di Beltane, che si festeggia nella notte tra il 30 aprile ed il 1° maggio, chiamata anche la notte di Valpurga, e segna l’inizio dell’Estate magica. La quarta “solennità” è quella di San Giovanni Battista, che si svolge la notte tra il 23 e 24 giugno, ed è particolarmente attesa per mettere in atto malefici di malattia e di morte. Com’è facile notare sono tutte celebrazioni notturne che si svolgono nel buio e nell’oscurità, a conferma della definizione evangelica di Satana come Principe delle Tenebre, e dei suoi seguaci come Figli delle Tenebre.
Da un punto di vista cristiano, la partecipazione a tali pratiche, a qualunque livello (anche quello apparentemente inoffensivo di una banale festa), deve considerarsi una pericolosa forma d’idolatria. Come deve considerarsi una forma pagana di superstizione quella di illuminare una zucca vuota fuori dalla porta per scacciare demoni e fantasmi.
Sorprende la sottovalutazione fatta oggi anche da molti credenti – a volte preda di una forma di ebetismo consumistico – circa l’origine ed il significato della festa pagana e satanica di Halloween. Ma non sorprende che dalla Chiesa continuino a levarsi voci rivolte ad ammonire e mettere in guardia circa i rischi dell’inganno demoniaco che tale ricorrenza nasconde.
Mi ha particolarmente colpito, l’anno scorso, l’iniziativa di una marcia proprio contro i festeggiamenti di Halloween svoltasi a Massa Carrara e promossa dalla Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata dal compianto don Oreste Benzi, iniziativa cui non ha fatto mancare propria fattiva partecipazione l’allora vescovo di Massa Carrara-Pontremoli, monsignor Eugenio Binini.
La comunità di don Benzi, in quell’occasione, non ha usato mezze parole per denunciare i pericoli della cosiddetta notte delle streghe: «Il fenomeno che viene esaltato il 31 ottobre è un grande rituale satanico. Facciamo appello al mondo cattolico perché non promuova in nessun modo questa ricorrenza che inneggia al macabro e all’orrore. Sappiano tutti i genitori e tutti coloro che credono nei valori della vita, che la festa di Halloween è l’adorazione di Satana che avviene anche in modo subdolo attraverso la parvenza di feste e di giochi per giovani e bambini. Il sistema imposto di Halloween proviene da una cultura esoterico-satanica in cui si porta la collettività a compiere rituali di stregoneria, spiritismo, satanismo che possono anche sfociare, in alcune sette, in sacrifici rituali, rapimenti e violenze. Halloween è per i satanisti il giorno più magico dell’anno e in queste notti si moltiplicano i rituali satanici come le messe nere, le iniziazioni magico-esoteriche e l’avvio allo spiritismo e stregoneria. Attenzione agli educatori e responsabili della società affinché scoraggino i ragazzi a partecipare ad incontri sconosciuti, ambigui o addirittura ad alto rischio perché segreti o riservati».
Sempre a proposito di Halloween, monsignor Girolamo Grillo, Vescovo emerito di Civitavecchia-Tarquinia, ha ricordato che «si tratta di una consuetudine nettamente pagana», e che «naturalmente un vero cristiano non potrà mai dare il suo assenso a tutto questo, soprattutto per il fatto che di carnevalate oscene ve ne sono a iosa, cui vanno aggiunte le veglie sataniche mascherate proposte da alcuni gruppi, purtroppo abbastanza diffusi anche nei nostri ambienti».
Quest’ultimo punto dell’osservazione di mons. Grillo merita di essere sottolineato, poiché non sono infrequenti – ahimè – le occasioni in cui si ha modo di verificarne la fondatezza.
E’ accaduto anche a me quando ho appreso del caso di un giovane sacerdote, coadiutore di un anziano parroco, che aveva autorizzato l’uso della sala oratoriale per la celebrazione della festa di Halloween. Con tanto di locandine e volantini. Alle legittime recriminazioni di un genitore, il giovane coadiutore, infastidito per l’osservazione, ha tenuto a precisare che la magia esiste solo nel mondo della fantasia dei bimbi, che i ragazzi cattolici non debbono isolarsi ma condividere le occasioni di divertimento con i loro coetanei, che la Chiesa, in passato, ha già sbagliato dando la caccia a streghe inesistenti, e che la concezione antropomorfa del demonio appartiene alla tradizione preconciliare.
Sappiamo già che da alcuni giovani (e inesperti) preti non si può pretendere più di tanto.
Ma credo si possa almeno esigere che conoscano un pochino le Sacre Scritture.
Se quel neosacerdote avesse dato una ripassatina alla Bibbia, avrebbe avuto modo di leggere che non è opportuno per i cristiani frequentare i pagani e assistere ai loro riti, poiché non può esservi unione tra la luce e le tenebre (2 Corinzi, 6,14), che i libri di arti occulte vanno bruciati (Atti, 19,19), che non si deve partecipare alle opere infruttuose delle tenebre, ma piuttosto condannarle apertamente (Efesini, 5,11-12), che idolatria e stregoneria sono opere della carne (Galati, 5,20), che bisogna separarsi da «chi esercita la divinazione, il sortilegio, l’augurio o la magia; da chi fa incantesimi, da chi consulta gli spiriti o gli indovini, e da chi interroghi i morti, perché chiunque fa queste cose è in abominio al Signore» (Deut. 18, 10-12). Più chiaro di così.
Editoriale - Emilia e quei primi passi Stefano Giorgi - venerdì 29 ottobre 2010 – il sussidiario.net
Nel corridoio d’ingresso di In-presa campeggia un quadro di Van Gogh: I primi passi. Vuole essere l’immagine della promessa di quello che chiunque entra può poi trovare: un aiuto a camminare. È iniziato tutto da Emilia Vergani, assistente sociale in quel di Carate Brianza, che nel suo lavoro, delega ai minori, vide che per i ragazzi la vita ha i suoi contraccolpi: talvolta si portano dietro una rabbia inconfessata, dei dolori mai consolati, incomprensioni familiari o situazioni veramente gravi.
Il suo amore al proprio e altrui destino, la sua passione a ricercare con tenacia e ardore (saggia e ardente, ha definito don Giussani la vita di Emilia tra noi) il volto buono del Mistero che sostiene tutte le cose, la certezza che anche nelle situazioni di buio più grave c’è una mano amica che può accendere una luce l’ha portata a offrire la sua mano salda ai ragazzi che incontrava. Quella mano si è fatta accoglienza per tanti ragazzini del paese che per varie ragioni sentivano di non valere niente.
Così la ricorda il figlio Giovanni: «“Invano vi alzate di buon mattino, tardi andate a riposare e mangiate pane di sudore:il Signore ne darà ai suoi amici nel sonno”. Leggere questa frase del salmo 127 mi ricorda sempre mia madre. Lei non concedeva la sua amicizia come premio per un traguardo raggiunto; soprattutto ai ragazzi, che poi saranno i ragazzi di In-Presa. Con loro, infatti, spesso capitava di non raggiungere l’obiettivo che ci si era prefissati, che dopo molti tentativi continuasse ad essere difficile conservare un posto di lavoro, o recuperare i vincoli di serenità familiare o, in generale, un’energia affettiva propria, perduta o rubata; sembrava che fossero addormentati e che non riuscissero a svegliarsi dal sonno. Tuttavia erano i suoi amici. Il dubbio che quello che stesse facendo fosse inutile, o utile solo per alcuni, non ha mai prevalso in lei rispetto alla simpatia originale che manifestava per tutte le persone che incontrava».
Una simpatia originale che si è fatta opera, cioè metodo: “Non basta l’accoglienza con i ragazzi, occorre l’educazione” era solita ripeterci in continuazione; per questo prendere un ragazzo in affido - come le prime famiglie -, o prenderlo in azienda per insegnargli un mestiere - come i primi amici imprenditori -, o predisporgli un cammino di formazione - fino a costruire una scuola proprio per loro: il Centro di formazione professionale In-presa -, non è per risolvere i problemi, ma per far rinascere un io.
Raccontava Emilia in un convegno a San Marino nell’aprile del 2000: «Pasquale dice: “Mi sembra di essere un puzzle: mia mamma non sta bene; il mio principale, che di principio è uno sfruttatore; poi voi dell’In-presa. Ma come si fa ad andare avanti così?”. Secondo noi questa domanda è quella fondamentale, quando un ragazzo se la pone vuol dire che di strada ne ha fatta tanta, che il lavoro dei raggi e tutto quello che noi facciamo, ha portato a questa domanda. La risposta è stata: “Se tu hai una sveglia smontata in tanti pezzetti come un puzzle, per cui c’è la lancetta, il vetro, eccetera, per rimetterla insieme e perché la sveglia abbia la funzione di segnare l’ora (come dire, l’essere tu messo insieme ad altri perché tu stia bene nel posto in cui sei: ti piaccia lavorare; aiuti tua mamma nel suo momento di difficoltà; che tu possa fare i soldi per comprare il motorino), occorre che i pezzetti siano messi insieme non da un altro pezzetto, ma da un ordine di cose che è al di fuori dei pezzetti della sveglia: occorre un senso che permetta di metterli insieme”. Queste cose i ragazzi le capiscono al volo. Si coglie che le cose giuste uno non le capisce bene, ma capisce che sono giuste. Allora un altro ragazzino mi ha chiesto: “Ma cos’è questo senso?”. “Il senso è il significato delle cose”. “Allora ci devi parlare di questo senso”. Parlare di questo senso vuol dire che tutto il resto - il recupero dell’handicap, la terza media, la borsa lavoro - deve arrivare a essere una proposta di questa direzione, di questo senso».
