Nella rassegna stampa di oggi:
1) Mel Gibson sotto i rifletori per le sue "bravate" - Ecco perché nel suo momento di crisi, continuiamo a sostenere il regista de "La Passione di Cristo" e "Apocalypto" di Rino Cammilleri dal sito http://www.pontifex.roma.it
2) IL PAPA: DALLA CRISI SI ESCE SOSTENENDO LA FAMIGLIA E IL BENE COMUNE - Nel messaggio per la Settimana Sociale di Reggio Calabria (ZENIT.org)
3) Al Sinodo l'intervento del rabbino Rosen sulla necessità del dialogo tra ebrei e cattolici - Dobbiamo conoscerci (©L'Osservatore Romano - 15 ottobre 2010)
4) Pericolo serbo Mario Mauro - venerdì 15 ottobre 2010 – il sussidiario.net
5) CILE/ La lezione dei minatori ai nostri capricci da "Isola dei famosi" Redazione - venerdì 15 ottobre 2010 (Monica Mondo) – il sussidiario.net
6) Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci - Nella fede di quei minatori rivedo mio padre - 14 Oct 2010 - Antonio Socci Da “Libero”, 14 ottobre 2010
7) Reggio Calabria - Giovedì 14 Ottobre 2010 - XLVI Settimana Sociale dei Cattolici - “Cattolici nell’Italia di oggi. Un’agenda di speranza per il futuro del Paese” Prolusione - Cardinale Angelo Bagnasco
8) Festival della scuola cattolica a Torino. Rileggiamo le "sette parole" di Benedetto XVI sull'educazione pubblicata da Massimo Introvigne il giorno venerdì 15 ottobre 2010
9) A un mese dalla beatificazione - La ragionevole fede di Newman di Ian Ker (©L'Osservatore Romano - 16 ottobre 2010)
10) È morto Tadeusz Styczen filosofo polacco grande amico di Giovanni Paolo II -Con Karol Wojtyla in cerca dell'uomo (©L'Osservatore Romano - 16 ottobre 2010)
11) «Sacerdoti in corsia garanzia per i malati» - I vescovi respingono l’attacco: previsti dalla legge DA FIRENZE ANDREA FAGIOLI – Verdi e radicali il ministero dei cappellani sarebbe «oneroso» per le casse regionali. I cattolici Pdl, Pd, Udc: gli sprechi sono altri - Avvenire, 15 ottobre 2010
12) IL CASO. Un libro racconta la storia delle sei religiose uccise in Africa dal virus letale che prende il nome dal fiume dove emersero i primi casi di contagio Suore-coraggio contro Ebola - Da Bergamo e Brescia giunsero alla missione di Kikwit. Dopo la diffusione di questa pestilenza, restarono sul posto pur avendo certezza della condanna a morte. Vivevano «avvolte tra i poveri» e con fede accolsero il martirio DI MARCO RONCALLI – Avvenire, 15 ottobre 2010
Mel Gibson sotto i rifletori per le sue "bravate" - Ecco perché nel suo momento di crisi, continuiamo a sostenere il regista de "La Passione di Cristo" e "Apocalypto" di Rino Cammilleri dal sito http://www.pontifex.roma.it
Quando un cattolico famoso (o almeno che si è esposto come tale) crolla sotto il peso delle sue debolezze umane una gioia segreta e maligna invade molti, anche tra quelli che dovrebbero essere ideologicamente contigui. Lo si è visto in occasione della notizia, uscita nell'aprile scorso, della domanda di divorzio inoltrata dalla moglie di Mel Gibson. Non ho letto i commenti sulle testate di sinistra, perché mi bastava una modesta dose di fantasia per immaginarli. Ho letto a destra e ho trovato, sia pure a denti stretti, una malcelata soddisfazione. Eccolo lì, quello che faceva tanto il cattolico, quello che si alzava la mattina alle cinque per andare a messa (in latino, per giunta): è un poveraccio come tutti; anzi, peggiore perché ipocrita, e adesso finalmente la smetterà di atteggiarsi a devoto. Aprile, tempo di Pasqua, mi ha fatto venire in mente quelli che «scuotevano la testa» davanti al Cristo in croce: guardatelo lì, il sedicente Messia, ecco ...
... com'è finito, lui che insegnava agli altri. Non è un paragone, naturalmente, solo una concatenazione di pensieri. Gibson, che menava vanto del suo quasi trentennale matrimonio con la stessa donna (caso non raro ma unico a HolIywood) e dei suoi ben sette figli (di cui una suora), è stato avvistato in spiaggia in compagnia di una giovane russa.
Così, come perle di una collana, ci è stato puntualmente ricordato che Gibson è un ex alcolista beccato in recidiva dalla polizia e che ha insultato gli agenti che lo ammanettavano dando loro degli «ebrei». Naturalmente, per lui non valgono le attenuanti specifiche e generiche. Eppure lo sanno tutti che, negli Usa, la polizia ti sbatte faccia a terra e ti torce le braccia dietro la schiena mentre ti recita i tuoi diritti.
Tutti sanno, anche, che per i due anni precedenti Gibson era stato il piccione da tiro per l'intera comunità ebraica mondiale, aizzata dai suoi esponenti di maggior spicco. Si era permesso, nel suo film The Passion, di far credere che Pilato era stato spinto a mettere a morte Gesù dal Sinedrio, quando il politically correct esige che la responsabilità storica di quella crocifissione sia solo romana. Quanto certo parere conti a Hollywood e sui mezzi di comunicazione è noto (anche alla Chiesa).
Ne è nota pure la suscettibilità sensibilissima: addirittura, quando il nostro Vittorio Messori propose sul «Corriere della Sera» una sorta di Anti-Defamation League cattolica, il presidente della medesima, intervistato sulla stessa pagina, neanche troppo velatamente ventilò il ricorso al tribunale per il copyright sulla denominazione. Comprensibile, dunque (anche se non giustificabile), che Gibson, ubriaco, continuasse a vedere «ebrei» in tutti quelli che lo contrastavano. Infatti, tornato sobrio, se ne scusò.
Mel Gibson aveva pagato di tasca sua quel film come ex voto per aver superato una tentazione di suicidio, per sua stessa ammissione. Già: un vero artista (specialmente uno di genio, come lui) è sempre un tormentato. Ciò è così assodato che c'è chi, non avendo alcun talento artistico, «fa» il tormentato per accreditarsi, di solito con risultati grotteschi ma non per i media che, anzi, enfatizza gente così. Gibson, però, è cattolico, e allora per lui cambia tutto. Ha osato rincarare la dose, dopo The Passion, facendo Apocalypto, un film perfettamente in linea con quello in cui crede: i popoli precolombiani praticavano sacrifici umani su scala industriale e solo l'avvento degli spagnoli liberò le loro vittime da una sorte da incubo.
E allora, eccoli tutti lì, in agguato, a scrutare il cattolico Gibson, in attesa di un suo fallo. E finalmente Gibson è cascato. Più di una volta. Inezie (una sbronza, un solo divorzio), per tutti ma non per lui. Bene, siamo contenti, è un miserabile come noi; anzi, di più, perché ci ha provato, a essere migliore di quel che è, e non ci è riuscito. Certo, il vero cattolico credente e praticante sa bene che a lui non è chiesto di riuscire ma di provare continuamente, sa bene che è impossibile non cadere mai e che l'unica cosa di cui dovrà rendere conto nel Giudizio è quante volte si è rialzato.
Ma questo non interessa agli atei e agli agnostici, resi cinici dall'assenza di speranza (e di umiltà). Godono quando un cattolico li raggiunge nella polvere perché li conferma nell'idea (fasulla ma comoda) che non vale la pena di sforzarsi, che Dio non esiste o, se esiste, non è certo quello predicato dal Papa.
Quanto a noi kattolici, continueremo a tifare per il nostro fratello Mel Gibson, perché predica bene anche se talvolta razzola male. Come noi. Perché preferiamo chi predica bene e non riesce talvolta a essere eroicamente coerente (e a Hollywood di eroismo morale ce ne vuole) a quanti non solo razzolano nel fango ma predicano anche peggio, cercando di trascinare al piano terra tutti quelli che possono.
Coraggio, Mel Gibson, e dacci un altro dei tuoi capolavori. Magari sull'Inquisizione. [fonte Il Timone]
IL PAPA: DALLA CRISI SI ESCE SOSTENENDO LA FAMIGLIA E IL BENE COMUNE - Nel messaggio per la Settimana Sociale di Reggio Calabria (ZENIT.org)
ROMA, giovedì, 14 ottobre 2010 (ZENIT.org).- La via per riemergere dalla crisi economica e culturale che sta investendo l'Italia si trova nel sostegno alla famiglia e nell'impegno per il bene comune al di là degli interessi di parte. E' quanto si legge nel messaggio scritto da Benedetto XVI in occasione la 46ma Settimana sociale dei cattolici italiani, in programma a Reggio Calabria dal 14 al 17 ottobre sul tema “Cattolici nell’Italia di oggi. Un’agenda di speranza per il futuro del Paese”.
Alla quattro giorni di incontri apertasi questo giovedì pomeriggio partecipano oltre 1200 delegati provenienti da tutte le 227 diocesi italiane: quasi un quarto è formato da giovani, per il resto molti i rappresentanti di associazioni e movimenti laicali, così come i vescovi, i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i diaconi.
Accennado alla crisi finanziaria globale che ha avuto profonde ripercussioni anche nel nostro Paese, aggravando le situazioni di disoccupazione e precarietà tra i giovani – specialmente nelle aree del Mezzogiorno – che non di rado sfociano in "rassegnazione", il Papa ha indicato alcune direttrici per rilanciare uno sviluppo integrale.
Infatti, spiega il Santo Padre, "il problema non è soltanto economico, ma soprattutto culturale e trova riscontro in particolare nella crisi demografica, nella difficoltà a valorizzare appieno il ruolo delle donne, nella fatica di tanti adulti nel concepirsi e porsi come educatori”.
Per questo è necessario che "tutti i soggetti istituzionali e sociali si impegnino nell’assicurare alla famiglia efficaci misure di sostegno, dotandola di risorse adeguate e permettendo una giusta conciliazione con i tempi del lavoro”.
La famiglia, aggiunge ancora, non solo è il "cuore della vita affettiva e relazionale" ma anche il "luogo che più e meglio di tutti gli altri assicura aiuto, cura, solidarietà, capacità di trasmissione del patrimonio valoriale alle nuove generazioni”.
Il Papa accena poi al fenomeno migratorio e alla ricchezza che esso può apportare, ed incoraggia a individuare, “nel pieno rispetto della legalità, i termini dell’integrazione” e a "fare tutto il possibile per debellare quelle situazioni di ingiustizia, di miseria e di conflitto che costringono tanti uomini a intraprendere la via dell’esodo".
Sfuggendo all'illusione di "delegare la ricerca di soluzioni soltanto alle pubbliche autorità", il Papa invita "a uscire dalla ricerca del proprio interesse esclusivo, per perseguire insieme il bene del Paese e dell’intera famiglia umana".
Per questo torna a rinnovare il suo appello "perché sorga una nuova generazione di cattolici, persone interiormente rinnovate che si impegnino nell’attività politica senza complessi d’inferiorità".
"Tale presenza, certamente, non s’improvvisa - sottolinea Benedetto XVI -; rimane, piuttosto, l’obiettivo a cui deve tendere un cammino di formazione intellettuale e morale che, partendo dalle grandi verità intorno a Dio, all’uomo e al mondo, offra criteri di giudizio e principi etici per interpretare il bene di tutti e di ciascuno".
Da qui, quindi, l'impegno della Chiesa in Italia "nella formazione di coscienze cristiane mature, cioè aliene dall’egoismo, dalla cupidigia dei beni e dalla bramosia di carriera e, invece, coerenti con la fede professata, conoscitrici delle dinamiche culturali e sociali di questo tempo e capaci di assumere responsabilità pubbliche con competenza professionale e spirito di servizio".