“Tutto il resto” in questi dieci anni dalla morte di Emilia (avvenuta in Paraguay il 30 ottobre del 2000) è diventato centro di aiuto allo studio e di preparazione all’esame di terza media attraverso percorsi personalizzati; centro di formazione professionale per aiuto-cuochi; percorsi sperimentali in alternanza scuola/lavoro per aiuto-cuochi e manutentori elettrici; percorsi di accompagnamento al lavoro; momenti di proposte educative nel tempo libero “il Circolo”.
“Tutto il resto” è la forma che ha preso adesso quella mano salda; ed è l’orizzonte del lavoro che facciamo tra noi a In-presa, insegnanti, tutor, addetti alla segreteria, amministrativi quando, iniziando la settimana con un momento comune, mettiamo a tema la prospettiva delle azioni che andremo a svolgere nel nostro specifico, con lo scopo di aiutarci e sostenerci nell’essere ciascuno di noi quel terreno saldo, quel luogo in cui è possibile che si parli del “senso”.
Un luogo dove il tuo nome possa risuonare in un modo speciale, come, in fondo in fondo, in una casa. Un esempio di che cosa ha generato il seme piantato da Emilia è nell’incipit di un tema di Riccardo, un ragazzino delle medie inferiori: «Oggi sono felice, mentre prima non ero felice, andavo a scuola a […] dove forse non ero il benvenuto, ormai adesso è un capitolo da oltrepassare con un salto molto lungo. Ero incapace di reagire, i compagni che non mi volevano mi odiavano […]. Avevo un peso, una scontentezza indecifrabile, qualcosa di raro. Adesso sono all’In-presa a Carate».
J'ACCUSE/ Sbai: c'è un pericolo islamico dall'Uk che minaccia anche l'Italia Souad Sbai - venerdì 29 ottobre 2010 – il sussidiario.net
L’elezione di Lutfur Rahman alla carica di nuovo sindaco esecutivo del borgo di Tower Hamlets nella East London sta sollevando in Inghilterra grande clamore.
La stampa britannica, e mi riferisco particolarmente alla testata Telegraph, ha condotto per mesi un’inchiesta sui legami di Rahman con l’Islamic Forum of Europe, FIE, che ha finanziato la sua attività politica e ha facilitato a suon di sterline la sua ascesa. Per chi non lo sapesse il Forum crede nella jihad, porta avanti un pensiero estremista lontano perfino da quello di alcuni Paesi arabo-musulmani, e ha tra i suoi obiettivi la sovversione delle strutture democratiche inglesi ed europee al fine di islamizzare tutto il vecchio continente, secondo quanto dichiarato dai suoi stessi rappresentanti.
C’è di che essere ben preoccupati: perché quello che abbiamo appreso è ciò che abbiamo denunciato e andiamo denunciando in anni di battaglie contro il dilagare di un certo pensiero di matrice radicale contro cui l’Europa dimostra una fiacchezza pericolosa. Una fiacchezza che rischia di farla accartocciare e implodere. Il caso inglese rappresenta dunque una proiezione esemplare di ciò che potrebbe diventare il vecchio continente tra qualche anno e di quale rischio essa stia, consapevolmente o inconsapevolmente, correndo.
A disposizione di Rahman, ci sarebbe un fondo di un miliardo di sterline – denaro dei contribuenti, dunque - in un quartiere che si può definire in mano alla propaganda estremista e ai diktat di personaggi collusi con ambienti legati a un certo radicalismo. Il FIE infatti avrebbe organizzato incontri con attivisti talebani cui avrebbero partecipato personaggi già sotto controllo da parte del governo statunitense perché implicati nell’attacco al World Trade Center del 1993 e in quello dell’11 settembre 2001.
Non solo! Secondo il Telegraph “dopo essersi assicurato la leadership con l’aiuto del FIE, Rahman ha indirizzato milioni di pounds alle organizzazioni che ricadono sotto la sua egida e un uomo che ha legami molto stretti con il FIE è stato nominato assistente capo esecutivo del Consiglio di Tower Hamlets, nonostante non possedesse le qualifiche atte a ricoprire quel ruolo. Inoltre, è stato fatto in modo che le biblioteche del borgo acquisissero una certa letteratura di stampo estremista”. Ci viene inoltre raccontato che in occasione della festa organizzata per celebrare la sua elezione fossero presenti diversi personaggi appartenenti a branche dell’estremismo.
Logica vuole a questo punto che ci si debba domandare in che modo il Forum for Islamic Europe presenterà il conto del supporto elettorale a Rahman: quale sarà il prezzo da pagare? Quale sarà la moneta di scambio? D’altronde è stato lo stesso Rahman a rifutarsi di negare che il Labour Party fosse stato infiltrato, che un certo numero di consiglieri abbiano rapporti molto stretti con il FIE e che un membro di tale organizzazione lo avesse aiutato ad acquisire la leadership del Consiglio di Tower Hamlets.
Di certo vi è il fatto che sia ormai acclarata la capacità di infiltrarsi nelle istituzioni di un certo estremismo e la sua volontà di mettere in ginocchio l’Europa attraverso le sue stesse strutture democratiche. I musulmani moderati di Londra hanno cercato di denunciare la strategia del FIE e il suo crescente oltranzismo, ma, come al solito, si trovano a combattere spesso soli e poco supportati. Non mi sembra esagerato affermare che sia chiaramente in atto un attacco sovversivo ai danni non solo della Gran Bretagna ma di tutta l’Europa, compresa l’Italia.
L’esempio inglese d’altronde ci mostra palesemente la tattica legata a una tale strategia di infiltramento: nel Regno Unito sono state lentamente istituite le corti sharitiche, ad oggi circa 90 in tutto il Paese, legittimando di fatto un binario giurisprudenziale parallelo alla tradizione del diritto positivo europeo; sono state poi introdotte le banche islamiche per giungere infine alla presentazione di liste e/o candidati che, come Rahman, hanno dimostrato nella sostanza di farsi fiancheggiare da e di appoggiare a loro volta un pensiero che fa perno sui principi dell’intransigenza e dell’estremismo.
Si può ben comprendere allora come in Inghilterra si stia costituendo, nelle sue varie componenti giurisprudenziali, finanziarie, economiche, sociali e civili, un modello estraneo a quello che fino ad oggi è stato quello del Regno Unito.
Di tutto questo processo la politica e i partiti inglesi devono assumersi la responsabilità: in particolare il Labour Party ha candidato Rahman, il quale attraverso il partito, ha potuto presentarsi alla competizione, salvo poi scoprire gravissime irregolarità nella raccolta di preferenze, essendo stato votato anche da persone che non avrebbero avuto diritto a farlo.
Nonostante il partito sia corso ai ripari espellendo otto consiglieri e due suoi impiegati per collusione con ambienti dell’estremismo, le responsabilità restano perché si è reso complice, consapevolmente o meno, di candidare personaggi apertamente ostili ai principi democratici europei. In una monarchia costituzionale che ha adottato un sistema giurisprudenziale improntato al common law, l’assenza di una carta Costituzionale rigida sembra aver penalizzato l’Inghilterra.
All’indomani delle dichiarazioni di Angela Merkel, sul fallimento di un certo modello multiculturalista mi ero trovata completamente in accordo con le opinioni espresse dalla cancelliera tedesca: oggi voglio ribadirlo una volta di più. In Europa, non solo in Germania, l’indifferenza si è trasfigurata in tolleranza per manifestando un’incapacità di fondo nel mettere a punto problemi e soluzioni che non fossero legate a un atteggiamento lassista: così, anziché mettere a punto un modello di reale integrazione, gli stranieri sono stati abbandonati ai ghetti delle proprie comunità di origine. E chi ha pagato il conto più salato sono state le donne.
Qualche tempo fa in Italia si è posto il problema della lista civica denominata “Milano Nuova”, presentata alla prima ora come lista islamica e poi come lista laica aperta non solo agli stranieri, ma a tutti i milanesi. Così il lupo si è travestito da agnello, cercando di utilizzare un profilo basso per raggiungere l’obiettivo di eleggere i propri candidati. Nel frattempo le organizzazioni dei musulmani moderati, vengono sempre più stigmatizzate, infangate, minacciate, intimidite per impedire che esprimano la propria opinione, il loro dissenso e la loro opposizione all’affermazione di una visione oscurantista dell’Islam.
Quello che dobbiamo chiederci è: se nessuno sostiene i coraggiosi moderati, che ritengono doverosa e non rimandabile una profonda riforma in seno alle società islamiche, dove già qualche passo si sta muovendo; se nessuno supporta le organizzazioni musulmane moderate in Europa; se nessuno, nella magistratura, interviene contro la pioggia di querele che investe da qualche anno a questa parte chiunque osi sfidare il predominio culturale di un certo estremismo, giornalisti compresi, chi potrà ritenersi al sicuro contro organizzazioni insidiose che hanno a disposizione ingentissimi finanziamenti per portare avanti il proprio progetto politico di invasione culturale e sostanziale?
Sembra spezzato il filo che lega cultura, religione e legge - Cortocircuito in Europa - Si vuole costruire un continente indipendente dal cristianesimo e in alcuni casi anche contro di Rino Fisichella (©L'Osservatore Romano - 29 ottobre 2010)
Anticipiamo ampi stralci della relazione che l'arcivescovo presidente del Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione tiene nel pomeriggio del 28 ottobre a Roma, nella Sala San Pio x di via della Conciliazione, nell'ambito dell'incontro "Un'Europa cristiana?", organizzato dall'Elea, al quale interviene anche il presidente della Fondazione Italianieuropei, Massimo D'Alema.