“Alla vigilia del 150° anniversario dell’Unità nazionale - conclude -, da Reggio Calabria possa emergere un comune sentire, frutto di un’interpretazione credente della situazione del Paese; una saggezza propositiva, che sia il risultato di un discernimento culturale ed etico, condizione costitutiva delle scelte politiche ed economiche".
In un messaggio al Cardinale Angelo Bagnasco in occasione dell'apertura dei lavori, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha lodato l'impegno e la vocazione della Chiesa cattolica "per il progresso civile, economico e sociale dell’Italia, la cui identità culturale è permeata dai valori cristiani".
La sua "agenda" di speranza, ha continuato, "testimonia anche che la nostra società è tutt’ora ricca di uomini animati da quella che Lei stesso ha definito 'energia morale', capaci di guardare con fiducia e concretezza al futuro, affrontando con senso di appartenenza i problemi di pressante attualità".
Al Sinodo l'intervento del rabbino Rosen sulla necessità del dialogo tra ebrei e cattolici - Dobbiamo conoscerci (©L'Osservatore Romano - 15 ottobre 2010)
Cattolici ed ebrei devono imparare a conoscersi di più. Soprattutto in Terra Santa. L'intervento di David Rosen, consigliere del Gran Rabbinato di Israele e direttore del Department for Interreligious Affairs of the American Jewish Committee and Heilbrunn Institute for International Interreligious Understanding, ha dato il primo segnale dell'apertura dell'assemblea sinodale a tutte le realtà del Medio Oriente. Ha preso la parola durante i lavori della quinta congregazione generale, nel pomeriggio di mercoledì 13 - alla presenza di Benedetto XVI - e ha subito posto una questione sulla quale riflettere, se l'intenzione è quella di contribuire alla costruzione di un clima di convivenza pacifica in Terrra Santa e in tutta la regione.
"Bisogna conoscersi", ha sostanzialmente ripetuto Rosen, che si è rivolto all'assemblea con il saluto iniziale "pax vobis". Dopo aver ricordato i progressi nel dialogo tra cattolici ed ebrei negli ultimi dieci anni, ha rilevato di "essere rimasto sorpreso nello scoprire nel clero cattolico e talvolta anche nella gerarchia di alcuni Paesi, non solo ignoranza nei confronti dell'ebraismo contemporaneo, ma spesso perfino della Nostra aetate" così come del resto "nel mondo ebraico - ha aggiunto - esiste ancora una diffusa ignoranza del cristianesimo" e non si conoscono i progressi dei rapporti dovuti all'impegno prima di Giovanni Paolo ii e ora di Benedetto XVI. Un concetto questo che Rosen ha ribadito, fuori dell'aula sinodale, in una conferenza stampa. Il dialogo tra cristiani ed ebrei, ha precisato, va avanti e il viaggio di Benedetto XVI in Terra Santa ha costituito una vera svolta: "Se infatti la visita di Giovanni Paolo ii in Israele nel marzo del 2000 - ha detto - è stata irripetibile, quella di Papa Ratzinger nel maggio del 2009 è stata ancor più importante per le relazioni ebraico-cristiane".
Dopo l'intervento del rabbino si attendono per il pomeriggio di giovedì 14, quelli in aula di due musulmani: Muhammad al-Sammak, consigliere politico del mufti del Libano per l'islam sunnita, e l'ayatollah sciita Sayed Mostafa Mohaghegh Ahmadabadi, professore della Facoltà di diritto dell'università Shahid Beheshti di Teheran e membro dell'accademia iraniana delle scienze.
Prima di Rosen, negli otto interventi della discussione libera, avvenuta alla presenza del Papa giunto in aula alle ore 18, si è parlato di liturgia e vita contemplativa, della necessità di far conoscere meglio la dottrina sociale della Chiesa, del rispetto dei riti e delle tradizioni orientali in Occidente soprattutto riguardo al battesimo, comunione e confermazione dei bambini. Intorno al Sinodo, è stato rilevato, ci sono grandi aspettative e si è registrata una partecipazione popolare fin dalle risposte ai Lineamenta, tanto che ad alcuni padri sinodali è stato chiesto di non tornare "a mani vuote" ma con parole e fatti che diano speranza per il futuro e aiutino a vincere la paura.
Nella sesta congregazione, svoltasi, stamane, giovedì 14, alla presenza del Papa, presidente delegato era il patriarca di Antiochia dei Siri, Ignace Youssif iii Younan. Hanno preso la parola ventisei padri sinodali. In molti degli interventi è stato ribadito come l'islam - considerato dagli stessi musulmani religione della tolleranza - ma anche i governi e l'intera comunità internazionale non possono consentire che in gran parte dei Paesi del Medio Oriente i cristiani siano costretti a nascondere, spesso a rinnegare, la propria fede, per veder riconosciuti i loro diritti civili. "Il primo principio di ogni società è l'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge - ha detto il vescovo di Newton dei Greco-Melkiti, Cyrille Salim Bustros - e il rispetto della coscienza di ogni individuo è il segno del riconoscimento della dignità della persona umana".
Il patriarca Younan ha ricordato la Dichiarazione universale dei diritti umani sottolineando che, a sessantadue anni dalla firma, in alcune nazioni (dove la religione è tutt'uno con lo Stato, la cultura e l'identità nazionale) essa sembra restare ancora lettera morta. Collegata alla spesso frustrante condizione dei cristiani in Medio Oriente è l'emigrazione di molti fedeli verso altri continenti. Tema affrontato, in un breve saluto finale, anche dal cardinale Roger Etchegaray, ospite dell'assemblea sinodale, che ha invitato i padri presenti a guardare sia a Occidente sia a Oriente e a portare, una volta tornati in patria, la testimonianza di Gesù.
Pericolo serbo Mario Mauro - venerdì 15 ottobre 2010 – il sussidiario.net
Il nazionalismo serbo, visto in azione sugli spalti dello stadio di Genova martedì scorso, non è un fenomeno da sottovalutare
Dopo il pandemonio che ha portato alla sospensione di Italia-Serbia e la guerriglia consumatasi all’esterno dello stadio di Genova, anche l’osservatore più disattento non ha avuto alcun dubbio che si trattasse di un’azione premeditata volta a non far disputare la partita.
Tra le tante follie dell’indegno spettacolo di Marassi, quella che ci permette di tentare di dare una lettura più approfondita degli episodi di martedì sera è senz’altro l’immagine del famigerato Ivan (l’uomo incappucciato che è stato arrestato mercoledì mattina) intento a bruciare con un fumogeno la bandiera albanese, simbolo del popolo kosovaro.
Grazie a queste poche centinaia di ultranazionalisti serbi, torna alla ribalta una vicenda che rievoca un passato di sangue e di massacri. Un intreccio di lotte e vendette che ancor oggi non ha trovato una soluzione definitiva. Un paese, il Kosovo, che è oggi il paradigma della secolare instabilità dei balcani: nel 2008 si è dichiarato indipendente, ma un’indipendenza riconosciuta da soli 70 paesi membri delle Nazioni Unite, 22 dei quali fanno parte dell’Unione Europea (Italia compresa), insieme a Stati Uniti, Canada, Australia e Giappone.
La Serbia, assieme a Russia, Cina e altri 5 paesi dell’Unione Europea, tra i quali Spagna e Grecia, si oppone a questa soluzione. Anche per questo rigurgiti di nazionalismo come quello di Genova, fortunatamente terminatosi senza conseguenze gravi, o come le aggressioni al gay-pride della scorsa settimana a Belgrado, non vanno affatto sottovalutati. È bene che la comunità internazionale torni a prestare un’attenzione particolare a queste vicende onde evitare conseguenze orribili. Sarebbe utile inoltre soffermarsi sui volti dei calciatori serbi a Genova, terrorizzati dai loro stessi connazionali.
Oggi, sei anni dopo il più grande allargamento della sua storia a cui è seguita nel 2007 l’adesione di Bulgaria e Romania, l’Ue deve mantenere fra le sue priorità il processo di stabilizzazione e di associazione con i Balcani. Anche perché quello serbo-kosovaro non è l’unico conto aperto. Se, ad esempio, i serbi di Bosnia dovessero perdere di vista la concreta possibilità di poter “stare da serbi” in Europa, non avrebbero certo remore a riprendere la strada della secessione, facendo piombare l’intero continente in una crisi ben più grave di quella odierna.
Dobbiamo identificare nella prospettiva europea la reale forza motrice del processo di transizione verso la democrazia e l’economia di mercato dei Paesi del sud ovest europeo. La questione dei Balcani occidentali è una sfida particolare per l’Unione europea. La regione raggruppa piccoli Paesi che si trovano a differenti livelli nel percorso per diventare membri dell’Ue.
Di conseguenza, la politica di allargamento ha bisogno di avvicinarsi ai bisogni specifici di questi Stati deboli e di queste società divise. I capisaldi della strategia europea per integrare la popolazione dei Balcani in Europa risiedono nel commercio, nello sviluppo economico, nella mobilità dei giovani, nell’educazione e nella ricerca, nella cooperazione regionale e nel dialogo all’interno della società civile.
Solo tenendo aperta la porta ai Balcani l’Europa potrà mantenere fede al suo originario, vincente, programma politico: “Mai più la guerra”. E dare una speranza di pace al continente. Nonostante gli ostacoli che continuano a presentarsi lungo il percorso, l’obiettivo deve rimanere quello di una piena adesione di tutti questi paesi all’Unione europea. Fino a quando tutto ciò non si verificherà, l’unificazione europea non potrà mai dirsi completa.
CILE/ La lezione dei minatori ai nostri capricci da "Isola dei famosi" Redazione - venerdì 15 ottobre 2010 (Monica Mondo) – il sussidiario.net
La vicenda dei minatori cileni ha molto da insegnare. Quegli uomini hanno dimostrato una tenuta fuori dal comune, coraggio, generosità, perfino una dose di incredibile sprezzatura. Potevano maledire, incolpare, commiserare; era quasi ovvio che potessero litigare per un boccone di tonno, per uscire prima, semplicemente per dar sfogo alla paura e alla rabbia.
Ci siamo abituati a risse invereconde tra i reclusi in Case e Isole del reality show, e non si trattava che di spettacoli e giochi. I minatori di San José non hanno perso la testa, hanno collaborato e lavorato, sopportato disagi, buio, isolamento e angoscia, con docilità e fermezza.
Da dove viene quest’animo saldo, questa semplice e tenace fiducia negli uomini che li ha sorretti? La speranza per noi è troppe volte un oscuro affidamento al fato, uno “speriamo bene” scaramantico, per allontanare i cattivi pensieri. La speranza non esiste se non fonda su una certezza.
«Laggiù ho litigato con Dio e col diavolo. Hanno litigato per avermi. Dio ha vinto, io ho preso la sua mano, la migliore. Non ha mai vacillato la mia certezza che Dio mi avrebbe tirato fuori».
Una frase che sembra saltar fuori dalle pagine di Lewis, o di Bernanos, ed è di uno sconosciuto lavoratore del Cile profondo, che non conosce filosofia e letteratura.
Così Mario Sepulveda, il più tosto, quello che teneva i contatti con la terra di sopra, e forse col Cielo. Quello che, si è capito, tutti quanti hanno riconosciuto come guida autorevole e capace di confortare, organizzare, dare la carica. Un testimone, che sapeva dare certezza, perché lo sappiamo, abbiamo bisogno sempre, ma qualche volta di più, di una mano che ci tiene per mano, una guida che ci aiuta a brancolare nel buio.
Non conta avere una fede o no, le sue parole sono un pungolo per tutti e per ciascuno. Perché è di tutti la lotta col diavolo, la possibilità di dire sì o no a Dio, e fondare su di Lui la nostra speranza.
I minatori cileni potevano contare su un popolo: i familiari, certo, ma di più, la gente, quella che viene evocata di solito come carne anonima da sondaggi. “La gente pensa”, “la gente dice”. La gente prega, spera, si commuove e lavora con te. Un popolo è così, una comunità è così, non si distrae, non ti corre accanto distratta e indifferente, ti si fa intorno, si china su quel buco interminabile perché tu sappia che ti si vuol bene. Riesce a contagiare perfino i politici, dimentichi delle campagne elettorali e per poco forse, ma con sincerità, felici di sventolare la bandiera di una patria che ha fatto di tutto per salvare i suoi figli.