È bene ricordare che ci sono principi posti alla base di ogni civiltà che ne condizionano e determinano lo sviluppo, la sopravvivenza o la distruzione. Tre in modo particolare sono comunemente accettati: la cultura, la religione e la legge. È proprio di ogni società riconoscersi in una cultura e negli aspetti che la specificano nel confronto con altre; di questa fanno parte la lingua, le tradizioni, l'arte nelle sue diverse manifestazioni e tutto ciò che costituisce l'agire e il pensare personale e sociale. La religione, da parte sua, porta la risposta all'interrogativo fondamentale dell'uomo sul senso della propria vita. Nell'uomo c'è qualcosa che lo trascende, un "infinito" che egli stesso sperimenta in ogni atto della sua esistenza personale e che non può reprimere. Infine, c'è la legge; quell'insieme cioè di disposizioni che regolano la vita sociale e consentono di identificarsi in un sistema di pensiero e di comportamenti che si fa garante della giustizia, del bene e del male. Proprio questo ultimo principio provoca a comprendere quanto fondamentale sia la relazione tra i tre elementi descritti perché non avvenga che uno contraddica l'altro creando di fatto un cortocircuito tale da mettere in crisi un sistema di vita e di pensiero.
Ciò che si sta verificando in Europa, purtroppo, mi sembra essere proprio questo cortocircuito che impedisce una circolarità comunicativa tra i tre principi descritti, con la conseguente condizione di crisi permanente in cui siamo inseriti. Ciò che balza evidente è una situazione fortemente paradossale. Nel tempo in cui l'Europa viveva di valori condivisi, possedeva una forte identità che la rendeva facilmente riconoscibile nonostante i confini territoriali. In questi anni, invece, mentre si sono abbattuti i confini che avrebbero dovuto creare un'unità, ciò a cui si assiste è il moltiplicarsi delle differenze, l'aumento degli estremismi e la frammentarietà domina a tal punto da far sgretolare ogni possibile unità.
Si ha l'impressione che in questo processo di unificazione tutto sia già prefissato e determinato da un'élite di persone, senza un diretto coinvolgimento dei cittadini che sono i primi attori. Aver voluto escludere le radici cristiane non è stata una bella premessa ma l'oblio delle tradizioni in cui i popoli si riconoscono può diventare una colpa perché parte dal presupposto che il nuovo da costruire si deve imporre con una rottura con il passato.
Non si può pretendere di suscitare un senso di appartenenza a una nuova realtà come l'Europa distruggendo l'identità che i popoli si sono costruiti nel corso di secoli. Pensare che una moneta unica possa dare identità o che lo scambio di studenti con il progetto Erasmus crei il senso di appartenenza è superficiale. Questi sono strumenti, validi e utili, ma devono essere fondati, accompagnati e sostenuti da un progetto culturale rispettoso delle differenze e in grado di fare sintesi per una novità originale, altrimenti tutto diventa uniforme: linguaggio, arte, architettura, letteratura, politica, economia.
In questo modo il cittadino si stanca, si rinchiude in se stesso e perde entusiasmo. Se questo si sta verificando, temo dipenda anche dal fatto che si vuole costruire un'Europa indipendente dal cristianesimo e, in alcuni casi, perfino contro. Eppure, il cristianesimo è una condizione obbligatoria per la coerente comprensione dell'Europa. Le religioni per l'Europa non possono essere tutte uguali. Non siamo in una notte oscura dove tutto è incolore. Il primato della ragione, conquistato nel corso dei secoli, non può appiattirsi proprio ora con un egualitarismo da sabbie mobili che impedisce di dare voce alla forza critica. Questa è chiamata a discernere tra le religioni e a scegliere di riconoscere le proprie origini e l'apporto ricevuto.
Insomma, abbiamo il compito di produrre pensiero che sia capace di gettare le fondamenta per un'epoca che darà cultura alle future generazioni permettendo loro di vivere nella genuina libertà perché proiettati verso la verità. È questo pensiero che manca e sinceramente non lo vedo ancora all'orizzonte. Come ricordava di recente Benedetto XVI, "il mondo soffre per la mancanza di pensiero". Il dramma, probabilmente, sta tutto qui. Se manca la forza del pensiero non si può pretendere alcuna progettualità e tutto diventa monotono fino a giungere all'asfissia. A chi compete la progettualità, soprattutto di una nuova antropologia capace di proiettare un nuovo modello di società? Certamente non a un solo gruppo.
Questo è il momento di una sinergia in grado di fare sintesi del patrimonio del passato per interpretarlo alla luce delle conquiste che caratterizzano la nostra epoca in modo da trasmetterlo alle generazioni che verranno dopo di noi. Il cortocircuito è avvenuto perché le tre componenti della civiltà hanno intrapreso una strada solitaria e per molti versi, perché hanno giocato solo in difesa o all'attacco, senza comprendere che nessuno può vivere senza l'apporto degli altri.
Non dobbiamo, quindi, ripetere lo sbaglio del passato nel concepire il nuovo che prepariamo come una rottura con il passato. Non è così che la storia progredisce. Non è emarginando né esorcizzando il cristianesimo che si potrà avere una società migliore. Non potrà avvenire. Una lettura come questa non solo è miope, ma è sbagliata nelle sue stesse premesse. Non ci sarà una formazione di identità matura né per i singoli né per i popoli se si prescinde dal cristianesimo. Certo, la nostra storia è costellata di luci e ombre, ma il messaggio che portiamo è di genuina liberazione per l'uomo e di coerente progresso per i popoli. Il fondamento di un corretto rapporto tra la ragione e la fede lo si deve al nostro pensiero che non ha mai voluto umiliare la ragione, ma ne ha fatta una compagna di strada ineliminabile. È difficile in una fenomenologia delle religioni mondiali verificare un altrettanto equilibrato rapporto tra le due componenti come nel cristianesimo.
Per la nostra tradizione la fides quaerens intellectum è condizione per poter raggiungere ogni uomo e ogni donna, in ogni parte del mondo in quella fondamentale uguaglianza che è data appunto dalla razionalità, i cui contenuti sono accolti anche dalla fede pur con il suo processo di purificazione.
È da questo rapporto positivo con la ragione che si evitano i conflitti e si esclude ogni fondamentalismo; espressione di un frammento di verità assolutizzato senza considerare l'apporto degli altri. Per noi non è così. La verità che pensiamo è data per via di rivelazione, ma è entrata nella storia con l'incarnazione del Figlio di Dio e questo la rende inevitabilmente soggetta al progredire e alla dinamica fino alla fine dei tempi. D'altronde, è proprio la concezione del valore salvifico della verità che ha permesso ai cristiani di renderla universale conquista e non un prezzo da mercato. Alla stessa stregua, la concezione del perdono come espressione di amore che sa andare oltre l'offesa, è ciò che ha plasmato intere generazioni di popoli e ha consentito di verificare una fratellanza e una solidarietà più profonda.
Il concetto di matrimonio che il cristianesimo ha portato come unicità di rapporto nella reciprocità dell'amore ha saputo garantire la giustizia contro l'arbitrarietà che umiliava la donna indifesa, e la forza della relazione interpersonale come collante del tessuto sociale. E la ricerca del bene comune, nel rispetto per la dignità di ogni persona, non deriva proprio dal concetto stesso di persona che il cristianesimo ha prodotto come suo contributo al patrimonio dell'umanità a partire dal iv secolo?
Il rispetto per la vita, soprattutto nei confronti di quella innocente, debole e indifesa è un ulteriore segno della presenza del cristianesimo nel tessuto sociale che ha permesso di giungere a intuizioni straordinarie nelle opere di assistenza che permangono immutate come punti fermi per la società.
Non avanziamo nessun diritto di primogenitura su diverse conquiste che sono state compiute nel corso dei secoli e che segnano la storia di questi venti secoli; non desideriamo, però, che altri se ne impossessino giungendo perfino a negare la nostra originalità e il nostro apporto. Se ricordiamo questi fatti, e tanti altri potrebbero allungare l'elenco, è solo per ribadire che il cristianesimo non è di inciampo al progresso della società, ma sua condizione di genuino sviluppo. Come questo debba avvenire ce lo ricorda ancora una volta l'originalità stessa della nostra fede. La laicità, di cui tutti siamo gelosi, non è altro che l'applicazione di quella parola del Signore: "Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio" (Matteo, 22, 21). Laicità, come sempre più spesso in questi anni è dato da verificare, non è esclusione del cristianesimo, ma ascolto di quanto esso può offrire come suo contributo peculiare. Accettarlo o rifiutarlo sarà una scelta che il legislatore dovrà ben valutare; non per una possibile manciata di voti a fine legislatura, ma per il buon governo della cosa pubblica e per la globale formazione culturale delle generazioni a venire. Una legge crea una cultura consequenziale. Proprio questo dovrebbe essere considerato in questo momento storico in cui si possono già vedere le conseguenze create da alcune legislazioni. La società è migliorata? I giovani hanno trovato maggior impegno e responsabilità nella società? Il lavoro è diventato una forma di realizzazione? La famiglia si è rafforzata nell'impianto sociale? La scuola è palestra di vita? L'ammalato è una persona da rispettare e non un peso per il bilancio? La vita nel suo insieme è rispettata? Questi interrogativi non sono retorici, dare risposta è obbligatorio.
La morte ospite fissa in televisione e sui giornali: ecco gli effetti Di Giuliano Guzzo del 28/10/2010, in Attualità, dal sito http://www.libertaepersona.org
Ha fatto molto discutere, qualche settimana fa, lo spot televisivo pro-eutanasia che doveva essere mandato in onda in Australia e che, a causa di un intervento dell’authority locale, è stato, almeno per ora, sospeso. C’è mancato poco, avranno pensato in molti . Purtroppo, al di là della pubblicità eutanasica curata da Exit International e fortunatamente bloccata, gli organi di informazione già da tempo hanno un ruolo pericolosamente attivo nella diffusione di messaggi negativi o addirittura mortiferi.