Non è scontato. In Cina ogni anno muoiono decine e decine di minatori inghiottiti dalla terra, e nessuno se ne occupa, nessuno lo sa. Anche qui, un popolo trova nelle sue radici l’unione e la coscienza di una diversità. Possiamo storcere il naso per la loro fede semplice e venata di superstiziosi riti, ma quello è un popolo cristiano.
E infine: suona fuori luogo, questa volta, l’ennesima lamentazione sui media che rincorrono l’emozione in diretta, che piantano tende e telecamere per aspettare che l’evento si compia. Ci si sono allenati i commentatori più autorevoli, nello sdegno snobistico per la tv che scava tra storie volti lacrime. Ma diamine, queste sono facce e pianti e sorrisi veri.
Tutto il mondo voleva sapere, voleva vedere, essere lì. Ci siamo sentiti tutti padri, madri, sorelle e figli di quegli uomini. Volevamo vederli uscire uno ad uno, conoscerli. Senza dibattiti, senza analisi. Lasciarci commuovere. Muovere la nostra testa e il cuore, per una volta, alla grandezza degli uomini, che sa stupire.
Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci - Nella fede di quei minatori rivedo mio padre - 14 Oct 2010 - Antonio Socci Da “Libero”, 14 ottobre 2010
Conosco gli uomini della miniera. Per una volta il mondo si è accorto di loro, laggiù in Cile, e subito la tv ne s’è impossessata: “ma io sono e voglio restare un minatore. Non trasformateci in star”, ha detto sanamente Mario Sepulveda, uno dei primi a riemergere dalle viscere della terra.
Mario ha anche urlato: “Questi incidenti non devono più succedere!”. Finalmente un uomo autentico.
Io li conosco perché sono nato in una famiglia di minatori, ho imparato dalla loro forza (anche nel dramma), dalla loro fede cristiana, dalla loro nobiltà. Conosco quell’allegria di naufraghi, di compagni che si dividono il pane, il sudore e il poco companatico.
Dentro la miniera cilena, fra i sepolti vivi, e sopra la miniera, fra i familiari, all’accampamento Esperança, si sono viste per settimane immagini della Madonna (con una statuetta di padre Pio) e bandiere del Cile, perché tutto quel Paese ha pregato e tutto quel Paese sente che gli uomini della miniera sono l’orgoglio della nazione, la sua dignità e la sua forza.
Sono cresciuto sulle ginocchia di uno di questi uomini, mio padre, ed è stato lui il mio orgoglio, la mia scuola di vita, la mia vera università, il mio “master a Oxford”.
Non mi ha insegnato l’inglese, ma mi ha insegnato la dignità, l’amore per la pittura del Trecento e per la musica, la fede cattolica e la passione per la libertà. Ho imparato da lui a non sopportare l’ingiustizia, l’ozio di chi ingrassa vizioso sul dolore di altri esseri umani.
E’ grazie a lui che non portai il cervello all’ammasso del conformismo rosso, negli anni del liceo, e non mi sono rincoglionito di chiacchiere o di droga. Neanche me lo potevo permettere: non avevo una lira in tasca e dovevo studiare (erano i figli di papà che potevano permettersi il lusso di fare i rivoluzionari, di non studiare o di sperperare soldi nella droga).
Grazie a mio padre non mi sono imborghesito nell’anima, perché so cosa vale nella vita (e non sono i soldi) e so che essere se stessi è il tesoro vero.
Qualcosa della rudezza “cafona” degli uomini della miniera, per fortuna, mi resta addosso e – trovandomi a lavorare nel mondo finto degli intellettuali, delle televisioni, delle curie, dei salotti e dei moralisti farisei – c’è sempre un padre e un nonno minatore nel mio sangue che si ribella al conformismo, all’ingiustizia, all’ipocrisia e grida sbrigativamente: “ma andate a farvi fottere!”.
Quei volti sporchi di terra che vediamo nelle immagini dal Cile, quella loro nudità, sottoterra, dove si soffoca di caldo col 90 per cento di umidità, li conosco da quando ero piccolo. E anche la loro malinconia.
Mio padre me li raccontava con la sua faccia bella e scarna, con le sue poche parole, li rappresentava nei suoi quadri e li cantava come dei personaggi di Omero nella personale epica delle sue poesie che oggi mi tornano in mente – guarda un po’ – insieme ai versi di Neruda.
Mia madre per anni e anni è stata una delle ragazze che non sapevano se l’amore della sua vita, quel giorno, sarebbe stato inghiottito dalle profonde gallerie della miniera.
Mia madre è stata una delle donne che si trovava di colpo il cuore in gola quando per il paese correva la voce: “c’è stato un incidente alla miniera!”.
A mia madre è crollato il mondo addosso quella notte del febbraio 1953 in cui seppe che lui aveva avuto un incidente e che solo grazie al gelo della notte invernale non era morto dissanguato perché il sangue si era ghiacciato (ma il “mostro” aveva comunque mozzato una sua mano). Dovevano sposarsi di lì a poco.
Tutto il paese dove sono nato e cresciuto ricorda i giorni in cui la miniera inghiottì due compagni di mio padre. La stessa angoscia della povera gente del Cile. Perché la povera gente cristiana, a tutte le latitudini, si assomiglia.
Con quale tenerezza mia madre ricorda la gioia e l’orgoglio di mio padre, quando poté comprarsi una moto Iso e non dovette più andare, per cinque o sei chilometri, alla miniera a piedi o in bicicletta, di giorno e di notte, in tutte le stagioni.
Nella miniera di San José il più giovane dei 33 minatori è Jimmy Sanchez 19 anni. E’ uscito da quel tunnel sprizzando gioia. Guardando la sua faccia, bella di giovinezza, è impossibile non commuoversi. E’ ancora un ragazzo.
Ho pensato quanto avrei desiderato vedere mio padre quando, a 14 anni, ha cominciato a lavorare in miniera: lui era un bambino. Aveva l’età che adesso ha mio figlio (quanto vorrei fargli ereditare la sua dignità).
Mio nonno Adriano – quando arrivò mio padre a lavorare – era già in miniera da 10 anni. Ci sono rimasti tutti e due tanto tempo. Entrambi ne hanno avuto i polmoni compromessi.
Anche i minatori cileni, che oggi festeggiano – perché stavolta l’hanno scampata – con le loro mogli e i loro figli (ce n’è uno che ha due donne ad aspettarlo e sarà un problema dare spiegazioni) sanno che ogni salvataggio è sempre precario ed effimero.
Laggiù i corpi si impastano col carbone e il fango e la terra li considera ormai suoi. A volte se li riprende senza neanche aspettare che crepino, con un’esplosione di grisù. Ma altre volte li richiama a distanza di anni. Una chiamata che gronda ingiustizia.
I polmoni di mio padre a 80 anni erano pieni di quella polvere di carbone che aveva respirato per decenni: aveva ormai la miniera nelle carni, nel sangue, nelle ossa, nelle fibre. Il suo killer ce l’aveva addosso da una vita.
La miniera è una matrigna che non perdona: ti ha nutrito con qualche povero tozzo di pane, ma prima o poi reclama il suo diritto di ammazzarti. Anche a distanza di tempo.
Così mio padre se lo è portato via il 21 maggio del 2007. Non si può morire a maggio, mi dico sempre. Ma la miniera non conosce stagioni, non ha riguardi nemmeno per la primavera: laggiù sotto è sempre lo stesso bestiale inverno di fuoco.
Così la miniera ha ammazzato mio padre dopo anni. Ma forse anche gli ha risparmiato lo strazio di vivere il dramma di mia figlia Caterina.
Questo s’impara dagli uomini della miniera, che la vita è una lotta e non una vacanza alle Maldive, che è inevitabile sporcarsi di terra e di carbone (cosa che non capita alla settimana bianca, né all’Accademia), che la vita è fragile ed effimera, che un Altro ce l’ha data e lui ha pietà di noi perché è Padre.
Uno dei minatori ha detto: “sono stato fra il diavolo e Dio, ma alla fine è Dio che mi ha afferrato”. Conta questo: essere afferrati da Dio. E conta la dignità con cui si vive. Dagli uomini della miniera si capisce che è bello avere Dio e avere accanto dei fratelli con cui condividere il pane e l’avventura dell’esistenza.
Antonio Socci
Da “Libero”, 14 ottobre 2010
Reggio Calabria - Giovedì 14 Ottobre 2010 - XLVI Settimana Sociale dei Cattolici - “Cattolici nell’Italia di oggi. Un’agenda di speranza per il futuro del Paese” Prolusione - Cardinale Angelo Bagnasco
Un cordiale e rispettoso saluto ai Confratelli nell’Episcopato, alle Autorità politiche, civili e militari presenti, a tutti voi, carissimi amici qui convenuti per un appuntamento che continua una lunga e feconda tradizione della Chiesa in Italia, quella delle Settimane Sociali dei Cattolici. Sono una modalità fra le plurime forme della presenza della Chiesa allo scopo di proseguire e tutto tondo la sua missione evangelizzatrice e, quindi, di servire il Paese. Anche la scelta di celebrare la 46° Settimana in questa antica Diocesi di Reggio Calabria-Bova è un segno dell’attenzione concreta che i Vescovi hanno verso il bene dell’amata Italia, ammirati e riconoscenti per le peculiari ricchezze di umanità e di fede presenti nel nostro meridione, e consapevoli della complessità di problemi vecchi e nuovi. E’ un’attenzione che segue e conferma il Documento dei Vescovi su “Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno”.
Saluto e ringrazio la Conferenza Episcopale Calabra e in particolare S.E.Mons. Vittorio Luigi Mondello, Arcivescovo Metropolita di questa Chiesa Particolare, per la fraterna accoglienza e l’impegnativa ospitalità che ci ha riservato.
Il nostro primo pensiero è per il Santo Padre Benedetto XVI che ci ha inviato un paterno Messaggio e anche per questo atto di paterna attenzione gli esprimiamo filiale gratitudine. E’ questa un’assise ecclesiale, e pertanto il nostro affetto e la nostra devozione vanno a Lui, al Successore di Pietro, Pastore della Chiesa Universale, che conferma la fede apostolica e guida la Chiesa con il Magistero, la chiarezza della parola, il calore del cuore. Con estremo rispetto e filiale confidenza, ci sentiamo di dire che le parole scelte dal beato Card. John Henry Newman – “cor ad cor loquitur” - ci fanno pensare riconoscenti a Lui: sì, sentiamo che Benedetto XVI parla con profonda semplicità all’intelligenza, ma anche al cuore degli uomini: lo scalda con parole di verità.
Anche al Signor Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, rivolgiamo un pensiero di grato ossequio per il saluto augurale e i voti che ha indirizzato alla nostra Assise.
Il tema della 46° Settimana Sociale è “Cattolici nell’Italia di oggi. Un’ agenda di speranza per il futuro del Paese”. E’ mio compito offrire, nei limiti del possibile, un quadro di riferimento, potremmo dire un orizzonte ermeneutico nel quale affrontare gli argomenti posti in programma. Ma anche in questo caso, la presunzione non è di essere esaustivo, bensì – come spero – il più possibile “essenziale”, nel duplice senso di essere ragionevolmente breve e, soprattutto, di riuscire a cogliere i principi più importanti nonché alcune questioni su cui si appunta l’attenzione odierna.
1. Logos e Agape
E’ utile ricordare, insieme ad Aristotele, che “ogni arte e ogni azione compiuta in base a una scelta mirano a un bene : perciò a ragione si è affermato che il bene è ciò cui ogni cosa tende” (Etica a Nicomaco, 1094a). Così pure è interessante rileggere Platone quando scrive che “l’idea del Bene è quella scienza suprema in riferimento alla quale le cose giuste e le altre diventano utili e giovevoli (…) E se noi non conosciamo questa scienza, anche se conoscessimo tutte le altre cose (…) a noi da questo non deriverebbe alcun vantaggio, così come non ne deriverebbe se possedessimo qualsiasi cosa senza il Bene. O credi che (…) si possano intendere tutte le cose senza il Bene, e non intendere per nulla il Bello e il Bene?” (Repubblica, libro VI, 505 a-b).
Queste parole ci richiamano a due criteri generali: innanzitutto il fatto che ogni atto particolare non è mai concluso in sé, separato e isolato da un contesto più ampio. Ogni decisione non solo rivela un orizzonte di senso, un mondo concettuale e morale, ma lo conferma e rafforza. E questo non vale solo per il singolo individuo, ma anche per un gruppo e per la società nel suo insieme. La constatazione, che nasce dall’esperienza riflessa di ciascuno e dalla storia, non è di poco conto se pensiamo alla cultura contemporanea che sembra aver frantumato l’insieme per esaltare e assolutizzare la parte, le singole esperienze, temendo ciò che appare definitivo e totalizzante. Viene così teorizzato che ogni decisione ha valore in sé senza bisogno di contestualizzarsi, di relazionarsi a prospettive più ampie che mortificherebbero l’individuale personale e collettivo. Ciò corrisponde non solo ad una sensibilità solipsista, ma anche utilitarista, come se ciò che conta di una scelta sia il suo grado di consumazione immediata.
Ma c’è un secondo aspetto che viene indicato dai due Grandi: la distinzione tra beni e Bene. Non sempre, infatti, i beni particolari coincidono con il Bene vero a cui ogni uomo tende e che cerca magari inconsapevolmente. Aristotele si chiede quale sia il Bene vero e universale in ordine al quale le cose parziali acquistano il carattere di bene e di bello. Indagando la persona umana egli vede che la sua attività più alta, che lo distingue da ogni altro essere, è il pensiero: esso è la facoltà che lo libera dal mondo sensibile non per negarlo ma per aprirsi all’universale, alle verità universali. Entrare in questo mondo significa prendere giusta distanza dai fini immediati, gustare la libertà pur dovendo affrontare i bisogni quotidiani, usare la ragione non solo in modo calcolatore, ma anche in modo più ampio, contemplativo per chiedersi non solo il come delle cose ma anche il perché e il dove, il senso di tutto. Quando l’uomo – ma anche una società – respira l’aria più fine della conoscenza e vi corrisponde con uno stile moralmente coerente, vive ogni vicenda e ogni scelta particolare in modo diverso, più libero. In questo Aristotele percepisce la vera felicità. Credo che le considerazioni dei Grandi siano stimolanti e ci aiutino nella nostra riflessione: ci portano sul versante della sapienza, di quello sguardo sapienziale della vita e della storia, di se stessi e del mondo, che dona prospettiva, misura, ordine a ciò che viviamo. E senza del quale rischiamo di rincorre il dito indicatore ma di non guardare la luna, rischiamo di scambiare la parte con il tutto. Comprendiamo che questo sguardo di sapienza non dipende per nulla dai titoli di studio, ma dalla coltivazione della riflessione, dall’ascolto delle voci che salgono dalle cose e che sono udibili dalle anime ben disposte: “Ti ringrazio,Padre,perché hai nascosto queste cose ai doti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli” (Lc 10,21). Credo che sia soprattutto questione di “ambiente”: una società saggia genererà uomini sapienti e sereni, una società ripiegata ed egocentrica genererà uomini miopi e infelici: tra i singoli e la collettività vi è sempre un circolo ermeneutica che non dobbiamo dimenticare.
Lo Spirito ha guidato la storia umana, le vie della ricerca e del pensiero, e le ha preparate alla pienezza dei tempi: Gesù Cristo, il Figlio unigenito di Dio, si rivela al mondo come la pienezza del Bene e della Bellezza; come la Verità, il Logos eterno che dà luce al creato: “Tutto è stato fatto per mezzo di Lui, e senza di Lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste” (Gv 1,3). Dal momento in cui la Luce splende nelle tenebre e rende l’universo pieno di senso, le scelte dei cristiani, nella vita privata come in quella pubblica, non possono prescindere da Cristo, pienezza della Verità e del Bene. Non possono mettere fra parentesi la conoscenza della fede; non devono – come ricorda il Beato Antonio Rosmini – pensare la fede senza anche pensare nella fede. Non si tratta di imporre qualcosa a qualcuno, come diremo in seguito, ma di essere innanzitutto coerenti.
Proprio perché il mistero di Cristo è il Logos, la risposta piena e definitiva alle domande ultime della ragione aperta, al bisogno di non scivolare sulle cose e di usarle malamente, ma di “intus-legere”, di entrarci dentro per conoscere e capire il loro essere e il significato, allora Egli non è un bene ma è il Bene, la vera felicità. Per questa ragione Benedetto XVI scrive: “Senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia” (Caritas in veritate n. 78) e ancora: “Il Vangelo è elemento fondamentale dello sviluppo, perché in esso Cristo, ‘rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo’. Ammaestrata dal suo Signore – continua il Santo Padre – la Chiesa scruta i segni dei tempi e li interpreta ed offre al mondo ‘ciò che possiede in proprio: una visione globale dell’uomo e dell’umanità’ ” (ib 18).
Ma lo stupore non è finito, e la commozione cresce quando ascoltiamo che il Logos è anche Amore: “Dio è in assoluto la sorgente originaria di ogni essere; ma questo principio creativo di tutte le cose – il Logos, la ragione primordiale – è al contempo un amante con tutta la passione di un vero amore. In questo modo l’eros è nobilitato al massimo, ma contemporaneamente così purificato da fondersi con l’agape” (Benedetto XVI, Deus caritas est, 10). Il Logos eterno, dunque, non si rivela all’uomo come una gnosi superiore e fredda, ma come la Verità che è Agape e quindi come Colui che illumina e si dona, risplende e riscalda, chiama e sostiene i passi dell’uomo mendicante di cielo e pellegrino nel tempo. Sulla Croce del Calvario, il centurione vede all’improvviso l’epifania della Verità e dell’Amore.
Tenendo fisso lo sguardo sul Logos- Agape, facciamo ancora un passo: la verità chiede di essere cercata con amore, non si dona se non nell’amore che la rispetta e a lei si dona: “Non intratur in veritatem nisi per caritatem” esclama sant’Agostino. Senza l’amore, infatti, è possibile costruire, con delle verità parziali, delle raffinate e devastanti menzogne. La storia ne è piena. Si tratta, dunque, dell’amore alla verità che chiede a colui che cerca la disponibilità ad arrendersi, ma anche dell’amore agli uomini, alla terra, per non piegare la verità parziali contro l’uomo.
In questo mistero di Dio Logos e Agape, la Chiesa nasce e cresce: “canta e cammina” (sant’Agostino), guarda al Cielo e abbraccia la terra, annuncia la salvezza di Cristo e serve gli uomini sui passi del Maestro, il samaritano dell’umanità, con la coscienza di non dover essere un’agenzia di pronto soccorso, e che la sua presenza non può essere ridotta alle innumerevoli attività di carattere sociale che, in realtà, sono i segni della carità evangelica. Se l’apprezzamento per questi doverosi servizi è vasto e proviene da ambienti diversi, non è questa la missione primaria della Chiesa. Essa – come ricorda Sant’Ambrogio – è il “misterium lunae” chiamata a riflettere la luce di Cristo, sole dell’umanità. E’ inviata ad annunciare la speranza, il Signore Gesù, Colui che salva l’uomo dal male più grave, il peccato, e dalla povertà più triste, quella della mancanza di Dio. Essa è messaggera della salvezza che si è compiuta sulla croce gloriosa fino agli estremi confini della terra: confini estremi che sono quelli dei Paesi e dei continenti, ma anche quelli delle culture, delle molteplici situazioni di vita, gli intimi e a volte tormentati confini dell’anima.
Proprio perché Dio illumina tutto l’ uomo, nasce una cultura: l’approccio con il mistero di Dio, infatti, dà origine a modi di vedere se stessi, gli altri, la vita e il mondo che, pur nelle diversità e tradizioni, possiedono principi comuni che generano ethos, cultura e civiltà. Ciò significa che il Vangelo non solo genera solidarietà, cosa facile da ammettere, ma ha anche qualcosa di proprio e di originale da dire per interpretare la storia e costruire una città più umana: “Tutta la Chiesa, in tutto il suo essere e il suo agire, quando annuncia, celebra e opera nella carità, è tesa a promuovere lo sviluppo integrale dell’uomo” (Benedetto XVI, Caritas in veritate, 11). Aspettarsi che i cattolici si limitino al servizio della carità perché questa è un fronte che raccoglie consensi e facili intese, chiedendo invece l’afasia convinta o tattica su altri versanti ritenuti divisivi e quindi inopportuni, significherebbe tradire il Vangelo e quindi Dio e l’uomo.
2. Cattolici e Società
L’immagine evangelica del “sale della terra e della luce del mondo” (cfr Mt 5, 13-14) è un riferimento significativo che guida la presenza dei cattolici nella società. Comprendiamo che l’immagine del sale suggerisce lo stile dell'incarnazione, la discesa nella pasta della storia, per diventare vicinanza e condivisione con la vita di tutti.
Mentre l'immagine della luce, della città posta sul monte, avverte che il discepolo – e la Chiesa nel suo insieme - si trova inevitabilmente davanti al mondo, e questo senza presunzioni ma anche senza timidezze. Esplicita questa duplice immagine un'altra parola evangelica, un altro paradosso: “l’essere nel mondo ma non del mondo” (cfr. Gv 17). Essere nel mondo richiama la logica del sale che s’immerge e condivide, mentre l’imperativo di non essere del mondo dice il modo per essere luce, città posta sul monte. Se i credenti, nei vari campi dell’esistere, conoscono solo le parole del mondo, non hanno parole diverse, sono omologati alla cultura dominante o creduta tale, saranno irrilevanti. Il punto non è la voglia di rilevanza, ma il desiderio di servire: “la Chiesa – diceva Benedetto XVI nel Regno Unito – non lavora per sé, non lavora per aumentare i propri numeri e così il proprio potere. La Chiesa è al servizio di un Altro, serve non per sé (…) ma per rendere accessibile l’annuncio di Gesù Cristo, le grandi verità (…) La Chiesa non cerca la propria attrattività, ma deve essere trasparente per Gesù Cristo” (Benedetto XVI, Risposte ai giornalisti in volo verso il Regno Unito, 16.9.2010).
Tornando all’immagine del sale e della luce, sembra essere un mandato presuntuoso e disperante. Ma in realtà racchiude non solo un indirizzo ma anche una grazia. Infatti come possiamo noi essere sale e luce per il mondo? Non dobbiamo dimenticare che il vero sale della terra e la vera luce del mondo è Cristo, ed è guardando a Lui che il cristiano può essere sale e luce. Proprio nel momento in cui Gesù ci invia senza remissione nel mondo, Egli ci attira a sé in un modo ancor più irrevocabile, perché ci ordina ciò che è umanamente impossibile. E’ dunque la nostra inadeguatezza che ci rimanda a Lui e ci apre alla grazia con maggiore umiltà e fiducia. La fede, infatti, è vivere riferiti a Cristo, è intuire che noi esistiamo perché Dio vive; è esserne affascinati, ghermiti, posseduti. Ed è proprio questo vivere riferiti a Lui, presente nella Chiesa, che ci rende sale e luce per gli altri: in famiglia, negli affetti, al lavoro, nei momenti liberi, nei tempi gioia e della sofferenza, della malattia e della morte. Proprio per questo il Maestro non esorta i discepoli dicendo “siate” sale e luce, ma afferma perentorio che essi “sono” sale e luce, rivela cioè ciò che Egli ha fatto non solo per loro, ma di loro; non solo per noi, ma di noi! Senza questo primato della vita spirituale – che è la vita con Cristo nella Chiesa – non esiste possibilità di presenza dei cattolici ovunque siano nella società.