Basta una rapida occhiata ai notiziari televisivi e alle pagine dei quotidiani, infatti, per imbattersi in un vero e proprio stillicidio di violenze, stupri e suicidi. Come se le buone notizie non esistessero. Il caso più lampante, per stare alla cronaca, riguarda il modo con cui i mass media italiani hanno liquidato il miracoloso salvataggio dei 33 minatori cileni – azzardando talora demenziali paralleli col Grande Fratello – per poi concentrarsi, con morbosità quotidiana e crescente, sul delitto della povera Sarah Scazzi. La popolarità delle notizie di cronaca nera - in particolare di quelle relative ai suicidi - produce conseguenze sociali devastanti. Vediamo perché.
La correlazione tra mass media e il fenomeno suicidario è nota ai sociologi come “effetto Werther”, dall’omonima opera di Goethe che innescò, una volta pubblicata nel 1774, una così forte tendenza al suicidio da indurre i governi di alcuni paesi a proibirne la diffusione. Un effetto, questo, comprovato da numerosi studi. Uno dei più celebri è quello svolto studioso australiano Riaz Hassan il quale, analizzati circa 20 mila casi di suicidio avvenuti tra il 1981 e 1990, scoprì che la media giornaliera di persone che si tolgono la vita sale di circa il 10% nei giorni successivi alla comparsa, sui principali quotidiani, di notizie suicidarie. Analogamente, analizzando le statistiche relative ai suicidi negli Stati Uniti dal 1947 al 1968, è stato rilevato come nei due mesi successivi a un suicidio da prima pagina si siano verificati 58 suicidi in più rispetto alla media.
E’ altresì dimostrato che laddove i mass media, per qualche ragione, latitano, il numero delle persone che si tolgono la vita tende a diminuire. Lo si è potuto accertare a Detroit, quando, nel 1968, uno sciopero bloccò l’uscita dei giornali per 268 giorni, quasi nove mesi; l’eccezionalità dello scenario consentì agli studiosi di effettuare delle verifiche e fu riscontrato un decremento del numero dei suicidi, in particolare fra le donne sotto i 35 anni di età. Ad aggravare o meno l’influenza mortifera degli organi di informazione, poi, contribuisce la modalità col quale la notizia di un suicidio viene data. Gli studiosi Fekete e Schmidtke, ad esempio, hanno spiegato il maggior tasso di suicidio in Ungheria rispetto a quello riscontrato in Germania soffermandosi sulla tendenza, da parte della stampa ungherese, di porre in secondo piano gli aspetti più drammatici e negativi del suicidio.
Al di là di questi rilievi formali, che una più prolungata esposizione ai mass media incentivi, in particolare tra i giovani, la tentazione di farla finita sembra provato anche in Italia: all’evoluzione incessante e alla diffusione dei media è difatti corrisposta, negli ultimi 20 anni, una crescita del 13% del tasso dei suicidi. Ma il problema non è affatto peculiarità italiana, anzi: in Europa i decessi annuali per suicidio – oltre 58.000 - sono più numerosi alla somma di quelli dovuti a incidenti stradali (50.700) e omicidi (5350). Numeri a dir poco agghiaccianti, che dovrebbero far riflettere su quanto devastante sia già oggi – anche senza spot pubblicitari pro-eutanasia - un certo modo di fare informazione. E che dovrebbero altresì responsabilizzare maggiormente i giornalisti affinché si ricordino che il loro é un compito di importanza vitale. Nel vero senso della parola.
29 ottobre 2010 – La razzia del ghetto di Roma e il ruolo di Zolli http://blog.ilgiornale.it dal blog di Andrea Tornielli
Cari amici, domenica e lunedì prossimi su RaiUno andrà in onda la fiction “Sotto il cielo di Roma” dedicata ai terribili mesi dell’occupazione tedesca di Roma – dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 – e all’orribile razzia del ghetto ebraico. L’Osservatore Romano di oggi pubblica ampi stralci di una relazione tenuta dalla storica Anna Foa e dedicata alla figura di Israel Eugenio Zolli, il rabbino capo di Roma, che cercò invano di convincere i responsabili della comunità del pericolo rappresentato dall’arrivo dei nazisti nella capitale. Zolli voleva che tutti gli ebrei si dessero alla macchia, lasciassero le loro abitazioni, risultassero irreperibili. I dirigenti della comunità non gli credettero. E i fatto che dopo l’arrivo degli Alleati Zolli – al termine di un lungo e sofferto percorso personale – decidesse di chiedere il battesimo, l’ha trasformato in una figura molto ingombrante, da rimuovere, considerandolo un traditore. L’autobiografia di Zolli (“Prima dell’alba”), uscita a New York nei primi anni Cinquanta, per mezzo secolo non si è potuta tradurre e pubblicare in Italia. La relazione di Anna Foa è dunque coraggiosa e destinata a far discutere su quella tragica e vergognosa pagina della nostra storia. Dopo il 16 ottobre moltissimi ebrei (4.500) trovarono rifugio presso 290 istituti religiosi e conventi romani.
Il rabbino di Roma Israel Zolli e l’occupazione nazista - Inascoltato e dimenticato come Cassandra - Stralci di una delle relazioni tenute nel pomeriggio del 28 ottobre all’Accademia Galileiana di Scienze, Lettere e Arti di Padova nell’ambito del convegno «Politiche di sopravvivenza alle persecuzioni. I responsabili delle comunità ebraiche di fronte allo sterminio nazista». di Anna Foa
La Comunità ebraica romana arriva, come è noto, all’8 settembre 1943 e alla persecuzione nazifascista avendo nel ruolo di rabbino maggiore un galiziano, vissuto molti decenni a Trieste e reso apolide dalle leggi del 1938, Israel Zolli. Un grande studioso, allievo di Chaies al Collegio rabbinico di Firenze, di cui la storia controversa del periodo di cui stiamo parlando — con il suo passaggio alla clandestinità e poi la conversione al cattolicesimo nel dopoguerra — ha offuscato lo spessore culturale e religioso, lasciando dietro di sé una ferita non ancora sanata nella comunità romana che, quando ancora le ferite dell’occupazione non avevano nemmeno cominciato a cicatrizzarsi, ha visto il suo rabbino prendere il battesimo. In conflitto con Zolli troviamo, oltre a una notevole parte della comunità, che lo considerava estraneo alla sua mentalità e alla sua storia, soprattutto i dirigenti tanto della comunità romana che dell’Unione, Ugo Foà e Dante Almansi.
Il conflitto ha radici che risalgono già al periodo iniziale del rabbinato romano di Zolli, ma si acuisce dopo l’armistizio, quando Zolli propone di cessare le funzioni religiose, di distruggere le liste dei contribuenti e degli iscritti alla comunità, di stanziare fondi per i più poveri e di invitare tutti gli ebrei a lasciare le proprie abitazioni e a nascondersi.
Com’è noto, i dirigenti comunitari si oppongono con decisione a quello che vedono come un allarmismo eccessivo, frutto di paure personali, che rischiava di peggiorare i rapporti con l’esterno, cioè con le autorità fasciste e naziste. Essi continuano a confidare, fino alla mattina del 16 ottobre, nella rete di amicizie e relazioni consolidate con il regime negli anni precedenti e mai davvero rimesse in discussione nemmeno dalle leggi del 1938, senza rendersi conto della frattura qualitativa introdotta dall’occupazione della città a opera dei nazisti. Una scelta opposta a quella fatta dalla comunità di Ancona e da quella di Pisa, dove il presidente Pardo Roques aveva convinto il rabbino Hasdà a non officiare in occasione del Capodanno ebraico.
Quanto agli elenchi famosi dei contribuenti (o degli iscritti), sequestrati a Roma dai nazisti nel corso dei saccheggi degli uffici e delle biblioteche, c’è stata una forte e lunga polemica sul ruolo effettivo giocato nella razzia. Gabriele Rigano sta compiendo una mappatura degli indirizzi a cui i nazisti si recarono, non solo quelli dove arrestarono ebrei, ma anche quelli in cui non trovarono nessuno, per avere un’idea del loro effettivo uso (certamente furono incrociati con quelli della questura). Comunque, il solo fatto che fossero stati sequestrati, insieme alla notizia filtrata dalla questura che i nazisti erano in possesso degli elenchi della questura, spinge molti ebrei a scegliere di nascondersi. Fra essi, la moglie di Arminio Wachsberger, Regina Polacco, che vede di persona le schede in mano ai nazisti. Non si nasconderanno perché temono per la salute della figlia di cinque anni. Ma già il 16 settembre, cioè dieci giorni prima del sequestro romano, il presidente della comunità di Venezia, Giuseppe Jona, si era suicidato per timore che i nazisti lo costringessero a rivelare dove aveva nascosto gli elenchi comunitari.
Che Zolli vedesse con terrore l’arrivo delle truppe tedesche, è messo chiaramente in luce dalla documentazione. Bisogna però dire che il rabbino aveva già conoscenza, a quella data, della sorte riservata in Polonia agli ebrei, e in particolare della morte di due dei suoi fratelli, uno ad Auschwitz e uno nel ghetto di Lwov. Inoltre, la sua qualifica di apolide lo rendeva particolarmente esposto all’arresto e alla deportazione.
Ancora, egli aveva motivo di ritenere di essere nella lista nera nazista a causa delle sue prese di posizione antinaziste a Trieste. Con l’entrata in guerra dell’Italia, nel 1940, ricordiamolo, gli ebrei stranieri, molti dei quali ebrei italiani che avevano perduto la cittadinanza acquistata dopo il 1919, erano stati rinchiusi nei campi di internamento creatisi numerosissimi nel Sud e in Abruzzo, o nel migliore dei casi erano stati inviati al confino. Il rabbino David Wachsberger, ad esempio, era detenuto a Campagna, vicino a Salerno. Se Zolli è sfuggito a tale sorte grazie all’incarico assunto nel 1939 a Roma, resta comunque il primo a essere esposto all’arresto, come non manca di dichiarare più volte, e come sottolinea anche nell’ultima funzione che tiene prima di nascondersi con la famiglia. Scrive Michael Tagliacozzo: «Il 17 settembre al termine del servizio liturgico serale per l’entrata del sabato, tenne una breve allocuzione nell’Oratorio di rito spagnolo (…) Sapeva che in ogni comunità ebraica caduta sotto il giogo tedesco, il rabbino era sempre stato la prima vittima della persecuzione. Esternò il rammarico di essere costretto ad allontanarsi e benedì i fedeli raccomandandosi alle loro preghiere». Infatti, la sua casa è la prima a essere perquisita, già intorno alla fine di settembre. I nazisti sfondarono la porta perché il rabbino aveva già trovato rifugio altrove.