3. Laicità e laicismo
Nell’orizzonte della presenza della Chiesa nel mondo, emerge non di rado il discorso sulla laicità, che sembrerebbe a qualcuno di per sé incompatibile con ogni istanza di tipo religioso. Per ragioni di giustizia, bisogna dire che la laicità nasce con il cristianesimo: il mondo, in quanto creato da Dio, non è Dio e la grazia della redenzione suppone la natura umana. Il Concilio Vaticano II è stato esplicito al riguardo: “Molti nostri contemporanei sembrano temere che, se si fanno troppo stretti i legami tra attività umana e religione, venga impedita l’autonomia degli uomini, delle società, delle scienze.
Se per autonomia delle realtà terrene intendiamo che le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare, allora si tratta di una esigenze legittima, che non solo è postulata dagli uomini del nostro tempo, ma è anche conforme al volere del Creatore. (…) Se invece, con l’espressione ‘autonomia delle realtà temporali’ s’intende che le cose create non dipendono da Dio e che l’uomo può adoperarle così da non riferirle al Creatore, allora nessuno che creda in Dio non avverte quanto false siano tali opinioni. La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce. Del resto tutti coloro che credono, a qualunque religione appartengano, hanno sempre inteso la voce e la manifestazione di Lui nel linguaggio delle creature. Anzi, l’oblio di Dio priva di luce la creatura stessa” (Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 36).
E’ del tutto evidente che la distinzione fino alla separatezza tra le due sfere, e il preteso confinamento della religione nello spazio individuale e privato, non appartengono alla visione né cristiana né religiosa delle cose, ma neppure alla ragione, semplicemente perché non appartengono all’uomo. L’uomo è uno in se stesso e non sopporta schizofrenie. Inoltre, la civitas mundi e la civitas Dei riguardano gli stessi “cittadini” e quindi entrambe le civitas hanno come scopo il bene delle medesime persone: bene che, pur avendo differenti e specifiche nature nelle rispettive sfere, tuttavia non si escludono e non sono tra loro contradditori. Infatti, il bene supremo della vita eterna non ostacola il bene materiale dell’individuo e della società, al contrario lo promuove con iniziative sociali e umanitarie che la Chiesa pratica da sempre. Ma soprattutto lo promuove annunciando in Cristo Gesù la pienezza dell’umanità dell’uomo e il criterio irrinunciabile della sua dignità integrale come misura di ogni progresso e bene immediato. Viceversa, se la civitas mundi ha come scopo il bene materiale e sociale dei cittadini in conformità a ciò che è la persona, non può disattendere la dimensione spirituale e religiosa poiché l’uomo è un essere religioso, e in quanto religioso è sociale: infatti egli porta in sé la traccia del Creatore che non è isolamento ma Trinità di Persone nell’unico Dio. Nella visione della fede cristiana è questa la ragione ultima, il principio euristico dell’antropologia che sta all’origine dell’ umanesimo plenario e della società che ne ispira.
E’ di tutta evidenza l’impronta individualista che la cultura contemporanea propaga. Più che una persona, l’uomo è concepito come un individuo talmente centrato sulla propria assoluta autonomia che sembra diventato prigioniero di se stesso, una monade che vive accanto ad altre monadi, ma non insieme per fare comunità, popolo, casa. La casa non è solo tetto, ma è soprattutto relazione. La casa è necessaria, ma le buone relazioni sono la vera casa dove le ferite si rimarginano e le forze si rigenerano. L’uomo è sì un individuo – anche le pietre sono individuali - , ma la persona è un individuo in relazione con gli altri, sempre, anche quando non se ne accorge ancora o non se ne accorge più: “Il mondo moderno confonde semplicemente due cose che la sapienza antica aveva distine: confonde l’individualità e la personalità” (J. Maritain, riformatori, Brescia 1964, 26).
Proprio guardando alla Trinità Santa, l’umanesimo cristiano ha potuto riflettere e comprendere, a differenza del mondo antico, che ogni uomo è prezioso in modo unico e che egli si compie sono con gli altri in una rete di legami virtuosi di solidarietà che non è solo uguaglianza, ma fraternità. Egli deve rendersi conto e esperimentare che gli altri non sono soltanto un limite alla sua libertà, ma la condizione affinché possa vivere libero e felice. Questa rete di relazioni solidali non si può essere ordinata con delle leggi né con delle riforme strutturali o organizzative, ma nasce dal di dentro di ciascuno, sono il portato di una paziente, onesta, non demagogica opera educativa. E’ questo il senso della scelta dei Vescovi Italiani con gli Orientamenti Pastorali del decennio: il compito educativo – che è parte integrante della missione della Chiesa – è urgente e delicato: richiede un rinnovato impegno di fiducia, entusiasmo e di alleanze virtuose per il bene non solo delle giovani generazioni, ma della società intera. Aiutare a comprendere e a ricordare, non solo ai ragazzi e ai giovani ma anche agli adulti, che la nobiltà e la maturità della persona passano attraverso la negazione continua dei propri egoismi, il dono di sé, la responsabilità, e che tutto questo e altro ancora richiede impegno e sacrificio, è un imperativo per tutti coloro che hanno a cuore la società e il Paese, ma innanzitutto per i cattolici.
Tornando al nodo di una laicità positiva, questa non può essere confusa né con la neutralità né con il laicismo. “Vi sono oggi alcuni – affermava Benedetto XVI nel Regno Unito – che cercano di escludere il credo religioso dalla sfera pubblica, di privatizzarlo o addirittura di presentarlo come una minaccia all’uguaglianza e alla libertà. Al contrario, la religione è in verità una garanzia di autentica libertà e rispetto, che ci porta a guardare ogni persona come un fratello od una sorella” (Benedetto XVI, Viaggio Apostolico nel Regno Unito, Omelia 16.9.2010).
In questa sede, come cattolici che amano il loro Paese, auspichiamo che la laicità si guardi sempre dal degrado del laicismo: questo deve uscire dalla sua adolescenza e diventare una laicità vera e matura. Dovrebbe superare la sua autoreferenzialità e guardarsi attorno, alla realtà ampia del mondo, senza pregiudizi, presunzioni o paure. Non dovrebbe considerare con sospetto la religione, ma, al contrario, come una sorgente per il bene generale senza, per questo, cercare di usarla in modo strumentale riducendola a “religione civile”. Questa operazione non sarà mai possibile, pur riconoscendo come un fatto positivo e necessario la ricaduta sociale della fede, il suo essere “sale e lievito” della storia e “luce del mondo”. E’ importante per tutti che il laicismo non si consideri il centro arrivato della storia, la forma più alta dello sviluppo del pensiero, la punta più avanzata dell’intelligenza umana. Il resto del mondo – che è la quasi totalità – guarda al laicismo, e alla sua voglia di costruire la città senza Dio, con meraviglia e diffidenza. In Europa non è il cristianesimo che ostacola il progresso, la democrazia, la pace; piuttosto sono le gravi incoerenze con la fede all’origine di distorsioni che in apparenza promuovono ogni libertà, ma che in realtà non assicurano il “ diritto a vivere non in una giungla di libertà autodistruttive ed arbitrarie, ma in una società che lavora per il vero benessere dei suoi cittadini, offrendo loro guida e protezione di fronte alle loro debolezze e fragilità” (ib).
Non di rado si pensa che la vera laicità si riduca a rispetto per la religione, al benevolo riconoscimento del diritto di parola da parte della Chiesa. Questa posizione presenta elementi apprezzabili, ma è incompleta; infatti bisognerebbe aggiungere che la responsabilità politica per il bene comune non è incondizionata. Tanto il bene comune che la responsabilità politica includono la dimensione etica, hanno a che fare con il bene e il male morale: queste sono categorie costitutive dell’umano. Il bene o il male morale non sono indifferenti rispetto alle conseguenze che hanno sull’uomo, lasciano traccia: costruiscono o demoliscono ciò che l’uomo è per natura e che è inscritto nel suo stesso essere. Esso non è prodotto della cultura nel suo evolversi, ma – pur riconoscendo il fattore storico-culturale – l’uomo è un dato oggettivo e universale, tant’è vero che oggi appartiene alla coscienza universale (quanto alla prassi?) l’uguaglianza di dignità e di valore di ogni persona a qualunque cultura e società appartenga. Dispiace constatare che qualunque dichiarazione la Chiesa faccia a riguardo dei valori morali, sia bollata da qualcuno di confessionalismo, come se si volesse imporre alla società pluralista una morale cattolica: “La questione centrale in gioco – afferma Benedetto XVI – è la seguente: dove può essere trovato il fondamento etico per le scelte politiche? La tradizione cattolica sostiene che le norme obiettive che governano il retto agire sono accessibili alla ragione, prescindendo dal contenuto della rivelazione. Secondo questa comprensione, il ruolo della religione nel dibattito politico non è tanto quello di fornire tali norme, come se esse non potessero essere conosciute dai non credenti – ancora meno è quello riproporre soluzioni politiche concrete, cosa che è del tutto al di fuori della competenza della religione – bensì piuttosto di aiutare nel purificare e gettare luce sull’applicazione della ragione nella scoperta dei principi morali oggettivi. Questo ruolo ‘correttivo’ della religione nei confronti della ragione, tuttavia, non è sempre bene accolto, in parte perché delle forme distorte di religione, come il settarismo e il fondamentalismo, possono mostrarsi esse stesse causa di seri problemi sociali. E, a loro volta, queste distorsioni della religione emergono quando viene data una non sufficiente attenzione al ruolo purificatore e strutturante della ragione all’interno della religione. E’ un processo che funziona nel doppio senso. Senza il correttivo fornito dalla religione, infatti, anche la ragione può cadere preda di distorsioni, come avviene quando essa è manipolata dall’ideologia, o, applicata in modo parziale, che non tiene conto pienamente della dignità della persona umana. Fu questo uso distorto della ragione, in fin dei conti, che diede origine al commercio degli schiavi e poi a molti altri mali sociali, non da ultimo le ideologie totalitarie del ventesimo secolo. Per questo vorrei suggerire che il mondo della ragione e il mondo della fede – il mondo della secolarità razionale e il mondo della fede – hanno bisogno l’uno dell’altro e non dovrebbero aver timore di entrare in un profondo e continuo dialogo, per il bene della nostra civiltà” (Benedetto XVI, Viaggio Apostolico nel Regno Unito, Discorso alle Autorità civili, 17.9.2010).
4. La questione antropologica e l’unità dei cattolici in politica
E’ in questa cornice dialogica che si pone la questione antropologica che è il cuore della società, dell’agire politico di tutti, a cominciare dai cattolici. Ed è il centro della Dottrina Sociale della Chiesa: “La questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica” (Benedetto XVI, Caritas in veritate, 75).