Del resto, in occasione dell’episodio dei cinquanta chili d’oro, non soltanto Zolli si reca, all’insaputa dell’analoga delegazione comunitaria, a chiedere al Papa aiuto nella raccolta, ma chiede anche ad Almansi, in una lettera che dopo la Liberazione questi negherà di aver ricevuto, di essere messo al primo posto tra gli ostaggi eventualmente richiesti dai nazisti. Evidentemente, più che la paura in sé, agisce nel suo comportamento in occasione della fuga il dispetto per avere il ruolo di una Cassandra inascoltata, per il rifiuto opposto alle sue ragionevoli richieste, che lo spingono a non condividere una sorte che profetizzava invano da tempo, ma a scegliere invece la fuga per sé e per i suoi cari.
Una fuga, che stranamente viene creduto nel dopoguerra essere stata in Vaticano: una sorta di leggenda diffamatoria priva di riscontro nella realtà — poiché Zolli si nascose prima nella casa vuota della famiglia Anav poi in una famiglia di antifascisti non ebrei, i Pierantoni, poi dai Falconieri, amici della figlia — ma che è stata ripetuta fino a tempi recentissimi nonostante le ricerche storiche ne abbiano provato l’infondatezza. Una fuga inoltre che dopo la guerra renderà ancora più aspro il conflitto con la comunità, che tenterà di deporlo sotto l’accusa di avere abbandonato il suo gregge nel pericolo. L’idea che gli ebrei romani fossero sotto la protezione del Papa e che quindi i nazisti non avrebbero potuto toccarli è un’altra illusione dura a morire. Wachsberger racconta che anche nella deportazione, quando si trovava con altri prigionieri a spalare le rovine del ghetto di Varsavia, la vista in lontananza di una veste talare suscitava negli italiani la speranza che si trattasse di un messo del Vaticano che si calava nell’inferno per liberarli. Per quanto mi riguarda, trovo storicamente convincente il quadro dell’assistenza agli ebrei di Roma tracciato da Andrea Riccardi nel suo libro L’inverno più lungo. Un’assistenza che non poteva non essere concordata con il Papa. Del resto, che gli ebrei romani si siano rivolti direttamente ai conventi nell’ora del pericolo immediato, la prima richiesta accolta precede il 16 ottobre, poi le porte si spalancano, è provato da mille testimonianze. Non toccherò il problema dibattuto e tuttora aperto di Pio XII perché esula da questo quadro. Quello che è interessante è che la percezione degli ebrei romani fosse quella di un cordone ombelicale non reciso con la Chiesa.
Non è certo il caso, qui, di riprendere le polemiche che, trentacinque anni fa, hanno accompagnato l’uscita del libro di Robert Katz, il giornalista e storico scomparso nei giorni scorsi, Sabato Nero, e che hanno coinvolto, in giudizi anche molto severi sulla dirigenza comunitaria, storici del livello di Michael Tagliacozzo, oltre a tutto diretto testimone della vicenda. È ora, credo, il tempo di ricostruire e distinguere, insomma fare storia. Ma ho la sensazione che questa vicenda, sostanzialmente la consegna di mille ebrei romani alla morte da parte della dirigenza comunitaria e dell’Unione, sia ancora un nodo irrisolto della memoria della comunità di Roma, tale da continuare a suscitare intorno a sé rimozioni, accuse, proiezioni, e da erigere a tutt’oggi una invalicabile barriera difensiva.
TAREQ AZIZ/ Mario Mauro: dietro la pena di morte un nuovo regime “alla Saddam” Mario Mauro - venerdì 29 ottobre 2010 – il sussidiario.net
Desta non poca preoccupazione la sentenza dell’Alta Corte Penale di Baghdad, che martedì scorso ha condannato all’impiccagione Tareq Aziz, dal 1983 al 1991 Ministro degli Esteri e dal 1979 al 2003 Vice-primo Ministro dell'Iraq nonché consigliere personale di Saddam Hussein. Tutto il mondo ha sempre riconosciuto a Tareq Aziz di essere stato l’unico punto d’incontro e l’unico effettivo interlocutore moderato di cui poteva disporre il mondo occidentale nel tentativo di rapportarsi al sanguinario regime di Saddam Hussein.
Nonostante l’unico dato certo sia il fatto che Aziz non abbia mai preso parte ad alcuna decisione del regime che comportasse l’uccisione di qualcuno, credo non serva a nulla addentrarsi nel merito della condanna e affrontare le motivazioni addotte dalla Corte. E’ utile cercare di capire perché condannare a morte Tareq Aziz costituisce un fatto immensamente sbagliato, per il quale occorre una forte presa di coscienza da parte del Governo di Baghdad.
Paradossalmente, se la sentenza dovesse essere eseguita, l’esecutivo iracheno sarà l’unico attore politico che ne subirà davvero le conseguenze. Se l’impiccagione di Saddam Hussein, avvenuta il 30 dicembre 2006, aveva tutt’altro che giovato alla credibilità del giovane Governo post-regime, la condanna a morte di Aziz rischia di rendere ancora più evidente come, l’uso della violenza nei confronti di gerarchi del passato, nasconda in realtà una profonda debolezza istituzionale. La pena di morte è insomma un boomerang.
Auspico quindi che il Governo iracheno impedisca l'esecuzione della sentenza dell'Alta Corte Penale di Baghdad, affinché non si imbocchi un vicolo cieco che garantirà all'Iraq tutto tranne che pace e democrazia. La comunità internazionale si schieri compatta al fianco dell'Unione europea in questa battaglia di civiltà, per il bene del popolo iracheno e per non perdere la speranza di una stabilità politica e istituzionale.
La speranza di una sospensione, o comunque di una mancata esecuzione della sentenza, è ragionevolmente viva, sempre che chi detiene il potere oggi in Iraq non faccia finta di non sentire la voce dei paesi che facevano parte della coalizione che ha condotto il paese fuori da decenni di terrore. E’ proprio in memoria di quei decenni di terrore che non deve prevalere la logica perversa per cui il potere è il fine di tutto in uno stato onnipotente e illiberale.
Se l’Iraq ha davvero voglia di voltare pagina non può prescindere da questa considerazione, e non può ignorare gli appelli di amici come l’Unione europea, che non accetta la pena di morte come metodo supremo di soluzione di problemi che, in questo caso, hanno un evidente sapore politico che sovrasta la ricerca di una vera giustizia.
MEETING CAIRO/ Quel dialogo che trasforma i 30 in 200 Redazione - venerdì 29 ottobre 2010 – il sussidiario.net
Sono partiti in 30 e nel giro di poche ore si sono ritrovati in 200. Sono i volontari del Meeting del Cairo, dal titolo «La bellezza, lo spazio del dialogo», la cui giornata più importante è prevista per oggi, venerdì 29 ottobre. E, a sorpresa, la maggioranza dei volontari sono musulmani. Inizialmente sono stati 30 i ragazzi che hanno deciso di impegnarsi in prima linea per organizzare l’evento. Ma alla fine l’entusiasmo di quel piccolo gruppetto è riuscito a coinvolgere un numero sempre più ampio di coetanei, composto da ragazze col chador ma anche da giovani copti (il nome dei cristiani egiziani), e da qualche adulto.
Curioso il modo con cui Sarah, una ragazza che insegna in una scuola intensiva per i bambini dell’età dell’obbligo, ha deciso di prendere alcuni giorni di ferie per dedicarsi al Meeting. Sarah, che non ha mai incontrato in precedenza la realtà di Cl, racconta: «Una delle mie più care amiche è una ragazza italiana che ha studiato al Cairo. Un giorno mi ha proposto di visitare insieme il Museo egizio, che si trova nella mia città, e solo allora mi sono resa conto che, in tanti anni che vivo qui, non c’ero mai stata una volta. E’ un fatto banale, ma che mi ha colpito particolarmente: vuole dire che, per scoprire di più me stessa, ho bisogno del rapporto con un’altra persona, che magari può venire anche da molto lontano».
Dopo questa intuizione, Sarah ha deciso di impegnarsi in varie associazioni di volontariato. E il fatto di avere studiato nell’Università americana del Cairo, il cui docente, Wael Farouq, è anche vicepresidente del Meeting egiziano, ha fatto sì che venisse a conoscenza dell’iniziativa che si tiene in questi giorni. «Viste le mie precedenti esperienze, ho subito detto di sì – rivela Sarah -, e spero che questi giorni siano un’occasione per ampliare i miei confini».
Mary invece fa parte della piccola ma vivace comunità di Cl del Cairo (meno numerosa di quella che si trova ad Alessandria d’Egitto): «Ho deciso di collaborare al Meeting del Cairo perché un evento come questo è una speranza per tutto il mio Paese, che ultimamente sta vivendo un momento non facile – osserva la ragazza -. Il fatto che anche le istituzioni del nostro Paese, come alcuni ministri e magistrati, abbiamo deciso di impegnarsi in prima persona per il Meeting, mi ha convinto ancora di più del valore che un gesto come questo può avere per tutte le persone, cristiane e musulmane».
Come aggiunge la giovane copta, «dopo avere studiato alla facoltà di Ingegneria della Modern Academy del Cairo, attualmente lavoro in una società nel settore dell’Information technology, attiva nella telefonia mobile». E quella del Meeting si sta rivelando un’avventura entusiasmante, ma impegnativa: «Non dormo praticamente da venerdì scorso – ammette -, perché di giorno lavoro e dedico al Meeting il resto del mio tempo».