Scopo della politica, infatti, è la giustizia che è un valore morale, un valore religioso. Ma anche la fede, nella sua missione salvifica ha a cuore la giustizia, quella giustizia che scende da Dio in Cristo e che rende l’uomo nuovo, capace di creare rapporti giusti e strutture eque nel mondo. La giustizia, nella riflessione di San Tommaso, significa la “ferma e costante volontà di dare a ciascuno ciò che gli è dovuto”, “habitus secundum quem aliquis, constanti et perpetua voluntate, jus suum unicuique tradit” (II-II, q. 58, a.1). Ma cosa è dovuto a ciascuno, così che una società inadempiente possa essere considerata ingiusta e viceversa? Emerge, a questo punto, la necessità e l’urgenza di rispondere alla domanda che il secolo appena concluso ci ha lasciato: chi è l’uomo? Cos’ è l’umano? Ci sono dei riferimenti plausibili e concreti così che l’uomo si distingua dal resto del creato non in termini di sviluppo quantitativo, ma di differenza qualitativa? Potrebbe sembrare una questione oziosa, puramente accademica, in realtà la cronaca ci documenta e spesso ci sgomenta circa l’eclisse del senso comune, la confusione che pare regnare al riguardo e che ispira decisioni e comportamenti. Una visione dell’uomo che non sia aperta alla trascendenza, ma che cerchi di fondare se stessa, si rivela subito debole e fragile: può l’immanenza fondare se stessa? Può garantirsi di fronte alla violenza codificata? Solamente l’Assoluto, solo l’Incondizionato può fondare e garantire ciò che è limitato e contingente. Senza voler qui affrontare la questione, mi limito a ricordare quelli che il Santo Padre ha voluto chiamare “valori non negoziabili” in quanto stanno nel DNA della natura umana e sono il ceppo vivo e vitale di ogni altro germoglio valoriale. Il Santo Padre, dopo aver ricordato che “la verità dello sviluppo consiste nella sua integralità” (ib 18), afferma che il vero sviluppo ha un centro vitale e propulsore, e questo è “l’apertura alla vita”: infatti, “quando una società s’avvia verso la negazione e la soppressione della vita, finisce per non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi a servizio del vero bene dell’uomo. Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono” (ib 28). Insieme alla vita, da accogliere dal concepimento fino al tramonto naturale, Benedetto XVI indica la famiglia come cellula fondamentale e ineguagliabile della società, formata da un uomo e una donna e fondata sul matrimonio, e pone anche la libertà religiosa e educativa. Non è un elenco casuale, ma fondativo della persona e di ogni altro diritto e valore: senza un reale e non nominalistico rispetto e promozione di questi principi primi che costituiscono l’etica della vita è illusorio pensare ad un’etica sociale che vuole promuovere l’uomo ma in realtà lo abbandona nei momenti della maggiore fragilità. Ogni forma di fragilità chiede alla società intera di essere presa in carica per sostenere in ogni modo il debole e l’incapace: e questo “prendersi cura” nel segno della buona organizzazione, di efficienti strutture e della tenerezza relazionale, rivela il grado umanistico e civile della compagine sociale. Ogni altro valore, necessario per il bene della persona e della società – come il lavoro, la casa, la salute, l’inclusione sociale, la sicurezza, le diverse provvidenze, la pace e l’ambiente…- germoglia e prende linfa da questi. Staccati dalla accoglienza radicale della vita, questi valori si inaridiscono e possono essere distorti da logiche e prospettive di parte. Di grande significato è anche la recente Dichiarazione del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee, a conclusione dell’Assemblea Plenaria a Zagabria all’inizio di ottobre: “Siamo convinti che la coscienza umana è capace di aprirsi ai valori presenti nella natura creata e redenta da Dio per mezzo di Gesù Cristo. La Chiesa, consapevole della sua missione di servire l’uomo e la società con l’annuncio di Cristo Salvatore, ricorda le implicazioni antropologiche e sociali che da Lui derivano.Per questa ragione non cessa di affermare i valori fondamentali della vita, del matrimonio fra un uomo e una donna, della famigli,a della libertà religiosa e educativa: valori sui quali si impianta ed è garantito ogni altro valore declinato sul piano sociale e politico” (Assemblea Plenaria CCEE, Zagabria 3.10.2010).
Questi valori non sono divisivi, ma unitivi ed è precisamente questo il terreno dell’unità politica dei cattolici. E’ questa la loro peculiarità e l’apporto specifico di cui sono debitori per essere sale e lievito, ma anche luce e città posta sul monte, là dove sono. Su questa linea, infatti, si gioca il confine dell’umano. Su molte cose e questioni ci sono mediazioni e buoni compromessi, ma ci sono valori che non sono soggetti a mediazioni perché non sono parcellizzabili, non sono quantificabili, pena essere negati.
Ed è anche questa la ragione per cui la Chiesa non cerca l’interesse di una parte della società – quella cattolica o che in essa comunque si riconosce – ma è attenta all’interesse generale. Proprio perché i valori fondamentali non sono solamente oggetto della Rivelazione, ma sono scritti nell’essere stesso della persona e sono leggibili dalla ragione libera da ideologie, condizionamenti e interessi particolari, la Chiesa ha a cuore il bene di tutti. Essa deve rispondere al suo Signore non ad altre logiche, nella fedeltà esigente al mandato ricevuto. Inoltre , come Pastori, non possiamo tenere solo per noi l’incomparabile ricchezza che ci proviene dalla vicinanza concreta e quotidiana alla gente, cattolici o no, e che, direttamente e tramite i nostri sacerdoti, i consacrati, gli operatori laici, abbiamo la grazia di vivere. Le 25.000 parrocchie sparse per l’Italia, vero dono della bimillenaria storia cristiana, rappresentano la prossimità continua dell’amore di Dio per gli uomini là dove vivono, la condivisione della loro vita, la conoscenza discreta di angustie e speranze.
E’ stato detto e ripetuto non in modo retorico né casuale che è auspicabile una nuova generazione di cattolici impegnati in politica.
Ciò non vuol suonare come una parola di disistima o peggio per tutti coloro, e non sono pochi, che si dedicano con serietà, competenza e sacrificio alla politica diretta, forma alta e necessaria di servire gli altri. A loro rinnoviamo con rispetto l’invito a trovarsi come cristiani nella grazia della preghiera, a non scoraggiarsi mai, a non aver timore di apparire voci isolate. Nessuna parola vera resta senza frutto.
Ma, nello stesso tempo, auspichiamo anche che generazioni nuove e giovani si preparino con una vita spirituale forte e una prassi coerente, con una conoscenza intelligente e organica della Dottrina sociale della Chiesa e del Magistero del Papa, con il confronto e il sostegno della comunità cristiana, con un paziente e tenace approccio alle diverse articolazioni amministrative. Tutto s’impara quando c’è convinzione e impegno.
Cari Amici, vi ringrazio per l’attenzione paziente e per la presenza che esprime amore al Signore Gesù e alla sua Chiesa, ma esprime anche la passione per l’Italia e la “res publica”. E’ l’ora di una nuova cultura della solidarietà tra società civile e Stato: se ogni soggetto, singoli, gruppi, istituzioni, fa la sua parte pensando non tanto a quanto devono fare gli altri ma a ciò che spetta a lui, si rinnoverà uno stile, una prassi virtuosa che non significa scaricare responsabilità o manlevare da compiti, ma significa dare concretezza ad alcune considerazioni che spero di aver offerto. La solidarietà deve avvenire a tutti i livelli tra loro e ciascuno al proprio interno: si può discutere e confrontarsi anche su cose gravi, ma è possibile un “confronto solidale” che è tale perché ha di mira non un interesse individuale o di parte, ma il bene armonico di tutti. In questa prospettiva, si potrà anche cedere, fare passi indietro, rettificare posizioni, ma non sarà mai perdere o sentirsi sconfitti, sarà sempre un andare avanti, perché andrà avanti il Paese. Il Signore Gesù Cristo, Via-Verità-Vita, illumini le menti e sostenga i passi nostri e di tutti.
Angelo Card. Bagnasco
Arcivescovo Metropolita di Genova
Presidente della Conferenza Episcopale Italiana
Festival della scuola cattolica a Torino. Rileggiamo le "sette parole" di Benedetto XVI sull'educazione pubblicata da Massimo Introvigne il giorno venerdì 15 ottobre 2010
Sabato 16 ottobre dalle ore 11 alle 18 in Piazza Castello a Torino va in scena il "Festival della scuola cattolica". Invitando chi sarà a Torino a partecipare, l'occasione mi sembra ottima per ricordarei che forse il tema che sta più a cuore a Benedetto XVI è quello della crisi dell'educazione. Il 21 gennaio 2008 il Papa ha inviato una Lettera alla diocesi e alla città di Roma (Benedetto XVI 2008b) dove descrive quella dell’educazione come una vera e propria «emergenza». Rileggiamola.
Da un certo punto di vista, scrive il Papa, l’educazione si trova di fronte a un’«emergenza» con l’arrivo di ogni nuova generazione. Ogni volta, si deve ricominciare da capo. «A differenza di quanto avviene in campo tecnico o economico – nota il Papa –, dove i progressi di oggi possono sommarsi a quelli del passato, nell'ambito della formazione e della crescita morale delle persone non esiste una simile possibilità di accumulazione, perché la libertà dell'uomo è sempre nuova e quindi ciascuna persona e ciascuna generazione deve prendere di nuovo, e in proprio, le sue decisioni. Anche i più grandi valori del passato non possono semplicemente essere ereditati, vanno fatti nostri e rinnovati attraverso una, spesso sofferta, scelta personale» (ibid.), così che non è irragionevole parlare di «una grande “emergenza educativa”» (ibid.) specifica al nostro tempo. Oggi, infatti – e sta qui la differenza con il passato – ci sono «un’atmosfera diffusa, una mentalità e una forma di cultura che portano a dubitare del valore della persona umana, del significato stesso della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita. Diventa difficile, allora, trasmettere da una generazione all'altra qualcosa di valido e di certo, regole di comportamento, obiettivi credibili intorno ai quali costruire la propria vita» (ibid.).
Il Papa risponde alla domanda sull’emergenza educativa invitando a porre al centro dell’educazione sette parole: amore, verità, sofferenza, disciplina, autorità, responsabilità, speranza.
1. Amore
L’affermazione può sembrare retorica, e il rischio di equivoci è sempre dietro l’angolo. Tuttavia, non si può rinunciare a ribadire che l’educazione «ha bisogno anzitutto di quella vicinanza e di quella fiducia che nascono dall’amore» (ibid.). L’amore, naturalmente, dev’essere sperimentato anzitutto in famiglia: «penso a quella prima e fondamentale esperienza dell'amore che i bambini fanno, o almeno dovrebbero fare, con i loro genitori» (ibid.). Ma non si può prescindere dall’amore neppure a scuola o in parrocchia: «ogni vero educatore sa che per educare deve donare qualcosa di se stesso e che soltanto così può aiutare i suoi allievi a superare gli egoismi e a diventare a loro volta capaci di autentico amore» (ibid.).
2. Verità
Per quanto il moderno relativismo non ne voglia neppure sentir parlare, al centro dell’educazione sta la nozione di verità. «Già in un piccolo bambino c'è inoltre un grande desiderio di sapere e di capire, che si manifesta nelle sue continue domande e richieste di spiegazioni. Sarebbe dunque una ben povera educazione quella che si limitasse a dare delle nozioni e delle informazioni, ma lasciasse da parte la grande domanda riguardo alla verità, soprattutto a quella verità che può essere di guida nella vita» (ibid.).
3. Sofferenza
Non meno impopolare della verità è la sofferenza, che oggi si vuole escludere dall’orizzonte e perfino dalla vista dei giovani, nascondendola sistematicamente. Invece, «anche la sofferenza fa parte della verità della nostra vita» (ibid.). Un’educazione che nasconde la sofferenza è tecnicamente una cattiva educazione: «cercando di tenere al riparo i più giovani da ogni difficoltà ed esperienza del dolore, rischiamo di far crescere, nonostante le nostre buone intenzioni, persone fragili e poco generose: la capacità di amare corrisponde infatti alla capacità di soffrire, e di soffrire insieme» (ibid.).
4. Disciplina
Continuando nel processo di riabilitazione di parole oggi poco popolari nel’educazione, «arriviamo così, cari amici di Roma, al punto forse più delicato dell'opera educativa» (ibid.), cioè alla disciplina. «Senza regole di comportamento e di vita, fatte valere giorno per giorno anche nelle piccole cose, non si forma il carattere e non si viene preparati ad affrontare le prove che non mancheranno in futuro» (ibid.). L’educazione senza regole e il «vietato vietare» del 1968 sono tra le cause principali dell’emergenza educativa. Infatti, «il rapporto educativo è però anzitutto l'incontro di due libertà e l’educazione ben riuscita è formazione al retto uso della libertà. Man mano che il bambino cresce, diventa un adolescente e poi un giovane; dobbiamo dunque accettare il rischio della libertà, rimanendo sempre attenti ad aiutarlo a correggere idee e scelte sbagliate. Quello che invece non dobbiamo mai fare è assecondarlo negli errori, fingere di non vederli, o peggio condividerli, come se fossero le nuove frontiere del progresso umano» (ibid.).