Hariri, signore di mezza età, è invece consulente della filiale egiziana di un’assicurazione tedesca. «Ad avermi coinvolto è stato mio cugino, Said, uno dei capi dei volontari del Meeting del Cairo. Oltre che un evento per la città, la preparazione degli incontri e delle mostre è stato un momento importante anche per il mio quartiere. Vedendoci così indaffarati, prima i nostri familiari e parenti, e poi tutti i vicini si sono coinvolti per dare una mano».
Ma il Meeting del Cairo in Egitto sta suscitando l’interesse anche nella gente comune, che ne sente parlare per la prima volta in vita sua. Come Alì, un imprenditore egiziano attivo nel campo delle costruzioni, che lavora in Italia ma ha la famiglia nel suo Paese d’origine, ed è di religione musulmana. «E’ bello cooperare tra persone di religioni diverse - spiega incuriosito dall’iniziativa -.
Trovo molto affascinante il logo scelto per l’iniziativa, il nome arabo del Cairo inscritto dentro la colomba del Meeting di Rimini. E personalmente trovo giusto che non si pongano limiti alla libertà d’incontrarsi. Così come ritengo che non si dovrebbero porre delle restrizioni ai matrimoni tra persone di religione cristiana e musulmana, anche se nel mio Paese sono in molti a non pensarla così».
(Pietro Vernizzi)
Cultura - LETTURE/ "Che bello che non siamo eterni": la via dello stupore di Claudio Damiani Laura Cioni - venerdì 29 ottobre 2010
Claudio Damiani è tra i poeti italiani di oggi quello che sembra il più leggibile, ma come per tanti altri che l’hanno preceduto nella storia delle nostre lettere, la sua è una facilità difficile. Nato nel 1957 a San Giovanni Rotondo, vive a Roma dall’infanzia, si è laureato in Lettere, insegna in una scuola media superiore e collabora a vari periodici, tra i quali Repubblica.
Una lirica tratta dalla raccolta La mia casa, pubblicata nel 1994 parla di una strada ben conosciuta e familiare, che diventa metafora della vita:
Camminare sulla tua via,
o sei tu, sentiero, che cammini dentro di me,
o sei tu la creatura
e io un cammino, una via.
Perché tu, come sei intero,
come sei fatto bene, e formato
in tutte le tue parti.
E quando ti incontro, mi sembri vivo
ché ti fai incontro a me, felice,
o quando ti batte la pioggia, e stai immoto
come le mucche, senza cercare un riparo,
e già chiacchiera l'acqua
e diventi un ruscello.
I versi di Damiani comunicano una positività inconsueta, certo non dettata da un istintivo ottimismo. E’ quanto emerge da un’altra composizione della raccolta, in cui il tempo non è visto come nemico, ma come legame tra gli uomini, le cose e il loro destino:
Che bello che questo tempo
è come tutti gli altri tempi,
che io scrivo poesie
come sempre sono state scritte,
che questa gatta davanti a me si sta lavando
e scorre il suo tempo,
nonostante sia sola, quasi sempre sola nella casa,
pure fa tutte le cose e non dimentica niente
- ora si è sdraiata ad esempio e si guarda intorno -
e scorre il suo tempo.
Che bello che questo tempo, come ogni tempo, finirà,
che bello che non siamo eterni,
che non siamo diversi
da nessun altro che è vissuto e che è morto,
che è entrato nella morte calmo
come su un sentiero che prima sembrava difficile, erto
e poi, invece, era piano.
Tra le numerose raccolte poetiche, Sognando Li Po, pubblicata da Marietti nel 2008, dà voce all’ ammirazione di Damiani per l’età d’oro della poesia cinese, fiorita tra il settimo e il decimo secolo dopo Cristo. La sua ricerca intreccia le suggestioni provenienti da quella antica civiltà con quelle trasmesse dagli elegiaci latini all’immaginario occidentale:
Lungo la strada le bacche autunnali
sono rimaste attaccate ai rami,
anche il mio corpo rimarrà attaccato alla terra,
non se ne vorrà andare.
Ascolto il canto degli uccelli,
sono con loro tra i rami,
la musica delle loro voci
è come un vino dolce.
Alzo il calice, brindo alla luna,
la guardo e il suo viso bianco m’acceca.
Lì c’è una casa, in quella distesa di neve,
distinguo il muro di calce bruciante.
Dal tetto esce un fumo a spirale,
dentro, nella sala, è apparecchiata la tavola,
il vino brilla nei bicchieri,
sul tavolo la minestra è ancora calda.
Damiani si sente erede di poeti novecenteschi come Saba, Penna e Caproni. Essi, come anche Ungaretti e Sbarbaro, hanno percorso la via della poesia come stupore piuttosto che camminare nel sentiero dominante che ha fatto dell’attività poetica l’indicazione dell’impotenza, dello smacco e del fallimento.
Per lui, come per Pascoli, la poesia allontana le cose vicine, per metterle a fuoco, per toglierle da quella eccessiva prossimità che le nasconde e avvicina le cose lontane, mettendole alla giusta distanza per poterle vedere. C’è però una differenza tra l’uomo comune, che tace quando si stupisce, e il poeta, che rende lo stupore lingua sua sì, ma più ancora lingua delle cose, lingua dell’essere. La poesia vede e raccoglie, conserva, ricorda, si contrappone all’ideologia cieca e in questa lotta incessante sembra soccombere, ma in realtà rimane.
Del resto di stupore sono pieni gli inizi della storia letteraria italiana, a cominciare dalla lauda e da san Francesco, dagli Stilnovisti e da Dante. Ma è soprattutto Petrarca ad aver reso l’espressione musicale e chiara, ricca di naturalezza e di essenzialità. La gratitudine per le cose percorre l’intera produzione italiana, riaffiorando sempre su momenti di offuscamento in cui la retorica sembra prevalere. Da questo punto di vista è significativo che l’interesse di Damiani si sia rivolto anche all’Ars Poetica di Orazio, il poeta latino che ha cantato la bellezza della semplicità e ha definito i canoni dell’estetica occidentale.
Scienze - BENEDETTO XVI/ Gli scienziati non creano il mondo ma imparano dalla realtà Mario Gargantini - venerdì 29 ottobre 2010 – il sussidiario.net
Il Papa è tornato a parlare di scienza. Lo ha fatto nella sede più prestigiosa: quella Pontificia Accademia delle Scienze, che ha le sue radici nella Accademia dei Lincei - che quattro secoli fa aveva arruolato Galileo – e che Pio XI ha rifondato nel 1936 invitando a farne parte il fior fiore degli scienziati, con una prevalenza di premi Nobel. La annuale Sessione Plenaria appena conclusa, quest’anno ha affrontato il tema: “L’eredità scientifica del XX secolo” e tra i partecipanti c’erano alcuni dei protagonisti diretti di quell’eredità.
Un tema oggetto di valutazioni ambivalenti: molti, in forza degli indubbi avanzamenti in tutti i campi, continuano a considerare la scienza come risposta alle principali esigenze e aspettative dell’uomo; altri ricordano le applicazioni negative, in primis le armi nucleari, e mettono gli scienziati sul banco degli imputati. Ma la scienza – ha detto il Pontefice – «non è definita da nessuno di questi due estremi».
L’intervento di Benedetto XVI non era tanto indirizzato ad archiviare un bilancio del secolo passato quanto preoccupato di proporre linee di riflessione e di approfondimento. Avendo ben presente il quadro di una scienza che si trova ancora davanti ai due possibili estremismi. Per il XXI secolo si preannunciano infatti scoperte, nel microcosmo e nel macrocosmo, che potrebbero modificare radicalmente la nostra visione della natura.
Si profila la possibilità di elaborare nuovi approcci per la descrizione dei fenomeni, sia del presente che del lontano passato; e stanno per cambiare molti modelli con i quali spieghiamo i comportamenti naturali presenti e futuri, cercando di fare previsioni. Le quali previsioni tuttavia, proprio nei casi in cui servirebbero di più (sicurezza ambientale, clima, catastrofi) si dimostrano sempre più deboli e incapaci di fornire le certezze che ci aspettiamo.
Per evitare questa divaricazione, il Papa ribadisce la natura della conoscenza scientifica e ne indica con nettezza il compito: che era e rimane «una paziente e appassionata ricerca della verità sul cosmo, sulla natura e sulla costituzione dell’essere umano».
I due aggettivi che accompagnano il termine ricerca - paziente e appassionata – sembrano venire incontro a un esigenza che sta emergendo dal mondo della ricerca: è la sottolineatura dell’atteggiamento personale col quale affrontare il lavoro scientifico; per renderlo un’esperienza umanamente significativa e rispettosa della realtà e per evitare la schizofrenia che porta all’esaltazione presuntuosa quando arriva qualche risultato o alla delusione rinunciataria quando la natura sembra non voler svelare i suoi segreti.
Sono due aggettivi in effetti poco utilizzati nel dibattito pubblico. Il primo per la pressione di un certo modo prevalente di fare scienza, giocato tutto sulla competitività, sulla corsa alla pubblicazione, sulla misurazione dell’Impact Factor (l’indicatore del numero medio di citazioni ricevute sulle riviste scientifiche).
Il secondo non solo poco usato ma anzi osteggiato: come se la passione per la verità potesse impedire il raggiungimento di risultati “obbiettivi”. Viceversa, i più grandi scienziati di tutti i tempi confermano quanto la passione, lungi dall’essere alternativa al rigore metodologico, è piuttosto un fattore che incrementa la capacità di indagine e incanala più facilmente tutta la tensione della ricerca verso quei frammenti di verità che lo scienziato desidera scoprire. Insomma, uno scienziato appassionato vede di più, intuisce di più, scopre di più.