5. Autorità
Non c’è disciplina senza un’autorità capace di proporla in modo credibile e se necessario d’imporla con fermezza. «L'educazione non può dunque fare a meno di quell'autorevolezza che rende credibile l'esercizio dell'autorità» (ibid.). L’emergenza educativa rimanda qui a un’emergenza morale più generale. Gli educatori talora non esercitano l’autorità per pregiudizi ideologici. Ma altre volte non riescono a esercitarla perché non sono essi stessi autorevoli, in quanto la loro vita non è coerente con quanto insegnano. L’autorevolezza, insegna Benedetto XVI, «è frutto di esperienza e competenza, ma si acquista soprattutto con la coerenza della propria vita e con il coinvolgimento personale, espressione dell'amore vero. L'educatore è quindi un testimone della verità e del bene: certo, anch'egli è fragile e può mancare, ma cercherà sempre di nuovo di mettersi in sintonia con la sua missione» (ibid.).
6. Responsabilità
La responsabilità, intorno a cui tutto ruota, consegue ai principi precedenti. Tutto l’itinerario proposto dal Papa vuole mostrare «come nell’educazione sia decisivo il senso di responsabilità: responsabilità dell'educatore, certamente, ma anche, e in misura che cresce con l’età, responsabilità del figlio, dell'alunno, del giovane che entra nel mondo del lavoro» (ibid.). E nella responsabilità è già contenuta tutta una visione del mondo. «È responsabile chi sa rispondere a se stesso e agli altri. Chi crede cerca inoltre, e anzitutto, di rispondere a Dio che lo ha amato per primo» (ibid.).
La responsabilità ha pure una dimensione politica. Infatti, «è in primo luogo personale, ma c’è anche una responsabilità che condividiamo insieme, come cittadini di una stessa città e di una nazione, come membri della famiglia umana e, se siamo credenti, come figli di un unico Dio e membri della Chiesa» (ibid.). Si dice spesso oggi che la società non aiuta a educare. «La società però non è un’astrazione; alla fine siamo noi stessi, tutti insieme, con gli orientamenti, le regole e i rappresentanti che ci diamo, sebbene siano diversi i ruoli e le responsabilità di ciascuno. C’è bisogno dunque del contributo di ognuno di noi, di ogni persona, famiglia o gruppo sociale, perché la società, a cominciare da questa nostra città di Roma, diventi un ambiente più favorevole all'educazione» (ibid.).
7. Speranza
Benedetto XVI non si nasconde che la responsabilità personale e politica oggi non è merce corrente, e che il clima che si è creato non è favorevole all’educazione. «Di fatto le idee, gli stili di vita, le leggi, gli orientamenti complessivi della società in cui viviamo, e l'immagine che essa dà di se stessa attraverso i mezzi di comunicazione, esercitano un grande influsso sulla formazione delle nuove generazioni, per il bene ma spesso anche per il male» (ibid.). L’educatore cristiano, però, non ha mai il diritto di perdere la speranza.
Il Papa ripropone, conclusivamente, «un pensiero che ho sviluppato nella recente Lettera enciclica Spe salvi sulla speranza cristiana: anima dell’educazione, come dell’intera vita, può essere solo una speranza affidabile. Oggi la nostra speranza è insidiata da molte parti e rischiamo di ridiventare anche noi, come gli antichi pagani, uomini “senza speranza e senza Dio in questo mondo”, come scriveva l’apostolo Paolo ai cristiani di Efeso (Ef 2, 12). Proprio da qui nasce la difficoltà forse più profonda per una vera opera educativa: alla radice della crisi dell’educazione c'è infatti una crisi di fiducia nella vita. Non posso dunque terminare questa lettera senza un caldo invito a porre in Dio la nostra speranza. Solo Lui è la speranza che resiste a tutte le delusioni; solo il suo amore non può essere distrutto dalla morte; solo la sua giustizia e la sua misericordia possono risanare le ingiustizie e ricompensare le sofferenze subite. La speranza che si rivolge a Dio non è mai speranza solo per me, è sempre anche speranza per gli altri: non ci isola, ma ci rende solidali nel bene, ci stimola ad educarci reciprocamente alla verità e all'amore» (ibid.).
A un mese dalla beatificazione - La ragionevole fede di Newman di Ian Ker (©L'Osservatore Romano - 16 ottobre 2010)
La beatificazione di John Henry Newman, da parte di Benedetto XVI a Birmingham il 19 settembre, non è stata solo la beatificazione di un sacerdote santo che ha vissuto e lavorato come pastore nell'Inghilterra del diciannovesimo secolo, ma anche quella di una figura universale il cui culto è globale. Attraverso i suoi scritti, Newman continua a insegnare e a ispirare innumerevoli persone in tutto il mondo. Il suo motto cardinalizio Cor ad cor loquitur, il cuore parla al cuore, esprime bene la sua duratura influenza spirituale, personale, un'influenza che ha condotto molti dallo scetticismo alla fede, dalla comunione parziale alla piena comunione con la Chiesa cattolica, e che ha meravigliosamente rinnovato la fede di tanti cristiani. Quelle parole le prese in prestito da un altro grande umanista cristiano, san Francesco di Sales, alcune immagini della cui vita adornano le pareti della cappella privata del cardinale nell'Oratorio di Birmingham.
Spesso chiamato "il padre del concilio Vaticano ii", Newman nella sua opera teologica classica Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana insegna che la Chiesa deve cambiare o svilupparsi non per essere diversa, ma per essere la stessa. Il concilio, quindi, deve essere interpretato autenticamente in continuità e non in rottura con la tradizione della Chiesa. La sua teologia della coscienza, che ha avuto un effetto tanto profondo su Benedetto XVI quando ancora era un giovane seminarista, dopo gli orrori del totalitarismo nazista, ricorda alla Chiesa la distinzione tra una coscienza autentica che sente l'eco della voce di Dio e una coscienza "contraffatta", che non è altro che "un egoismo previdente, un desiderio di essere coerenti con se stessi". Scrive Newman: "Quando gli uomini difendono i diritti della coscienza, in nessun modo intendono i diritti del Creatore né il dovere della creatura verso di Lui, nel pensiero e nei fatti; bensì il diritto di pensare, parlare, scrivere e agire secondo il loro giudizio o umore, senza neanche un pensiero a Dio".
Pertanto, osserva ironicamente, in una società secolarizzata "è diritto e libertà di coscienza fare a meno della coscienza, ignorare un Legislatore e Giudice, essere indipendenti da obblighi invisibili".
L'invito rivolto dal concilio Vaticano ii a tutti i cristiani battezzati a vivere secondo una coscienza ben informata e ad aspirare alla santità è stato più che anticipato dai noti sermoni del beato John Henry, allora ancora anglicano, nella chiesa universitaria di Santa Maria Vergine a Oxford. In essi esortava incessantemente la congregazione a perseguire la perfezione. Queste omelie parlano ancora con forza ai cristiani e sono giustamente considerate classici della spiritualità cristiana.
Newman, il più influente tra i pensatori cattolici moderni, cercò di conciliare la ragione con la fede nei suoi Sermoni all'Università di Oxford - sermoni anglicani - con i quali sfidava la comprensione impoverita che l'Illuminismo aveva della ragione. Completò la sua giustificazione della fede religiosa come del tutto ragionevole nel suo opus magnum cattolico, Grammatica dell'assenso. Newman è considerato uno dei principali filosofi della religione, il cui pensiero riecheggia con forza nella sollecitudine di Benedetto XVI a favore della riconciliazione tra la fede e la ragione.
L'umanesimo cristiano di Newman ricorda il suo connazionale san Tommaso Moro, autore di Utopia, ma il beato John Henry è stato anche un figlio autentico del santo rinascimentale Filippo Neri, fondatore dell'Oratorio, che ha resistito allo "sforzo violento (...) di porre il genio umano, il filosofo e il poeta, l'artista e il musicista, in contrasto con la religione". Nel suo L'idea di università Newman ribadisce che "Conoscenza e Ragione sono ministri certi della Fede" e che la Chiesa "non teme la conoscenza" poiché "tutti i rami della conoscenza sono collegati tra loro, perché il soggetto-materia della conoscenza è intimamente unito in sé, essendo atti e opera del Creatore". Non può esistere vero conflitto tra religione e scienza poiché "la verità non può essere contraria alla verità".
San Tommaso Moro era uno statista e uno studioso, Lord Cancelliere d'Inghilterra e amico di Erasmo. Ma era anche un devoto uomo di famiglia. Chiamato misteriosamente a una vita di verginità quando aveva quindici anni, Newman si rallegrava però di avere una famiglia ristretta di amici e ci ricorda il concetto di amicizia che è andato quasi perso in una cultura secolare che riconosce praticamente solo le cosiddette "relazioni".
Sia nella sua parrocchia anglicana di Santa Maria Vergine a Oxford, sia nella parrocchia dell'Oratorio di Birmingham, Newman è sempre stato un sacerdote pastore. Tuttavia, come documentano le numerose lettere, la sua parrocchia si estendeva ben oltre i propri confini. Tutti coloro che gli scrivevano esprimendo domande e preoccupazioni ricevevano immancabilmente una risposta. La sua estrema cortesia e la sua umiltà verso tutti sono una testimonianza eloquente della sua santità, una santità che ora la Chiesa ha formalmente riconosciuto.
È morto Tadeusz Styczen filosofo polacco grande amico di Giovanni Paolo II -Con Karol Wojtyla in cerca dell'uomo (©L'Osservatore Romano - 16 ottobre 2010)
Il 14 ottobre è morto a Trzebnica in Polonia padre Tadeusz Styczen, religioso della Società del Divin Salvatore, allievo, amico di Papa Giovanni Paolo II e studioso del suo pensiero. Nel 2003 curò, insieme a Giovanni Reale, l'edizione italiana delle opere filosofiche del suo maestro (Karol Wojtyla. Metafisica della persona, Milano, Bompiani). Pubblichiamo stralci della sua premessa all'opera.
Ciò di cui facciamo esperienza è - prima facie - il mondo: tutto ciò che, in qualsiasi modo, è alla portata del nostro contatto diretto conoscitivo: i salici, le stelle. Ma nell'ambito di questo mondo c'è qualcosa che ha attratto irrevocabilmente e irreversibilmente l'attenzione di Karol Wojtyla, e ha destato il suo particolare interesse, perché questo "qualcosa" non èsoltanto l'oggetto ma, al tempo stesso, il soggetto dell'esperienza, l'uno e l'altro contemporaneamente. Che cosa è? Questo essere insolito è l'uomo.
"È questa - scrive in La persona: soggetto e comunità - un'esperienza dell'uomo in un duplice significato: infatti colui che esperisce è un uomo e colui che il soggetto della conoscenza esperisce è, anche egli, un uomo. L'uomo come soggetto, e nel contempo, come oggetto". L'uomo! Wojtyla ha ritenuto che la vita sia troppo breve per esaurire questo argomento-fiume e ha deciso di soffermarvisi, di divenire il testimone dell'esperienza dell'uomo, il testimone della verità dell'uomo, dell'uomo che è soltanto pellegrino nel mondo, ma un pellegrino che trascende infinitamente il mondo.
Chi è, allora, l'uomo? Wojtyla ha dato una risposta preliminare: è l'unico essere al mondo che sia in grado di fare esperienza di tutto ciò che è al di fuori di lui e... di se stesso. Ecco l'uomo! Ecce homo! Sei tu. Sono io. Ma questa affermazione stimola ancora di più la curiosità piuttosto che soddisfarla, desta la passione di conoscere. La risposta adeguata può provenire soltanto dall'esperienza di se stessi. Ma subito, all'inizio, troviamo un ostacolo. Come fare esperienza di se stessi?
C'è uno specchio in cui ci si possa vedere, guardare, una finestra in cui il "mio mondo", il mio io si svelino davanti ai miei occhi? Sì, questo specchio c'è, questa finestra c'è - risponde Wojtyla. Questa finestra è l'atto: il mio atto per me, il tuo atto per te. Ma per potersi vedere in essa bisogna acquisire come la capacità di leggere questo specchio, di guardare questa finestra.
Se si ha una scarsa capacità di leggere si vedrà, al massimo, una pittura sul vetro, ma se si ha una buona capacità la finestra diventa sempre più trasparente agli occhi di chi legge. Non si nota, lentamente, la finestra ma vi si intravede direttamente - anche se non senza di essa! - il mondo della persona. Proprio come quando si legge un romanzo. Chi sa leggere non si sofferma sulle lettere. Chi di noi, nel leggere, si concentra sulle lettere e sulle parole? Forse soltanto un lettore principiante vi fa attenzione e l'analfabeta, naturalmente, non vede altro al di fuori di esse. Wojtyla, in quanto autore di Persona e atto, desidera portare al nostro cospetto questo "specchio finestra" (come medium quo) sotto forma dell'atto e vuole insegnarci, a perfezione, l'arte di leggere l'atto.
Tu chiedi chi sei? Puoi vederlo soltanto tu, nessuno ti può sostituire. Ma ecco il tuo atto. Guarda alla finestra dell'atto! L'autore di Persona e atto non tanto informa quanto insegna a leggere il proprio atto, come un professore di canto che insegna a leggere la partitura. Lo scopo è soltanto che l'allievo acquisisca la capacità e, certamente, giunga alla perfezione nella lettura. È tranquillo del risultato. Così bisogna intendere e leggere Wojtyla, il rivelatore della persona nell'atto.
Se mi chiedi chi sono ti rispondo... ma lo vedi. Devi compiere proprio questo atto, devi, anche se non sei costretto. Puoi non compierlo, puoi non compiere ciò che devi compiere. Ma puoi anche compierlo. Dipende soltanto da te se vorrai o non vorrai, se vorrai voler agire o non vorrai voler agire. E dipende da te se, compiendo l'atto che devi compiere, compirai te stesso o, invece, abbandonerai la possibilità di compiere te stesso. L'autocompimento è il tuo destino e soltanto tu ne sarai l'unico autore, come soltanto tu sarai l'autore del tuo non compimento.
E se anche questa risposta non fosse soddisfacente e si sentisse l'affermazione piena di impazienza che si parla continuamente di verbi, mentre qui si tratta di un nome, dunque di un sostantivo, Wojtyla, comprendendo questa abitudine, direbbe: "Ecco i tuoi sostantivi, guarda all'atto! L'atto non è auto-dipendenza, auto-determinazione, auto-responsabilità, auto-compimento o auto-non compimento, auto-dominio, auto-possesso? Se preferisci la forma grammaticale del sostantivo al posto del verbo possiamo rimanere su di essa senza alcun danno ma è bene ricordare e, certamente, bisogna ricordare che tutti questi sostantivi sono dei verbi nascosti".
Il tuo nome non soltanto si manifesta nell'atto, esso è composto, in grande misura, dalla "materia" dell'atto. Sì, è vero che tu sei! Sei realmente quello che sei ma, ancora di più, sei per, sei verso...! Verso cosa? Non è soltanto questo! Sei verso te stesso! Quale te stesso? Dipende proprio ed esclusivamente da te: dal compimento della scelta (o dal non compimento) sempre di nuovo, nelle varie forme del "devo", che sono sempre varie forme di sfida e di richiamo all'amore, di accettazione e di affermazione della persona, degli altri e, fra gli altri, di Quella Persona grazie alla quale esistono le persone e grazie alla quale tu sei e sei una persona - l'assoluto dell'esistenza e dell'amore.
(©L'Osservatore Romano - 16 ottobre 2010)
«Sacerdoti in corsia garanzia per i malati» - I vescovi respingono l’attacco: previsti dalla legge DA FIRENZE ANDREA FAGIOLI – Verdi e radicali il ministero dei cappellani sarebbe «oneroso» per le casse regionali. I cattolici Pdl, Pd, Udc: gli sprechi sono altri - Avvenire, 15 ottobre 2010
«In riferimento ad alcune solleci tazioni riproposte dalla stampa circa l’assistenza religiosa nelle strutture sanitarie, i vescovi toscani hanno ribadito l’importanza di questa presenza stabilita da una legge dello Stato e il soste gno a coloro che a vario titolo garantisco no una vicinanza e un conforto spirituale ai malati e ai sofferenti». Lo si legge nel co municato della Conferenza episcopale to scana diffuso a margine dell’assemblea or dinaria svoltasi all’Isola d’Elba. I vescovi della regione intervengono così in una po lemica seguita ad un’interrogazione parlamentare dei senatori radicali Donatella Poretti e Marco Perduca, ma soprattutto dopo analoghe iniziative a livello toscano, a partire dall’interrogazione del consiglie re regionale socialista Pieraldo Ciucchi, ap partenente al gruppo misto, che ha chie sto di chiudere la convenzione tra Regio ne Toscana e Conferenza episcopale to scana per la disciplina del servizio di assi stenza religiosa cattolica nelle strutture di ricovero delle Asl per un «principio di e quità e laicità». Dopo di che è stata la volta della Federa zione della Sinistra e dei Verdi, che per boc ca del capogruppo Monica Sgherri e del consigliere Mauro Romanelli ha prima chiesto numeri e costi dell’assistenza reli giosa e poi chiesto il «blocco immediato» della convenzione perché «troppo onero sa per la Regione» e, in secondo luogo, per istituire un servizio volontario aperto an che ad altre religioni. L’azione, che sta assumendo le caratteri stiche di un attacco alla presenza dei reli giosi negli ospedali, si è poi allargata anche ad alcuni consigli comunali, dimostrando una vera e propria strategia per rimettere in discussione l’importante servizio previ sto da una legge nazionale (la 833/78 sul la riforma della sanità in Italia) e attuato a livello locale da un protocollo sottoscritto dalla Regione e dalla Conferenza episco pale toscana in cui si definiscono diritti e doveri degli assistenti religiosi, assunti a ruolo o a convenzione. Il protocollo, che come detto scaturisce dalla normativa sta tale e regionale in materia, trova supporto anche nella legge 21 del 1985 che ratifica l’accordo tra Repubblica italiana e Santa Sede. Ma già nel Concordato del 1984, al l’articolo 11, si legge che i pazienti ricove rati in ospedale hanno «diritto alla libertà di culto e che alla loro assistenza spiritua le provvedono ecclesiastici nominati dal le autorità italiane competenti, su desi gnazione delle autorità ecclesiastiche».
Ovviamente, tra i banchi del Consiglio re gionale della Toscana non mancano le pre se di posizione a favore dell’assistenza re ligiosa negli ospedali. I cattolici del Pdl, del Pd e l’Udc hanno confermato che si tratta di un servizio fondamentale. «Ci sembra pretestuoso - ha detto in particolare il ca pogruppo Udc, Giuseppe Del Carlo - il per durare della pseudo-denuncia contro il presunto scandalo dei sacerdoti in corsia. Puntare il dito contro quelle poche perso ne che ogni giorno portano conforto spi rituale e non solo ai pazienti negli ospe dali toscani ci sembra una provocazione evitabile. I mali e gli sprechi della sanità sono ben altri'.
Il presidente della Regione Toscana, Enri co Rossi (Pd), risponderà ufficialmente in aula. Intanto però ha già dichiarato che «sull’assistenza religiosa ai malati rispet teremo le convenzioni e gli accordi che la Regione firma con la Conferenza episco pale toscana ormai da molti anni. La stra grande maggioranza dei toscani è cattoli ca e l’assistenza religiosa dev’essere ga rantita in coerenza con il Concordato. Vo glio anche ricordare - ha concluso Rossi che non abbiamo mai negato l’accesso al-Secondo le altre confessioni».
IL CASO. Un libro racconta la storia delle sei religiose uccise in Africa dal virus letale che prende il nome dal fiume dove emersero i primi casi di contagio Suore-coraggio contro Ebola - Da Bergamo e Brescia giunsero alla missione di Kikwit. Dopo la diffusione di questa pestilenza, restarono sul posto pur avendo certezza della condanna a morte. Vivevano «avvolte tra i poveri» e con fede accolsero il martirio DI MARCO RONCALLI – Avvenire, 15 ottobre 2010
Storia da non dimenticare quella raccontata in queste pagine. Quella, buia, del virus misterioso che, nel secolo scorso, ha scatenato epidemie mortali in Africa. E, in filigrana, quella, luminosa, di sei missionarie, vittime del contagio, morte una dopo l’altra in poco più di un mese, quindici anni fa. Una storia di morte, che può leggersi come dono della vita; di incubo e sofferenza, ma anche di amore e di grazia. Con dei nomi precisi. Da una parte il nome Ebola, sorta di peste del Duemila (ma se ne parlava già durante la seconda guerra mondiale quando a esserne contagiati furono militari italiani), così chiamata dall’omonimo fiume, sulle cui rive si verificarono i primi casi ben riconosciuti, nel ’76, ai confini fra il Centroafrica e il Congo ex Zaire là dove è riapparso nel 1995.
Dall’altra parte i nomi delle sei suore italiane delle Poverelle – congregazione religiosa fondata dal beato Luigi Maria Palazzolo – rimaste nell’avamposto della loro missione africana nonostante la condanna dentro quella scelta: Floralba Rondi, Clarangela Ghilardi, Danielangela Sorti, Dinarosa Belleri, Annelvira Ossoli, Vitarosa Zorza. Sei donne che avrebbero potuto riparare in Italia finché fosse passato il rischio di contagio e che invece scelsero semplicemente di restare; che nonostante la consapevolezza della gravità della situazione preferirono continuare a impegnarsi – in sala operatoria, nei reparti dell’ospedale, al capezzale dei malati – per chiunque lì avesse bisogno: fino all’ultimi respiro. Una morte – fra il 25 aprile e il 28 maggio del 1995 – che finì per accomunarle in un martirio della carità.
Quella carità che le aveva spinte, giovanissime, da Bergamo e da Brescia, in Africa, per vivere «avvolte tra i poveri» (come raccomandava il loro fondatore nella Bergamo di metà Ottocento). E ad approdare ai poveri di Kikwit (popolatissima diocesi suffraganea di Kinshasa), là dove oggi «sono sepolte tra i poveri, con segni poveri, ...tra fiori di campo e una piccola croce di legno», come racconta don Arturo Bellini. È lui, questo sacerdote bergamasco reduce da una visita in Congo alle Poverelle, ad aprire un bel volume dedicato a questa vicenda, e a spiegarci che «le storie di queste religiose sono pagine di Vangelo scritte per noi, pagine vive e concrete che raccontano il mistero di Dio nel pane buono per ognuno che ha fame, nella parola di consolazione per ognuno che è solo, nelle mani che si prendono cura di ognuno che soffre nel corpo e nello spirito». Il libro è stato scritto dal giornalista Paolo Aresi che dal quadro apocalittico – che pure ha ispirato racconti cinematografici e letterari – riesce qui a sbalzare a tutto tondo i profili di queste testimoni del Vangelo – attingendo anche alle loro lettere e ai loro appunti, oltre che alle testimonianze i alcune consorelle. ( L’Ultimo dono, Queriniana, pagine 136, euro 12,50).
Vi leggiamo frasi come: «Con Maria ai piedi della croce vogliamo ravvivare la nostra fede e ripetere con Gesù e con Maria, con tutte le sorelle, con la Madre generale il Fiat, certe che Lui sa tutto ed è con noi anche in questa durissima prova» (suor Annelvira). Oppure: «La mia missione è quella di servire i poveri! Cosa ha fatto il mio fondatore? Io sono qui per seguire le sue orme...» (suor Dinarosa). O ancora: «Aprimi interamente al tuo amore, Padre, ponimi accanto ai miei fratelli libera, accogliente, felice, povera tra i poveri, come una goccia d’acqua, sperduta nell’oceano immenso del tuo amore» (suor Clarangela). Vi scopriamo parole che specchiano l’operosità di chi vuole «seminare la misericordia del Signore» (suor Floralba), nella certezza di riconoscere i doni di Dio comunque si manifestino: «Posso dire che ho ricevuto tanto da loro (i miei poveri), soprattutto la serenità e la capacità di sopportazione. Loro accettano tutto dalla mano di Dio» (suor Vitarosa). Mentre non si spegne l’eco dell’invito alle consorelle fatto da suor Danielangela, negli ultimi giorni della sua vita. Diceva che, sì, «non sappiamo né l’ora né il giorno in cui il Signore ci può chiamare», ma che occorre sempre «restare nella gioia»: «perché amore chiama amore».