Sulla stessa linea di pensiero si colloca un’altra preziosa osservazione circa il beneficio che l’attività scientifica può ricavare «dal riconoscimento della dimensione spirituale dell’uomo e dalla sua ricerca delle domande ultime che consentono il riconoscimento di un mondo che esiste indipendentemente da noi e che non possiamo comprendere pienamente, che possiamo comprendere solo nella misura in cui comprendiamo la sua inerente logica».
Ritorna quindi il tema dell’allargamento della ragione e di un’apertura necessaria alla scienza stessa per essere più se stessa e per superare l’iper specialismo che, illudendoci di raggiungere il massimo di conoscenze in un settore, porta a una frammentazione incapace di poggiare su una base unitaria e di arrivare a una visione sintetica, alla quale nessun uomo può rinunciare a cuor leggero.
In tutto questo risulta fondamentale l’idea di creazione, oggetto tra l’altro di un acceso dibattito nei mesi scorsi innescato dall’ultimo libro di Stephen Hawking (che peraltro, è uno degli accademici pontifici, cooptato per i suoi meriti scientifici, forse un po’ meno per le sue elucubrazioni para-filosofiche).
Parlare di creazione significa parlare della condizione stessa per poter fare scoperte: se la natura non fosse frutto di una incessante e razionale opera creatrice ma fosse il meccanico susseguirsi di eventi necessari o totalmente casuali, non sarebbe possibile scoprire il nuovo e tradurlo in leggi; e vana sarebbe ogni impresa scientifica. «Gli scienziati non creano il mondo; essi imparano qualcosa sul mondo e tentano di imitarlo, seguendo le leggi e l’intelligibilità che la natura ci manifesta».
ABORTO: il peccato originale del Movimento per la Vita - Articoli CR - Giovedì 28 Ottobre 2010 - CR n.1164 del 30/10/2010 - Pubblichiamo qui di seguito il fondo apparso sull’ultimo numero della rivista “Famiglia Domani Flash” (n. 3, 2010).
Il peccato di origine del Movimento per la Vita risale al 1981, quando l’associazione di Carlo Casini promosse un’iniziativa referendaria diretta a causare, mediante parziali abrogazioni, una nuova legge 194 che avrebbe previsto, tra l’altro, la legalizzazione dell’aborto largamente terapeutico per tutti i nove mesi della gravidanza e la distribuzione gratuita da parte dei consultori di contraccettivi, tra i quali abortivi precoci alle minorenni.
Occorre ricordare che, dopo l’entrata in vigore il 22 maggio 1978 della famigerata legge abortista 194, con il gennaio del 1980 si riaprì la possibilità giuridica di presentare la richiesta di referendum per abrogarne le norme omicide (Cfr. “Corrispondenza Romana”, 2 febbraio 1980).
Fin d’allora, come alternativa alla concreta e doverosa promozione di tale referendum, furono suggerite al mondo cattolico ipotesi diversive: differire il referendum con pretesti sempre nuovi; sperare in qualche sentenza “salvatrice” della Corte costituzionale; illudersi in un “superamento” della iniqua legge ad opera del Parlamento; infine, ipotizzare un referendum abrogativo minimale per modificare la 194 lasciando però sopravvivere l’omicidio-aborto terapeutico, considerato come un “male minore”. Contro queste false soluzioni, si svolse a Roma, all’Augustinianum, dal 25 al 27 aprile 1980, un congresso europeo per la vita, promosso da Alleanza per la Vita e da Alleanza Cattolica, che ribadì i principi dell’ordine naturale e cristiano per la difesa del diritto alla vita e dei diritti della famiglia (Cfr. “Cristianità”, n. 61, maggio 1980, pp. 1-8).
Il Movimento per la Vita, con l’appoggio del quotidiano cattolico “Avvenire”, propose una duplice iniziativa referendaria presentata come «strategia globale per la vita» (“Avvenire”, 6 luglio 1980), che prevedeva una iniziativa di referendum “massimale”, già determinata come verosimilmente perdente, e una soluzione abortista “minimale”. La prima ammetteva la somministrazione di contraccettivi da parte dello Stato, per limitare l’aborto; la seconda conteneva larghe concessioni alle disposizioni abortiste della legge 194, tra cui:
- la conferma della legalizzazione dell’aborto terapeutico per tutti i nove mesi della gravidanza;
- la conferma del finanziamento pubblico per l’esecuzione legale degli aborti;
- la conferma dell’obbligo per gli enti ospedalieri di eseguire in ogni caso gli aborti richiesti;
- la distribuzione gratuita, da parte dei consultori, di contraccettivi tra i quali abortivi precoci alle minorenni.
Ai cattolici si chiedeva la firma per le due richieste, lasciando intendere che si sarebbe comunque votato contro l’aborto. In realtà, il referendum massimale serviva da specchietto per le allodole per ottenere le firme dei cattolici al referendum minimale. Era già previsto che il referendum massimale si arenasse e rimanesse lettera morta. La legge abortista minimale sarebbe stata direttamente introdotta dal voto referendario attraverso l’abolizione parziale di parole, incisi, commi, della 194. Il fine oggettivo del voto, considerato nel suo valore morale, sarebbe stato l’introduzione di una normativa abortista, posta in essere mediante le diverse abrogazioni. Ciò contraddiceva frontalmente la morale cattolica che afferma che non è lecito fare un male minore per impedirne uno maggiore. Il male minore si può tollerare, ma non promuovere direttamente, come proponeva l’iniziativa referendaria del Movimento per la Vita.
Con le due nuove leggi che sarebbero state causate da un vittorioso voto referendario, il male sarebbe stato non già tollerato, ma positivamente causato, legalizzato, organizzato, finanziato, come osservava il filosofo e moralista salesiano don Dario Composta, decano della Facoltà filosofica della Pontificia Università Urbaniana.
Sul piano giuridico, l’infondatezza della soluzione “minimale” del Movimento per la Vita era dimostrata, tra gli altri, dai magistrati Carlo Alberto e Francesco Mario Agnoli, e dal prof. Mauro Ronco dell’Università di Torino.
Le ragioni dell’intervento referendario del Movimento per la Vita nascevano dall’esigenza di evitare la crescita e la maturazione autonoma di un movimento radicalmente anti-abortista, sgradito sia alla Democrazia Cristiana che alla Conferenza episcopale di quegli anni.
Il referendum, svoltosi il 17 maggio 1981 – e nel quale i cattolici coerenti non poterono che astenersi – fu una disfatta per il Movimento per la Vita. Esso segnò anche l’inizio di un modus procedendi cedevole e compromissorio che avrebbe pesato per un trentennio sul mondo pro-life italiano differenziandolo profondamente da quanto accadeva in altri Paesi di Europa e di America dove si costituivano movimenti per la vita rigorosi e combattivi. Forse è giunta l’ora di una radicale inversione di rotta.
ISLAM: moschea a Firenze? Meglio invertire l’ordine - Articoli CR - Giovedì 28 Ottobre 2010 - CR n.1164 del 30/10/2010 - Riportiamo la lettera che Padre Serafino Lanzetta dei Frati Francescani dell’Immacolata, parroco della Chiesa di Ognissanti, ha scritto al “Corriere Fiorentino” del 22 ottobre 2010 sul progetto di costruire una moschea a Firenze sul quale si è dichiarato apertamente favorevole il prof. Franco Cardini (cfr. “Toscanaoggi on-line”, 23 settembre 2010).
Caro direttore,
cresce la campagna di sensibilizzazione al progetto-moschea a Firenze. Un progetto, a dire il vero, alquanto anomalo: prima si è presentato il disegno e poi, soltanto dopo, se ne verifica l’eseguibilità. Non c’è il rischio che questa inversione si ripresenti proprio mentre ferve l’impegno a suscitare adesioni e clamori, coinvolgendo la società fiorentina in nome di un principio a noi sacrosanto, che è la tolleranza religiosa? Mi spiego. Un dato che accomuna normalmente i consensi è il rispetto verso le altre religioni e il diritto che i musulmani hanno di pregare in un luogo di culto adatto. Il sì alla moschea sarebbe l’elemento discriminante, per verificare una reale tolleranza o, quando negato, un camuffato integralismo xenofobo.
Quello che però non funziona – l’inversione –, è che la moschea è fattore di tolleranza e non piuttosto la tolleranza via alla possibilità di una moschea. In una cultura come quella islamica, che non distingue chiaramente tra politica e religione, tra ragione e fede, la cosa sarebbe giustificabile, ma per l’Occidente, che si edifica sui principi della legge morale naturale, condivisibili dall’uomo in quanto tale, ciò raffigura un serio problema e pone una domanda a cui non si può rinunciare: bisogna partire dalla fede o dalla ragione? Dalla ragione, che, condivisibile da tutti, in una società civile, muova poi al dialogo interreligioso, sereno e rispettoso nei riguardi delle diversità. Se si dice di no alla moschea, non è in pericolo la libertà, ma si desidera far chiarezza sui principi imprescindibili o “non negoziabili”, per fondare il dialogo nella verità e non nei sentimenti (che in questa materia nascono facilmente anche in chi non crede in Dio).
Bisogna chiedersi cos’è la tolleranza religiosa, che va di pari passo con la libertà religiosa e questa, in ultima analisi, è radicata nella libertà di coscienza. Tolleranza non può significare immediatamente, come conseguenza logica, apertura incondizionata ad una moschea, edificio che per sé stimola un discorso religioso unito ad uno politico-sociale-culturale. Deve significare, invece, dapprima rispetto della libertà religiosa, che è un diritto naturale e non un principio positivo di reciprocità, radicato in ultima analisi nella libertà di coscienza: ogni uomo ha diritto a scegliere e a professare in modo autonomo la religione riconosciuta come vera. Quando questa libertà è riconosciuta dai soggetti in dialogo, allora e solo allora si può passare anche al dato propriamente religioso, la possibilità di un edificio sacro.
Altrimenti, si corre sempre il rischio che l’edificio religioso, nel nostro caso la moschea, rappresenti un’imposizione religioso-culturale, più che una condivisione di pari diritti e doveri naturali, che preserva dal sincretismo e da ogni fondamentalismo religioso. Nel dialogo con l’Islam, pertanto, non si può partire dalla moschea per poi “mettersi d’accordo” su questioni rilevanti per noi di casa ma non per i richiedenti un dovere del Comune (lo spazio edificabile) e un diritto alla società fiorentina (la libertà).
C’è il rischio di non dialogare mai realmente, o di dialogare solo con alcuni. Non basta neppure giustificare questo accordo frettoloso in nome di un dato di fede comune: crediamo nello stesso Dio. Non crediamo nello stesso Dio. Anche qui è opportuno distinguere. Gesù Cristo non è il profeta di Dio; anche, ma anzitutto il Logos, il Figlio uguale al Padre, che ci dona lo Spirito Santo. Solo a livello naturale possiamo convenire dicendo che crediamo nello stesso Creatore del cielo e della terra, ma il Dio rivelatosi è diverso. Il Corano postula un Dio che in ragione della sua onnipotenza è slegato dal concetto analogico di bontà. E così è sempre più spinto al di là. Dispiace, perché l’analogia dell’ambito creazionale non viene più mantenuta nell’ambito della salvezza, sì da porre una frattura tra il Dio creatore di tutti gli uomini e il Dio che ha fondato l’Islam. E gli altri? Partiamo allora dalla ragione: così illumineremo la fede e la società.
SCIENZA: si dimette il Prof. Harold Lewis dall’American Physical Society (APS) - Articoli CR - Giovedì 28 Ottobre 2010 - CR n.1164 del 30/10/2010
Il Prof. H. Lewis, professore emerito all’università di fisica di Santa Barbara, in California, ha presentato le sue dimissioni al presidente dell’APS tramite una lettera molto forte, di cui riportiamo ampi stralci, nella quale non risparmia critiche contro quella che lui chiama «la più grande truffa psdeudoscientifica mai vista», ovvero la teoria del riscaldamento globale, il Global Warming.
«Caro Curt, quando sono entrato nell’American Physical Society 67 anni fa ero molto giovane, molto più disponibile, e non ancora corrotto dall’inondazione di denaro (una minaccia contro cui Dwight Eisenhower mise in guardia un mezzo secolo fa). Infatti, la scelta della fisica come professione era allora garanzia di una vita di povertà e di astinenza – la seconda guerra mondiale ha cambiato tutto questo. [...]
Com’è diverso ora. I giganti non camminano più sulla terra, e il diluvio di denaro è diventato la ragion d’essere della maggior parte della ricerca nella fisica, il sostentamento vitale di molto altro, e fornisce il supporto per un numero imprecisato di posti di lavoro professionale. […]
È, naturalmente, la truffa del riscaldamento globale, con (letteralmente) migliaia di miliardi di dollari che la guidano, che ha corrotto così tanti scienziati, e ha travolto l’APS come un’onda anomala. È la truffa pseudoscientifica più grande e di maggior successo che ho visto nella mia lunga vita di fisico. Che cosa ha fatto l’APS come organizzazione di fronte a questa sfida? Ha accettato la corruzione come la norma, se ne e’ adeguata supinamente. […] La dichiarazione spaventosamente tendenziosa dell’APS sui cambiamenti climatici sembra sia stata scritta in fretta da poche persone durante una pausa pranzo, e non è certo rappresentativa delle capacità dei membri APS per come li ho a lungo conosciuti. Così alcuni di noi hanno inviato una petizione al Consiglio chiedendo di riconsiderarla. […]
Alla fine, il Consiglio ha mantenuto la dichiarazione originale, parola per parola, ma ha approvato un molto più lungo documento “esplicativo”, ammettendo che ci sono delle incertezze, ma mettendole da parte per fornire un’approvazione tout-court della dichiarazione originale. […] Nel frattempo è esploso lo scandalo del ClimateGate, e le macchinazioni dei principali allarmisti sono state rivelate al mondo. È stata una frode su una scala che non ho mai visto, e mi mancano le parole per descrivere la sua enormità. Effetti sulla posizione APS: nessuno. Niente di niente. Questa non è scienza; altre forze sono al lavoro. Così alcuni di noi hanno cercato di rimettere la scienza al centro delle cose (cosa che, dopo tutto, è il presunto scopo storico dell’APS) e abbiamo raccolto le necessarie 200 firme per portare in Consiglio una proposta di un Gruppo di Lavoro focalizzato sulla scienza del clima, pensando che una discussione aperta dei problemi scientifici, nella migliore tradizione della fisica, sarebbe stata vantaggiosa per tutti, oltre che un contributo alla nazione. […] Con nostro stupore, in barba allo Statuto, hai rifiutato la nostra petizione e hai invece usato il controllo della mailing list per eseguire un sondaggio circa l’interessamento dei membri ad un Gruppo di Lavoro sul clima e sull’ambiente. […].
L’intero scopo di tutto questo sforzo era quello di evitare la tua responsabilità statutaria di accogliere la nostra petizione al Consiglio. […] Il management APS ha sviato il problema fin dall’inizio, per sopprimere una seria discussione sulla fondatezza delle affermazioni sul cambiamento climatico. […] Dal momento che io non sono un filosofo, non ho intenzione di investigare su a che punto l’esaltazione dell’interesse personale attraversi il confine della corruzione, ma un’attenta lettura dei documenti ClimateGate rende chiaro che questa non è una questione accademica».
TRE PROPOSTE A COSTO ZERO PER INCENTIVARE LA GENERATIVITÀ - Chi mette al mondo figli deve essere sanamente invidiato - ALESSANDRO COLOMBO – Avvenire, 29 ottobre 2010
T empi di tagli e austerità.
Tempi in cui i governi d’Europa riducono eccessi di spesa e spese necessarie. Meglio tardi che mai. Si sarebbe dovuto fare da tempo. Mentre tutto cambiava, restava fermo solo un modello universalistico di assistenza che, più passa il tempo, più premia chi ha e non fa e punisce chi non ha e fa. Il sistema di welfare ne risentirà. Ma i rischi delle manovre sono importanti. Il principale è pensare di mantenere il vecchio sistema con meno soldi. E invece occorre ripensare da capo il sistema di welfare; ma è troppo presto per annoiare politici su questioni per cui adesso non hanno orecchi. Meglio, allora, porre un’altra questione: attiviamo adesso le iniziative a costo zero per un nuovo welfare.
Cominciamo con la prima gigantesca questione: fare figli. Lasciamo stare qui, per il motivo appena detto, la battaglia sacrosanta del quoziente familiare. Si possono attivare subito e senza spesa iniziative per il riconoscimento sociale della generatività, restituendo alle famiglie la loro prima risorsa: il tempo.
Generare e allevare esseri umani è il più importante contributo allo sviluppo di un sistema. Farlo in Italia è considerato affare privato, da pazzi o da ricchi: manca il riconoscimento sociale di questa intrapresa. In tutta Europa, con l’eccezione del triste e vano laboratorio spagnolo di Zapatero, le politiche familiari stanno scommettendo sul tempo come risorsa della famiglia. Ecco, allora, tre modeste idee per i politici italiani che non vogliono nascondersi dietro la scusa dei tagli.
1. Una 'kids card'. Alla nascita del secondo figlio i due genitori ricevono una tessera identificativa con la quale accedono a casse riservate ai supermercati (perché solo handicappati o – paradosso dei paradossi – quando le donne sono incinte? Sono forse 'malate'?), ai parcheggi riservati di quel supermercato e della città, alla raccolta punti di tutta la grande distribuzione (non solo questo o quel supermercato) e al trasporto pubblico locale (è davvero una sciagura per le casse pubbliche viaggiare sui mezzi e treni locali con due figli gratis fino ai loro 10 anni?).
2. I tempi dei servizi pubblici. Anagrafi, asl e quant’altro hanno orari fruibili solo per chi ci lavora o per chi non lavora. Chi lavora, e si prende cura di altri, deve fare salti mortali. Sembra che siano i cittadini a servizio degli uffici, non viceversa. Basterebbe eliminare orari nel mezzo della giornata e aprire prima la mattina e chiudere alle 9 di sera. E poi, come accade in altri contesti: perché non aprire sportelli pubblici nei grandi magazzini, così da ottimizzare i tempi delle famiglie?
3. Luoghi pubblici e musei. Perché i ristoranti e altri locali o siti pubblici sono vessati da norme sulle barriere architettoniche e non sono invece obbligati ad avere semplici seggiolini o stanze per cambiare i bambini? E poi: per quale motivo gli ultra 65enni accedono a musei e iniziative gratuitamente o a prezzi fortemente agevolati e i bambini beneficiano solo di sconti irrisori? Anche qui: è impensabile che a tutti i musei i figli accedano gratis fino ai 10 anni?
Si dirà che già in parte lo si fa, che è difficile, che occorre studiare la questione anche con i sindacati... Tocca alla politica non trasformare le difficoltà in obiezioni. Ma non evitiamo il punto: si può operare subito e senza pagare un euro una piccola grande (e doverosa) rivoluzione: tempi e spazi pubblici ritagliati su coloro che generano e si prendono cura. Bisogna che si creino dei 'privilegi' pubblici per chi genera, che la gente si accorga della differenza, concretamente, attivando corsie preferenziali e preferenze visibili, tornando a percepire una cultura del rispetto per la famiglia. Il welfare di domani dipenderà dai bambini di oggi.
Occorre che i genitori siano riconosciuti, sanamente invidiati e, quindi, imitati. Non lasciamo solo all’Ikea la cultura della genitorialità...